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LEZIONE 12 – 13/04/21

DIBATTITO
Intervento 1. Articolo su “Il Sole 24 Ore” sulla proposta avanzata dagli Stati Uniti sull’introduzione
di una minimum tax a livello globale. La prospettiva dell’articolo è una prospettiva americana perché
si spiegano le probabili ragioni per cui gli Stati Uniti hanno proposto l’introduzione di questa
minimum tax. L’amministrazione Biden ha intenzione di aumentare la tassa sulle società (si parla
addirittura di aliquote del 25%/28%. E, proprio per evitare che questo innalzamento di aliquota porti
alla fuga delle società americane verso paesi con aliquote inferiori, secondo la ricostruzione del
giornale, si è arrivati alla proposta di una minimum tax globale. La novità è che fino ad ora, anche
all’interno dell’OCSE, si era parlato di un’aliquota che si aggirava intorno al 12,5%, mentre questa
aliquota è molto più elevata perché si parla addirittura di un 21%. La collega pensa che sia interessante
anche in relazione alla discussione che stiamo portando avanti e, in particolare, sembra un importante
incentivo alla discussione in seno all’OCSE con riferimento al Pillar 2.
Intervento 2. Il collega ha trovato un articolo su “Il Sole 24 Ore” che faceva riferimento all’intervento
del Generale Zafarana in commissione finanze. Il collega sottolinea alcuni aspetti interessanti che si
evincono dall’ascolto dell’intervento. Sebbene sia incentrato sulle problematiche relative all’IRPEF,
esso poi tratta di alcuni aspetti di fiscalità internazionale da noi trattati a lezione. Il Generale sottolinea
come sia necessario ripensare tutti i modelli di tassazione dei redditi societari alla luce di tutti questi
nuovi modelli di business che ha portato l’economia digitale e di tutte quelle caratteristiche di
spersonalizzazione, dematerializzazione. È interessante perché sottolinea come sia cambiata l’attività
stessa della Guardia di Finanza su questo fronte, come ci siano dei reparti appositi preposti al
contrasto alle frodi fiscali internazionali e come questa attività sia sempre più oggetto da parte della
Guardia di Finanza stessa. Nell’attesa di una soluzione internazionale con riferimento alla stabile
organizzazione digitale, il legislatore viene invitato ad intervenire sulla lettera f bis, a precisare i
contorni e i presupposti applicativi di questa norma in modo tale da eliminarne le incertezze. Si
sottolinea come anche la pandemia abbia influito e come a quell’aumento enorme dei fatturati di
queste grandi società non corrisponda un incremento dell’entrata tributaria, anche questo a causa di
tutte quelle asimmetrie, giurisdizioni non collaborative. Un altro aspetto da sottolineare, con
riferimento a queste giurisdizioni, è che il Generale invita a riflettere sulla possibilità di introdurre un
prelievo aggiuntivo, un costo incrementale su questi servizi offshore, così da rendere più onerosa la
detenzione di queste ricchezze in queste giurisdizioni poco collaborative e quindi disincentivarla.
Questo prelievo sarebbe in linea con il principio di capacità contributiva perché la forza economica è
manifestata, non solo dalla ricchezza che viene delocalizzata, ma anche dalla capacità di sostenere i
costi relativi a tutte queste operazioni e meccanismi di delocalizzazione.
Intervento 3. Articolo su “La Repubblica” del 7 aprile 2021 in riferimento alla minimum tax globale.
L’articolo affronta la questione sotto un profilo di politica globale in quanto afferma che, non solo
all’interno degli Stati Uniti questa proposta Yellen ha trovato e troverà indubbiamente delle
resistenze, ma anche in Europa ci sono dei paesi che formalmente non sono paradisi fiscali, all’interno
dei quali le multinazionali però trovano delle tassazioni molto più favorevoli. L’articolo, infatti,
menziona l’Olanda, l’Irlanda e il Regno Unito, quest’ultimo da vedere come si comporterà dopo il
caso BREXIT.
Intervento 4. Minimum tax globale. Secondo il collega è interessante vedere l’evoluzione
dell’approccio che gli Stati Uniti hanno avuto nei confronti in generale dei fenomeni BEPS. Si è
passati dall’amministrazione Trump che non aveva nessun interesse, sensibilità verso queste
tematiche, all’amministrazione Biden che inizialmente non si è smarcata in modo così netto
dall’amministrazione precedente (o meglio la distanza non è stata così evidente secondo quelle che
erano le aspettative europee), mentre oggi si iniziano a vedere le differenze tra le due amministrazioni.
Si è visto, qualche settimana fa, l’apertura verso la digital tax e adesso una notevole evoluzione.
Nell’ambito dell’amministrazione Biden si è partiti da un contrasto con il Regno Unito, che voleva
introdurre la digital tax e aveva minacciato l’introduzione di dazi, adesso si è avuto un cambiamento
nell’approccio che secondo il collega è dovuto essenzialmente a due ragioni. Da un lato gli Stati Uniti
hanno preso atto che l’Europa sta andando in una certa direzione e ci sta andando ad una certa velocità
e concretamente, dall’altro lato la necessità di risorse determinata dalla pandemia porta ad una
attenzione anche verso queste tematiche. Il collega pone una domanda al professore: in che rapporto
si porrà il percorso della global minimum tax con la digital tax? Il collega segnala di aver letto un
articolo in cui si parla del fatto che le due cose potrebbero andare di pari passo, così come la global
minimum tax potrebbe in qualche modo rispondere alle problematiche per cui si pensava di introdurre
la digital tax.
Intervento Dorigo. Il professore ha caricato un articolo di “La Repubblica”. Esso tratta di una
sentenza del Consiglio di Stato di fine marzo che, nel contesto di una controversia in materia Antitrust
che vede coinvolta Facebook, ha dato ragione all’autorità Antitrust che aveva sanzionato Facebook
affermando che non può dire che il suo “servizio” è gratuito in quanto in realtà c’è la cessione dei
dati personali (che hanno un valore commerciale in quanto poi possono essere rivenduti) da parte
degli utenti che accedono alla piattaforma. Questa è una sentenza che sta facendo molto discutere
perché il principio è molto innovativo. Cosa ne pensate?
Intervento A. Viene individuato un flusso vero e proprio. Il fatto che adesso si vada a vedere
gli utenti e l’attività degli utenti è come se in qualche modo si vada ad accertare il fatto che è
necessario vedere gli utenti proprio perché gli utenti stanno pagando un servizio. È come se
venisse accertato il fatto che, nel momento in cui gli utenti usufruiscono di questo servizio,
stanno pagando un servizio e quindi c’è un flusso di dati che è un flusso di denaro a tutti gli
effetti.
Intervento Dorigo. È un flusso di beni aventi una valutabilità economica. Al professore
questo sembra particolarmente significativo ai fini della riconduzione a tassazione. Questo
apre una riflessione sulle nuove forme di capacità contributiva di cui nel nostro ordinamento
se ne parla da tanto tempo. La disponibilità dei dati potrebbe davvero essere considerata come
la disponibilità di beni avente un valore economico e, quindi, chiamare a contribuire alle spese
pubbliche il soggetto che utilizza a proprio vantaggio questi dati. Dove? Dove i dati vengono
raccolti, dove i dati hanno la loro origine, nello stato della fonte. Questo è un tema su cui un
po’ di riflessione va fatta perché non ci si può abbandonare ad entusiasmi eccessivi. Si
potrebbe dire che, in realtà, non è tanto il dato grezzo che conta, quanto il dato raffinato. Non
è detto che la raffinazione di questo dato avvenga nello stesso paese dove il dato è raccolto.
Non è così scontata l’equazione dati avente valore economico = tassazione nello stato dove i
dati vengono raccolti. Al professore, però, sembra una presa di posizione interessante anche
ai fini dello studio del diritto tributario.
Intervento B. Quello di cui si è discusso in relazione all’individuazione dell’utente come il
mezzo attraverso il quale andare a collocare l’attività di un determinato soggetto, d’altra parte
affermare che la cessione del dato produce un flusso, determina un problema. Se si accetta
l’idea che anche il singolo utente vada a determinare un ricavo per un soggetto che acquisisce
e processa i suoi dati, l’idea di guardare la capacità contributiva attraverso delle soglie cede
un po’ in termini argomentativi.
Intervento Dorigo. Occorre mettersi nell’ottica del giudice tributario, del giudice
amministrativo e di quella controversia che aveva a che fare semplicemente con la tutela dei
dati personali che sono un diritto individuale che spetta a ciascun individuo. Al professore
sembra che quello si possa provare a tirare fuori dall’atteggiamento del Consiglio di Stato sia
un passo avanti o comunque la possibilità di immaginare un passo avanti rispetto a queste
forme abbastanza primitive di imposizione basate sul luogo dove si trova l’utente. Il luogo
dove si trova l’utente è uno strumento che serve a semplificare le cose: in realtà non so
esattamente quanto del reddito globale che la multinazionale fa in giro per il mondo deriva
dall’Italia o da altri stati, quindi individuo una formula di ripartizione, uno strumento che
consenta di spezzettare questo reddito globale e di assegnarlo alle varie giurisdizioni. Un
metro di calcolo del contributo a ciascuno a stato. Questa impostazione del Consiglio di Stato,
se si riflette, potrebbe far fare un passo avanti, nel senso che qui si potrebbe pensare di
individuare sì l’utente come soggetto che consente la localizzazione di un ricavo, ma anche
soggetto in relazione al quale si può calcolare l’entità del suo apporto al reddito della
multinazionale. Si potrebbe davvero superare, senza tenere presente i problemi burocratici-
amministrativi, il discorso delle soglie. È tutto da vedere. Tra l’altro sarebbe meglio non fidarsi
delle parole che vengono riportate nell’articolo, ma andare direttamente alla lettura della
sentenza. Secondo il professore potrebbe essere un approccio che va un po’ più lontano
rispetto a quello meramente di profit allocation.
Intervento Dorigo di chiusura. La notizia della posizione degli Stati Uniti, evidentemente, è la più
importante degli ultimi giorni. Il professore pensa che sia significativo questo cambio di rotta, almeno
apparente, della nuova amministrazione degli Stati Uniti. Questo fa ben sperare che ci sia un
approccio collaborativo degli Stati Uniti anche su tanti altri temi che si stanno dibattendo sul piano
internazionale rispetto ai quali gli Stati Uniti si sono un po’ sottratti (i vari progetti del BEPS, il
Common Reporting Standard etc.). Una posizione pragmatica degli Stati Uniti che si sono resi conto
che il mondo sta andando avanti e che loro, pur avendo un potere enorme, rischiavano di rimanere
all’angolo della comunità internazionale e questo, in un contesto di crisi come quello indotto dalla
pandemia, nessuno stato se lo può permettere. Vedremo cosa succederà nelle prossime settimane.
Risposta alla domanda posta nell’intervento 4. Se prende abbrivo questa soluzione del secondo
pilastro, della tassazione minima, questo sarebbe uno sconvolgimento enorme delle regole, di certe
situazioni che fino a qui hanno caratterizzato il diritto tributario. La settimana prossima parleremo
del regime CFC delle società estere controllate, è un regime la cui importanza verrebbe meno se si
applicasse l’aliquota minima perché questa impedirebbe un qualsiasi tipo di pianificazione basata
proprio sulla diversità di aliquota tra un ordinamento e l’altro. Gli ostacoli da superare, naturalmente,
sono tantissimi, da alcuni stati europei, ma non solo. Il professore non vede l’alternatività tra queste
due soluzioni. È chiaro che, per come è concepita a livello OCSE, questo sistema di minimum tax
dovrebbe essere un sistema residuale cioè dovrebbe entrare in gioco solo laddove le forme ordinarie
di imposizione del reddito transazionale portassero ad un esito non voluto cioè quello di una
sostanziale non applicazione di alcuna imposta né nello stato della fonte né nello stato della residenza.
Cenno in riferimento all’intervento 2. È interessante. La Guardia di Finanza si occupa da tempo e ci
sono dei settori specializzati in fiscalità internazionale. Il professore fa notare che a volte si rischia di
andare un po’ oltre. La proposta sul prelievo aggiuntivo sui servizi offshore sembra equa e allettante,
ma poi ci si chiede come fare ad applicarla perché è chiaro che i prelievi offshore si applicano soltanto
laddove questa detenzione di utili o di redditi all’estero sia scoperta e, quando viene scoperta,
tendenzialmente la si sanziona. Quindi, si rischia di introdurre un prelievo aggiuntivo che però ha le
fattezze di una sanzione impropria, aggiuntiva e questo qualche problema lo porrebbe. Il tema è quello
di cui stiamo parlando in questi giorni a lezione: paradisi fiscali, trasparenza, cooperazione. È meglio,
forse, battere su questi ambiti.
ORGANIZZAZIONE LAVORO DI GRUPPO
Il professore sarà disponibile per parlarne sia a ricevimento che per email.
Quale deve essere il prodotto finale del lavoro di gruppo? Il professore non si aspetta che coloro i
quali si schierino dalla parte dell’amministrazione finanziaria presentino un avviso di accertamento.
Quello che interessa è un piccolo file dove ci sono una serie di considerazioni a sostegno delle tesi
dell’amministrazione finanziaria. C’è libertà sul prodotto finale anche per l’altro lato? Sì, il professore
afferma che può bastare qualcosa tipo uno schema, un bullet point di argomenti. L’idea delle ultime
due lezioni è proprio quella di fare una chiacchierata a partire da questi piccoli schemi, elaborati. Non
importa fare una tesina o cose di questo genere.
C’è un periodo temporale a cui fare riferimento? Rispetto ai tre casi assegnati non troverete lo
schemino già fatto come quello del caso Apple perché sono situazioni ancora molto investigate.
L’idea è quella di cercare di tirare fuori qualcosa, anche se è solo un pezzetto della strategia o se è
una descrizione non perfettamente coerente con la realtà dei fatti. È interessante il lavoro di ricerca,
il professore non pretende di tirar fuori lo schema esatto della pianificazione fiscale, anche perché
probabilmente sarebbe impossibile in così poco tempo.
Dal punto di vista dell’amministrazione finanziaria, si può impersonare più amministrazioni
finanziarie? Sì, potrebbero essere anche più di una amministrazione finanziaria.

INIZIO LEZIONE
Ci siamo lasciati ieri sul discorso dei paradisi fiscali con riferimento all’UE e, in particolare, si è
analizzato questa peculiare procedura che l’UE tra il 2012 e il 2017 ha voluto porre in essere per
pervenire ad una lista nera. Un procedimento che si è concretizzato dapprima in un risultato
intermedio (la lista paneuropea) che non faceva altro che recepire gli orientamenti dei principali stati
membri dell’UE, fino ad arrivare alla prima edizione della lista nera del 2017 che era passata
attraverso un lungo periodo di negoziazione con gli stati terzi per evitare che, posti i requisiti, poi ci
fosse un numero esorbitante di stati posti in lista nera perché ritenuti non conformi a questi requisiti.
Analizziamo questi requisiti. Per la creazione della black list del 2017, l’UE ha fatto riferimento
essenzialmente a tre requisiti di valutazione dell’ordinamento terzo ai fini dell’inserimento in questa
lista. Questi tre requisiti attenevano:

• alla trasparenza fiscale, quindi al livello di cooperazione di quell’ordinamento rispetto agli


altri ordinamenti fiscali;
• al livello impositivo, quindi alla verifica che in quell’ordinamento vi fosse un livello equo,
accettabile di tassazione sui redditi;
• verifica della effettiva attuazione delle varie misure di contrasto alle condotte BEPS
elaborate in seno al progetto BEPS dell’OCSE.
Due di questi tre requisiti, in qualche modo, rispecchiano quella che era la definizione analizzata nella
comunicazione del 2012 cioè l’elemento della cooperatività, della trasparenza fiscale, dell’apertura
dell’ordinamento terzo verso lo scambio di informazioni, la fornitura di informazioni allo stato
membro che le richiedesse, e il secondo elemento del livello di tassazione, il fatto che le imposte sui
redditi nell’ordinamento terzo non siano nulle o meramente nominali. Rispetto a queste due
condizioni che rispecchiano sostanzialmente quelle evidenziate nella definizione del 2012, si
aggiunge questo riferimento derivante dai lavori del BEPS cioè l’attuazione, la piena disponibilità
dello stato terzo a dare efficacia alle misure del progetto BEPS.
Vediamo in dettaglio come l’UE ha inteso ciascuno di questi tre requisiti perché è proprio la
comprensione esatta dei caratteri e dei confini di questi tre elementi che fa capire meglio la reale
finalità che ha mosso l’UE nel delineare questa sua lista nera. Questo è un tema dove le considerazioni
giuridiche sono intrise di elementi politici, diplomatici, tanto che non è ben chiaro dove finisce il
diritto e comincia la politica (e viceversa). Quello che diremo adesso, in particolare circa l’evoluzione
della lista nera UE, è una chiara manifestazione del fatto che, in questo settore, le considerazioni di
carattere politico, diplomatico sembrano (purtroppo) prevalere.
Il tema della trasparenza fiscale è stato delineato ulteriormente dall’UE che ha fatto principalmente
riferimento al fatto che la giurisdizione terza abbia dato effetto alla normativa internazionale in tema
di Common Reporting Standard (CRS). Il CRS è uno degli strumenti di scambio automatico di
informazioni tra le amministrazioni fiscali di più stati che riguarda in particolare le informazioni
bancarie cioè informazioni detenute da intermediari bancari, finanziari. Come funziona il CRS? Gli
istituti di credito di uno stato hanno l’obbligo di fornire anno per anno alla propria amministrazione
finanziaria le informazioni relative ai conti, agli investimenti detenuti da soggetti residenti in altri
stati. L’amministrazione finanziaria dello stato dove si trovano gli intermediari finanziari, poi,
trasmette queste informazioni in via automatica a tutti gli stati che sembrano interessati (sono gli stati
di residenza di quei soggetti che risultano avere investimenti finanziari nel primo stato). La
trasparenza, quindi, passa principalmente per la comunicazione, la circolazione dei dati bancari, dei
dati degli investimenti finanziari. Questo è un dato rilevante perché da sempre i paradisi fiscali sono
stati immaginati come degli stati in cui vigeva il segreto bancario. Aderire al CRS significa, in qualche
modo, aver superato il segreto bancario. L’UE, in realtà, su questo profilo ha specificato meglio, c’è
un riferimento ad esempio all’essersi impegnato in generale ad attuare lo scambio automatico di
informazioni. C’è anche un altro riferimento interessante perché un ulteriore elemento di valutazione
della trasparenza fiscale della giurisdizione terza è dato dall’esito della valutazione del Peer Review
dell’OCSE. L’OCSE attua questo meccanismo di monitoraggio periodico delle varie giurisdizioni e
l’UE prende i dati delle valutazioni periodiche dell’OCSE e utilizza queste valutazioni come ulteriore
elemento complementare per giudicare della trasparenza della giurisdizione terza. Quindi, questo è
un caso interessante nel quale uno strumento che riguarda l’ambito internazionale, l’ambito OCSE
viene direttamente richiamato dall’UE come strumento di valutazione ai fini dell’applicazione della
disciplina europea sulla trasparenza e quindi sui paradisi fiscali.
Per quanto riguarda l’equa imposizione, i documenti dell’UE non specificano un livello minimo di
imposizione al di sotto del quale si ritiene di essere davanti ad un paradiso fiscale o al di sopra del
quale lo stato è virtuoso e quindi non deve essere introdotto nella lista nera. Questo elemento
valutativo dell’equa imposizione non si è fin qui tradotto nei documenti dell’UE nell’indicazione di
un’aliquota di riferimento. L’UE, piuttosto, dà degli elementi di valutazione un po’ più generici,
flessibili, anche perché la valutazione va fatta caso per caso e probabilmente l’indicazione di
un’aliquota fissa di riferimento rischierebbe di coinvolgere situazioni che invece dovrebbero essere
lasciate fuori da questo ragionamento. L’UE, quindi, in questo, valorizza il fatto che l’ordinamento
dello stato terzo favorisce le giurisdizioni offshore cioè si appoggi per tassare gli investimenti, le
attività finanziarie a ordinamenti offshore. Alla fine, quindi, anche il giudizio relativo all’equa
imposizione, finisce per avvicinarsi a quello sulla scarsa collaboratività o scarsa trasparenza che
rappresenta il primo requisito. Non essendoci un riferimento fisso di aliquota, giusta, equa
dell’imposizione, si finisce per giudicare questo elemento alla luce della trasparenza, della
collaboratività, dei legami di quell’ordinamento con ordinamenti opachi o strutture societarie opache.
Infine, c’è l’elemento dell’attuazione delle misure anti BEPS. C’è una considerazione preliminare
da fare: il progetto BEPS, a parte il Multilateral Instrument, non si è concluso con delle misure
vincolanti per gli stati, ma con delle azioni, delle mere raccomandazioni, delle mere forme di
suggerimento, di best practice. Quindi, da un lato si deve tenere conto che le misure anti BEPS non
sono fino a qui obbligatorie per nessuno stato; dall’altro lato si deve tenere conto che le misure anti
BEPS (che studieremo in dettaglio più avanti) sono talmente numerose che sarebbe impossibile che
l’UE giudicasse la bontà dell’ordinamento dello stato terzo solo alla luce dell’integrale attuazione di
tutte le indicazioni del BEPS. Se assumessimo un atteggiamento di questo genere, probabilmente,
nessuno stato sarebbe in regola perché nessuno stato fin ora ha davvero attuato tutte le
raccomandazioni del progetto BEPS. Questo terzo elemento, questa terza caratteristica va intesa nel
senso della prova che lo stato terzo ha incominciato ad attuare seriamente le misure BEPS, anche se
naturalmente non si può richiedere che tutte siano state effettivamente attuate in quanto sarebbe
qualcosa di assolutamente irrealistico.
Questa valutazione, che è stata fatta nel 2017, escludeva a priori gli stati dell’UE. È venuta fuori
questa anomalia di stati dell’UE che perseguono delle politiche fortemente aggressive sul piano
fiscale, ma che evidentemente non possono essere considerati stati black list a livello UE per una
scelta specifica dell’UE stessa di indirizzare la propria lista nera soltanto agli stati terzi. Quindi, come
strumento di gestione dei rapporti con gli stati terzi.
C’è un profilo, però, della lista nera, un profilo temporale che è interessante tenere presente
nell’attuazione della lista nera. La lista nera, proprio perché i requisiti richiesti sono piuttosto
stringenti, è stata affiancata sin dall’inizio da una lista grigia. L’UE ha una lista grigia che comprende
quegli stati che non hanno pienamente realizzato tutti e tre i requisiti, ma hanno dimostrato di aver
intrapreso una serie di politiche di riforma tali da un lato di distinguerli dai paesi che sono rimasti
assolutamente non conformi a questi standard, dall’altro distinguerli dagli stati veramente coerenti
con gli standard internazionali. È stata creta questa lista grigia in cui all’inizio, nel 2017, sono stati
indicati una ventina di stati. Rispetto a questi stati, così come rispetto agli stati della lista nera, si è
posto un problema di valutazione nel tempo della loro condotta. È chiaro che le liste europee, così
come le liste dell’OCSE, non sono e non possono essere considerate delle liste bloccate, ferme,
definite una volta per tutte; c’è un percorso di costante monitoraggio che fa che gli stati passino da
una lista all’altra. È un processo in divenire. E, proprio con riferimento a questi e soprattutto agli stati
della lista grigia, nel 2017 l’UE ha indicato un certo termine - originariamente posto al 31/12/2018 -
entro il quale gli stati che non erano perfettamente conformi agli standard previsti dall’UE avrebbero
dovuto adeguarsi per essere giudicati e messi nella lista nera, grigia o al di fuori di alcuna lista. Questo
termine che poi è stato prorogato nel 2019, poi se ne è persa traccia perché le proroghe si sono
susseguite, originariamente era stato inserito dall’UE, almeno apparentemente stando ai proclami
stampa, per venire incontro soprattutto ad una serie di staterelli caraibici, tradizionalmente considerati
paradisi fiscali, che in quegli anni (2016/2017) erano stati colpiti da una serie di calamità naturali
abbastanza importanti (maremoti, terremoti, tsunami). L’UE, quindi, capendo la situazione di
emergenza di queste giurisdizioni, non è stata rigorosa e ha dato dei termini un po’ più laschi a questi
stati per potersi adattare. Questa era la ragione espressa. In realtà, la ragione vera e propria riguardava
gli Stati Uniti, perché? Se si guarda gli elementi che consentono di essere esclusi dalla lista nera
(trasparenza fiscale e, in particolare, attuazione del CRS, e attuazione delle misure anti BEPS), si
vede che gli Stati Uniti non sono coerenti con queste condizioni perché gli Stati Uniti, pur avendo
partecipato ai lavori BEPS, non hanno poi partecipato al Multilateral Instrument, non si ritengono
interessati dall’attuazione delle misure finali del BEPS e, soprattutto, non hanno aderito al CRS. Gli
stati Uniti ritengono la normativa CRS una normativa superflua perché hanno già delle normative
interne che consentono di rispettare questi standard (da vedere se l’amministrazione Biden cambierà
passo). Se dovessimo oggi giudicare la posizione degli Stati Uniti rispetto ai requisiti posti dall’UE
per entrare e uscire dalla lista nera, tendenzialmente, gli Stati Uniti dovrebbero essere introdotti in
lista nera perché non partecipano al CRS e non hanno dato attuazione alle misure del progetto BEPS.
Si capisce la ragione vera di questi rinvii, ragioni che mascheravano un certo imbarazzo dell’UE
rispetto a cosa fare degli Stati Uniti. L’inserimento in una lista nera dell’UE non ha delle conseguenze
particolari, ma il clamore mediatico che avrebbe l’inserimento degli Stati Uniti nella lista nera
dell’UE, oltre alle conseguenze in termini di rapporti commerciali-diplomatici tra le due sponde
dell’oceano, sarebbero assolutamente rilevanti. Infatti, nonostante di questi termini si sia persa
traccia, siano scaduti e non siano stati più prorogati, gli Stati Uniti pur non rispettando gli standard
richiesti dall’UE non sono stati inseriti nella lista nera. Quindi, siamo ancora in un contesto nel quale
prevalgono ragioni di opportunità. La lista nera europea non riguarda gli stati europei, la lista nera
europea di fatto comprende una serie di piccoli stati caraibici il cui contributo globale è assolutamente
irrilevante, ma non comprende gli Stati Uniti che non rispettano quei requisiti che l’UE si è data per
la formazione della sua lista nera.
L’altro profilo interessante, rispetto alla lista nera, riguarda quali sono le conseguenze sia per lo stato
terzo che viene inserito nella lista nera, sia per gli stati membri dell’UE. Che cosa accade se uno
stato terzo è inserito nella lista nera? Tendenzialmente accade poco, l’unica conseguenza diretta è il
divieto, per questo stato, di accedere ad una serie di misure agevolative, di investimento che l’UE
ogni anno destina a giurisdizioni terze (in particolare il riferimento è ai fondi europei per la
cooperazione e lo sviluppo che riguardano soprattutto i paesi meno sviluppati). A questo ci si ferma,
non c’è la possibilità per l’UE di introdurre delle forme di sanzione, anche solo nei rapporti economici
con lo stato terzo. Dall’altra parte, e questo i documenti dell’UE che hanno istituito questa lista nera
lo dicono chiaramente, non c’è nemmeno un obbligo per gli stati membri dell’UE di considerare a
loro volta gli stati introdotti nella lista nera come paradisi fiscali. Se l’UE inserisce un paese nella
lista nera, non c’è nessun obbligo per gli stati membri di inserire a loro volta quel determinato paese
nelle loro liste nere nazionali o di prendere qualsiasi tipo di iniziativa sfavorevole in termini politici,
di cooperazione o commerciali. In realtà, l’effetto della lista nera dell’UE è un effetto più che altro di
immagine. L’UE è comunque un soggetto importante nello scacchiere economico-politico
internazionale e, quindi, l’essere introdotto nella lista dell’UE non è qualcosa di particolarmente
gradito.
Commentiamo l’ultima edizione della lista nera dell’UE che è stata approvata dal Consiglio alla
fine di febbraio 2021 (la revisione avviene sostanzialmente con cadenza annuale). È interessante che
l’Italia stessa ha deciso di sottoporre a revisione periodica le sue liste, tendenzialmente subito dopo
la revisione delle liste europee. Il che significa che, pur non essendoci alcun vincolo per gli stati
membri, l’Italia ha almeno scelto di vedere cosa fa l’Europa prima di mettere mano alla revisione
delle proprie liste interne. Ad oggi gli stati introdotti nella lista nera dell’UE dovrebbero essere 12,
essi sono tutti staterelli davvero paradisiaci, davvero molto allettanti sul piano geografico, ma molto
meno interessanti da un punto di vista economico. È significativo vedere in che ambito si collocano
dal punto vista politico questi stati e vedere l’evoluzione che c’è stata da un anno all’altro tra la lista
2020 e la lista 2021. Nella lista nera dell’UE figurano una serie di staterelli che sono tipicamente
paradisi fiscali di orbita statunitense, si parla delle Isole Vergini Statunitensi, di una serie di stati
caraibici. È abbastanza interessante notare che, per quanto non si inseriscano direttamente gli Stati
Uniti nella lista nera, si propone una sorta di accerchiamento degli Stati Uniti. Per cui, se anche gli
Stati Uniti non ci sono, si introducono una serie di piccole giurisdizioni da sempre considerate come
orbitanti attorno al sistema statunitense. Quindi, anche qui, la valutazione politica è sottile, non si usa
la clava, ma si agisce di fioretto. Dall’altra parte, sono uscite rispetto alla lista dello scorso anno una
serie di giurisdizioni (es: Isole Caiman, Isole Vergini Britanniche) che sono tipicamente giurisdizioni
offshore di orbita Regno Unito. Questo è un segnale politico, un segnale politico di disgelo dopo i
tanti mesi di scontro tra l’UE e il Regno Unito in occasione della BREXIT. Perché? Forse per rendere
un po’ più sereni i rapporti tra i due mondi, anche se qualche dubbio a riguardo resta perché tanti
analisti affermano che, con questa ritrovata libertà di manovra, il Regno Unito potrebbe cominciare
ad agire con politiche fiscali aggressive utilizzando questi suoi paradisi fiscali. Nella slide si trova un
riferimento alla Svizzera, di cui abbiamo già parlato, la quale ad ora (Tax Justice Network continua
a sostenere il contrario) sembra un esperimento riuscito di riconversione di un paradiso fiscale. Negli
ultimi anni è diventata un luogo di investimenti trasparenti ed anche un luogo di investimenti
industriali con apposite misure fiscali di attrazione dei capitali investiti in attività concrete. La
Svizzera, oggi, non è più praticamente in nessuna lista nera né a livello statale, né a livello europeo,
né a livello OCSE. Il professore crede che a livello OCSE sia in lista grigia, ma soltanto perché la
Svizzera è una confederazione. L’OCSE afferma che, a livello di legislazione centrale, si sono attuate
pienamente le misure che garantiscono la trasparenza e la cooperazione fiscale, ma ci sono certi stati
membri della confederazione svizzera, i quali hanno autonomia in questo senso, che mantengono certi
regimi fiscali opachi. Quindi, la Svizzera è messa in lista grigia solo per questi regimi, per il resto è
uno stato perfettamente partecipe del consesso degli stati corretti, che non applicano delle politiche
fiscali dannose.
Occorre chiudere il cerchio e parlare dei regimi fiscali preferenziali dannosi o harmful preferential
tax regimes. Questo è un fenomeno in crescita anche dell’interesse degli organismi internazionali e,
in particolare, dell’OCSE. La vera pianificazione fiscale, oggi, quella delle multinazionali, quella che
consente di ottenere i maggiori vantaggi la si fa, non passando dai paradisi fiscali, ma passando da
questi regimi fiscali preferenziali dannosi. Quest’ultimi, rispetto ai paradisi fiscali, hanno un
vantaggio notevolissimo che è quello di non poter essere in nessun modo additati come stati canaglia,
stati che vivono e sopravvivono semplicemente introducendo delle normative di assoluto favore a
livello fiscale, societario, bancario. Gli harmful preferential tax regimes sono stati perfettamente
ordinari, stati che partecipano da sempre al consesso degli stati più corretti a livello globale perché
hanno regimi fiscali ordinari con aliquote eque, hanno meccanismi di collaborazione fiscale
internazionale efficiente, ma che al loro interno, o con misure normative oppure con prassi
amministrative ad hoc, consentono di godere di vantaggi fiscali a determinati soggetti, a determinate
imprese o per determinati settori economici e, in questo modo, fanno una concorrenza fiscale sleale
– quindi dannosa – nei confronti degli altri ordinamenti.
Si pensi al caso Apple, questo è il paradigma del regime fiscale preferenziale dannoso perché c’è uno
stato, l’Irlanda, che è uno stato che ha un’aliquota fiscale sul reddito delle società bassa (12.50%), ma
non zero o nominale. Un’aliquota bassa, ma ragionevole. Questa è un’aliquota fiscale che l’Irlanda
ha previsto per tutti i suoi contribuenti in forza di norme interne che si applicano in termini generali.
Tuttavia, e il caso Apple lo ha messo in evidenza, rispetto a qualche operatore economico o altri
operatori particolarmente grandi, questo regime generale, che ha continuato ad applicarsi per tutti gli
altri contribuenti, è stato derogato in casi specifici per effetto della conclusione di un accordo fiscale.
Accordo che ha fatto sì, secondo la ricostruzione della Commissione europea, che l’effettiva aliquota
fiscale dell’imposta pagata da Apple sugli utili in Irlanda fosse, non del 12.50%, ma dello 0,0003%
nel corso di un periodo di circa 10 anni di tempo.
Lo stesso esempio si può fare con riferimento al caso Amazon. Lussemburgo, stato dell’UE -
assolutamente rispettabile -, rispetto ad Amazon, attraverso gli accordi, i ruling ha consentito di fatto
a questa multinazionale di non pagare alcuna imposta sui suoi utili prodotti in molti paesi del mondo.
Quindi, non ci sono veri e propri paradisi fiscali cioè degli stati che vivono unicamente grazie a misure
normative generalizzate che danno dei vantaggi fiscali generalizzati a chiunque, ma stati che hanno
dei sistemi fiscali strutturati, più o meno ordinari, che su singole fattispecie, per singoli contribuenti
o per singole categorie di contribuenti, possono derogare al regime generale, dando a questi
contribuenti dei vantaggi di tale entità da spezzare e alterare completamente il gioco della
concorrenza.
Questo tema dei regimi fiscali preferenziali dannosi è un tema divenuto centrale negli ultimi anni e,
in particolare, nell’epoca dell’economia digitale, delle multinazionali digitali. Perché? Perché ci si è
resi conto che questo è un ambito particolarmente insidioso perché un conto è avere davanti delle
giurisdizioni che chiaramente falsano le regole del gioco e lo fanno a carte scoperte in quanto l’intera
impalcatura normativa tributaria di quell’ordinamento è improntata alle agevolazioni, alla mancanza
di collaborazione, all’opacità, un altro conto è avere a che fare con delle giurisdizioni che appaiono
perfettamente corrette, ordinarie e che, in specifiche situazioni - anche di difficile ricostruzione (il
caso Apple è venuto fuori solo perché ci sono state inchieste giornalistiche) -, derogano al regime
generale. Il tema è diventato importante e, anche a livello internazionale, si è incominciato a pensare
a come porre in essere delle forme di reazione nei confronti di queste condotte da parte di alcuni stati.
Di questo si è occupato il progetto BEPS e, in particolare, l’action 5 del progetto ha preso in
considerazione due tipologie di condotta che realizzano una forma di regime fiscale preferenziale
dannoso.
1. La prima riguarda l’attribuzione di benefici fiscali da parte di un ordinamento in assenza
di un nesso sostanziale tra lo stato e l’attività agevolata;
2. L’altra è quella della riduzione della base imponibile o dell’imposta, rispetto ai livelli
generali, per effetto di rulings.
Il professore, su quest’ultimo tema (punto 2), non si sofferma perché è stato sviscerato più volte. Il
BEPS, sostanzialmente, prende atto che ci sono degli ordinamenti che, in via amministrativa,
concedono ad alcuni soggetti dei vantaggi che non spetterebbero mai alla generalità dei contribuenti.
Sottolinea l’iniquità e la capacità distorsiva del mercato e della concorrenza che questa condotta può
comportare.
Il primo dei due casi messo in evidenza dall’action 5 (punto 1), invece, merita qualche parola. Nel
nostro ordinamento, ad esempio, riguarda i meccanismi di patent box. A cosa si riferisce l’OCSE
quando parla di “attribuzione di benefici fiscali da parte di un ordinamento in assenza di un nesso
sostanziale tra lo stato e l’attività agevolata”? Si pensi all’attività di ricerca e sviluppo che deve essere
posta in essere, per esempio, per sviluppare un algoritmo o una molecola se siamo nel campo
dell’industria farmaceutica (es: tutte le ricerche che si stanno svolgendo ora per i vaccini anti-Covid).
È chiaro che l’attività di ricerca e sviluppo è un’attività che richiede molti soldi, grandi investimenti,
con un ritorno che almeno all’inizio è del tutto aleatorio perché può darsi che tale attività poi non
porti ad un risultato come quello atteso (non si colleghi alla produzione di un bene che poi è idoneo
a generare dei ricavi). Se le cose vanno bene, c’è il sostenimento dei costi di ricerca e sviluppo che
poi danno vita ad un certo bene, il cui sfruttamento economico può generare dei ricavi. Che cosa
accade in certi casi? Accade che alcuni ordinamenti, per essere competitivi nell’attrarre questo genere
di attività, garantiscono agevolazioni fiscali (in particolare di riduzione della base imponibile) per
quei soggetti che producono ricavi utilizzando i beni derivanti da questa attività di ricerca e sviluppo.
Questi ordinamenti, il più delle volte, proprio per essere concorrenziali, attribuiscono il vantaggio,
l’agevolazione semplicemente a quell’impresa residente nello stato che crei ricavi utilizzando il frutto
di quella ricerca e sviluppo, a prescindere da dove e chi ha compiuto le attività di ricerca e sviluppo
che hanno dato vita a quel bene. Accade che, ad esempio, l’attività di ricerca e sviluppo sia svolta in
Italia da una società italiana, quindi i costi sono utilizzati in Italia in deduzione della base imponibile,
ma che poi quando si tratta di generare i ricavi, quel bene derivante dall’attività di ricerca e sviluppo
sia trasferito ad una società, che poi lo sfrutta economicamente, che non ha fatto niente in termini di
ricerca e sviluppo. Una società che non ha investito un euro, ma che ha il pregio di trovarsi in uno
stato, in una giurisdizione che consente quelle agevolazioni e quell’abbattimento della base
imponibile nel caso di ricavi che derivino dallo sfruttamento di un bene derivante da attività di ricerca
e sviluppo. Questo, evidentemente, è un tipico elemento distorsivo, il tipico elemento che connota un
sistema preferenziale dannoso perché c’è uno stato che si gode i vantaggi di un bene derivante da una
lunga attività di ricerca e sviluppo, attribuendoli ad un soggetto che magari non ha niente a che fare
con gli investimenti che hanno dato vita a quel bene.
L’idea dell’OCSE è che, in questi casi, occorre che l’agevolazione fiscale sia concessa solo a quel
soggetto, che non solo utilizza economicamente il bene (che quindi ha il flusso di ricavi), ma che
dimostra di aver svolto anche le attività di ricerca e sviluppo. Ecco cosa vuol dire valorizzare il “nesso
sostanziale tra l’attività agevolata e lo Stato”, nel senso che, per non essere bollato come regime
fiscale preferenziale dannoso, uno stato che vuole riservare un’agevolazione ai redditi derivanti dallo
sfruttamento di questi beni deve però subordinare quest’agevolazione alla prova che l’ente, la società
che sta sfruttando economicamente quel bene ha anche precedentemente svolto le attività di ricerca e
sviluppo e ha quindi sostenuto i relativi costi.
Questi sono i due casi principali, almeno per l’OCSE, che sono oggetto di attenzione. Potrebbero
essercene molti altri, ma questi sono quelli che l’OCSE ha preso in considerazione in prima battuta.
Si è visto qual è il problema per i paradisi fiscali e si è individuato quali sono le soluzioni, quindi le
liste e quant’altro. Quali sono le misure che l’OCSE ha intravisto per contrastare questi regimi
fiscali preferenziali dannosi? Le misure sono molto più soft, non ci sono liste, c’è semplicemente
una generalizzazione del meccanismo di Peer Review cioè di revisione periodica tra pari. Quel
meccanismo visto già in funzione rispetto ai paradisi fiscali in ambito OCSE ed in quel caso riservato
solo ad alcuni ordinamenti (quelli che hanno le caratteristiche che fanno pensare di essere dei paradisi
fiscali). Invece, rispetto agli harmful preferential tax regimes, il meccanismo di Peer Review è
generalizzato. Che cosa vuol dire? Vuol dire che periodicamente, tendenzialmente ogni due anni,
l’OCSE sottopone a revisione le principali normative agevolative di tutti gli stati membri dell’OCSE
senza distinzione. Quindi, ogni due anni, l’Italia, la Francia, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e anche
gli staterelli più piccoli, tutti sono sottoposti a questo meccanismo di revisione che si concentra solo
su quelle due/tre normative interne che appaiono a maggiore rischio di generare queste forme di
trattamento preferenziale per alcuni contribuenti o per alcune attività di impresa. L’OCSE, al termine
di questi periodi di revisione, pubblica dei rapporti (il professore caricherà su Moodle l’ultimo
rapporto uscito qualche settimana fa) in cui si trovano elencati i vari stati con le normative interne
che sono state oggetto di revisione, con giudizio di coerenza/conformità o meno di questa normativa
agli standard previsti dall’OCSE. Ad esempio, se si guarda l’ultimo rapporto, c’è indicata la misura
italiana del Patent box, una forma di agevolazione dello sfruttamento economico dei beni intangibili
derivanti dall’attività di ricerca e sviluppo, subordinata al fatto che l’impresa abbia davvero sostenuto
attività di ricerca e sviluppo. L’OCSE, infatti, dà giudizio positivo rispetto alla normativa italiana,
una normativa fatta bene e coerentemente con quelli che sono i principi che emergono
dall’elaborazione dell’OCSE. Questo non basta, l’Italia continuerà, come tutti gli altri stati, ad essere
assoggettata a questa revisione periodica perché si vuole far sì che l’attenzione sia sempre viva.
Digressione di carattere politico. Già nell’edizione precedente del rapporto Peer Review dell’OCSE
sugli harmful preferential tax regimes erano indicati una serie di regimi fiscali introdotti negli Stati
Uniti con la riforma Trump all’inizio del 2018, regimi fiscali ora in discussione ed è possibile che
Biden li elimini in questa opera di razionalizzazione, di revisione dell’intero sistema tributario
americano. C’erano questi regimi e, in particolare, due regimi che avevano la funzione di stimolare
(sempre detto da Trump) l’industria e l’economia americana. C’era l’idea, quindi, da un lato di far sì
che tutti i capitali, che le imprese americane negli anni aveva collocato offshore, fossero riportati
negli Stati Uniti attraverso una serie di regimi agevolativi più o meno mascherati; dall’altro lato, per
rilanciare l’industria americana, si prevedevano delle agevolazioni fortissime per quelle imprese che
da fuori gli Stati Uniti si mettessero a produrre negli Stati Uniti (creassero uno stabilimento,
assumessero lavoratori etc.) per poi vendere fuori dagli Stati Uniti. L’idea, dietro a questa operazione
per rilanciare l’industria americana, era dare lavoro e fare investimenti negli Stati Uniti, ma al
contempo evitare che questi produttori facciano concorrenza sul piano interno; quindi, vantaggio di
avere investimenti che agevolo e l’ulteriore vantaggio che il commercio interno non sarà messo in
difficoltà da questi nuovi operatori. Questi due regimi, nel rapporto del 2019, erano indicati come
regimi sotto osservazione perché potenzialmente harmful preferential tax regimes. Siccome il
rapporto era del 2019 e i regimi erano entrati in vigore nel 2018, si diceva che fossero ancora sotto
investigazione perché ancora troppo presto e non c’erano ancora gli elementi per dare un giudizio. Ci
si sarebbe aspettati che, due anni dopo, qualcosa fosse cambiato, che questo rapporto desse un qualche
tipo di giudizio di conformità o meno di questo ordinamento ai principi della concorrenza leale tra
ordinamenti fiscali. Invece, se guardiamo l’ultimo rapporto (quello che il prof. caricherà su Moodle),
ancora una volta, questi due regimi degli Stati Uniti sono indicati come regimi sotto indagine. Non
c’è una presa di posizione e questo fa pensare che, anche qui, non si voglia colpire gli Stati Uniti
perché, sebbene non ci siano conseguenze dirette, non è bello per la reputazione di uno stato essere
additato come uno stato che falsa la concorrenza. Quindi, se era giustificato nel 2019 perché si trattava
di regimi troppo recenti, la scelta del 2021 di non scrivere ancora niente, forse, sottende alla speranza
che la nuova amministrazione Biden elimini questi regimi in modo tale da non costringere l’OCSE a
prendere una posizione che rischierebbe di essere impopolare.
Ultimo cenno al contesto europeo. Fino a qua si è analizzato gli harmful preferential tax regimes in
ambito OCSE, e l’UE? L’UE, a differenza di quello che accade per i paradisi fiscali - dove si è dotata
di liste come fatto dall’OCSE, rispetto agli harmful preferential tax regimes, l’UE non ha preso
nessun tipo di posizione. Non esiste un rapporto, non esiste una lista, l’UE ha detto chiaramente che
vi sono altri strumenti, all’interno dell’ordinamento giuridico UE, per tenere sotto controllo ed
eventualmente contrastare questi meccanismi. Il più famoso, il più utilizzato fin ora è quello visto nel
caso Apple, il contestare un certo regime fiscale preferenziale invocando il divieto di aiuti di stato.
L’esito sul caso Apple, almeno fino a questo punto, non sembra dimostrare una grande efficacia di
questa metodologia. Se a livello europeo il fenomeno è noto e non ci sono misure particolari, a livello
di singoli stati, in particolare stati membri e in particolare Italia, nel tempo sono state sviluppate una
serie di normative che mirano a contrastare specifiche forme di concorrenza fiscale dannosa. Si pensi
alla presunzione di residenza, al Transfer Pricing, alla disciplina CFC, fino all’evoluzione più recente
di prevedere delle forme generalizzate di norme antiabuso a contrasto di questi fenomeni. Quindi,
non norme che riguardo un fenomeno o l’altro, ma norme che si applicano indefinitamente a qualsiasi
condotta che conduca a una forma di danno fiscale per uno stato e a vantaggio di un altro.
Questa è un po’ la porta di ingresso dei temi che verranno trattati dalla prossima settimana, i quali
ruotano attorno a queste normative di contrasto alle forme di elusione fiscale internazionale sia a
livello domestico, sia a livello sovranazionale.

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