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Lunedì 26 aprile

Domanda di un’alunna: lei ha detto che i flussi di royalties che passano da una società europea ad
un’altra società europea non sono soggette a ritenute. Non capisce allora il ruolo dell’Olanda nel caso
Google.
Risposta del professore: ci sono entrambi i profili: il profilo convenzionale viene in considerazione
nella parte alta del panino (Olanda ed Irlanda Holding) perché lì è dubbio che si possa invocare la
convenzione contro le doppie imposizioni tra Olanda ed Irlanda, proprio perché per l’Irlanda quella
è una società residente a Bermuda. Lì viene quindi in rilievo l’aspetto della normativa olandese: non
prevede mai nessun tipo di ritenuta sulle royalties in uscita. Il profilo europeo viene in considerazione
nella parte bassa del panino (da Irlanda Limited a Olanda).

Il Transfert Pricing
Fenomeno tipico delle multinazionali e non solo, anche dei gruppi che operano in più giurisdizioni
che consente forme di arbitraggio del prezzo, di regolazione del prezzo praticato per la cessione di
beni e la prestazione di servizi tra due società dello stesso gruppo in maniera non conforme a quello
che sarebbe praticato sul libero mercato, al solo scopo di ottimizzare il carico fiscale complessivo del
gruppo.
Le principali fonti di regolamentazione del fenomeno sono:
• OCSE: ha elaborato le linee guida che sono soft law tenute in grande considerazione da chi si
occupa di TP. Sono la “Bibbia” di questa disciplina. Sono oggetto di periodico aggiornamento:
l’ultimo aggiornamento è del 2017, a seguito del progetto Beps, ed entro l’estate arriverà una nuova
versione.
• Diritto europeo: si è occupato di TP in modo molto meno approfondito, solo nei limiti in cui il TP
può alterare la libera concorrenza all’interno dell’Ue e quindi venire ad ostacolare l’esercizio delle
libertà fondamentali. A differenza dell’OCSE, dove grazie alle linee guida abbiamo una
regolamentazione accurata del fenomeno e delle metodologie, a livello di Unione Europea ci si è
concentrati soltanto su una serie di profili specifici senza dare una panoramica completa del
fenomeno. L’organo che se ne occupa è il Joint Transfert Pricing Forum, composto da funzionari,
accademici, professionisti dei vari stati membri e che serve a supportare la Commissione
dell’unione europea nei suoi progetti di proposta normativa, che dovranno poi essere sottoposti al
Consiglio. L’idea dell’Ue è che il TP sia un fenomeno pericoloso per il mercato comune e solo nei
limiti di questa pericolosità deve essere oggetto di intervento da parte dell’Unione europea. A
livello di diritto europeo, a parte questi interventi spot, l’Unione si rifà ampiamente ai lavori
dell’OCSE, richiama più volte le linee guida dell’OCSE.

Quindi le fonti di regolamentazione della disciplina del TP ruotano tra livello internazionale e livello
europeo ma la base, il fondamento più evidente sta nelle azioni dell’OCSE e, da qualche anno, anche
negli esiti del progetto BEPS. Il progetto BEPS si compone di 15 azioni e ben 4 si occupano
direttamente di Transfert Pricing (8, 9, 10 e 13), in particolare di profili legati alla valutazione delle
transazioni tra imprese collegate aventi ad oggetto beni immateriali, intangibles, ed altri profili: la
documentazione delle transazioni infragruppo. Quattro azioni su 15 dedicate al fenomeno del TP è
un parametro indicativo dell’importanza del fenomeno nell’ottica complessiva della disciplina e del
contrasto ai fenomeni di base erosion … La disciplina di contrasto al TP si concentra ampiamente
sull’analisi funzionale, cioè sulla ricostruzione delle transazioni.
L’analisi del Beps non si esaurisce a queste quattro azioni rispetto al TP. Sebbene non oggetto
principale, lo troviamo in altre azioni: per esempio, nell’action 1 (che si occupa dell’economia
digitale) i riferimenti al TP sono molteplici. Il TP è qualcosa che permea la gran parte della
costruzione del progetto Beps, proprio a conferma dell’importanza di questo tema.

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Questi sono i tre livelli su cui proveremo a svolgere la nostra indagine per comprendere meglio come
funziona il TP e come funzionano le normative che cercano di evitare effetti erosivi ed effetti abusivi
del fenomeno nell’ambito dei gruppi internazionali. Da questo approccio si possono individuare tre
livelli principali di regolamentazione:

Profilo sostanziale: attiene al modo con cui viene ricostruito il valore della transazione inrfagruppo.
Ruota intorno al principio dell’arm’s lenght, della libera concorrenza. L’approccio che sta dietro a
questo principio è quello per cui nelle transazioni che avvengono a livello internazionale tra imprese
non indipendenti, il prezzo a cui queste transazioni sono realizzate dovrebbe essere coincidente o
comunque molto vicino al prezzo che sarebbe stato pattuito per la stessa transazione tra imprese
indipendenti. L’OCSE da sempre valorizza questo principio di libera concorrenza, anche nelle
transazioni infragruppo, che ha l’effetto di far sì che tra imprese che hanno un qualche tipo di
collegamento tra loro, si neghi la libertà di decidere a piacimento il prezzo a cui una certa transazione
deve essere praticata. L’idea è che anche per un gruppo multinazionale il prezzo non possa essere
deciso a tavolino, ma debba rispecchiare le condizioni del libero mercato, quindi il prezzo che due
imprese indipendenti avrebbero praticato sul libero mercato. Ovviamente non si può immaginare che
ci sia una perfetta identità tra il prezzo intra-gruppo ed il prezzo del libero mercato però se non proprio
identico, questo prezzo dovrebbe comunque essere paragonabile.
Cosa comporta sotto il profilo delle conseguenze? Comporta la possibilità per l’AF di un singolo stato
di contestare il prezzo praticato tra due imprese appartenenti al medesimo gruppo laddove si ravvisi
che quello non è un prezzo di mercato, ma è un prezzo frutto di una scelta arbitraria delle parti
finalizzata a spostare la base imponibile da uno stato all’altro, e quindi a fini fiscali. La prima cosa
importante da ricordare è che il parametro di riferimento sulla cui base giudicare il prezzo delle
transazioni infragruppo deve essere sempre il principio di libera concorrenza. Se l’amministrazione
finanziaria di uno stato ravvisa però che quel prezzo non è corretto perché si allontana troppo da un
prezzo di libero mercato, si apre la possibilità per quell’AF di disconoscere a fini fiscali quel prezzo.
Il disconoscimento di quel prezzo avviene esclusivamente a fini fiscali, quindi se si è venduto un bene
ad un prezzo non corretto tra due imprese del gruppo, civilisticamente la transazione si è perfezionata
ma l’effetto del disconoscimento è esclusivamente quello di non consentire che quel prezzo praticato
tra le parti sia opponibile all’AF., e quindi dia luogo ad un certo trattamento fiscale.
Esempio: supponiamo che ci sia un’impresa 1 che sta nello stato A e produce e vende prodotti finiti.
Questa impresa acquista le materie prime da un fornitore indipendente per un costo di 10 , produce il
suo prodotto finito e lo vende nello stato B alla sua società controllata 2. A sua volta la società B
vende sul mercato al prezzo di 100. Gli estremi di questa transazione sono estremi che avvengono al
prezzo giusto di mercato perché la materia prima è acquistata dall’impresa 1 presso un fornitore
indipendente e dall’altro lato, la distributrice 2 non può che vendere il prodotto finito sul mercato al
prezzo di 100, che è un prezzo giusto. Nel mezzo c’è la transazione infra-gruppo: la cessione del
prodotto finito dal produttore 1 al distributore 2, nella considerazione che 1 e 2 sono appartenenti al
medesimo gruppo. Quindi in questa transazione infragruppo balla l’utile di questa transazione, cioè
la differenza tra il ricavo finale (100) ed il costo della materia prima (10) attraverso cui quella materia
prima viene acquistata sul mercato. Abbiamo quindi 90 di utile, che sono oggetto dell’accordo
infragruppo tra la controllata e la controllante.
Le politiche aggressive di TP sono strutturate in modo tale da far sì che il prezzo della transazione
infragruppo tra 1 e 2 sia determinato in modo tale che l’utile venga allocato nello stato A o B a
seconda delle convenienze. Supponiamo che A sia uno stato in cui si pagano poche imposte sul
reddito delle società, mentre B sia uno stato ad alta fiscalità per le imprese. È probabile che la scelta
del gruppo sia quella di spostare i 90 nello stato dove si pagano meno imposte. All’impresa 1 conviene
vendere all’impresa 2 al prezzo più alto possibile perché in questo modo il grosso del prezzo lo
abbiamo allocato nello stato A, a bassa fiscalità, ed invece lo stato B avrà un alto costo da dedursi. In
questo modo la transazione cha ha un utile di 90 è costruita in modo tale che la parte preponderante

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dell’utile, se non tutto, sia allocato nello stato A a bassa fiscalità, attraverso una manipolazione del
prezzo infragruppo. La politica del gruppo è questa! Siccome le imprese 1 e 2 non sono soggetti
indipendenti si può decidere di porre un prezzo tale da realizzare questo obiettivo.
Tuttavia abbiamo qui due soggetti potenzialmente interessati a questa transazione: l’AF dello stato A
e l’AF dello stato B. La prima non ha niente da dire, perché la maggior parte dell’utile relazziato
viene a costituire base imponibile in A e quindi viene tassato in A. Chi invece ha da lamentarsi è l’AF
dello stato B (ad alta fiscalità) perché vede la società distributrice 2 che abbatte in deduzione la sua
base imponibile in modo elevato. Cosa può fare, allora, l’AF dello stato B? Può provare a dimostrare
che in realtà quella transazione tra A e B è una transazione drogata dal fatto che A e B sono
appartenenti allo stesso gruppo, e se invece fossero imprese indipendenti non sarebbe mai stato
praticato quel prezzo di 90 ma un prezzo diverso, tendenzialmente più basso (50). Supponiamo che
l’AF riesca a provare che il prezzo giusto non è 90 ma è 50. Significa che per l’AF dello stato B,
l’impresa 2 si è dedotta un costo eccessivo, fuori mercato. Qui allora entra quel discorso del
disconoscimento del prezzo non in linea con il mercato: l’AF dello stato B può sostenere che in realtà
l’impresa 2 ha dedotto un costo troppo elevato e che invece sarebbe stato giusto che si deducesse solo
il costo corretto, il costo di libera concorrenza, pari a 50. In questo modo può essere rideterminata la
base imponibile della società 2, ed allora la base imponibile diventerà 50. Abbiamo quindi un
incremento della base imponibile in B e quindi una maggiore tassazione nello stato B.
Questa rettifica è soltanto a fini fiscali. È una rettifica che serve ad allineare il prezzo di questa
transazione infragruppo al prezzo che sarebbe stato praticato tra imprese indipendenti in condizioni
di libero mercato. L’AF dello stato che in qualche modo vede diminuire la sua base imponibile per
effetto della transazione infragruppo ha interesse a ricostruire il vero prezzo di mercato di quella
transazione per capire se può essere recuperata una certa base imponibile ad imposizione. Come fa,
di solito, l’AF dello stato B a ricostruire quello che sarebbe dovuto essere il corretto prezzo di
mercato? Il più delle volte l’AF si avvale di banche dati internazionali che raccolgono dati di bilancio
a livello europeo e globale e, attraverso una serie di stringhe, si selezionano le imprese comparabili e
si calcola a quanto queste imprese indipendenti avrebbero fatto pagare quel bene o quel servizio e si
fa semplicemente un confronto.

Il principio della libera concorrenza è e rimane anche dopo il Beps il principio fondamentale intorno
a cui ruotano le analisi di TP, negli ultimi tempi, specie con riferimento all’economia digitale, è messo
sempre più in discussione. Nell’economia digitale, però, spesso un confronto non è possibile: la
transazione ha af oggetto beni, servizi immateriali che sono unici e quindi il confronto è
ontologicamente impossibile. Per non mettere nel nulla la disciplina del TP, in questi contesti cresce
l’interesse per forme di ripartizione forfettaria dell’utile globale del gruppo tra le varie imprese situate
in singoli stati (il c.d. metodo del formulary apportionment: della ripartizione sulla base di un dato
statistico dell’utile complessivo tra i vari stati). Alla luce di questo tanti dicono che il principio della
libera concorrenza sia un principio in crisi, che tra poco venga superato. Ancora però i progetti sono
arenati. E lo stesso OCSE, nel progetto Beps, ribadisce la stella polare nella disciplina e nella
regolamentazione del TP deve continuare ad essere il riferimento al prezzo di libero mercato ed al
prezzo di libera concorrenza. Questo è il principio espresso nell’art. 9 par. 1 del modello OCSE.
Laddove ci siano due imprese appartenenti al medesimo gruppo e nelle transazioni reciproche queste
imprese sono vincolate da condizioni imposte e diverse da quelle che sarebbero state convenute tra
imprese indipendenti, gli utili che in mancanza di queste condizioni sarebbero stati realizzati da una
delle imprese ma che a causa di queste condizioni, non sono stati realizzati, possono essere inclusi
negli utili di questa impresa e tassati di conseguenza. Questo è un caso nel quale il potere di uno stato
di sottoporre ad imposizione una base imponibile prescinde dal fatto che quella base imponibile sia
stata realmente realizzata, anzi. Di fatto nel TP la rettifica da parte di un’AF si riferisce ad una base
imponibile che sicuramente non è stata realizzata, perché quel pagamento di 90 c’è stato per davvero,
però solo a fini fiscali si ha la possibilità di ricostruire un reddito diverso che naturalmente non è un
reddito effettivamente realizzato.

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Questo riferimento che fa l’art. 9 par. 1 del modello OCSE alla condizioni che sarebbero state
convenute da imprese indipendenti, richiede uno sforzo notevole: richiede che sia data la prova di
quello che sarebbe stato il prezzo giusto di quella transazione laddove fosse stata posta in essere tra
soggetti indipendenti. Occorre porre in essere un metodo matematico, statistico, che ci consenta, data
la transazione tra le parti dello stesso gruppo, di calcolare il prezzo di quella transazione ipotetica
laddove le parti non fossero appartenute al medesimo gruppo ma fossero tra loro indipendenti.
I metodi sono numerosi: l’OCSE stesso non dà la preferenza all’uno o all’altro metodo. L’idea
dell’OCSE è che bisogna utilizzare il metodo più adatto al caso concreto. Deve essere l’operatore a
scegliere il metodo più adeguato. Non esiste una gerarchia di metodi. Nella pratica, laddove possibile,
sia le imprese sia l’AF preferiranno fare ricorso al metodo del confronto: il metodo che consente di
confrontare direttamente il prezzo praticato tra le imprese infragruppo ed il prezzo praticato sulla
stessa transazione nel libero mercato tra imprese indipendenti. Il metodo del conforto è il più
semplice! Il metodo nel confronto, però, non sempre è possibile: ci sono ambiti nei quali non può
esserci un confronto perché non c’è una transazione che possa avere ad oggetto quel bene tra soggetti
indipendenti. Si dovrà allora ricorrere agli altri metodi prescritti dall’OCSE. Fin dove è possibile si
deve provare a seguire la strada più semplice: quella del confronto del prezzo. È bene sottolineare la
distinzione tra confronto interno e confronto esterno: il confronto interno è quello che piace di più
perché è quello più semplice. Nel nostro esempio l’impresa 1 vende quello stesso bene a B e vende
quel medesimo bene ad X, che è soggetto indipendente. Se c’è una discrepanza tra il prezzo che A
pratica al terzo indipendente ed il prezzo che per lo stesso bene pratica a B, che appartiene allo stesso
gruppo, vuol dire che c’è qualcosa che non va. È quindi di facile individuazione ed è di facile prova.
Altrimenti se questo non accade, si può ricorrere al metodo del confronto esterno: la società A vende
solo alla consociata B ed allora devo andare a cercare sul libero mercato se quello stesso bene è
venduto e a quale prezzo tra soggetti indipendenti X e Y. Naturalmente non bisogna pensare che il
metodo del confronto sia davvero così semplice, ma anche il metodo del confronto interno non è così
banale: se vendo a 20 quel bene al soggetto indipendente e vendo a 50 ad un soggetto appartenente al
medesimo gruppo, vuol dire che sto abusando del prezzo di trasferimento. Ma non è detto che sia
così! Il prezzo è una variabile, un indicatore importante ma quello che conta è anche ciò che sta dietro
quel prezzo. Ci possono essere delle condizioni di vendita diverse tra la transazione verso il soggetto
appartenente al medesimo gruppo e la transazione verso il soggetto indipendente. Il bene potrebbe
non essere identico. Vendo a condizioni contrattuali diverse: pensate alla politica di reso. Se vendo
ma mi accollo il rischio di invenduto, venderò ad un prezzo più alto; se invece vendo e traslo il rischio
di invenduto sul soggetto acquirente, posso vendere ad un prezzo più basso.
Ci sono moltissime variabili in una transazione che devono essere tenute in considerazione. Il prezzo
è sicuramente un profilo da cui può emergere il sospetto che quella transazione sia artefatta, ma poi
bisogna scavare nelle precise condizioni di vendita. Questo ruota intorno al principio dell’analisi
funzionale: per capire la congruità o meno del prezzo tra la transazione infragruppo e la transazione
tra soggetti indipendenti, devo andare a capire nelle due transazioni quali sono le funzioni svolte tra
chi vende e chi acquista, quali sono i rischi che si ripartiscono tra chi vende e chi acquista e di chi è
la proprietà dei beni utilizzati per compiere la transazione. A seconda di come questi profili vengono
ripartiti tra cedente ed acquirente, può cambiare la configurazione della transazione.

Sciogliamo un nodo riguardo alla doppia imposizione. È evidente che il meccanismo descritto con il
nostro esempio è un meccanismo che così descritto porta con sé inevitabilmente una situazione di
doppia imposizione. Vediamo perché —> A vende a B ad un prezzo di 90. A tassa quei ricavi, al
netto dei costi, nel suo stato di residenza. A sua volta B, che ha ricavi per 100, scomputerà dai ricavi
il costo pagato alla sua controllante (90) e sottoporrà ad imposizione la differenza che è pari a 10. Se
l’AF dello stato B rettifica il prezzo di trasferimento e contesta a B il fatto che si sia dedotta un costo
sproporzionato, l’AF dello stato B recupererà ad imposizione un pezzo di utile. Disconoscendo
l’imposizione pari a 90 e dicendo che la situazione massima consentita è pari a 50, la differenza la

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sottoponiamo ad imposizione. Abbiamo un pezzetto di base imponibile che viene assoggettata per la
prima volta, in virtù di questa rettifica, nello stato B. Se la situazione rimane questa, avremo una
situazione di doppia imposizione economica (da ricordare la differenza tra doppia imposizione
giuridica e doppia imposizione economica. La prima è quella nella quale lo stesso reddito è tassato
due volte in capo allo stesso soggetto; la doppia imposizione economica è quando la stessa ricchezza
è tassata due volte in capo a soggetti diversi). Abbiamo un recupero nello stato A, ma se non accade
niente nello stato A, in A quello stesso ricavo che viene in parte recuperato nello stato B è già stato
tassato in capo alla società. La stessa grandezza, già tassata integralmente in A, viene nuovamente
tassata in B per effetto del disconoscimento parziale del costo che B può dedursi per effetto della
rettifica del prezzo di trasferimento.
La doppia imposizione non è ovviamente un meccanismo piacevole, in quanto ostacola il commercio
internazionale e la libera circolazione dei fattori produttivi all’interno dell’Ue. Occorreva quindi un
aggiustamento, un meccanismo che consentisse di riequilibrare questa situazione che, in conseguenza
della rettifica da TP effettuata nello stato B, si era disarticolata. Qual è allora il meccanismo pensato
per venire al risultato di riequilibrio? Il meccanismo è quello dell'aggiustamento compensativo:
laddove c’è stata una rettifica di TP che ha aumentato la base imponibile in uno dei due stati coinvolti
(nel nostro esempio nello stato B), il primo stato dovrà provvedere ad una rettifica di pari importo ma
di segno opposto in modo da sgravare di una parte dell’imposizione in capo al soggetto A ed eliminare
la doppia imposizione che si è verificata per effetto di maggiore imposizione realizzata sul soggetto
B. Se nel nostro esempio la transazione di libero mercato è stata considerata di lavoro pari a 50 nello
stato B e quindi il costo deducibile è stato ridotto in capo a B a 50, allora per eliminare questa doppia
imposizione anche lo stato A dovrà considerare che il ricavo assoggettabile in capo ad A non è 90 ma
50. Allora c’è un recupero, un rimborso di imposta che lo stato A deve garantire alla società A in
modo da consentire che il recupero in A pareggi il maggiore esborso effettuato in B. Nella logica del
gruppo si ha quindi un sostanziale equilibrio e quindi si elimina la doppia imposizione.
È proprio il meccanismo degli aggiustamenti compensativi che troviamo nel par. 2 dell’art. 9 del
modello OCSE: “Allorché uno Stato contraente include tra gli utili di un’impresa di detto Stato — e di
conseguenza assoggetta a tassazione — gli utili sui quali un’impresa dell’altro Stato contraente è stata
sottoposta a tassazione in detto altro Stato, e gli utili così inclusi sono utili che sarebbero stati realizzati
dall’impresa del primo Stato se le condizioni convenute tra le due imprese fossero state quelle che si sarebbero
convenute tra imprese indipendenti, allora l’altro Stato farà un’apposita correzione dell’importo dell’imposta
ivi applicata su tali utili. Tali correzioni dovranno effettuarsi unicamente in conformità alla procedura
amichevole di cui all’articolo 25 della presente Convenzione”. Se lo stato B ha recuperato un’imposta su
quella transazione, vuol dire che lo stato A dovrà rimborsare ad A una parte delle imposte già pagate.
È sempre un effetto solo fiscale, perché agli altri fini quel bene è stato venduto effettivamente a 90
tra A e B, ma a fini fiscali se lo staro B rettifica il prezzo di trasferimento da 90 a 50, allora anche lo
stato A dovrà rettificare in senso inverso in modo tale da ripristinare l’equilibrio spezzato, per evitare
fenomeni di doppia imposizione internazionale.
L’ultimo pezzetto di questa norma è significativo perché dice che tali correzioni, quindi gli
aggiustamenti conservativi, dovranno effettuarsi unicamente in conformità alla procedura amichevole
di cui all’art. 25 della presente Convenzione.
Ciò che è importante dire è che la procedura amichevole è l’unico strumento per effetto del quale si
può realizzare l’aggiustamento compensativo, non c’è alcun automatismo. Ciò vuol dire che se lo
stato B rettifica il prezzo di trasferimento e recupera una certa imposizione allora automaticamente
lo stato A deve fare l’aggiustamento compensativo. Questo non può essere perché altrimenti
significherebbe violare la sovrana uguaglianza degli stati a livello internazionale. Lo stato A sarebbe
costretto a rettificare la sua imposta sulla base della decisione dell’AF di un altro stato. L’idea è
quindi: sì aggiustamenti compensativi ma solo al termine della procedura amichevole! Quindi al
termine di una procedura in cui anche lo stato A possa dire la sua e dove lo stato A possa verificare
che quella rettifica effettuata dallo stato B sia davvero una rettifica a valore di mercato. Questo perché
le ricostruzioni delle amministrazioni finanziarie potrebbero divergere. E la procedura amichevole è
proprio lo strumento attraverso cui le due amministrazioni finanziarie dialogano.
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Il meccanismo dell’aggiustamento compensativo lo troviamo anche nel nostro ordinamento fiscale:
all’art. 31-quater del dpr 600/73, introdotto nel 2015, si trova la possibilità per l’Italia di abbassare la
propria pretesa sull’impresa del gruppo italiano laddove l’AF dell’impresa del gruppo appartenente
all’altro stato abbia effettuato una rettifica del prezzo di trasferimento, ma solo all’esito di una
procedura amichevole.

Questa esigenza di aggiustamento compensativo e quindi di trovare una soluzione al fenomeno della
doppia imposizione economica è qualcosa di molto sentito a livello europeo. L’assenza di un
aggiustamento compensativo, e quindi la realizzazione di una doppia imposizione economica,
ostacola il funzionamento del mercato interno e va quindi contro le finalità dell’Ue. E qui c’è il
principio della obbligatorietà al termine della procedura amichevole di procedere all’aggiustamento
compensativo è stata per la prima volta affermata nell’Unione europea dalla Corte di Giustizia nella
sentenza SGI del 2010 dove è stato espressamente detto che laddove l’AF di uno stato membro
preveda una rettifica da TP, e quindi aumenti la base imponibile dell’impresa del gruppo in quello
stato, allora l’AF dell’impresa del gruppo residente nell’altro stato membro con cui c’è stata la
transazione contestata, deve procedere ad un aggiustamento compensativo. L’idea è che tutto resta
nelle mani del legislatore delle amministrazioni finanziari nazionali e non potrebbe essere
diversamente perché la fiscalità diretta è ancora prevalentemente nelle mani degli stati membri e non
dell’Ue. Qui l’assenza di un aggiustamento compensativo avrebbe effetti negativi sulla tenuta del
mercato comune, della libertà di circolazione dei fattori produttivi all’interno dell’Unione europea e
quindi è un settore in cui l’Ue ha grande interesse di intervenire.
Su questo tema dell’aggiustamento compensativo nell’Ue da molto tempo esistono degli strumenti
normativi che regolamentano la procedura amichevole tra gli stati membri laddove si sia dinanzi a
rettifiche per TP. L’Ue si è dotata di questi strumenti sin dal ’90 con la Convenzione di Arbitrato del
23 luglio 1990 perché, siccome gli aggiustamenti compensativi devono essere garantiti per tutelare il
mercato comune ma poiché l’aggiustamento compensativo si può realizzare solo al termine di una
procedura amichevole, ecco l’esigenza dell’Ue di dotarsi di un proprio meccanismo di procedura
amichevole che potesse sostenere questo sforzo volto ad evitare la doppia imposizione economica
come conseguenza di una rettifica da TP. La Convenzione di arbitrato del 23 luglio 1990 riguarda
esclusivamente le controversie da Transfert Pricing, quindi sulla necessità o opportunità di realizzare
un aggiustamento compensativo.
Tutt’oggi la convenzione di arbitrato è in vigore ma accanto ad essa è stata introdotta una direttiva
del 2017 che ha disciplinato la procedura di risoluzione amichevole delle controversie fiscali tra stati
membri, non solo in materia di transfert pricing ma su qualsiasi altra materia. Quindi oggi abbiamo
due strumenti separati che si occupano di questo fenomeno:
• La Convenzione da arbitrato solo in materia di TP;
• La Direttiva del 2017, a portata più ampia ma utilizzabile ed utilizzata anche per le controversie in
materia di TP;

Profilo probatorio: individua chi tra i soggetti coinvolti ha l’onere di provare la sussistenza delle
circostanze che possono far scattare la normativa del TP. Abbiamo capito come funziona il TP e come
funzionano le misure che gli stati possono mettere in campo per reagire nei confronti di forme
aggressive di TP, ma il tema che affrontiamo qui è chi deve provare cosa nell’ambito di una
contestazione da TP. Laddove l’impresa A del gruppo abbia venduto il bene all’impresa B ad un
prezzo di 90, se c’è la possibilità di provare che quel prezzo non è di mercato, chi deve provare è l’AF
dello stato B che deve provare che il prezzo pagato di 90 è un prezzo esorbitante e che il costo giusto
per quel bene era di 50. Quindi l’onere della prova, in prima battuta, grava sul’AF. Ma questa cosa
deve provare l’AF? Qual è l’oggetto della prova che l’AF deve dare per giungere a quella rettifica del
prezzo praticato tra le imprese appartenenti al medesimo gruppo?

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Ci sono due profili sicuri di prova. L’amministrazione finanziaria dovrà provare:
1. Che la transazione è avvenuta tra due imprese appartenenti al medesimo gruppo;
2. Che quel prezzo non sia un prezzo di mercato. Dovrà provare a ricostruire, attraverso le banche
dati e l’analisi funzionale, un prezzo alternativo che per l’AF fungerà da parametro per giudicare
la congruità del prezzo praticato tra le imprese dello stesso gruppo;
3. C’è un possibile terzo elemento di prova per l’AF, possibile perché la sussistenza dell’onere
probatorio in capo all’AF dipende da come si intende il fenomeno del TP. Se si interpreta la
disciplina TP come una disciplina anti-abuso, si dovrà provare che c’è un vantaggio indebito.
Quindi che quel prezzo non di mercato ha fatto sì che si realizzasse un abbassamento complessivo
del carico fiscale, perché il prezzo ha consentito di spostare la base imponibile verso una
giurisdizione a fiscalità più bassa. Se, invece, si sposa la tesi dominante per cui il TP non ha una
funzione anti-abuso e quindi si può contestare il prezzo di trasferimento anche se si ha a che fare
con una giurisdizione con carico fiscale paragonabile a quello dello stato di partenza, non c’è
bisogno della prova del risparmio di imposta. Basta che ci sia una transazione infragruppo ad un
prezzo non di mercato. Se invece si sostiene che il TP abbia una funzione anti-elusiva, allora c’è
un ulteriore onere probatorio in capo all’AF di dimostrare il vantaggio fiscale.

È ovvio che l’aspetto più complicato della prova che grava sull’AF è sicuramente quello della
ricostruzione del prezzo del libero mercato. Questa operazione è complessa in concreto: non è solo
una questione di prezzo praticato ma anche una questione di circostanze concrete contrattuali che
hanno caratterizzato quella transazione. Spesso l’AF non ha accesso ai documenti contrattuali delle
imprese del gruppo che sono riservati, e quindi la visuale dell’AF rischia di essere profondamente
limitata. Il che può essere un vantaggio per l’impresa ma che in realtà rischia di essere un boomerang:
non è che se l’AF non ha tutti gli elementi si ferma e non fa la verifica, ma se ritiene che quel prezzo
non sia di mercato, la rettifica la fa e spesso la fa senza avere chiaro tutto il contesto.
Per evitare queste situazioni, può essere interesse dell’impresa precostituirsi una documentazione
interna che possa spiegare all’AF perché si è praticato quel prezzo, quali sono le caratteristiche
peculiari di quella transazione infragruppo che giustificano il prezzo praticato e rendono non
comparabile quella operazione infragruppo con qualsiasi altra transazione che potrebbe rinvenirsi tra
soggetti indipendenti sul libero mercato.
Quindi è vero che l’onere della prova prevalentemente grava sull’AF, ma c’è un onere probatorio
sussidiario in capo all’impresa che serve per fornire:
a) già in corso di verifica all’AF la documentazione che consenta di non prendere dei granchi;
b) in caso di contestazione, serve a fornire la prova contraria, cioè che quella contestazione
dell’ufficio non può essere accolta perché ci sono caratteristiche specifiche della transazione che
dimostrano che il prezzo giusto è quello effettivamente praticato e non quello ricostruito a
tavolino dall’AF.

C’è una sentenza recente del 2019 della Corte di Giustizia (sentenza Hornbach) che consente di
capire in cosa può consistere questa prova contraria che è chiamata a dare l’impresa a seguito di una
rettifica da TP. Era il caso di un gruppo multinazionale nel quale una società controllata era in crisi
finanziaria ed economia ed aveva bisogno di liquidità. Non riusciva però a reperire finanziamenti dal
mondo bancario perché era una situazione davvero difficile. Il finanziamento l’ha dato la capogruppo
senza interessi, quindi un finanziamento non fruttifero. L’AF dello stato della capogruppo che ha dato
il finanziamento ha fatto una rettifica: tu capogruppo hai finanziato la tua controllata, e siccome tutti
i finanziamenti portano con sé la corresponsione di interessi da parte del soggetto finanziato, recupero
in capo alla controllante che ha erogato il finanziamento un imponibile pari all’interesse che di solito
sarebbe stato praticato tra soggetti indipendenti. Avevamo una rettifica ma è stata consentita la prova
contraria, per cui la capogruppo finanziante ha dimostrato che c’era un interesse di gruppo non fiscale
che questa operazione avvenisse senza remunerazione degli interessi. La capogruppo ha dimostrato
che nessuno era disposto a fare credito alla controllata, e che se non l’avesse fatto lei, la controllata

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sarebbe fallita ed il fallimento della controllata avrebbe generato effetti negativi a catena su tutto il
gruppo, e quindi anche sulla controllante. La Corte di Giustizia ha detto che questa è una valida prova
contraria. L’idea è che la prova contraria può anche consistente nell’ammettere che quella transazione
non è avvenuta a prezzi di mercato ma nel giustificare questo scostamento con ragioni particolari, in
questo caso con ragioni attinenti al gruppo nel suo complesso.

Il profilo della documentazione predisposta dal contribuente è un profilo importante, che è stato
valorizzato in seno al Beps nell’ottica di una leale collaborazione tra AF e contribuente. L’idea
dell’OCSE è —> sebbene non possa essere imposto un obbligo di predisporre e consegnare
documentazione all’AF che serva a giustificare i prezzi praticati all’interno del gruppo, sarebbe bene
che questi documenti fossero predisposti sia per prevenire delle liti, sia perché l’AF possa svolgere il
suo lavoro che è quello di controllare la correttezza della transazione e, laddove si renda conto che la
transazione è corretta, non procedere ad alcun tipo di recupero. Quindi l’OCSE si è soffermata a lungo
su una descrizione del livello minimo di questa documentazione. In particoalre, l’OCSE distingue
due set documentali:
• Il Master file: è la documentazione riepilogativa di tutta la politica di TP del gruppo e quindi
dovrebbe essere creato e conservato dalla società capogruppo.
• Il country file: la documentazione paese per paese. Per ogni paese dove c’è una controllata, si
predispone una documentazione che si concentra sui caratteri di quell’impresa, delle transazioni
che quell’impresa pone in essere con altre imprese del medesimo gruppo in altre giurisdizioni.
Consente quindi di ricostruire le singole transazioni che interessano i vari ordinamenti dove si
trovano le società controllate.

L’idea è che il rapporto tra AF e contribuente dovrebbe essere improntato alla collaborazione
preventiva, quella che si svolge prima che l’AF effettui una rettifica e che serve proprio ad evitare
che l’AF faccia una rettifica. Si suppone che con questa documentazione l’impresa possa chiarire
all’AF i suoi dubbi e quindi evitare una rettifica.

Sul profilo degli oneri documentali l’Italia si è mossa da tempo nella direzione sperata dall’OCSE.
Dal 2010, infatti, il legislatore italiano ha introdotto un meccanismo che prevede dei vantaggi per
l’impresa del gruppo che accolga e conservi la documentazione idonea a giustificare i prezzi intra-
gruppo praticati, ma che segnala anticipatamente all’AF il fatto di aver predisposto e conservato
questa documentazione. In sostanza, la normativa vuole che nella dichiarazione annuale dei redditi
l’impresa appartenente al gruppo internazionale barri una casellina all’interno della dichiarazione che
corrisponde proprio alla dichiarazione di aver predisposto la documentazione master-file e country-
file relativa ai prezzi di trasferimento e di metterla a disposizione dell’AF nel momento in cui si
aprisse un controllo nei confronti della stessa impresa.
Qual è il vantaggio che il legislatore riconosce all’impresa quando tiene questo comportamento
trasparente? Se poi si apre una verifica che porta ad una rettifica da TP, ci sarà il recupero di imposta
con gli interessi ma non potranno essere applicate le sanzioni, la c.d. penalty protection. Essa si
giustifica con il fatto che, in questo caso, l’impresa è stata leale, trasparente, collaborativa e che ha
addirittura comunicato in anticipo la predisposizione della comunicazione, prima di sapere che ci
sarebbe stato un controllo nei suoi confronti. Questo è un comportamento diligente e di buona fede
che il legislatore italiano ha deciso di premiare.
Nel tempo questa norma, entrata in vigore nel 2010, ha subito un po’ di remore da parte delle imprese,
non tanto nel predisporre la documentazione, quanto a darne la comunicazione preventiva all’AF
perché l’idea era che, barrando la casella, il controllo fosse ovvio ed automatico, parva quasi una sorta
di chiamata all’AF. Addirittura molti imprenditori e molte imprese preferivano non tenere la
contabilità.

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Profilo procedimentale: attiene alla cooperazione internazionale tra gli stati. Il TP, ed in particolare
le rettifiche da TP, chiamano inevitabilmente una cooperazione tra AF. Il TP è per sua natura una
disciplina che coinvolge almeno due stati, quello dove si trova l’impresa A e quello dove si trova
l’impresa B appartenenti al medesimo gruppo. Per consentire alle AF di ricostruire nel modo più
corretto l’intera transazione è necessario che entrambe le amministrazioni finanziarie abbiano una
visione corretta non solo delle caratteristiche di quella transazione interna al loro ordinamento ma
anche le caratteristiche nell’altro ordinamento, occorre una visione d’insieme che si può attuare solo
attraverso uno scambio di informazioni, di cooperazione costante tra le amministrazioni finanziarie
dei due stati. È interessante che il progetto Beps abbia introdotto un meccanismo Country-by-Country
Reporting (CbCR) che non è altro che una forma di scambio automatico tra le AF dei vari stati della
documentazione sui prezzi di trasferimento (master file e country file). Questa documentazione viene
automaticamente scambiata con tutte le amministrazioni finanziarie degli stati nei quali il gruppo ha
delle imprese, in modo tale che la ricostruzione della politica di TP del gruppo che si evince da questa
documentazione venga condivisa tra tutte le AF interessate e che quindi si realizzi quel fenomeno di
visione di insieme della transazione, che è appunto l’obiettivo di questa cooperazione. Questo
scambio di informazioni avviene con cadenza annuale, in modo tale che questa documentazione possa
circolare.

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