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Diritto Tributario Internazionale

03/05/2021
Torniamo al nostro tema, siamo a parlare di CFC, di società estere controllate. Il
percorso che abbiamo fatto la scorsa settimana ci ha portato a prendere le mosse
dall’ambito internazionale, abbiamo visto come l’OCSE e il progetto BEPS abbiano
preso in considerazione solo in parte i regimi di CFC. Non c’è una disciplina OCSE
onnicomprensiva ma l’OCSE si è limitata solo ad alcuni profili rilevanti ed in
particolare, da una parte, per quello che riguarda l’estensione e l’ampliamento della
portata della funzione di controllo e, dall’altra, la conferma che i regimi CFC
nazionali tendenzialmente dovrebbero applicarsi a quelle situazioni nelle quali il
reddito in capo alla controllata è inferiore ad una certa soglia che, però, l’OCSE
non definisce e non da un’indicazione univoca in questo senso lasciando questo
compito agli stati.

L’altra volta ci eravamo lasciati sull’approccio europeo alla disciplina CFC, abbiamo
abbandonato l’ambito internazionale ed abbiamo cominciato a concentrarci su quello
europeo con la precisazione che anche l’UE si è mossa, negli ultimi anni, tenendo
conto delle elaborazioni internazionali. C’è comunque un’influenza dei lavori del
BEPS anche negli approcci dei lavori della Commissione europea, ma abbiamo
anche detto che l’UE si sta muovendo anche autonomamente perché rispetto a queste
normative c’è da salvaguardare la tenuta di una serie di principi fondamentali, in
particolare le libertà fondamentali. Nell’intervenire nella materia delle CFC e
comunque nel far propri gli indirizzi internazionali, l’UE lo sta facendo in chiave
parzialmente autonoma perché ci sono da rispettare una serie di principi validi
nell’ordinamento europeo e rispetto ai quali l’OCSE, invece, è del tutto slegata. Per
affrontare l’approccio europeo al tema delle CFC abbiamo preso le mosse da
un’importante sentenza della Corte di Giustizia che è quella Cadbury Schweppes
del 2006. Avevamo cominciato ad inquadrare i principi importanti che possono
essere tratti da questa sentenza. Intanto avevamo provato a focalizzare i passaggi
argomentativi della Corte che, in prima battuta, va a verificare se la normativa interna
(si trattava della normativa CFC del Regno Unito) costituisce una violazione della
libertà di stabilimento e poi, in caso di risposta affermativa, va a vedere se questa
normativa possa essere giustificata richiamando delle esigenze cd. imperative cioè
quelle che lo stato ritiene esistenti e che sono talmente importanti da consentire
eccezioni ed una deroga rispetto alla salvaguardia delle libertà fondamentali, nel caso
di specie della libertà di stabilimento.

Riprendiamo il testo della sentenza. In prima battuta la Corte riconosce che la


normativa CFC del Regno Unito costituisce una limitazione della libertà di
stabilimento perché realizza una disparità di trattamento tra le imprese del Regno
Unito che o controllano altre imprese residenti nel Regno Unito o controllano
imprese in altri stati membri a fiscalità ordinaria, rispetto a quelle società inglesi che
controllano una società posta nell’ International Financial Center di Dublino che, non
pagando imposte sul proprio reddito, comporta la tassazione per trasparenza del
proprio reddito in capo alla controllante inglese . La prima verifica, quindi, che la
Corte di Giustizia fa è che effettivamente la disciplina CFC inglese sembra
violare la libertà di stabilimento. È interessante quello che viene detto nel paragrafo
46 della sentenza, dove si dice che la normativa inglese CFC è atta ad ostacolare
l’esercizio della libertà di stabilimento rispetto a società che vogliano collocare la
propria controllata in un territorio dove si pagano poche imposte, dissuadendole dal
costituire, acquisire o mantenere una controllata, in un altro stato membro, che
applichi queste aliquote basse. Qui c’è il tema della dissuasione: la libertà di
stabilimento è violata quando una normativa fiscale interna, come questa, comporta
un trattamento deteriore rispetto a contribuenti che vogliano stabilirsi in un certo stato
piuttosto che in un altro e quindi dissuade dall’esercitare la libertà di stabilimento. In
questo senso è un ostacolo alla circolazione delle società, così come dei fattori
produttivi. La prima verifica, se la normativa CFC è in contrasto con la libertà di
stabilimento, da esito positivo.

Verificato che effettivamente la normativa interna si pone in contrasto con la libertà


fondamentale, allora la Corte va a verificare se questo contrasto possa essere in
qualche modo giustificato. Nel paragrafo 47, infatti, la Corte dice che una
restrizione può essere ammessa solo per ragioni imperative di interesse generale.

Passiamo alla seconda fase dell’argomentazione della Corte che si rifà a quella che
era l’argomentazione del Governo inglese che sosteneva che questa normativa, pur
essendo in contrasto con la libertà fondamentale, si potesse giustificare perché
(paragrafo 48) serve per combattere una forma particolare di evasione fiscale
consistente, per una società residente, nel trasferire fittiziamente utili dallo stato
membro in cui sono stati realizzati ad uno stato membro a basso livello impositivo,
creando qui una controllata e concludendo operazioni destinate principalmente a
permettere un tale trasferimento a vantaggio della controllata. L’idea del Regno
Unito era che la normativa è legittima perché corrispondesse ad un interesse
essenziale dello stato inglese che è quello di evitare l’evasione fiscale che si può
realizzare quando una società residente interpone una controllata che si trova in uno
stato a bassa fiscalità nella quale vengono fatti confluire gli utili, che in assenza di
questa società interposta sarebbero confluiti immediatamente nel reddito tassabile
della società inglese e quindi assoggettati ad imposizione secondo le regole interne.
La giustificazione dello stato inglese ruotava intorno all’esigenza di preservare il
gettito, la base imponibile tassabile nel Regno Unito evitando fenomeni di
collocazione dei redditi in uno stato a bassa/nulla fiscalità (come era l’Irlanda).
Qui vengono in considerazione una serie di osservazioni che vengono effettuate dalla
Corte che sono talmente importanti da travalicare la materia di cui ci stiamo
occupando (quella delle CFC), perché la Corte afferma espressamente che il fatto di
esercitare una libertà fondamentale, quella di circolazione all’interno dell’UE, anche
solo per cercare un trattamento fiscale più favorevole è qualcosa di legittimo. Il
principio è che, nell’ambito dell’UE, le imprese, i contribuenti possono circolare in
modo tale da trovare la situazione fiscalmente più conveniente ed efficiente. Su
questo punto c’è una serie di paragrafi (35, 36, 37 della sentenza) dove si esprime
questo principio che dice, con riferimento alla libertà di stabilimento, che la
circostanza che la società sia stata creata in uno stato membro per fruire di una
legislazione più vantaggiosa, non costituisce per questo solo motivo un abuso della
libertà di stabilimento ( paragrafo 37). Questo è un principio molto importante
perché afferma la libertà di un imprenditore di uno stato membro di andarsene e
strutturare la propria attività in altri stati membri anche soltanto alla ricerca di un
vantaggio fiscale.

In questo contesto, però, la Corte non dice che qualsiasi tipo di insediamento in un
altro stato membro che comporti un vantaggio fiscale è legittimo, perché quello che
conta, ai fini del giudizio di legittimità o meno di questo insediamento e quindi ai fini
del giudizio di legittimità o meno della normativa CFC interna, sta nel fatto che la
libertà fondamentale, che viene invocata, sia stata effettivamente esercitata
oppure no.
Nel paragrafo 54 della sentenza la Corte dice che l’obiettivo della libertà di
stabilimento è quello di garantire l’esercizio effettivo di una attività economica, per
una durata di tempo indeterminata, mercè l’insediamento in pianta stabile in un altro
stato membro. La libertà di stabilimento presuppone un insediamento effettivo della
società interessata nello stato membro ospite e l’esercizio quivi di un’attività
economica reale. Unendo questa precisazione a quella che la Corte aveva fatto
qualche paragrafo prima rispetto alla legittimità della ricerca di un trattamento fiscale
migliore, qual è il principio che emerge? Emerge che, da un lato, è legittimo che
un’impresa si insedi in un altro stato membro per averne (anche solo) un
vantaggio fiscale ma, dall’altro, occorre che quell’insediamento sia un
insediamento effettivo cioè che l’impresa si collochi davvero in quell’altro
ordinamento e insedi una base attraverso la quale esercitare la sua attività di impresa
e quindi si può dire che quell’impresa ha esercitato la sua libertà fondamentale.
Paragrafo 55 è fondamentale perché ci dice che, ne consegue che , perché sia
giustificata la lotta a pratiche abusive, una restrizione alla libertà di stabilimento
deve avere lo scopo specifico di ostacolare comportamenti consistenti nel creare
costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica e finalizzate ad
eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio
nazionale. Il discrimine, quindi, tra corretto esercizio della libertà di stabilimento o
abuso della libertà sta nel fatto che nello stato, dove l’impresa dichiara di volersi
trasferire o di costituire una controllata, devono verificarsi delle circostanze di
effettiva esistenza di attività imprenditoriale di quella società tali da giustificare
l’invocazione della libertà di stabilimento; se invece queste condizioni mancano
allora vuol dire che la libertà di stabilimento è stata esercitata fittiziamente, solo sulla
carta ed è stata esercitata solo per avere quel vantaggio fiscale.
Questo concetto di <<costruzione puramente artificiosa>> è quello intorno al quale
ruota il giudizio che la CdG dà sulla correttezza o meno della normativa CFC inglese.
Allora come si va a verificare questo profilo (che la libertà di stabilimento sia stata
realmente esercitata)?
Nel paragrafo 64 e ss. ci dice che ci devono essere degli elementi oggettivi,
verificabili dai terzi, che mostrino questo insediamento effettivo cioè che mostrino
che l’impresa è davvero presente nell’ordinamento di destinazione. In particolare,
paragrafo 67, si deve andare a guardare il livello di presenza fisica della società
controllata in termini di locali, di personale e di attrezzature. Se la controllata,
nell’International Financial Center di Dublino ha degli uffici, dei beni strumentali
attraverso i quali può svolgere la sua attività allora vuol dire che la controllante ha
davvero esercitato la libertà di stabilimento e quindi non può essere applicata una
normativa che neghi questo esercizio imputando, per trasparenza, alla controllante i
redditi della controllata. Questo significherebbe disconoscere l’esercizio della libertà
fondamentale.

Questa sentenza è molto importante perché richiama una disciplina CFC interna
(Regno Unito) ma alcuni dei principi che si trovano in essa espressi vanno oltre.
Pensiamo alla ricostruzione della genuinità dell’esercizio della libertà
fondamentale, che può essere verificata attraverso la presenza di locali, di
dipendenti, di asset e di rapporti finanziari nello stato di destinazione, che può essere
valorizzata anche con riferimento alla residenza fiscale. Se si vuole giudicare della
effettività della RF di un ente, che si è stabilito secondo le leggi di un altro stato
membro, potrebbe aver senso andare a verificare la sussistenza in quell’ordinamento
proprio di questi elementi di inserimento (locali, uffici, dipendenti, rapporti
economici, ecc).
È un principio che va oltre la disciplina CFC, tanto è vero che lo citavamo la scorsa
settimana in una recente ordinanza della Corte di Cassazione, proprio in tema di sede
dell’amministrazione e quindi di RF, che ha richiamato la sentenza Cadbury
Schweppes e ne ha valorizzato questo profilo riguardante l’indicazione delle
caratteristiche e delle circostanze di inserimento in un certo ordinamento che possono
giustificare l’attribuzione della residenza.
In base alla sentenza Cadbury Schweppes c’è l’idea che le normative interne in tema
di CFC, laddove la controllata risiede in un altro stato membro e quindi sia all’interno
dell’ambito applicativo del diritto dell’UE, l’attribuzione del reddito per trasparenza
alla controllata sia giustificata solo laddove si provi (la prova deve essere data
dall’AF) che quella controllata è stata posta in quell’ordinamento non in modo
genuino ma solo sulla carta e solo per avere un vantaggio fiscale cioè di poter godere
di quel fenomeno del tax deffereal che è tipico dei regimi di CFC.
D’altra parte questa ricostruzione della Cadbury Schweppes mette in evidenza un
doppio regime per gli stati membri:
- un regime ordinario che riguarda controllate situate al di fuori del territorio dell’UE
rispetto alle quali questi limiti non si possono applicare e quindi il legislatore
nazionale è libero di delineare i propri regimi di CFC con il solo rispetto delle linee
guida elaborate in ambito OCSE;
- dall’altro lato abbiamo i casi di CFC dove la controllata è situata in un altro stato
membro in cui il legislatore nazionale incontra dei limiti più stringenti nel dettare le
regole del proprio sistema CFC perché c’è da salvaguardare la libertà fondamentale e
quindi da rispettare i principi che emergono da tale sentenza.
Tanto è vero che l’ordinamento italiano, che originariamente prevedeva un regime
CFC indifferenziato, dopo la Cadbury Schweppes ha modificato la norma (articolo
167 TUIR) prevedendo due regimi separati: un regime CFC che vale per tutto il
mondo e un regime CFC che vale solo per le controllate situate all’interno
dell’UE che si applica subordinatamente alla verifica delle condizioni Cadbury
Schweppes (cioè al fatto che la controllata sia una costruzione di puro artificio).
Oggi questo regime è stato modificato perché non esiste più un doppio binario poiché
è intervenuta l’approvazione della direttiva ATAD da parte dell’UE.

È stato importante partire dalla Cadbury Schweppes nel descrivere le caratteristiche


dell’approccio europeo nel regime CFC per varie ragioni:

1. La sentenza Cadbury Schweppes ha fatto scuola, è una sentenza


importantissima e non si può prescindere dall’analisi di tale sentenza;
2. È stata proprio questa sentenza che ha influenzato la Commissione dell’UE e
l’ha spinta a proporre un approccio nuovo ai regimi CFC attraverso la direttiva
ATAD;
3. Inoltre perché questa vicenda dei regimi CFC e della giurisprudenza della CdG
ci consente di toccare con mano una delle caratteristiche del sistema europeo
delle fonti di diritto tributario che è quello dell’importanza della giurisprudenza
della Corte di Giustizia.

Abbiamo detto tante volte che, nel sistema UE, la fiscalità diretta resta ancora
appannaggio degli stati membri salvo quei pochi casi nei quali il Consiglio ha potuto
deliberare, sulla base dell’articolo 115 TFUE, adottando delle cd. direttive di
ravvicinamento cioè delle direttive che cercassero di eliminare le differenze più
evidenti tra le legislazioni nazionali degli stati membri, che se non fossero state
eliminate avrebbero messo in crisi la concorrenza e il mercato comune. Abbiamo
anche detto che questi casi di adozione di direttive di ravvicinamento in materia di
imposte indirette sono rarissimi, ce ne sono 4 di direttive già adottate perché possono
essere adottate solo all’unanimità, condizione che ben difficilmente può essere
realizzata.

Era in considerazione il ruolo della CdG che è un ruolo importantissimo perché è


vero che decide e risolve il caso concreto, quindi la singola controversia che le viene
sottoposta. Nel caso della sentenza Cadbury Schweppes la controversa riguardava la
materia inglese in tema di CFC e quindi l’effetto vincolante della sentenza si
produceva solo nei confronti di questa normativa, solo nei confronti del legislatore
del Regno Unito che, per effetto della sentenza, ha dovuto mettere mano alla sua
normativa CFC in modo tale che venissero eliminate quelle forme di incompatibilità
con la libertà di stabilimento che veniva in evidenza. Sotto questo punto di vista,
quindi, le sentenze della Corte di Giustizia hanno un’efficacia vincolante molto
limitata. Ma è anche vero che, in realtà, le sentenze della CdG hanno una portata non
formale ma sostanziale molto più ampia del singolo caso concreto perché tutti gli
altri stati membri, che hanno delle normative interne analoghe a quella oggetto di
censura da parte della CdG, hanno l’interesse ad adeguarsi a quella giurisprudenza,
non perché ci sia un obbligo formale ma perché c’è la consapevolezza che se non si
mette mano a queste normative c’è il pericolo che in un futuro la CdG censuri anche
quella normativa. Tanti stati, pur non essendone tenuti, hanno modificato la
normativa interna in tema di CFC-> si tratta di quel fenomeno che è stato definito di
armonizzazione negativa. Non si tratta di armonizzazione formale attraverso
l’adozione di atti normativi da parte del Consiglio, ma un’armonizzazione sostanziale
fatta attraverso la giurisprudenza della CdG che, nel censurare normative interne alla
luce delle libertà fondamentali, da un esempio a tutti i legislatori degli stati membri
su come quelle normative dovrebbero essere costruite per essere rispettose delle
libertà fondamentali.
[DOMANDA: Abbiamo parlato della sentenza nei confronti di Apple, della non soddisfazione dei
requisiti per gli aiuti di stato e abbiamo fatto riferimento anche a quelle altre armi a disposizione
delle istituzioni europee per cercare di evitare questa concorrenza all’interno dell’UE. Questo della
sentenza Cadbury Schweppes mi sembra uno di quei casi in cui la CdG mette le libertà
fondamentali e la loro attuazione davanti a quelle che sono le esigenze dei singoli stati membri
relative a preservarsi nei confronti di quegli stati che adottano delle politiche fiscali dannose nei
loro confronti. Mi sembra che si crei quella spirale del “tanto più si attuano le libertà fondamentali,
tanto più si finisce di dare il coltello dalla parte del manico a quegli stati che decidono
effettivamente di comportarsi in questo modo”. Secondo lei è stato un atteggiamento ragionato
quello della CdG, cioè si sapeva che si sarebbe andati poi a finire in situazioni come quelle in cui ci
si è ritrovati attualmente (Apple) e si è detto, per una sorta di filosofia europea, attuiamo il più
possibile le libertà e poi ci penseremo dopo e arriverà dopo un’integrazione formale oppure ci si è
ritrovati per caso? Tutto questo dando per scontato che la CdG, dal punto di vista giuridico (quel
famoso competence and compliance), non potesse usare la compliance in senso retroattivo per dire
che se la libertà fondamentale si esercita nei confronti di uno stato che però mette in pratica degli
atteggiamenti fiscali dannosi, allora io non riconosco quella libertà
Professore: Questa domanda non è facile e richiederebbe tempo. Probabilmente nessuno sarebbe in
grado di rispondere in modo compiuto, però possiamo fare alcune considerazioni. Lei ha colto un
punto interessante, come decide la CdG? Decide guardando solo ai fogli della controversia oppure
con un occhio ad un contesto più ampio? Restando fermi a questo caso, non dimentichiamo che
questa sentenza è del 2006 quindi prima dello tsunami del 2008-2009 che continua ancora oggi e
che ha cambiato il mondo del diritto tributario europeo ed internazionale mettendo in luce certe
pratiche scorrette di alcune multinazionali e certe forme scorrette di concorrenza davvero aggressiva
anche da parte degli stati membri e una certa pericolosità di un atteggiamento che volesse difendere
senza se e senza ma le libertà fondamentali. Qui siamo prima di tutto questo e quindi rispetto a
questa controversia penso che sia ragionevole dire che davvero la CdG ha deciso sulla base del suo
pregresso orientamento, sulla base dei fatti di causa avendo riguardo solo ai principi di
funzionamento del mercato comune dell’UE, senza porsi problemi ulteriori che non si conoscevano.
La CdG non aveva idea di certe situazioni (ruling), penso che in questa sentenza si sia voluto
affermare il principio della libertà fondamentale che presuppongono la competenza di ciascuno
stato nel darsi delle regole fiscali con il limite dell’abuso, cioè con il limite della situazione nella
quale non sto davvero esercitando la libertà di stabilimento e quindi sto abusando del diritto
dell’UE. Tutto il resto non credo che fosse noto; oggi la situazione è diversa ma anche l’approccio
della CdG è diverso. ]

Andiamo avanti per finire il tema del CFC. Al di là della parentesi sull’importanza
della giurisprudenza della CdG, dicevamo come questa sentenza ha indirizzato le
proposte normative della Commissione che erano già state sollecitate dal progetto
Beps, hanno spinto la Commissione a tener conto, nel trasporre gli indirizzi BEPS
all’interno dell’UE, del fatto che questi indirizzi dovevano essere resi coerenti con gli
indirizzi giurisprudenziali e di fatto con la sentenza Cadbury Schweppes.
L’analisi della direttiva ATAD, in particolare dell’articolo 7, è importante perché ci
mostra come, da un lato, l’UE e la Commissione europea abbiano recepito parte degli
orientamenti sul piano internazionale provenienti dal progetto BEPS (la direttiva
ATAD è del 2016 quindi successiva alla chiusura della prima fase del progetto
BEPS), ma, dall’altro lato, nel formulare questa direttiva l’UE ha anche ricordato e
mantenuto ferme certe posizioni che sono quelle della CdG volte ad enfatizzare le
peculiarità del diritto dell’UE che impediscono un ingresso incondizionato degli
indirizzi BEPS, al contrario ne impongono una rivisitazione proprio per garantire che
questo ingresso di normative nuove avvenga nel rispetto dei principio del diritto UE.

LA DIRETTIVA ATAD
Oggi ci concentriamo sull’articolo 7 (torneremo sull’articolo 6 che è la norma
generale anti abuso) che è una norma, se letta di getto, complicata che richiede uno
sforzo interpretativo non indifferente, a volte ciò è tipico delle norme internazionali
ma in questo caso è dovuto al fatto che si è dovuto sintetizzare in un articolo qualcosa
su cui c’è stato un ampio dibattito fatto di compromessi tra gli stati membri.
Questa disposizione dell’articolo 7 è importante perché, a differenza del progetto
BEPS che da soltanto degli indirizzi agli stati ma non è vincolante, detta i presupposti
del contenuto delle normative CFC con effetto vincolante per gli stati membri ( la
direttiva è un atto normativo vincolante quanto meno nei suoi risultati). L’articolo 7
si suddivide in due parti:
1. La prima, del paragrafo 1, che detta le condizioni in presenza delle quali è
possibile per ciascuno stato membro applicare la normativa CFC e quali sono
le condizioni in presenza delle quali è legittimo applicare la disciplina in tema
di CFC;
2. La seconda parte, paragrafo 2 e ss., che impatta su un profilo applicativo delle
normative CFC cioè è la parte che individua qual è il reddito della società
controllata che deve essere imputato per trasparenza in capo alla società
controllante.

Prima parte: le condizioni; seconda parte: quantum, come si determina l’entità del
reddito attribuibile per trasparenza alla controllante.

Partiamo dal primo dei due profili. Nel primo paragrafo sono indicate le due
condizioni che per l’UE dovrebbero far scattare l’applicazione delle normative
interne in tema di CFC. Sono una prima condizione di carattere soggettivo che
riguarda cioè la nozione di controllo- lettera A del paragrafo 1; l’altra condizione,
sempre di carattere soggettivo, che riguarda l’entità del risparmio di imposta che la
società controllata può realizzare nel proprio ordinamento rispetto all’imposizione
che sarebbe stata applicata nel caso in cui quel reddito fosse stato realizzato
direttamente dalla controllante nel proprio stato di residenza.

Rispetto al tema del controllo, alla lettera A del paragrafo 1 dell’articolo 7 si fa


riferimento a controllo di diritto quindi la società detiene oltre il 50% dei diritti di
voto nell’assemblea della società controllata oppure si valorizza il controllo
economico cioè la società possiede direttamente o indirettamente oltre il 50% del
capitale o ha diritto a ricevere oltre il 50% degli utili della società controllata. C’è una
nozione ampia di controllo, oltre al controllo di diritto c’è anche quello economico
che riguarda la partecipazione al capitale o la partecipazione agli utili, però è una
forma di controllo più ristretta, almeno apparentemente, di quella che abbiamo visto
nel progetto BEPS. Nel progetto BEPS si valorizza la nozione di controllo di fatto
cioè quelle situazioni nelle quali la società non ha nell’altra società né il controllo di
diritto, né la maggioranza del capitale, né la maggioranza degli utili, ma in virtù di
accordi para sociali di fatto può avere il controllo della maggioranza dei voti in
assemblea.

Qui non c’è una definizione di controllo di fatto, è una nozione ampia di controllo ma
sicuramente più ristretta rispetto a quella che emerge dal BEPS. Probabilmente l’idea
del legislatore europeo è stata quella di dare maggiore certezza a questa definizione,
delineare in modo più possibile e certo i confini di questa nozione di controllo, perché
inevitabilmente andare nella direzione della valorizzazione del controllo di fatto,
essendo nozione sfuggente, avrebbe dato qualche elemento di incertezza rispetto a
questa definizione. Quello che emerge è un quadro piuttosto chiaro per quanto
riguarda la nozione di controllo.

Secondo requisito è quello dell’entità della tassazione a cui è sottoposta la società


controllata nel proprio ordinamento, rispetto alla tassazione che quella società, se
fosse stata residente nello stato della controllante, avrebbe scontato su quel medesimo
reddito. La forma è un po’ barocca ma l’idea è che deve essere verificata la
condizione per cui la società controllata sia assoggettata ad una imposizione reale ed
effettiva sui propri redditi inferiori di oltre il 50% rispetto a quella imposizione che
sarebbe stata scontata su quei medesimi redditi nello stato della controllante.
L’imposizione della controllata è minore di oltre il 50% rispetto a quello che si
avrebbe nello stato della controllante sul medesimo reddito. CONFRONTO tra
imposta effettivamente pagata dalla controllata con quella che avrebbe pagato nello
stato della controllante, se la prima è meno della metà della seconda allora la
condizione è rispettata e quindi è legittima l’applicazione della normativa CFC.
Da un punto di vista dei presupposti sono due, siamo molto vicino all’approccio
BEPS, occorre:
1. Una nozione di controllo in termini ampi ma senza il controllo di fatto;
2. Un sensibile abbassamento della pressione fiscale in capo alla controllata per
poter risparmiare oltre il 50% di quello che avrebbe pagato nello stato della
controllante.
Se queste condizioni sono entrambe soddisfatte è legittima l’applicazione della
normativa interna che applica la tassazione per trasparenza in capo alla
controllante; se queste condizioni non sono rispettate tendenzialmente le
normative interne, in tema di CFC, non possono operare.
Veniamo al secondo profilo che è un po’ più complicato, riguarda il quantum cioè
quanta parte del reddito della controllata può essere imputato per trasparenza
in capo alla controllante e qui l’articolo 7 non prevede un’unica soluzione ma
prevede due opzioni, lascia la libertà al legislatore del singolo stato membro di
scegliere una o l’altra soluzione. Le troviamo alla lettera A e lettera B del paragrafo
2; il fatto che si tratti di due soluzioni alternative, la cui scelta è lasciata alla libertà di
ciascun legislatore nazionale, è confermata dalla congiunzione “o” tra la lettera A e la
lettera B. Per la commissione dell’UE sono due soluzioni poste sullo stesso piano
quindi è il legislatore nazionale che può scegliere.
Come funzionano? Il primo meccanismo (quello della lettera A) limita la
determinazione del reddito da attribuire per trasparenza alla controllante solo a quei
redditi della controllata che rientrano in una delle categorie previste dalla lettera A.
La lettera A prevede una serie di redditi: interessi, canoni, dividendi, redditi da
attività assicurativa o bancaria; la società controllata potrebbe avere questi e altri
redditi, ma l’idea di questa prima opzione è che solo i redditi che rientrano in una di
queste categorie possono essere oggetto di imputazione per trasparenza in capo alla
controllante. Sono i cd. redditi di natura passiva cioè redditi che non richiedono né
un’organizzazione né lo svolgimento di un’attività particolare per poter essere
realizzata (es: gli interessi presuppongono un mero investimento; i canoni
presuppongono la concessione in uso di un bene o di un diritto; i dividendi
presuppongono solo la detenzione di una partecipazione). Sono redditi di natura
passiva perché possono essere percepiti senza bisogno di un’attività
produttiva/industriale; c’è una sorta di presunzione in questa prima opzione per cui
queste tipologie di reddito, proprio perché non coinvolgono un’organizzazione
particolare, laddove vengono collocate in uno stato a bassa fiscalità sono frutto di un
approfittamento e quindi di un abuso. Secondo questo primo approccio solo questi
redditi sono oggetti di attribuzione per trasparenza. Se, per ipotesi, la controllata
possiede interessi, canoni e dividendi e in più possiede dei redditi derivanti da
un’attività industriale solo quest’ultimi sono tassati in capo alla controllata e solo
quelli aventi natura passiva possono essere assoggettati a tassazione per trasparenza
in capo alla controllante.

C’è una precisazione, che è importante sottolineare, alla fine della lettera A del
paragrafo 2 che dice la presente lettera non si applica se la società controllata estera
svolge un’attività economica sostanziale sostenuta da personale, attrezzature attivi e
locali come evidenziato da circostanze e fatti pertinenti. Quindi c’è un’eccezione
perché la tassazione per trasparenza di questi redditi di natura passiva in capo alla
controllante non può operare laddove la controllata abbia queste caratteristiche di
attività e di organizzazione.
<< Svolge un’attività economia sostanziale sostenuta da personale, attrezzature,da
attivi e locali come evidenziato da circostanze e fatti pertinenti>>, cosa vi fa venire
in mente questa formula? Riprende quasi le parole della sentenza appena vista,
sembra che ci stia rifacendo in modo diretto senza filtri alla sentenza Cadbury
Scweppes. L’idea è che se si prova che la controllata è realmente insediata nel suo
stato, ha degli asset, dei beni, delle attività, delle strutture allora questa imputazione
per trasparenza non si applica, non è una società di merito ma è un’attività
sostanziale.

Passiamo alla seconda opzione. Qui l’articolo 7 prevede la possibilità di imputare per
trasparenza in capo alla controllante tutti i rediti della controllata, qualunque ne sia
la natura sia che si tratti di redditi passivi sia che si tratti di redditi di altro tipo,
laddove questi redditi derivino da costruzioni non genuine che sono state poste in
essere essenzialmente allo scopo di ottenere un vantaggio fiscale. Mentre la lettera A
riguarda situazioni in qualche modo che possono essere genuine e che nonostante ciò
danno vita all’imputazione per trasparenza, la lettera B si riferisce a casi patologici
cioè casi nei quali è evidente che siamo in presenza di un abuso. In presenza di un
abuso, qualsiasi reddito posseduto da una società controllata “abusiva” deve essere
ricondotto ad imposizione per trasparenza in capo alla controllante. Anche qui c’è un
richiamo ancora più evidente alla sentenza Cadbury Schweppes che parlava di
<<costruzioni di puro artificio>>, qui si usa una terminologia un po’ diversa perché
si usa <<costruzioni non genuine>> e si tratta di una terminologia e di una diversità
sulla quale si stanno interrogando gli interpreti in attesa che si pronunci la CdG su
questo fatto. Sembra abbastanza sorprendente, nel momento in cui si vuole andare a
trasporre nella direttiva l’indirizzo giurisprudenziale della Cadbury Schweppes, che
non si usi la stessa terminologia della Corte. Questa diversità ha alimentato tante
interpretazioni, alcuni dicono che è lo stesso concetto della Cadbury Schweppes ma
detto con termini diversi, mentre altri dicono che se la Commissione nell’adottare
l’ATAD avesse voluto davvero rifarsi alla giurisprudenza della CdG avrebbe usato la
stessa terminologia, il fatto di aver usato una terminologia diversa legittima
un’interpretazione diversa di questo concetto.
È qualcosa di ancora aperto, però a complicare un po’ le cose sta la seconda parte
della lettera B. Non si limita a dire quale sia l’opzione in cui i redditi della controllata
si attribuiscono per trasparenza alla controllante ma, la seconda parte, ci dice che ai
fini di questa lettera una costruzione o una serie di costruzioni è considerata non
genuina nella misura in cui l’entità non possiederebbe gli attivi o non avrebbe
assunto i rischi che generano la totalità o una parte dei suoi redditi se non fosse
controllata da una società in cui le funzioni significative del personale che sono
pertinenti per tali attivi e rischi sono svolte e sono funzionali al fine di generare i
redditi della società controllata.
Si tratta di un’altra espressione un po’ barocca ma in soldoni l’idea è che costruzione
non genuina si ha laddove all’esito di un’analisi funzionale, che prende in
considerazione le funzioni svolte, i rischi assunti, gli asset e i beni utilizzati si
dimostri che quella società controllata, in assenza della controllante, non si sarebbe
mai insediata in quello stato e non avrebbe mai fatto quelle attività che dichiara di
fare perché sarebbe antieconomico. Quindi costruzione non genuina è quella nella
quale la presenza della controllata in quell’ordinamento dipende solo dal fatto che
dietro di essa c’è una controllante che si assume i rischi, che fornisce i beni e gli asset
necessari per il compimento di quell’attività. Senza il supporto della controllante una
qualsiasi società indipendente non avrebbe avuto interesse economico a svolgere
quell’attività, con quelle funzioni e in quello stato membro.

Si valorizza un’analisi funzionale ed è un passaggio che complica un po’ le idee


perché leggendo solo la prima parte della lettera B qualcuno ha l’idea che si stia
parlando davvero delle <<costruzioni di puro artificio>> della Cadbury Schweppes,
però la norma poi prosegue e ci mostra che per verificare una costruzione non
genuina bisogna fare un’analisi funzionale che è qualcosa di diverso rispetto a quello
che diceva la Cadbury Schweppes. Quest’ultima diceva che la costruzione di puro
artificio la si verifica andando a vedere i locali, i dipendenti, le attrezzature e i
rapporti economici; mentre qui la verifica sembra essere diversa perché riguarda
un’analisi funzionale per cui ci potrebbero anche essere quelle funzioni, quegli asset e
quei dipendenti ma bisogna andare a vedere se un normale imprenditore li avrebbe
posti in quell’ordinamento in assenza del supporto della controllante. Questo è
qualcosa che un po’ complica l’interpretazione perché sembra che ci stiamo
allontanando dall’orientamento della Cadbury Schweppes, oltre al fatto che l’analisi
funzionale è tipica di un regime di transfert pricing quindi è nata in un contesto dove
l’abuso non è detto che ci sia. È una situazione non del tutto chiara che desta qualche
perplessità rispetto alla sua effettiva coerenza con il modello Cadbury Schweppes che
il legislatore europeo dichiara espressamente di voler trasporre nelle norme
dell’ATAD.

Comunque sia il paragrafo 2 della direttiva ATAD pone due situazioni alternative che
si occupano di come debba essere attribuito il reddito della controllata, per
trasparenza, in capo alla controllante; operano a valle della verifica, a monte, della
sussistenza dei requisiti previsti dal paragrafo 1 (controllo e tassazione inferiore della
metà).

C’è un’ultima norma dell’articolo 7 che si trova nel paragrafo 3 ed è la regola dei cd.
minimis che riguarda una delle due opzioni che è quella della lettera A e ci dice che
il singolo stato membro è libero di non applicare la tassazione per trasparenza nei
casi di modesta entità che sono quelli nei quali il reddito di fonte passiva, prodotto
dalla controllata, è inferiore ad 1/3 dei redditi complessivi della controllata
medesima. Se la controllata fa redditi passivi che rientrano nell’elencazione della
lettera A e altri redditi, se i redditi passivi sono pochi cioè sono meno di 1/3 rispetto
ai redditi complessivi allora siamo in situazione poco rilevante secondo la direttiva
ATAD e quindi gli stati restano liberi di non applicare la disciplina CFC.

Qui abbiamo un quadro nel quale a differenza di quello che emerge dal progetto
BEPS dove da un lato ci sono solo sollecitazioni, suggerimenti agli stati e dall’altro si
toccano solo alcuni temi ma abbastanza circoscritti, qui abbiamo, da un lato una
disciplina abbastanza pervasiva che riguarda non solo i presupposti in presenza dei
quali si può attivare la tassazione per trasparenza ma anche il calcolo del reddito
attribuibile per trasparenza e, soprattutto, siamo in presenza di una normativa
vincolante per gli stati membri ancorché le varie opzioni siano lasciate alla libera
scelta del legislatore nazionale. È solo l’opzione A o l’opzione B che è oggetto di
scelta, non c’è scelta oltre a questo e quando si sceglie l’una o l’altra opzione
tendenzialmente bisogna prendere il pacchetto intero cioè la disciplina detta sul punto
dalla direttiva ATAD deve essere rispettata.

Può aver senso allora andare a vedere come gli stati membri hanno recepito questa
direttiva prendiamo come riferimento il nostro ordinamento.
Articolo 167 TUIR nella versione vigente. Se vediamo la vicenda da un punto di vista
storico, l’articolo 167 è cambiato molto dalla sua introduzione ed è cambiato proprio
per tenere conto delle modifiche che si sono avute sul piano internazionale ed in
particolare su quello europeo. L’articolo 167, quando è stato introdotto per la prima
volta negli anni ’90 del secolo scorso, era una norma innovativa cioè una norma per
le quali l’ordinamento italiano si era mosso in anticipo rispetto agli altri ordinamenti,
il legislatore italiano aveva mostrato lungimiranza; però la disciplina CFC nella
versione originaria del 167 era molto diversa da quella che abbiamo oggi e che
risente di tutto ciò che è successo negli ultimi anni. L’articolo 167, nella sua versione
originaria, aveva una portata circoscritta nel senso che consentiva l’applicazione della
tassazione per trasparenza solo nei casi in cui la controllata si collocasse in un
paradiso fiscale, in uno stato black list. Quando abbiamo parlato delle liste italiane
abbiamo detto che ci sono varie liste nere e una di queste è quella collegata al regime
CFC, nel senso che solo laddove la controllata fosse residente in uno degli stati della
black list CFC poteva scattare l’applicazione della tassazione per trasparenza. La lista
nera CFC era costruita con riferimento al solito doppio requisito quello della bassa
imposizione fiscale e quello opacità e quindi non trasparenza, non collaboratività
dell’ordinamento, dove si trovava la controllata, quindi è ovvio che nessuno stato
europeo era menzionato nella black list. Di fatto, quindi, nella sua versione originaria
l’articolo 167 riguardava solo i casi extra europei cioè i casi di controllata stabilita in
stati extra europei.
Questo primo approccio è cambiato dopo il 2009 quando, da un lato, ci si è resi conto
che c’era questa giurisprudenza Cadbury Schweppes nel contesto dell’UE che non
poteva essere ignorata e, dall’altro lato, con gli effetti dello scoppio della crisi
economica globale ci si era resi conto che bisognava mettere mano a queste
normative CFC perché si trattava di intercettare una delle forme di pianificazione
fiscale aggressiva più diffusa al livello internazionale tra le multinazionale.
Così è stata introdotta una modifica all’articolo 167 che è quella del doppio regime,
di cui un regime CFC che si applicava alle controllate extra UE residenti in uno stato
black list e l’altro regime delle controllate dentro l’UE, stabilite in un altro stato
membro dell’unione, rispetto alle quali il legislatore del 167 richiamava i criteri del
Cadbury Schweppes quindi il principio della costruzione di puro artificio.
Questo che sembrava un punto di approdo stabile in realtà è durato poco perché il
legislatore nel 2018 è tornato ad intervenire sulla struttura dell’articolo 167 in sede di
trasposizione della direttiva ATAD. Nel momento in cui la direttiva ATAD e quindi
anche l’articolo 7 è stato recepito nel nostro ordinamento allora il legislatore ha
modificato nuovamente l’articolo 167. Quindi il testo che abbiamo oggi è una norma
che dovrebbe rispecchiare in modo fedele le indicazioni dell’UE, in particolare la
struttura dell’articolo 7 della direttiva ATAD. Se andiamo a leggere l‘articolo 167, ci
rendiamo conto che molti dei caratteri presenti nell’articolo 7 della direttiva ATAD
sono presenti per esempio la definizione di controllo, che troviamo nel comma 2
dell’articolo 167, comprende, così come richiede il paragrafo 1, sia il controllo di
diritto e sia il controllo economico. Anche qui seguendo l’esempio ATAD con
esclusione dei casi valorizzati in ambito BEPS del controllo di fatto.

Vediamo qual è stata la scelta del legislatore italiano tra lettera A e B del paragrafo 2
dell’articolo 7 dell’ATAD, la scelta sembra essere stata almeno apparentemente
quella della prima opzione cioè quella relativa ai redditi di natura passiva. Infatti, se
leggiamo il comma 4 dell’articolo 167 ci dice che la disciplina del presente articolo
si applica se i soggetti controllati non residenti integrano congiuntamente le seguenti
condizioni:
a) Condizione del livello di tassazione, inferiore di oltre il 50% di quella che si
sarebbe avuta se fosse stata residente in Italia;
b) Oltre 1/3 dei proventi realizzati dalla controllata rientra in una o più delle
seguenti categoria e abbiamo l’elencazione delle varie tipologie di reddito
passivo.

La scelta del legislatore italiano è stata nel senso di scegliere la via della lettera A
del paragrafo 2 dell’articolo 7 dell’ATAD(quella dei redditi passivi). Per come inizia
la lettera B del paragrafo 4, il legislatore italiano ha anche fatto propria la regola dei
minimis perché dice “oltre 1/3 dei proventi” il che significa che, se questi proventi da
redditi passivi della società controllata sono inferiori ad 1/3 dei redditi complessivi
della società controllata, il regime di imputazione per trasparenza non opera.

Qualche problema interpretativo sorge con riferimento al comma 5 perché ci dice che
le disposizioni del presente articolo non si applicano (non si applica la tassazione
per trasparenza) se il soggetto di cui al comma 1, residente in Italia controllante,
dimostra che il soggetto controllato non residente svolge un’attività economica
effettiva mediante l’impiego di personale, attrezzature, attivi e locale. C’è un
richiamo espresso a quella prova contraria che è prevista dalla direttiva ATAD, però
proprio perché è una formula vaga, questa dell’attività economica effettiva (prova
non facile da dare se la società controllata svolge per esempio solo detenzione di
partecipazioni o quant’altro, il livello di dipendenti, sedi ecc può non essere limitato)
per facilitare le cose il legislatore ha previsto la possibilità di interpello-> interpello
preventivo cioè la società italiana, prima di presentare la dichiarazione dei redditi
alla quale sarebbe tenuta a inglobare i redditi passivi della controllata, può presentare
interpello all’A, rappresentando la situazione, e avendo il punto di vista dell’AF
rispetto all’applicazione o meno di questa esimente (attività economica non effettiva).
Non è un obbligo presentare interpello. La controllata italiana potrebbe non
presentarlo, potrebbe ritenere di essere nella situazione nella quale si applica il
comma 5, rinviando al momento di un eventuale accertamento il contraddittorio con
l’ufficio. L’interpello rimane comunque uno strumento utile per dare certezza e per
evitare qualche sorpresa che può derivare dalla diversa posizione dell’AF.
Quindi la scelta del legislatore è stata quella di lasciare da parte questa formula un
po’ ambigua della costruzione non genuina, rispetto ai precedenti della CdG, e virare
con decisione verso la prima delle due opzioni.
Se proseguiamo nell’analisi dell’articolo 167 vediamo che il comma 6 ci dice come si
deve determinare il reddito delle controllata non residente in capo alla
controllante. Si deve ricostruire quel reddito sulla base delle norme fiscali italiane,
quindi non importa come è stato determinato il reddito in capo alla controllata sulla
base delle sue regole perché, in realtà, il reddito imputabile per trasparenza è quello
che sarebbe tassato se fosse stato prodotto in Italia. Bisogna applicare ai ricavi e ai
costi della controllata le regole dell’ordinamento italiano.

Ci sono altri 2 profili interessanti nei commi 9 e 10 dell’articolo 167. Il primo è lo


strumento che consente di eliminare la doppia imposizione economica, nel caso
in cui su quel reddito la controllata abbia assolto un’imposta nel suo stato di
residenza, per evitare che l’imputazione per trasparenza in capo alla controllante
italiana generi una doppia imposizione, è consentita la fruizione da parte della
controllante italiana di un credito imposta.

L’altro profilo applicativo interessante è (comma 10) che l’imputazione per


trasparenza comporta che il reddito della controllata è tassato in capo alla controllante
a prescindere dalla distribuzione di quel reddito come dividendo, quindi se nell’anno
2020 la controllata produce reddito che viene attribuito per trasparenza in capo alla
controllante italiana, se nel 2021 la controllata distribuisce l’utile corrispondente a
quel reddito c’è il rischio di una doppia imposizione (lo stesso reddito della
controllata è tassato prima per trasparenza e poi al momento della distribuzione degli
utili). Questo non è possibile ed infatti il comma 10 dice che, una volta effettuata la
tassazione per trasparenza, quando successivamente il reddito già tassato viene
distribuito dalla controllata alla controllante allora quella distribuzione è esente dal
punto di vista impositivo. L’onere fiscale connesso a quella distribuzione è già stato
adempiuto per trasparenza.
L’ultimo profilo interessante è di tipo procedurale, che troviamo anche in altre
normative di DTI previste dal legislatore italiano, lo troviamo al comma 11 che ci
dice che l’AF quando ritiene che ci sia un reddito della controllata che avrebbe
dovuto essere tassato per trasparenza in capo alla controllante, prima di emettere
l’avviso di accertamento, deve invitare la controllante italiana al contraddittorio
perché deve dare la possibilità alla controllante stessa di fornire la prova che siamo in
una di quelle situazioni che non consentono l’imputazione per trasparenza. Per
esempio se la controllante italiana non si è avvalsa del diritto di interpello di cui al
comma 5, quando l’AF fa la verifica e ritiene che le condizioni ci fossero per
imputare per trasparenza il reddito, prima di notificare l’avviso di accertamento deve
aprire il contraddittorio con la società italiana controllante e deve dare la possibilità di
spiegare perché ha ritenuto di essere in presenza della situazione di esenzione e
perché, in particolare ha ritenuto che l’attribuzione per trasparenza non operasse in
quanto il soggetto controllato non residente svolge un’attività economica effettiva
mediante l’impiego di personale, attrezzature, attivi e locali. Questo contraddittorio o
lo si fa prima con l’interpello su iniziativa dell’impresa controllante italiana o lo si fa
dopo su iniziativa dell’AF. Se l’AF non ritiene che le spiegazioni date dalla
controllante italiana siano convincenti, procede alla notifica dell’ADA ma dovrà
motivare dando atto del perché non ha ritenuto che queste spiegazioni fossero
convincenti. Il rispetto di queste procedure (invito preventivo e motivazione
rafforzata) sono previste a pena di nullità, quindi se non sono rispettate l’eventuale
ADA non è legittimo e non produce effetto.
Con questo abbiamo completato la disamina della disciplina CFC. Domani ci
concentreremo su una generalizzazione di quello che abbiamo detto fino ad oggi in
cui abbiamo visto due esempi di condotte abusive delle multinazionali e delle
normative di contrasto a queste condotte abusive. Abbiamo analizzato delle
normative di contrasto molto puntuali costruite con riferimento le une al caso
specifico del transfert pricing e le altre al caso specifico di CFC. Il rischio delle
normative puntuali è quello di essere efficaci per quegli eventi ma non di applicarsi a
fattispecie un po’ diverse. Da qui l’esigenza di introdurre delle forme di reazioni
generalizzata che sia applicano a qualsiasi tipo di condotta che abbiano le
caratteristiche dell’abuso.

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