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CAPITOLO VIII

LA DISCIPLINA DELLA CONCORRENZA

Concorrenza perfetta e monopolio


Dando un’occhiata al mercato attuale ci rendiamo conto che l’offerta di beni e servizi non è riservata ad una
sola impresa anzi ve ne sono molteplici che garantiscono gli stessi beni o gli stessi servizi. Queste imprese
agiscono quindi in concorrenza tra di loro cioè cercando di attrarre il più possibile clientela dalla loro parte.
Il modello ideale di funzionamento del mercato sarebbe la concorrenza perfetta; un mercato in cui nessuna
impresa può condizionare il prezzo delle merci vendute, in cui non ci sono ostacoli per le nuove imprese
che intendono fare il loro ingresso, in cui vi è un libero movimento dei fattori produttivi e soprattutto un
mercato in cui il giudice assoluto della gara è il consumatore che i orienta in base alla qualità e al prezzo
migliore del prodotto
La concorrenza perfetta è quindi un modello ideale e perfetto: è un modello ideale perché spinge verso una
riduzione dei costi d produzione e dei prezzi di vendita perché non sono condizionati ne condizionabili dalle
imprese; è un modello perfetto perché assicura la naturale eliminazione dal mercato delle imprese meno
competitive quindi stimola il progresso tecnologico e l’accrescimento dell’efficienza produttiva.
Purtroppo la concorrenza perfetta rimane, però, solo un modello teorico perché il reale mercato è molto
lontano da un regime di concorrenza perfetta ed anzi, nella realtà quotidiana si vengono spesso a creare
situazioni di oligopolio cioè di un mercato caratterizzato dal controllo dell’offerta da parte di poche grandi
imprese ce si accrescono enormemente e ostacolano l’ingresso di nuovi operatori.
Inoltre queste grandi imprese, piuttosto che esporsi ad una incerta competizione cercando di prevalere
sulle altre preferiscono accordarsi stipulando intese volte a limitare la reciproca concorrenza (intese con le
quali si predetermina il prezzo, la quantità da produrre,la quota spettante a ciascuna di esse ecc).
Si altera profondamente così il regime di concorrenza poiché una’impresa o una piccola coalizione di grandi
imprese arriva anche al punto di controllare l’intera offerta di un dato prodotto, si crea una situazione di
monopolio di fatto.
È chiaro che in queste circostanze diventa forte l’esigenza di un intervento del legislatore perché è vero si
che le intese tra le imprese non per forza alterano il regime concorrenziale e che anzi possono essere
positive perché, soprattutto in periodo di crisi, possono evitare le sovra produzioni che il mercato non è
capace di assorbire e ridurre i costi, ma è anche vero che se non controllate possono degenerare in
situazioni monopolistiche.
Quindi il legislatore cerca di trovare un punto di incontro tra l’ideale modello della concorrenza perfetta e la
concreta realtà orientata a situazioni di oligopolio o monopolio.
La legge italiana a tal proposito parte dal presupposto che nel nostro stato va tutelato il principio della
libertà della concorrenza ex art 41 cost “L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in
contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa
essere indirizzata e coordinata a fini sociali”
Partendo da questo principio, però, essa :
- consente limitazioni legali della libertà di concorrenza per fini di utilità sociale ed anche la creazione
di monopoli legali in specifici settori di interesse generale;
- consente limitazioni negoziali della concorrenza che, però, non compromettano fortemente la
libertà di iniziativa economica;
- assicura l’ordinato e corretto svolgimento della concorrenza attraverso la repressione degli atti di
concorrenza sleale.
Per lungo tempo il sistema italiano della concorrenza è stato sprovvisto di una normativa antimonopolistica
che invece iniziava a essere presente in tutti gli altri Stati sul modello statunitense dello Sherman act (la
legge federale contro i monopoli).
Questo vuoto fu parzialmente colmato con l’introduzione della disciplina antitrust dettata dai trattati
istitutivi della comunità economica europea ma essa aveva una copertura solo del mercato comune
europeo e non anche di quello interno perciò il problema continuo a sussistere fino alla legge 287/1990,
recante norme per la tutela della concorrenza del mercato.

LA LEGISLAZIONE ANTIMONOPOLISTICA
La disciplina italiana e comunitaria
Dunque nell’analisi della disciplina che l’ordinamento dedica alla concorrenza, occorre innanzitutto far
riferimento alla normativa antimonopolistica.
Come abbiamo detto, in Italia nonostante fosse avvertita da tempo la necessità di una disciplina
antimonopolistica rimase un vuoto normativo fino al 1990.
In questo frangente si è collocata la disciplina comunitaria, che è stato per l’Italia il primo passo verso una
normativa in materia.
Il principio cardine della disciplina comunitaria è che la libertà di iniziativa economica r la competizione fra
imprese non possono pregiudicare la struttura concorrenziale del mercato.
Quindi la disciplina comunitaria è volta a preservare il regime concorrenziale del solo mercato comunitario
e reprimere le pratiche anticoncorrenziali che pregiudicano il commercio fra stati membri.
Questo principio è stato recepito anche dalla legislazione antimonopolistica italiana, la L 287/1990 volta a
preservare il regime concorrenziale del mercato nazionale e a reprimere i comportamenti
anticoncorrenziali che incidono solo sul mercato italiano e non anche comunitario nel quale opera invece la
disciplina comunitaria e vigilate dalla Commissione europea che, in alcuni casi si serve delle autorità
nazionali.
In effetti la L287 ha, infatti, istituito un organo- l’Autorità garante della concorrenza e del mercato- che
vigila sul rispetto della disciplina antimonopolistica nel mercato italiano irrogando, in caso di violazioni,
sanzioni amministrative e pecuniarie previste dalla legge. All’Autorità è concesso vigilare anche nel settore
bancario prima riservato a Banca d’Italia e nel settore assicurativo; qui, però, per poter intervenire deve
previamente sentire l’Ivass l’istituto di vigilanza nel settore assicurativo.

Le singole fattispecie
Le pratiche anticoncorrenziale che le discipline nazionali ed europee cercano di reprimere sono
essenzialmente 3:
1. le intese restrittive della concorrenza
2. l’abuso di posizione dominante
3. le concentrazioni
Per quanto riguarda la prima pratica anticoncorrenziale occorre, innanzitutto, dire che per intese restrittive
della concorrenza si intendono i comportamenti tra imprese (anche attraverso organismi comuni come
consorzi, associazioni ecc) volti a limitare a propria libertà d’azione sul mercato ad esempio gli accordi con i
quali le imprese fissano dei prezzi uniformi da rispettare sul mercato senza avere la possibilità di
discostarsene.
Non tutte le intese restrittive della concorrenza sono vietate dall’ordinamento però, ad essere vietate sono
quelle che hanno per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare “in maniera consistente” la
concorrenza all’interno del mercato nazionale intero o in una larga parte di esso mentre restano fuori dal
divieto le intese minori, quelle che per la struttura del mercato in cui operano e per gli effetti sull’offerta
che producono, non incidono in modo rilevante sulla concorrenza nel mercato.
Porre in essere una intesa di questo genere, vietata dalla legge, ne comporta la nullità che può essere fatta
valere da chiunque ne abbia interesse. E conseguenza di ciò è che l’Autorità garante può rimuovere gli
effetti anticoncorrenziali prodotti e irrogare le relative sanzioni previste dalla legge.
Se, però, l’Autorità garante si rende conto che si tratta di intese che migliorano le condizioni dell’offerta del
mercato, ed un conseguente beneficio per i consumatori, può concedere esenzioni temporanee dal divieto-
esenzioni che possono essere individuali e cioè riferite ad un preciso accordo oppure riguardare delle intere
categorie di accordi.

Per quanto riguarda, invece, la seconda pratica anticoncorrenziale, per abuso di posizione dominante da
parte di una o più imprese si intende lo sfruttamento abusivo della posizione rilevante assunta dall’impresa
sul mercato al fine di pregiudicare la concorrenza.
Quindi non è vietato avere una posizione dominante sul mercato, quello che è vietato è sfruttarla al fine di
portare pregiudizio al sistema concorrenziale.
Ad un’impresa in posizione dominante è vietato di:
- imporre prezzi o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose;
- impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato per esempio rifiutarsi di
vendere un prodotto ad un’impresa solo perché non fa parte della propria catena di distribuzione ;
- applicare condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti per esempi adottare prezzi
diversi di uno stesso prodotto con un’impresa italiana e una inglese.
Accertata l’infrazione, l’Autorità garante ne ordina la cessazione ed infligge le sanzioni pecuniarie previste
senza eccezioni. In caso di reiterazione può anche disporre la sospensione dall’attività imprenditoriale per
30 gg.
Acanto all’abuso di posizione dominate, oggi è vietato all’impresa dominante anche l’abuso dello stato di
dipendenza economica nel quali si trova un’impresa cliente o fornitrice.
Per dipendenza economica si intende una situazione di squilibrio tra diritti e obblighi nei rapporti
commerciali tra un’impresa dominante ed una cliente o fornitrice.
Se le imprese dovessero stipulare un patto in cui si realizza questo abuso, il patto sarebbe nullo e ne
scaturirebbe il diritto al risarcimento del danno dell’impresa che ha subito l’abuso.
Se l’autorità garante verifica che tale abuso può avere un’incidenza anche sul sistema concorrenziale del
mercato può irrogare le stesse sanzioni che la legge prevede per l’abuso di posizione dominante.
L’ultima condotta anticoncorrenziale presa in considerazione è la concentrazione; si ha concentrazione
tutte quelle volte in cui, usando i più svariati strumenti giuridici, due o più imprese mirano ad ampliare il
loro dominio sul mercato. La concentrazione può essere:
1. concentrazione giuridica quando cioè due o più imprese si fondono dando luogo ad un’unica
grande impresa
2. concentrazione economica quando due o più imprese restano giuridicamente distinte ma
diventano un’unica entità economica ed esercitano insieme un controllo sull’attività produttiva
delle imprese controllate.
3. Impresa societaria comune quando cioè due più imprese indipendenti si uniscono in società
Le concentrazioni non sono aprioristicamente vietate perché sono, anzi, uno strumento di ristrutturazione
aziendale che può accrescere la competitività aziendale.
Diventano pericolose per il sistema concorrenziale di mercato quando superano determinate soglie di
fatturato; perciò è previsto che di queste concentrazioni si debba dare comunicazione all’autorità garante o
alla Commissione europea.
In Italia l’autorità garante valuterà le circostanze e potrà vietare la concentrazione se ritiene che essa possa
alterare il sistema concorrenziale in modo stabile e durevole viste le posizioni già dominanti delle imprese
che intendono fare concentrazione.
Ovviamente se la concentrazione viene ugualmente eseguita la legge prevede delle pesanti sanzioni
pecuniarie( che arrivano fino al 10% del fatturato) che l’Autorità dovrà infliggere ai responsabili oltre che la
rimozione degli effetti prodotti con la concentrazione.
Oppure può autorizzale se esse non risultano essere un rischio per il sistema concorrenziale ma
prescrivendo misure idonee ad evitare tali conseguenze; in realtà la legge consente all’autorità garante,
anche nel caso si concentrazioni vietare, di autorizzarle qualora sia in ballo un interesse di economia
nazionale ovviamente in conformità dei criteri fissati preventivamente dal Governo.

LE LIMITAZIONI DELLA CONCORRENZA


Limitazioni pubblicistiche e monopoli legali
Ora, è vero si che la disciplina antimonopolistica è volta a garantire e tutelare un regime concorrenziale sul
mercato ma è anche vero che è costituzionalmente sancito all’art 41 che “la libertà di iniziativa economica
(e quindi anche la libertà di concorrenza) è disposta nell’interesse generale e non può svolgersi in contrasto
con l‘utilità sociale o in modo da recare un danno ala sicurezza, alla libertà o alla dignità umana”.
Ecco perché sia la Cost che il cc consentono che tali libertà possano essere soppresse o semplicemente
limitate dai pubblici poteri.
L’ipotesi più radicale è quella della soppressione della libertà di iniziativa economica e di concorrenza
attraverso la costituzione di monopoli pubblici e con riferimento a settori predeterminati dalla Cost stessa
(come servizi pubblici essenziali, fonti di energia o a situazioni di monopolio di fatto)
L’art 43 Cost sancisce infatti che “A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire,
mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti
determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia
o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”.
Tuttavia l’ordinamento comunitario, che ormai da tempo è incentrato sulla libera circolazione di beni e
servizi, ha scoraggiato fortemente l’uso di questa limitazione radicale negli Stati membri e soprattutto in
Italia (in ritardo rispetto ai tempi) sono stati aboliti una serie di monopoli (es posta, telefono ecc) ed oggi è
rimasto solo quello sul tabacco.
In ogni caso laddove ci siano questi monopoli, lo stato può esercitato personalmente, o tramite un ente
pubblico o anche tramite un privato cui è stato concesso l’esercizio del monopolio dalla PA, ma nel rispetto
di 2 obblighi:
1. L’obbligo di contrattare con chiunque richieda la prestazione sempre se le richieste sono
compatibili con i mezzi ordinari dell’impresa
2. L’obbligo di parità di trattamento fra i diversi richiedenti. Ovviamente la parità di trattamento non
implica che le condizioni contrattuali debbano essere per forza identiche per tutti gli utenti (il
principio di uguaglianza impone infatti di trattare situazioni uguali in modo uguale e situazioni
diverse in modo diverso) quindi il monopolista potrà prevedere anche tariffe e prezzi diversi per il
bene o i servizio purché i presupposti per tale differenziazione siano predeterminati e purché
chiunque si trovi in quella circostanza poi ne possa godere.

La limitazione della libertà di iniziativa economica e quindi anche della concorrenza può anche non essere
così radicale ma essere parziale.
E’ possibile infatti la redazione di accordi limitativi della libertà di concorrenza 8ecco perché si parla di
limitazione convenzionale) come sancito dall’art 2596 cc che ne detta però una precisa disciplina ed i
requisiti necessari per la validità.
Il patto che limita la concorrenza deve essere provato per iscritto. Esso è valido se circoscritto ad una
determinata zona o ad una determinata attività, e non può eccedere la durata di cinque anni.
Se la durata del patto non è determinata o è stabilita per un periodo superiore a cinque anni, il patto è
valido per la durata di un quinquennio.
Quindi sostanzialmente sono 3 i requisiti di validità:
1. il patto deve essere redatto per iscritto,
2. il patto deve limitare la concorrenza in un preciso ambito territoriale o di una precisa attività,
3. il patto non può avere una durata maggiore di 5 anni e anche se nella pattuizione si introducesse
una durata maggiore l’ordinamento lo considererebbe valido sempre e solo per 5 anni.
Sono patti limitativi della concorrenza i cartelli ed i consorzi anticoncorrenziali con i quali gli imprenditori
possono prevedere impegni reciproci vari (ad esempio un cartello di prezzo è l’accordo tra più imprenditori
che determinano i prezzi di vendita da usare oppure il cartelle di zona è l’accordo tra imprese che si
dividono una zona di distribuzione o il cartello di contingentamento è l’accordo tra più imprenditori sulla
quantità globale di produzione di un prodotto e la quota spettante ciascuno di essi).
Oppure sono frequenti i patti limitativi anche nel rapporto produttore-rivenditore, per es l’accordo a non
rifornirsi da altri produttori.
La disciplina codicistica ha la sola finalità di tutelare il soggetto vincolato d questi atti affinché non sia
totalmente compromessa la sua libertà di iniziativa economica e non di impedire un’alterazione del regime
concorrenziale d mercato e la creazione di monopoli di fatto. Motivo per il quale questa disciplina per molti
anni è stata criticata di ammettere qualsiasi accodo che rispettasse i requisiti di validità senza preoccuparsi
degli effetti sulla concorrenza di mercato per cui oggi sono intervenute alcune modifiche che comunque
fanno si che gli accordi siano vietati quando ricadono nelle fattispecie di intese anticoncorrenziali e abuso di
posizione dominante sul mercato.
LA CONCORRENZA SLEALE
Libertà di concorrenza e disciplina della concorrenza sleale
Come abbiamo detto nel mercato vi sono diversi imprenditori che producono e commerciano lo stesso
bene servizio in competizione tra loro; ciascun imprenditore gode di ampia libertà di azione e può porre in
essere le strategie che ritiene più proficue, non solo per attirare clienti ma anche per sottrarli alla
concorrenza. Infatti il danno che un imprenditore subisce a causa della sottrazione della clientela non è un
danno ingiusto e quindi non è risarcibile perché procurarsi un vantaggio su mercato a scapito degli altri da
parte delle regole della concorrenza.
L’interesse generale dell’ordinamento è che, però, la competizione-la concorrenza sia svolta in modo
corretto e leale per cui son state fissare alcune regole di comportamento che ci permettono di distinguere
tra concorrenza leale e concorrenza sleale- gli artt 2598 e ss
Nella competizione tra imprenditori, quindi, ai sensi dell’art 2598 cc gli imprenditori non possono servirsi di
mezzi e tecniche che non sono conformi alla correttezza professionale poiché porrebbero in essere atti che
configurano concorrenza sleale.
Questi atti sono repressi e sanzionati dall’ordinamento per il solo danno potenziale che potrebbero addurre
quindi non è necessario che concretamente gli altri imprenditori abbiamo subito un danno, semplicemente
è richiesto che sia un atto idoneo a danneggiare l’altrui azienda.
Una volta che l’Autorità verifichi la sussistenza dell’atto di sleale concorrenza, la colpa dell’autore si
presume e può procedere all’applicazione delle sanzioni: l’inibitoria alla continuazione di quelli atti e la
rimozione degli effetti prodotto ed eventualmente un risarcimento del danno in presenza di dolo o colpa
accertati e non presunti o di un danno patrimoniale subito dagli altri imprenditori.
Un altro interesse generale tutelato dall’ordinamento con tale disciplina è la possibilità del consumatore di
dare un formare un giudizio corretto e veritiero delle varie offerte sul mercato e che quindi gli elementi di
valutazione non vengano falsati. E’ una tutela del consumatore indiretta perché poi da un punto di vista
processuale a farla valere possono essere solo gli imprenditori concorrenti che potrebbero subirne
presumibilmente uno svantaggio e non il consumatore stesso fatta eccezione per i casi in cui si ricade nel
panale (frodi in commercio); quindi il consumatore è lasciato ai possibili inganni dei mezzi di persuasione
pubblicitaria cui ricorrono le imprese.
Tuttavia rispetto al 1942 i passi in avanti in tal senso ci sono stati; siamo partiti nel 1942 in una situazione di
totale assenza di norme per la protezione dei consumatori contro gli inganni pubblicitari e,
progressivamente, sono stati introdotti:
- in un primo momento il codice di autodisciplina pubblicitaria vale a dire un accordo privato tra
imprese che si impegnavano a utilizzare mezzi pubblicitari corretti al fine di non ingannare il
consumatore sotto il controllo di un organo istituito ad hoc: il giurì dell’autodisciplina.
- Nel 1992 si è intervenuto per la prima volta con un’apposita legge volta a reprimere la pubblicità
ingannevole e comparativa
- Ed infine nel 2007 recependo la normativa comunitaria si è giunto a coprire questo vuoto
normativo con l‘introduzione, nel codice di consumo, di una disciplina contro le pratiche
commerciali scorrette. Tale normativa prevede che le pratiche commerciali devono essere
improntate al principio di correttezza e di buona fede e sono così condannate tutte le ingannevole
o aggressive che inducono il consumatore medio a fare sclete che altrimenti non avrebbe fatto.
- La grande novità sta nel fatto che chiunque (e quindi anche il consumatore e non solo le imprese
concorrenti) possono denunciare tali condotte all’Autorità garante (ma l’autorità può procedere
anche d’ufficio) che ne svolge un controllo amministrativo volto a inibire tali condotte e
rimuoverne gli effetti.

Gli atti di concorrenza sleale


Ma quali sono questi atti di concorrenza sleale?
Il cc all’art 2598 individua come atti di concorrenza sleale:
 Gli atti di confusione
 Gli atti di denigrazione o gli atti di vanteria

Innanzitutto una prima categoria di atti di concorrenza sleale sono gli atti idonei a creare confusione con i
prodotti o con l’attività di un concorrente (art. 2598).
Molteplici sono le tecniche o le pratiche che l’imprenditore può porre in atto per realizzare la confondibilità
dei propri prodotti e della propria attività con i prodotti e con l’attività di un concorrente ma il nostro cc ne
individua in particolare due:
1. uso di nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi
legittimamente usati da altri imprenditori concorrenti;
2. imitazione servile dei prodotti di un concorrente vale a dire riproduzione pedissequa delle forme
esteriori dei prodotti altrui che inducono il consumatore a pensare che i due prodotti (originale e
imitato) provengano dalla stessa fonte.

La seconda vasta categoria di atti di concorrenza sleale comprende:


1. gli atti di denigrazione che consistono nel diffondere notizie e giudizi sui prodotti e sulle attività di
un concorrente in modo da metterli in cattiva luce e danneggiare la loro reputazione. Esempio di
concorrenza sleale per denigrazione è la pubblicità iperbolica con cui si tende ad accreditare l’idea
che il proprio prodotto sia il solo a possedere determinati pregi (non oggettivi) che invece vengono
implicitamente negati ai concorrenti (es il caffè decaffeinato X è l’unico che non fa male al cuore
mentre è lecito dire il caffè decaffeinato x non è un caffè decaffeinato ma IL caffè decaffeinato.)
Per quanto riguarda la pubblicità comparativa (e per tale si intende la pubblicità che fa esplicito o
implicito riferimento a concorrenti) invece, non è sempre illecita.
Essa può essere praticata a determinate condizioni e cioè quando:
i) è fondata su dati veri e oggettivamente verificabili,
ii) non genera confusione sul mercato
iii) non comporta discredito o denigrazione del concorrente.
2. gli atti di vanteria che, invece, consistono nell’ appropriazione indebita di pregi dei prodotti o delle
imprese di un concorrente al fine di aumentare il proprio prestigio.

L’art 2598 cc conclude poi sancendo che “è atto sleale di concorrenza ogni altro mezzo non conforme ai
principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”
E in tale parametri la giurisprudenza vi ha fatto rientrare:
- la pubblicità menzognera vale a dire la falsa attribuzione ai propri prodotti di qualità o pregi non
appartenenti ad alcun concorrente (quindi non inquadrabile nella figura tipica dell’appropriazione
di pregi).
- La concorrenza parassitaria cioè la sistematica imitazione di prodotti, marchi, campagne
pubblicitarie altrui, sia pure con accorgimenti tali da evitare la piena confondibilità delle attività;
- Il dumping ovvero la sistematica vendita sottocosto dei propri prodotti finalizzata alla eliminazione
dei concorrenti;
- storno di dipendenti quindi la sottrazione ad un concorrente di dipendenti particolarmente
qualificati attuata con mezzi scorretti come ad esempio fornire false notizie sulla situazione
economica del concorrente.

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