Sei sulla pagina 1di 5

Lezione diritto tributario 27/04/2021

Sul discorso delle news, volevo segnalarvi 3 cose che ho letto sul sol 24 ore

Un articolo raccontavo che il fisco del regno unito, nelle ultime settimane ha recapitato una serie di
questionari a cittadini fiscalmente residenti in uk per i redditi derivanti dai redditi detenuti in Italia e ciò ha
spiazzato questi cittadini, che sono fiscalmente residenti in uk. Perché? Perché se questi hanno locato gli
immobili situati in Italia, hanno assoggettato ad imposizione questi redditi solo in Italia, pero il regno unito
non è molto d’accordo; entra in gioco la regolamentazione dei redditi di fonte immobiliare della
convenzione contro le doppie imposizioni tra italia e uk perché di solito questi redditi sono tassabili nel
luogo dove l’immobile si trova. Il problema è che : il modello OCSE e le convenzioni, non dice che questi
redditi sono esclusivamente assoggettabili in quel paese, quindi la norma non preclude la possibilità di
tassare il reddito anche il reddito in Uk, salvo il meccanismo del credito di imposta

L’altro articolo riguarda l’imposta sui servizi digitali; Il 16 maggio scadrà il primo termine per il pagamento
dell’imposta sui servizi digitali italiana (quella UE ancora non è entrata in azione). E’ diretta o indiretta?
Sulla carta è una imposta indiretta, sennonché tutta la giurisprudenza dice che è una imposta sul reddito
perché i ricavi, anche se a lordo dei costi, sono indicativi della capacità di un soggetto. Questa imposta
rientrerebbe cosi tra le imposte regolamentate dalla convenzione contro le doppie imposizioni, che si
applicano alle imposte dirette (o comunque sui redditi). Se APPUNTO è DIRETTA, POTREBBE ENTRARE IN
CONTRASTO CON quella che sono le convenzioni (è tassabile il reddito di una impresa prodotto in un altro
stato rispetto a quello in cui ha residenza, solo se ha una stabile organizzazione in quello e le imprese di
servizi digitali non si servono di una stabile organizzazione).

L’ultimo articolo è sulla sentenza della Cassazione Italiana del 23 Aprile 2021, che riguarda la residenza
fiscale delle persone fisiche non iscritta alla anagrafe. Questa sentenza prende in analisi il domicilio, che
appunto è la sede degli affari della persona fisica, dando appunto rilevanza a quello che è il profilo
economico, rispetto a quello affettivo. La valutazione dice la cassazione che deve essere di prevalenza
(quindi non si deve dimostrare che tutti gli affari hanno luogo in Italia, ma sono che la maggior parte di
questi è svolta in Italia).

INIZIO LEZIONE

Le slide sono state caricate su moodle. Parleremo del regime CFC; fino ad oggi abbiamo parlato di transfer
pricing come esempio di condotta che viene posta in essere da multinazionali al fine di realizzare forme di
arbitraggio fiscale al fine di ridurre il peso delle transazioni a livello internazionale. La seconda condotta con
lo stesso fine è quella del CFC (controlled foreign companies). Per capire di cosa si sta parlando, dobbiamo
tornare ai principi tradizionali del diritto tributario internazionale, in particolare, il principio che dice che
l’impresa assoggetta ad imposizione il reddito ovunque prodotto nello stato di residenza ad eccezione per
quei redditi prodotti in altri stati dove ha stabile organizzazione. Viceversa il modello ocse ci dice che se
l0impresa non residente colloca nello stato, una società controllata da questa, allora, ciò non fa presumere
che quella impresa sia una stabile organizzazione della controllante non residente. Il modello OCSE vuole
appoggiare il fatto che ogni singola impresa ha una sua personalità tributaria autonoma, quindi se l’impresa
non residente stabilisce una società di capi in un altro stato questa società è autonoma, e i suoi redditi
saranno tassati nello stato di residenza, mentre, saranno tassate nello stato della controllante se c’è una
distribuzione di ricavi: se non c’è una controllata né una stabile organizzazione i redditi saranno tassati nello
stato di residenza dell’impresa, salvo ci sia una stabile organizzazione occulta nella controllata. Questi
capisaldi sono posti a dura prova con l’avvento dell’economia digitale. Ricordate il caso Google e il
vantaggio fiscale che riesce ad ottenere si collega proprio ad un approfittamento sulla normativa delle cfc
americane, che non si applica perché non si è posto l’impresa in un paradiso fiscale (l’Irlanda non lo è).
Naturalmente una domanda sorge: mentre nel transfer pricing è evidente dove sta il vantaggio (spostare
una parte di imponibile sotto un’altra giurisdizione rispetto a quella originaria), mentre per le cfc? La
controllante si è vero che pagherà meno imposte per quanto riguarda i redditi della controllata, ma prima o
poi arriveranno gli utili, e quindi si dovranno pagare comunque. Il vantaggio sta nel “prima o poi”. Mel
transfer pricing l’elemento centrale è il prezzo, mentre nel cfc sta nei tempi. Attraverso il collocare la
società controllata in uno stato a bassa fiscalità, gli utili di quella società sono tassati poco o niente, e posso
decidere come controllante la deliberazione della distribuzione degli utili, e quindi poi essere tassati in capo
alla controllante. Il fenomeno è quello dell’arbitraggio sui tempi (TAX DEFERAL): il vantaggio è di tipo
competitivo, poiché attraverso ciò, posso rinviare la distribuzione degli utili, avendo più liquidità da
investire nelle attività di sviluppo. Il meccanismo è piuttosto semplice perché passa molto banalmente da
uno stato a bassa fiscalità e nella scelta di una società controllante di porre una società controllata lì, che
diviene il collettore di tutti gli utili prodotti lì. Essendo un meccanismo semplice, si può pensare che questo
sia un fenomeno che già ha chiamato l’attenzione delle amministrazioni fiscali degli stati, per arginarlo. In
realtà non è cosi: l’interesse internazionale rispetto al fenomeno del cfc, è recente. L’idea è che per tanto
tempo l’OCSE ha ritenuto che non fosse necessario un intervento unitario per disciplinare il fenomeno, e
quindi lasciare all’intervento degli stati la possibilità di regolamentare questo fenomeno. L’Italia sin dagli
anni 80, con l’articolo 167 del TUIR, ha cercato di arginare il fenomeno. L’analisi di queste normative
interne consente di far emergere alcuni caratteri comuni a queste normative: 2 caratteri vengono in
evidenza. Il primo è che queste normative si applicano nel caso in cui una società residente in uno stato
controlli una società che sia residente in un paradiso fiscale (stato a bassa o nulla tassazione del reddito di
impresa). Il secondo profilo è il meccanismo di reazione al fenomeno: in presenza di questa controllata nel
paradiso fiscale, amministrazione finanziaria dello stato della controllante imputa alla controllante per
trasparenza i redditi prodotti dalla controllata. Rispetto al tax deferral, le normative quindi reagiscono
permettendo di tassare i redditi della controllante a prescindere dalla distribuzione. La distribuzione non
conta più. L’imponibile della controllata è traslato (per trasparenza) in capo a quella che è la controllante,
facendo sì che sconti l’imposizione in capo alla controllante. Le imposte vengono assolte, nello stesso anno
in cui vengono prodotte dalla controllata, dalla controllante. Queste normative realizzano una eccezione al
principio cardine della tassazione del reddito di impresa (tassazione del reddito prodotto nello stato di
residenza della impresa). Settimane fa, qualcuno di voi ci aveva segnalato la proposta del governo usa di
proporre una tassazione minima a livello globale sul reddito di impresa. Se questa entrasse in azione questa
normativa, queste regole sul tax deferral verrebbero meno, perché si avrebbe l’eliminazione del problema.
In una prima fase storica l’OCSE non interviene e gli stati si orientano verso regimi con le sopracitate
caratteristiche. Questa situazione negli ultimi anni si è dimostrata non più percorribile: in certi casi gli stati
per carenza o per eccesso di rigidità nelle loro normative interne, le multinazionali si sono mosse alla
ricerca di vantaggi. Il caso Google ne è un esempio.

L’OCSE se ne occupa direttamente, nell’ambito dei lavori del BEPS, dedicando alle cfc, 1 delle 15 azioni del
beps (la numero 3) nominata “Disegnare regole effettive per le CFC”. Questo titolo è significato: si capisce
come l’idea non issa quella di proporre standard autonomi per tutti, ma quella di lasciare ferme le regole
interne di ogni stato, fornendo linee guida, per evitare contrasti tra le varie normative interne. Questa
ricognizione fatta dall’OCSE è il punto di partenza del nostro esame, tenendo presente che da un punto di
vista italiano dove esistenza una normativa interna sulle cfc, non basta fare riferimento agli indirizzi
dell’cose, ma bisogna fare i conti con le regole poste dall’UE ( a differenza del caso del transfer pricing, l’UE
è intervenuta in una maniera molto profonda ed esplicito, tramite la direttiva ATA (vs abuso ed elusione
fiscale) che ha posto regole per la definizione del regime del cfc poi di fatto andando ad influenzare
profondamente le normative dei paesi interni all’UE, poiché vincolanti.

Prima vediamo come l’Ocse ha delineato le caratteristiche generali del sistema CFC. Si interviene
sull’ambito soggettivo e su quello oggettivo. Partiamo dal profilo soggettivo: rispetto ai soggetti, L’interesse
del BEPS. È stato quello di estendere il più possibile l’applicazione del regime cfc, e quindi sono state
ampliate le caratteristiche che l’ente controllato deve avere per rientrare nella disciplina delle cfc.
Qualunque società controllata, secondo il BEPS, dovrebbe rientrare in quello che è il regime delle cfc, a
prescindere della qualificazione giuridica (società di capitali, trust etc) andando addirittura ad inglobare
nella definizione anche i soggetti senza personalità giuridica, a patto che ci sia attività di impresa e
distribuzione di utili. L’idea è quella di evitare che una definizione troppo stretta di ente controllato, posso
creare delle lacune (prima le normative interne si limitavo a vedere da un lato una società di capitali, e
dall’altro la controllata stabilità in un paradiso fiscale) facili da aggirare. L’OCSE invita gli stati ad ampliare il
novero dei soggetti per i quali si può applicare la tassazione per trasparenza. Assume importanza, da questo
punto di vista, anche la nozione di controllo. Se il legislatore nazionale riconduce a tale disciplina solo i casi
in cui la società residente controlla in senso giuridico l’ente non residente (ex 2359 cc), è chiaro che tutti i
casi c’è un controllo di fatto, restano fuori. Anche qui si vuole ampliare la nozione di controllo. Non si parla
solo di controllo in senso giuridico (maggioranza di voti espressi durante l’assemblea dei soci ordinaria) ma
anche di casi di controllo economico (il soggetto non ha la maggioranza di voti in assemblea, ma in virtù di
determinati accordi, può avere la maggioranza della partecipazione degli utili, difatti questo interesse alla
misura degli utili è sintomatico di un controllo) e i casi di controllo di fatto (dove non c’è un socio di
maggioranza di fatto, ma grazie a degli accordi fra i soci stessi detti parasociali, questo può esprimere la
volontà di questi). Questo primo profilo è un profilo su quale l’OCSE ha insistito molto, per far si che molte
più fattispecie possano essere sussunte a quello che è il regime del cfc).

Vediamo il profilo oggettivo. Il Beps condivide l’indirizzo maggioritario nelle normative nazionali secondo il
quale la tassazione per trasparenza scatta solo laddove lente controllato si colloca in un “ordinamento
fiscalmente pericoloso” (cioè i paradisi fiscali). Cosa vuol dire? Si va a guardare il livello di tassazione: cioè si
deve vedere qual è l’imposta che il soggetto controllato vede applicata nel paese di residenza e se questa
imposta è sotto una certa soglia, si avrà l’applicazione della tassazione per trasparenza. Bisogna precisare
che:

Quando si dice livello di tassazione basso, si deve vedere qual e il parametro di riferimento e quando pupo
essere considerato basso. L’idea dell’OCSE è che la valutazione debba vertere su quello che è il livello di
tassazione effettivo, e non quello nominale. Non si va a vedere quindi qual è la aliquota, ma si deve
ricostruire in concreto (compreso di esenzioni e agevolazioni) il quantum che è pagato nello stato di
residenza. L’OCSE non da un livello minimo (ogni stato è libero di definire quando un certo livello di
tassazione è basso) e cioè è pericoloso. (VISIONARE LO SCHEMA CARICATO SU MOODLE DAL PROFESSORE;
il prof ha specificato che quello caricato PER la lezione ha un errore, quindi caricherà quello corretto)

Lo schema spiega l’importanza dell’andare a guardare quella che è la tassazione effettiva, e non la aliquota
formale, qualora si volesse determinare se il livello di tassazione in un certo stato è basso. Una società A
controlla una società B in un altro stato e siamo quindi in presenza dei requisiti soggettivi per l’applicazione
del regime cfc (100% delle partecipazioni). Si può far sì che il reddito di B sia tassato in capo ad A per
trasparenza se l’imposta che B paga nello stato di appartenenza, se è inferiore oltre il 50 % rispetto
all’imposta pagata sullo stesso reddito nello stato di appartenenza di A. In tal caso scatta l’applicazione del
regime cfc, altrimenti no: il punto di riferimento è quello del 50%. Nel Caso 1, l’imposta sui redditi delle
società nello stato 1 ha imposta del 24% mentre l’aliquota nello stato 2 è del 15%. Se mi limitassi a valutare
la tassazione nominale non potrei applicare il regime cfc (15%>12%). Nell’esempio la società B fa ricavi per
150 ed ha una serie di costi. Vediamo intanto come i determina l’imponibile nello stato 2. Ricavi 150, e
abbiamo la possibilità di dedursi 30 (costo del lavoro) + 20 (interessi passivi) + 40 (ammortamento beni
strumentali). L’imponibile è di 60 quindi, e se a questo applico l’aliquota del 15% ho 9. Quale imposta
avrebbe dovuto pagare B se fosse stata residente nello stato 1 a parità di ricavi? Ricavi 150 - [30 (costo del
lavoro) + 0 (non si può dedurre interessi passivi) + 10 (non posso dedurre 40 su ammortamenti per beni
strumentali ma solo 10)] = 110. L’imposta è del 24% cioè 26,4. Se confronto 9 e 26,4, noto che il loro
rapporto è del 34% e che quindi essendo inferiore al 50% permette l’applicazione del regime cfc (tassazione
sulla controllante dei redditi prodotti dalla controllata). Il caso 2 è quello opposto, ovvero il caso in cui un
esame legato alla tassazione nominale permetterebbe l’applicazione del regime cfc, mentre quello legato
alla tassazione effettiva non lo permette. Questo schema serviva a fare capire l’importanza di questo
approccio. E’ ovvio che queto esempio gira attorno alla diversità delle regole che girano intorno alla
determinazione della base imponibile (ciò non è dovuto solamente alla diversità di normativa, ma anche a
seguito di ruling vd. Caso Apple).

Un dubbio dovrebbe sorgere per quanto riguarda l’effetto negativo che potrebbe derivare da questa
normativa. Se siamo nelle condizioni previste dal caso 3 del beps, lo stato della controllante può attrare ad
imposizione a prescindere della distribuzione l’imponibile realizzato in quel periodo di imposta dalla
controllata. È possibile che quello stesso imponibile sia comunque già stato tassato (vd. I casi in cui si parla
non tanto di fiscalità nulla ma di bassa fiscalità) in capo alla controllata. Quindi questo regime può generare
un fenomeno di doppia imposizione anche se parziale. Come si può risolvere questa criticità? L’OCSE dice di
lo stato della controllante, nel momento in cui è applicata alla controllata l’imposta sul reddito della
controllata, deve concedere alla controllante un credito di imposta pari all’imposta già pagata dalla
controllata nel suo stato di residenza.

Questo è il panorama internazionale, però occorre assumere anche il punto di vista europeo, che impatta
fortemente sulla libertà del legislatore nazionale su come strutturare la normativa interna. C’è una norma
espressa (articolo 7 dir. ATAB), ma da dove viene questa? Da una sentenza della Corte di Giustizia, la
Sentenza Cadbury Schweppes (caricata su moodle). È una sentenza del 2006, ma è storica, perché è una
sentenza che aveva ad oggetto un regime cfc nazionale. La corte di g ha posto alcuni principi che ad oggi
sono rimasti invariati, e che tutt’ora sta influenzando la giurisprudenza nazionale (questi principi sono stati
utilizzati dalla cassazione per una sentenza sulla residenza fiscale delle società). A maggior ragione questa
sentenza è importante perché detta principi per l’imposizione diretta, materia dove ad oggi l’UE non ha
competenza propria, ma una competenza limitata, esercitabile solo all’unanimità degli stati membri. Vi ho
allegato la sentenza su Moodle, ma noi ne analizzeremo solo qualche brano: è un utile esercizio avere sotto
gli occhi una sentenza della CDG in materia fiscale perché vi renderete conto che la prima volta è
veramente difficile, in realtà ci si rende conto che le sentenze della CDG sono tutti costruite nello stesso
modo, la struttura rimane sempre la stessa. Qui la corte come in tutti i casi che si occupano di norme
interne su imposte dirette svolge la sua analisi facendo riferimento alle liberta fondamentali. In questo caso
si parla di liberta di stabilimento quindi la possibilità per l’impresa di svolgere la sua attività in qualunque
stato. Il problema era capire se una certa normativa interna sul cfc realizzasse un ostacolo al godimento
della liberta di stabilimento. La corte analizza la normativa nazionale e verifica se in astratto questa imita o
viola la libertà di stabilimento. Se la risposta è no ci si ferma lì, mentre se la limita il ragionamento
prosegue: le liberta fondamentali (tr4a cui rientra anche quella di stabilimento) si sono centrali, ma sono
ammesse delle limitazioni, se vi sono certe condizioni. Se la norma interna sul cfc limita la liberta di
stabilimento, vediamo se questa limitazione è legittima (cioè se queste certe condizioni si verificano
concretamente). Se la giustificazione è presente la norma interna è salva, altrimenti la norma interna viola
liberta fondamentale e lo stato ha l’obbligo di eliminarla/modificarla per far si che non influisca più
negativamente su quella che è la liberta di stabilimento. Questi sono i passaggi: il modo di ragione da parte
della CDG è sempre lo stesso. Qual era il caso che era sottoposto tramite rinvio pregiudiziale al giudice della
CDG? Il gruppo inglese Cadbury Schweppes, quello delle bibite, con base in UK che dispone di una società
controllata in Irlanda, precisamente nell’International Financial center di Dublino, che è una sorta di zona
franca, uno spazio dove si può collocare una società senza che questa pagasse imposte. Ad un certo punto
l’amministrazione finanziaria del regno unito aveva preteso di recuperare le imposizioni alla controllante
inglese sui redditi prodotti dalla controllata a Dublino invocando la normativa interna uk sulle cfc (la società
controllante ha una controllata in Irlanda, e non paga imposte, quindi rientra nella imposizione per
trasparenza alla controllante). Era scattato diciamo l’avviso di accertamento inglese ed è stato preteso il
pagamento delle imposte sui redditi della controllata. Questo atto è stato impugnato davanti al g inglese,
che solleva la questione pregiudiziale davanti alla CDG: la normativa inglese sulle cfc crea o no un ostacolo
alla libertà di stabilimento? Non leggeremo tutta la sentenza ma solo alcune parti.
Partiamo dal paragrafo 40. È interessante perché pone un principio che si ritrova in tutte le sentenze della
CDG in materia di fiscalità diretta: “Se è vero che la materia delle imposte dirette rientra nella competenze
degli stati membri, allora questi ultimi devono tuttavia esercitare tale competenza nel rispetto del diritto
comunitario”. Questa espressione è diventata inflazionata, sulla quale non ci si sofferma più, ma è di
fondamentale importanza perché ci dice che anche laddove l’UE non abbia competenza (come nel caso
delle imposte dirette), ciò non vuol dire che sono del tutto liberi di legiferare, perché c’è il limite dato dal
fatto che le norme interne devono essere rispettose del diritto comunitario, quindi non devono ostacolare
le liberta fondamentali. Passiamo al paragrafo 43, che entra nel merito della questione e recita: “è pacifico
che la legislazione sulle SEC (cioè sulle cfc) comporta una disparità di trattamento tra le società residenti in
funzione del livello di tassazione applicato alla societa in cui esse detengono una partecipazione tale da
assicurarne il controllo” cioè la cfc, in realtà discrimina tra società. Par.44: “se una società residente ha
costituito una cfc in uno stato membro soggetto a minor livello impositivo, gli utili della controllata sono
attribuiti alla società residente e tassati secondo i suoi livelli, al contrario, se la controllata è stata istuita in
UK o in un altro stato membro dove non sussiste un livello impositivo minore, la seguente normativa non
trova applicazione”. Questa diversità di trattamento creerà uno svantaggio per alcuni soggetti (par 45) e
quindi tale disparità di trattamento crea un ostacolo all’esercizio della libertà di stabilimento. Il fatto che la
CDG abbia rilevato la violazione di una delle libertà fondamentali, impone che debba esaminare se questo
ostacolo possa essere legittimo e quindi esse sussista o meno una di quelle cause di interesse generale che
possano giustificare una restrizione alla libertà di stabilimento. Sta allo Stato giustificarsi davanti alla CDG, e
in questo caso cosa sosteneva il regno unito? Gli UK sostenevano che la normativa cfc aveva una
motivazione imperativa, cioè quella di combattere i fenomeni abusivi ed elusivi, consistenti nella possibilità
per una societa di trasferire utili ad una societa controllata situata in un paese dove si pagano poche
imposte, avendone il vantaggio concorrenziale. A questo punto arriva l’elemento di novità introdotto da
questa sentenza particolare, perché la CDGT non accetta questa giustificazione, affermando che,
l’applicazione di questa disciplina si traduce in una sorta di presunzione, cioè la presunzione che laddove
un’impresa collochi una controllata a bassa fiscalità, lo faccia per una ragione di abuso ed elusione, e per la
corte questo tipo di presunzione per la CDG non può sussistere. Il paragrafo 50 della sentenza ci dice che la
mera circostanza di avere una controllata in un altro stato membro non può fondare una presunzione
generale di frode fiscale né giustificare una misura che comprima l’esercizio della liberta fondamentale di
stabilimento. Perché? Perché è legittimo l’esercizio della libertà di stabilimento anche volto alla ricerca di
un vantaggio fiscale quindi la controllante può esercitare la liberta di stabilimento anche quando l’obiettivo
di questa struttura è la ricerca di un vantaggio fiscale., Così la corte è come se sdoganasse le strutture nate
per la ricerca di un vantaggio fiscale purché questa vantaggio consegua all’effettivo esercizio della liberta di
stabilimento (se la liberta è davvero esercitata, e cioè la controllata esiste davvero, allora non si può
permettere una legislazione nazionale che pre3giudichi il trattamento di quella societa solo perché quella
ha un vantaggio fiscale). La normativa fu dichiarata illegittima perché non andava a verificare se nel singolo
caso la libertà fosse stata esercitata oppure no, e solo in assenza di questo esercizio di fatto, si poteva
instaurare quella che è l’ipotesi di frode.

Potrebbero piacerti anche