26 novembre revisionata.
Terminiamo oggi la spiegazione relativa alle prove e cominciamo ad esaminare l’ispezione, che è un mezzo di prova che
rientra nella disponibilità del giudice. Abbiamo già detto che l'ispezione è l'unico esempio di prova diretta perché il
giudice entra in contatto direttamente con il fatto. L'attività del giudice è, quindi, un'attività che si limita alla
percezione del fatto.
La norma di riferimento è l'articolo 118 del codice di procedura civile: “il giudice può ordinare alle parti e ai terzi di
consentire sulla loro persona o sulle cose in loro possesso le ispezioni che appaiono indispensabili per conoscere i fatti
della causa, purché ciò possa compiersi senza grave danno per la parte o per il terzo e senza costringerli a violare uno
dei segreti previsti negli articoli 351‐352 del codice di procedura penale. Se la parte rifiuta di eseguire tale ordine senza
giusto motivo, il giudice può, da questo rifiuto, desumere argomenti di prova a norma dell’articolo 116 c.2, se rifiuta il
terzo il giudice lo condanna a una pena pecuniaria da euro 250 a euro 1500”.
Il potere di ispezione è un potere che il giudice esercita d'ufficio e come si evince dal testo della disposizione,
l'ispezione può avere ad oggetto sia persone (ispezione corporale) sia delle cose (secondo l'opinione prevalente tra le
cose non dovrebbero rientrarci i documenti perché i documenti possono essere oggetto solo dell’ordine di esibizione di
cui all'articolo 210 del codice di procedura civile).
Come si evince dall’articolo 118, l'ispezione può essere disposta nei confronti delle parti o di soggetti terzi. I limiti a cui
è sottoposto questo potere emergono sia dal primo comma della disposizione, dove si fa riferimento alla circostanza
che l'ispezione deve apparire indispensabile per conoscere i fatti della causa, sia dal secondo “senza grave danno per
la parte o per il terzo e senza costringerli a voi a violare uno dei segreti previsti dagli articoli 351‐352 del codice di
procedura penale”.
Questi due limiti sono rimessi ad una valutazione discrezionale da parte del giudice quindi c'è sicuramente un grosso
margine di discrezionalità e in questa valutazione li dobbiamo distinguere: 1) con riferimento alla valutazione della
indispensabilità, il giudice deve valutare se l'ispezione è l'unico mezzo di cui dispone per l'accertamento di determinati
fatti, che evidentemente devono essere rilevanti ai fini della decisione della controversia.
2) Bisogna però ricordare che si tende a ricorrere all’ispezione non soltanto quando non c'è un'alternativa, quando è
l'unico strumento per provare i fatti, ma anche in casi in cui l'ispezione è semplicemente utile quindi non
indispensabile ma utile per accertare questi fatti.
Naturalmente, il tutto nei limiti in cui ispezione non provochi un grave danno.
Che cos'è il grave danno? Con riferimento all’ispezione corporale si ritiene che il grave danno sussista quando
l'ispezione può ledere il diritto alla riservatezza della persona, mentre con riferimento alle ispezioni di cose e di luoghi
si tende a ritenere che si abbia un grave danno quando l'ispezione possa condurre ad una violazione di segreti
d’azienda oppure di metodi industriali.
Nella prassi, si ritiene che il limite del grave danno operi soprattutto in relazione all’ispezione corporale, quindi
all’ispezione di persone. È molto più difficile configurare l'esistenza di un grave danno quando l'oggetto dell'ispezione
sono cose o beni.
Si tratta di un potere che rientra nella disponibilità del giudice e come tale deve essere esercitato nel rispetto dei limiti
che abbiamo detto e che devono essere sempre rispettati da parte del giudice: il divieto di scienza privata, che porta a
ritenere che la l'ispezione debba essere sempre disposta per accertare l'esistenza di fatti che sono stati allegati dalle
parti nel processo o comunque di fatti che sono legittimamente emersi nel processo, che sono legittimamente
acquisiti nel processo. E qui rinvio a tutto quello che ci siamo detto in ordine ai fatti e alle modaltà per il cui tramite i
fatti possono legittimamente essere acquisiti al processo e alla distinzione tra fatti che operano secondo lo schema
norma‐ fatto‐ potere sull'an‐ effetto e fatti che operano secondo lo schema generale norm‐ fatto‐ effetto. Deve trattarsi
di fatti che sono legittimemnte entrati nel processo, legittimamente acquisiti nel processo.
Questo spiega perché si dice che l’ispezione non può mai essere disposta a scopo esplorativo, cioè per cercare gli
elementi utili alla controversia, per andare alla ricerca di fatti, magari fatti secondari che sono utili per la controversia.
Cosi come abbiamo già ricordato a proposto dell'ordine di esibizione documentale questi strumenti non possono
essere utilizzati a scopo esplorativo o a scopo perquisitorio.
Il secondo limite all'esercizio di questo potere del giudice è il limite derivante dal principio del contraddittorio: il
riferimento ai segreti di cui agli articoli 351‐352 del codice di procedura penale deve essere aggiornato perché il
legislatore si è dimenticato di correggere il testo della disposizione. Attualmente le norme di riferimento sono gli
articoli 201‐202 del codice di procedura penale in tema di segreti: segreto professionale, segreto d'ufficio e segreto di
Stato.
Le modalità dell’ispezione, le regole di svolgimento dell’ispezione si trovano negli articoli 258 e seguenti del codice di
procedura penale: “l’ispezione viene disposta con ordinanza in cui il giudice istruttore o il giudice designato deve fissare
il tempo il luogo e le modalità della ispezione ed è un potere che può essere esercitato in qualunque stato e grado del
processo”, quindi non soltanto in primo grado ma anche in appello. Questo è un potere d'ufficio, quindi non valgono le
limitazioni le preclusioni istruttorie previste a carico delle parti, anzi, il giudice utilizzerà i propri poteri dopo aver
acquisito le prove richieste dalle parti. Questo lo si può desumere anche dal limite cui è soggetta la ispezione, cioè la
indispensabilità della stessa. In base al successivo articolo 259, all’ispezione il giudice procede personalmente assisto
quando corre da un consulente tecnico, anche se l'ispezione deve eseguirsi fuori dalla circoscrizione del tribunale, a
meno che non ci siano degli impedimenti.
La regola generale dovrebbe essere quella secondo cui il giudice procede personalmente all’ispezione ed è nei limiti in
cui il giudice procede personalmente che si può parlare di una ispezione in senso tecnico e quindi una prova diretta
come prova in cui il giudice entra direttamente in contatto con il fatto che deve essere provato.
La verità è però un'altra: il giudice spesso affida l'attività di percezione ad un suo collaboratore cioè al consulente
tecnico. Stando alla lettera del codice, sembrerebbe che solo con riferimento all’ispezione corporale sia prevista la
possibilità che l'attività di percezione venga svolta unicamente dal consulente: articolo 260 “il giudice istruttore può
astenersi dal partecipare all’ispezione corporale e disporre che vi proceda il solo consulente tecnico e all’ispezione
corporale si deve procedere con ogni cautela diretta garantire il rispetto della persona”. La nozione di ispezione
corporale è molto ampia, non ci rientra soltanto la visita medica tesa, per esempio, a verificare i danni che la persona
ha subito. Per la giurisprudenza, ci rientrano anche prove scientifiche, tipo la genetica, tipo la prova ematologica. Con
riferimento, quindi, alla ispezione corporale il più delle volte il giudice si astiene e utilizza quanto previsto nell'articolo
260. Nella realtà, anche con riferimento alla ispezione di cose il giudice spesso e volentieri delega in toto l'attività al
consulente. Questa possibilità la giurisprudenza la aggancia alla previsione contenuta nell'articolo 194 del codice di
procedura civile: il giudice può disporre che il consulente coppia da solo le indagini. In tutti i casi in cui questa attività
di percezione viene svolta dal consulente tecnico d'ufficio (si parla, in tal senso, del consulente e dell’attività del
consulente come percipiente, perché percepisce direttamente il fatto) probabilmente siamo al di fuori della ispezione,
perché il consulente tecnico non è il giudice, quindi, laddove questa attività venga delegata al consulente, il giudice
non entra in contatto con il fatto, è il consulente che entra in contatto con il fatto e poi riferisce al giudice presentando
la sua relazione. Di conseguenza, in ipotesi di delega, in cui il giudice non prende parte all'attività di percezione, siamo
al di fuori della ispezione e infatti il consulente, anche quando gli viene delegata un'attività di percezione, non può
esercitare i poteri che invece il codice affida al giudice di cui agli articoli 261‐262 del codice di procedura civile. In base
all'articolo 261, il giudice istruttore può disporre che siano eseguiti rilievi, calchi e produzione anche fotografiche di
oggetti, documenti e luoghi. Ugualmente, per accertare se un fatto sia o possa essersi verificato in un dato modo, il
giudice può ordinare di procedere alla riproduzione del fatto stesso. In base all'articolo 262, nel corso dell’ispezione o
dell'esperimento il giudice può sentire testimoni per informazioni e dare i provvedimenti necessari per l'esibizione
della cosa o per accedere alla località. Può anche disporre l'accesso ai luoghi appartenenti a persone estranee al
processo, sentite, se è possibile, queste ultime e prendendo le cautele necessarie alla tutela dei loro interessi.
Che cosa succede se la parte o il terzo rifiutano di sottoporsi alla ispezione e quindi rifiutano di ottemperare all'ordine
di ispezione che è stato disposto dal giudice?
Nel caso in cui sia una parte a rifiutarsi, a non ottemperare all'ordine del giudice, l'articolo 118 c.2 prevede che il
giudice può desumere da questo rifiuto argomenti di prova, a norma dell’articolo 116 c.2. Nel caso in cui il rifiuto
provenga dal terzo è prevista una sanzione pecuniaria dal c.3 dell'articolo 118.
Si parla e si discute in dottrina in ordine alla possibilità di attuare in via coercitiva, in via coattiva l'ordine del giudice:
secondo una parte della dottrina, l'ordine di ispezione del giudice non potrebbe essere attuato in via coattiva quindi
non è previsto nel nostro ordinamento una forma di esecuzione coattiva dell’ordine del giudice, invece una parte della
dottrina ritiene che ci siano i margini per prevedere una attuazione in via coattiva dell’ordine del giudice e si fa
riferimento da una parte all'articolo 262 del codice di procedura civile nella parte in cui prevede che il giudice possa
disporre e far eseguire anche coattivamente l'accesso ai luoghi, anche se questi appartengono a persone estranee al
processo, e dall'altra parte si fa riferimento all’articolo 374 del codice penale che prevede una particolare figura di
reato: la frode processuale, che consiste nel comportamento di chi, nel corso di un procedimento civile o
amministrativo, al fine di trarre in inganno il giudice, in un atto d'ispezione o di esperimento giudiziale, muta
artificiosamente lo stato dei luoghi o delle cose o delle persone. Si tratta di una questione è aperta.
CONSULENTE TECNICO.
Esaminiamo la consulenza tecnica, che trova la propria disciplina nel codice di procedura civile, in particolare la figura
del consulente negli articoli 61 e seguenti del codice di procedura (siamo nel primo libro, il consulente rientra tra i
cosiddetti ausiliari del giudice), mentre la disciplina della vera e propria consulenza tecnica la troviamo negli articoli
191 e seguenti del codice di procedura civile (siamo nel secondo libro, fra le disposizioni dedicate ai mezzi di prova) e
in particolare la consulenza tecnica d'ufficio è disciplinata negli articoli da 191 fino a 207 oltre che negli articoli da 89
fino a 92 delle disposizioni di attuazione.
La natura della consulenza tecnica è molto controversa, è da sempre oggetto di discussioni, perché non è certo che
essa possa essere definita sempre un mezzo di prova, quindi uno strumento, per il cui tramite, il giudice può acquisire
la conoscenza in ordine alla esistenza e il modo d'essere dei fatti che sono i fatti principali o fatti secondari. Queste
discussioni trovano la propria spiegazione nella circostanza che l'attività delegata al consulente tecnico non è sempre la
stessa, quindi le attività che il consulente tecnico è chiamato a svolgere sono molteplici e sono piuttosto eterogenee e
da qui, appunto, la difficoltà di definire esattamente la natura. Il consulente, infatti, può essere chiamato a svolgere un
attività di assistenza al giudice che per esempio consiste nell’invito a prendere parte ad alcune udienze e quindi a
svolgere un’attività sostanzialmente in forma orale consistente nel fornire al giudice una serie di chiarimenti oppure è
l'invito a prendere parte anche alla camera di consiglio in presenza delle parti, così come talvolta il consulente viene
chiamato ad affiancare il giudice per esempio nello svolgimento delle ispezioni (non la delega proprio la attività di
assistenza, il consulente chiamato ad affiancare il giudice), mentre invece altre volte, al consulente viene proprio
delegato lo svolgimento di una certa attività.
Chi è il consulente tecnico? Il consulente tecnico è un esperto, cioè una persona che è in possesso di un sapere tecnico
di cui il giudice è legittimamente privo. Si hanno consulenti tecnici che sono medici, che sono ingegneri, che sono
architetti. Quindi si tratta di persone che hanno un particolare sapere tecnico, sono dei professionisti ed è in virtù di
questa loro preparazione che sono chiamati a svolgere questo ruolo.
Le attività che possono essere delegate al consulente:
1) la prima attività che può essere delegata al consulente è l'attività di percezione del fatto, che può essere un fatto
principale o può essere un fatto secondario. Talvolta, per percepire UN fatto, occorre essere in possesso di un sapere
tecnico, di un sapere specialistico (per esempio, la visita medica tesa ad accertare il danno che la parte ha subito
dall’incidente stradale, oppure la prova ematologica, si tratta quindi di prove scientifiche).
Il giudice, che legittimamente non è nella condizione di effettuare questa attività di percezione autonomamente, deve
rivolgersi ad un tecnico, che svolge l'attività di percezione. Dopodiché presenterà la propria relazione al giudice. La
relazione del consulente tecnico viene avvicinata alla testimonianza, nel senso che, la relazione del tecnico è una
dichiarazione di scienza che il terzo presenta al giudice. Naturalmente, c'è una differenza fondamentale, è una
differenza che si muove a livello formale, perché il consulente tecnico non è un terzo che, come il testimone assiste a
un fatto e poi viene a riferirne, bensì è un incaricato del giudice che va a percepire il fatto che gli viene indicato da
parte del giudice. Inoltre, il consulente tecnico, proprio perché viene scelto fra esperti, non è soggetto ad una
valutazione di attendibilità, cioè la valutazione di attendibilità è una valutazione preventiva che passa attraverso il
meccanismo di nomina del consulente, che viene scelto fra soggetti che sono iscritti in determinati elenchi, in
determinati albi e poi il consulente tecnico viene a svolgere una funzione probatoria. In quanto tale, la consulenza
tecnica deve svolgersi secondo un procedimento, nel rispetto di alcune regole stabilite dal codice di procedura civile,
che tendono a dare attuazione piena al principio del contraddittorio, quindi garantiscono alle parti la possibilità di
prendere parte all'attività del consulente. Il rispetto di queste regole prestabilite (che non si applicano con riferimento
al testimone) è un punto di stacco molto importante: la dichiarazione di scienza del consulente tecnico ha una forza
persuasiva maggiore rispetto alla dichiarazione che proviene dal testimone.
2) La seconda attività, che può essere delegata al consulente tecnico, è un'attività di deduzione, cioè partendo da
alcuni fatti percepiti (generalmente percepiti dallo stesso consulente tecnico, anche se questo non indispensabile) il
consulente tecnico è chiamato a svolgere un’attività logico‐deduttiva, sulla cui base desumere dai fatti percepiti dei
fatti ignoti. Questa attività gli viene delegata quando l'attività deduttiva richiede un sapere tecnico, un sapere
specialistico di cui il giudice è privo. In queste ipotesi il consulente tecnico, generalmente, si vede delegata la duplice
attività, cioè l'attività sia di percezione sia di deduzione. Anche in questa ipotesi è evidente la differenza che passa fra
la consulenza tecnica e la testimonianza, perché al consulente tecnico viene delegata un'attività che è l'attività logico
deduttiva, l'attività logico razionale che generalmente rientra nell’attività del giudice, non è un’attività strettamente
probatoria.
Esempio: consulenza medica, il consulente tecnico, che sarà un medico, non si limita a visitare il paziente ma effettua
anche un’attività di valutazione di ciò che ha percepito.
3) Non si deve escludere che al consulente venga affidata la sola attività di valutazione quindi la sola attività logico‐
deduttiva, logico‐razionale. È possibile che, a fronte di una prova rappresentativa, quindi a fronte, per esempio, di un
documento oppure di una dichiarazione di scienza di un testimone, il giudice ritenga opportuno delegare ad un
consulente tecnico l'attività di deduzione, l'attività di valutazione.
Anche in questo caso ciò si renderà necessario allorquando, per svolgere questa attività valutativa, è necessario essere
in possesso di una serie di competenze, di un sapere scientifico di cui il giudice legittimamente è privo. Per esempio,
laddove sono stati prodotti in giudizio tutta una serie di estratti conto o scritture contabili con riferimento ad una causa
societaria, il giudice può non essere nella condizione di valutare queste scritture e questi documenti e quindi ci può
essere la necessità di delegare questa attività di valutazione al consulente perché soltanto il consulente, che sarà un
economista in questo caso, può ricostruire il significato economico delle operazioni che emergono dalla
documentazione bancaria. In questa ipotesi possiamo dire che l'attività di consulenza non può essere definita un
mezzo di prova perché qui siamo in un campo, quello dell'attività di valutazione dei mezzi di prova, che non rientra
nella nozione di prova.
Infine, è possibile che il giudice deleghi al consulente un'attività più limitata cioè gli chieda di fornirgli, di indicargli le
regole tecniche, riservando a sé stesso l'applicazione di queste regole per la valutazione delle prove in vista della
ricostruzione del fatto.
Nella prima ipotesi, quando il giudice delega al consulente tecnico l'attività di percezione dei fatti possiamo ritenere
che la consulenza tecnica è una vera e propria fonte di prova, nelle altre ipotesi invece la conclusione non è altrettanto
chiara: nella seconda ipotesi, la consulenza tecnica è un mezzo di prova nella parte in cui il giudice delega al consulente
anche l'attività di percezione del fatto, ma laddove il giudice delega al consulente soltanto l'attività di valutazione del
fatto, la consulenza tecnica non può essere ritenuta una fonte di prova. Nella ultima ipotesi la consulenza non è mai
fonte di prova perché siamo in un campo diverso, è un'attività strumentale alla valutazione delle prove da parte del
giudice. In queste ultime ipotesi, la consulenza non è una fonte di prova e il consulente svolge un ruolo di ausiliario del
giudice.
La consulenza tecnica rientra nella disponibilità esclusiva del giudice. Naturalmente valgono, anche con riferimento alla
consulenza tecnica, gli stessi limiti che gravano sul giudice ogni volta che esercita un potere istruttorio d'ufficio. Quindi,
il giudice è soggetto al divieto di utilizzazione del sapere privato e di conseguenza la consulenza tecnica non può essere
utilizzata per finalità meramente esplorative, deve essere sempre esercitata allo scopo di accertare fatti che
legittimamente risultano dagli atti processuali e inoltre, deve essere svolta sempre nel rispetto del principio del
contraddittorio, che possiamo indicare come la ratio che sta a fondamento della disciplina processuale dell’istituto.
Se tradizionalmente si ritiene che il potere di nominare un consulente tecnico d'ufficio sia un potere discrezionale da
parte del giudice, sia una facoltà che il giudice può liberamente decidere di esercitare o meno; più di recente si
afferma, in dottrina e in parte anche in giurisprudenza, che laddove la consulenza è necessaria per accertare
l'esistenza, il modo d'essere dei fatti del processo, fatti principali o secondari, perché l'accertamento rende
indispensabile una serie di cognizioni tecniche, si ritiene che la consulenza tecnica d'ufficio non sia un potere del
giudice ma sia un diritto che deve essere riconosciuto alle parti. Un diritto che è strumentale a soddisfare l'onere della
prova di cui all'articolo 2697 del codice civile.
Lo svolgimento della consulenza tecnica è subordinato al rispetto di tutta una serie di regole.
La consulenza tecnica, generalmente, viene disposta nell'ambito di un processo ma, come vedremo nel secondo
semestre, l'ordinamento processuale consente anche di disporla in via preventiva, quindi prima che il processo si apra
(si applicano gli articoli 696 e seguenti del codice di procedura civile). Questo è legato a situazioni in cui si apra il rischio
che si verifichino dei mutamenti nello stato dei luoghi oppure possa essere modificata la qualità o la condizione delle
cose: c’è l’urgenza di verificare lo stato dei luoghi o la qualità o la condizione di cose.
Il giudice istruttore, in base agli articoli 61 e 191 del codice di procedura civile, nomina il consulente, scegliendolo tra
persone che sono iscritte in appositi albi. Questi albi devono essere formati nel rispetto di alcune garanzie. Il
consulente tecnico ha l'obbligo di prestare il proprio ufficio, a meno che il giudice non riconosca la sussistenza di un
giusto motivo di astensione. Alle parti viene offerta la possibilità di ricusarlo, quindi vengono richiamati i motivi di
ricusazione di cui all'articolo 51(la norma di riferimento è l'articolo 63) perché, visto che, il consulente affianca il
giudice, si vuole che il consulente sia in una posizione di terzietà e di neutralità e di equidistanza rispetto alle parti
proprio come richiesto al giudice. Quindi, le norme relative la ricusazione sono richiamate espressamente anche con
riferimento al consulente. Il codice stabilisce che, nel momento in cui il giudice nomina il consulente, nell’ordinanza di
nomina deve specificare l'incarico che affida a questi e deve formulare i cosiddetti quesiti che hanno ad oggetto gli
accertamenti e le valutazioni che il consulente è chiamato ad effettuare.
Il giudice ha sempre il potere di ordinare la rinnovazione della consulenza tecnica, così come, ha il potere di sostituire il
consulente tecnico laddove ricorrano dei gravi motivi (l'articolo 196).
Il consulente si vuole che sia in una posizione di terzietà ed imparzialità. Questo è un è un principio che possiamo
desumere sia dall' articolo 192, che ricorda l’obbligo di astensione, che dall'articolo 63, che prevede il diritto della
ricusazione da parte delle parti, ma anche dall’articolo 193, che prevede il giuramento del consulente, afferma, infatti,
che “all’udienza di comparizione il giudice istruttore ricorda al consulente l'importanza delle funzioni che è chiamato ad
adempiere e ne riceve il giuramento di bene e fedelmente adempiere le funzioni affidategli al solo scopo di far
conoscere ai giudici la verità”.
Il codice, per assicurare il pieno rispetto del contraddittorio, consente alle parti (articolo 201) di nominare i propri
consulenti: i consulenti tecnici di parte. Le parti hanno la possibilità di assistere direttamente oppure tramite i propri
consulenti tecnici oppure tramite i propri difensori alle operazioni poste in essere dal consulente e possono
presentare, per iscritto oppure in forma orale, osservazioni e istanze (articolo 194 cpc).
Le modalità di svolgimento della consulenza sono tese ad assicurare, da una parte, la terzietà e l'imparzialità del
consulente, dall'altra, il principio del contraddittorio, il diritto di difesa delle parti. La consulenza tecnica d'ufficio è una
prova libera, quindi soggetta al libero apprezzamento del giudice. Laddove al consulente è stata delegata un'attività di
percezione, il giudice non è tenuto a ritenere esistenti e provati i fatti che il consulente dichiara di aver percepito.
Infatti, il giudice può desumere l'esistenza o meno o il modo d'essere di questi fatti anche da altre prove che sono stati
legittimamente acquisite nell'ambito del processo. Il giudice non è mai vincolato a quello che afferma/riporta il
consulente tecnico, anche laddove al consulente è stata demandata l'attività di deduzione oppure l'attività di
indicazione delle regole del sapere tecnico che poi utilizzerà direttamente il giudice. La delicatezza della efficacia della
consulenza tecnica, che risiede proprio nella circostanza che la ratio che sta a fondamento di questo istituto, è che il
giudice, come tecnico del diritto, legittimamente non è in possesso di tutti i saperi tecnico‐scientifici che possono
rendersi necessari per lo svolgimento della sua attività e quindi il consulente è un esperto, che viene chiamato a
colmare questo vuoto nel sapere del giudice.
Questo, naturalmente, spiega la fondamentale domanda relativa al se il giudice possa effettuare un controllo su
quanto gli porta il consulente tecnico, sui fatti che il consulente ha percepito e soprattutto sulle valutazioni tecniche
che il consulente tecnico effettua. Il quesito è facile da comprendere perché se il giudice nomina il consulente tecnico
d'ufficio per sopperire ad un proprio deficit, sorge la domanda: in che limiti il giudice è nella condizione di controllare
quanto il consulente riferisce? Il principio fondamentale è che la consulenza tecnica non vincola mai il giudice. Si dice,
infatti, che il giudice è il perito dei periti (peritus peritorum).
Un principio sacrosanto, che è stato adottato dall’ordinamento, è quello secondo cui il giudice è sempre libero di
discostarsi dalla consulenza tecnica d'ufficio. Può ordinare la rinnovazione della consulenza tecnica, può sostituire il
consulente tecnico, ma il giudice può anche utilizzare quanto affermato dai consulenti tecnici di parte. Il controllo che il
giudice effettua sulla consulenza tecnica d'ufficio non è mai un controllo pieno perché, per definizione, il giudice non
ha il sapere tecnico del consulente. Se da una parte, a causa di questa mancanza, il giudice non può effettuare un
controllo pieno, quindi non può ripetere autonomamente l'attività di percezione e/o deduzione che ha svolto il
consulente tecnico, il giudice può fare un altro tipo di controllo:
1) un controllo di regolarità del modo di svolgimento della consulenza, quindi il rispetto delle regole fissate nel codice
di procedura civile e in particolare il rispetto delle regole relative al principio del contraddittorio;
2)un controllo in ordine alla spiegazione che il consulente tecnico ha posto a fondamento della sua relazione, quindi
può effettuare un controllo di tipo logico sulla relazione che il consulente tecnico presenta, un controllo che in un certo
senso richiama quell’attività di tipo logico di verifica della congruità della motivazione ( che vedremo può essere svolta
dalla Corte di Cassazione quando è adita in base al numero 5 dell'articolo 360 ). Questo controllo secondo alcuni
richiama il controllo di legittimità che il giudice amministrativo svolge sui provvedimenti amministrativi.
Queste osservazioni portano a ritenere che il punto veramente importante nella consulenza tecnica d'ufficio è il
rispetto delle regole processuali, a partire dalla nomina per arrivare al procedimento, che si deve svolgere nel pieno
contraddittorio delle parti. Soltanto il rispetto di queste regole è garanzia di esattezza dei risultati a cui la consulenza
tecnica perviene. Se queste regole non sono rispettate, soprattutto se non viene rispettato il principio del
contraddittorio, la conseguenza dovrebbe essere la impossibilità di utilizzare la consulenza tecnica d'ufficio. La
consulenza che si è svolta in maniera illegittima non dovrebbe essere utilizzata e il giudice non potrebbe fondare il
proprio convincimento in ordine all'esistenza e al modo d'essere dei fatti della controversia sulla consulenza. Questo
significa che il giudice non può utilizzare una consulenza tecnica, che si è svolta in maniera illegittima, neppure come
un indizio o come fonte di presunzioni.
Domanda:
Nel caso in cui il consulente tecnico d'ufficio non abbia rispettato e tutte queste regole processuali il giudice può
nominare un altro consulente tecnico d’ufficio?
Risposta: Si, c’è il potere di sostituzione, è una delle ipotesi in cui si può ritenere esistente il grave motivo e quindi il
giudice può certamente sostituire il consulente
Ciò che è stato detto ci consente di spiegare il motivo per cui si dovrebbe ritenere che è priva di qualsiasi efficacia la
cosiddetta consulenza tecnica privata o la consulenza tecnica stragiudiziale, cioè quella consulenza che viene redatta
da un tecnico, da un esperto su incarico delle parti, fuori del processo e che viene presentata a conclusione di
un’attività che si è svolta in assenza di contraddittorio. Attenzione a non cadere nell’equivoco e lasciare uno spazio a
questo tipo di consulenza, anche in ipotesi in cui si sia verificato un mutamento delle cose e dei luoghi oppure sia
morta la persona, per cui non è più possibile esperire la consulenza tecnica d'ufficio quindi nel rispetto delle regole
stabilite dal codice di procedura civile. Il codice prevede un istituto ad hoc perché possa essere disposta una
consulenza tecnica d'ufficio prima del processo (articoli 696 e seguenti del codice di procedura civile).
Per cui, se le parti non si avvalgono di questa possibilità e danno un incarico privatamente a un tecnico che svolge
questa attività autonomamente, fuori del processo e senza rispettare il principio del contraddittorio, la sua relazione
deve essere ritenuta soltanto un foglio di carta, è un documento totalmente inutilizzabile nel processo, almeno nel
processo a cognizione piena.
Se si aprisse alla possibilità di utilizzare un simile documento, si svuoterebbe di significato tutta la disciplina contenuta
negli articoli 191 e seguenti del codice di procedura civile. Se veramente lo stato dei luoghi è definitivamente mutato o
si è definitivamente alterato o la persona oggetto della consulenza è deceduta, e quindi non può più essere ascoltata,
l'unica possibilità è di consentire alle parti di chiamare questo tecnico che ha effettuato la perizia in sede stragiudiziale
come testimone e quindi, farla passare attraverso la dichiarazione di questo terzo e acquisirla del processo nel rispetto
delle regole relative alla prova testimoniale.
CONSULENZE TECNICHE STRAGIUDIZIALI
Per quanto riguarda le consulenze tecniche stragiudiziali, sono volte da funzionari pubblici nei limiti della propria
competenza così come definita dalla legge e nello svolgimento delle funzioni che affida loro la legge. Siamo di fronte
ad ipotesi molto diverse, si tratta di pubblici funzionari, quindi di persone che sono titolari di una serie di funzioni di
accertamento in base alla legge e che, in base a quanto previsto dalla legge 241 del 1990 sul procedimento
amministrativo, dovrebbero svolgere tutte queste attività nel rispetto del principio del contraddittorio. Sono attività
che, sebbene si svolgano al di fuori del processo, quindi si tratta di consulenze tecniche che si svolgono in sede
stragiudiziale e sono svolte da soggetti che per espressa previsione di legge svolgono queste attività, sono svolte nel
rispetto del principio del contraddittorio. Se poi questi pubblici funzionari, nello svolgimento della loro attività, sono
pubblici ufficiali, in base a espressa previsione di legge e in base alla legge sono legittimati a redigere dei verbali sui
fatti che sono avvenuti in loro presenza o che sono stati compiuti da loro stessi, in virtù di quanto previsto nell'articolo
2700 del codice civile, si deve ritenere che sul piano giuridico queste relazioni possano effettivamente avere
un’efficacia di piena prova fino a querela di falso. Comunque, si tratta di ipotesi particolari e questo deve valere con
riferimento limitato a ciò che questi pubblici ufficiali dichiarano di aver percepito. Questa efficacia di prova legale mai
può riguardare l'attività di valutazione, l'attività di deduzione.
PRESUNZIONI: legali assolute, semplici, relative, giurisprudenziali.
Abbiamo richiamato più volte la nozione di presunzione, parlando della prova avente ad oggetto i fatti secondari si
parla, generalmente, di presunzioni. Quando abbiamo parlato della distinzione tra fatti costitutivi e fatti impeditivi, vi
ho ricordato che una delle tecniche che legislatore utilizza per la distribuzione dello stesso fatto tra i fatti costitutivi e i
fatti impeditivi è la tecnica della presunzione relativa (esempio della buona fede che è presunta). Siamo di fronte ad un
termine che il legislatore utilizza per indicare dei fenomeni diversi. Le disposizioni di riferimento sono gli articoli 2727
fino al 2729 del codice civile.
Sotto il termine presunzione ritroviamo tre fenomeni completamente diversi: il primo caso sono le presunzioni,
cosiddette, semplici; quando si parla di inversione dell'onere della prova, invece, siamo di fronte alle presunzioni
cosiddette legali relative; ma esistono anche le presunzioni legali assolute. Abbiamo una definizione di presunzione
perché l'articolo 2727 ci indica lo schema della presunzione, che altro non è che un ragionamento deduttivo su la cui
base si può passare da un fatto ad un altro fatto. Infatti, l'articolo ci dice che “le presunzioni sono le conseguenze che la
legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato”. Quindi, la presunzione non è altro che un tipo di
ragionamento, è un’attività logico deduttiva.
Le tre forme di presunzione sono dei fenomeni completamente diversi:
Presunzioni legali
le presunzioni legali assolute sono un fenomeno di tipo sostanziale che non ha una incidenza, se non in diretta con il
tema delle prove. Le presunzioni legali assolute sono una tecnica legislativa che il legislatore sostanziale utilizza nel
momento in cui formula la norma generale e astratta. A fondamento delle presunzioni legali assolute ci sta la
consapevolezza di ciò che un determinato fatto, con estrema probabilità, in determinate situazioni è fonte di
presunzione della esistenza di un fatto ulteriore.
Il legislatore sostanziale, nel momento in cui formula la norma generale e astratta, sostituisce al fatto principale il fatto
secondario. Fatto secondario che, se originariamente è fatto fonte di presunzione, a seguito di questa operazione,
prende il posto del fatto principale.
Quindi, il legislatore dopo aver fatto questa operazione, correla la produzione dell'effetto giuridico direttamente al
fatto secondario che ha sostituito, nella fattispecie, il fatto originariamente principale da provare.
L’esempio che trovate su tutti i manuali è in tema di successioni e sono gli articoli 596 e seguenti in tema di incapacità
a succedere, che prevedono che alcuni soggetti sono incapaci di ricevere per testamento, si tratta di persone che
hanno svolto particolari uffici, particolari funzioni nell’interesse del de cuius oppure hanno svolto determinate attività
in occasione della redazione del testamento. Nell'articolo 596 del codice civile c’è scritto che “sono nulle le disposizioni
testamentarie della persona sottoposta a tutela in favore del tutore se fatte dopo la nomina di questo e prima che sia
approvato il conto o sia estinta l'azione per il rendimento del conto medesimo, quantunque il testatore sia morto dopo
l'approvazione”; nell’articolo 597 “sono nulle le disposizioni a favore del notaio o di altro ufficiale che ha ricevuto il
testamento pubblico ovvero a favore di alcuno dei testimoni o dell’interprete intervenuti al testamento medesimo”;
nell’articolo 598 “sono nulle le disposizioni a favore della persona che ha scritto il testamento segreto salvo etc.”
Queste sono persone, che in virtù dell’ufficio dell’attività svolta in riferimento al momento in cui il de cuius ha redatto il
proprio testamento, sono incapaci a succedere e di conseguenza afferma che le disposizioni testamentarie fatte a loro
favore sono nulle.
Nell'articolo 599 trovate scritto che “le disposizioni testamentarie a vantaggio delle persone incapaci, indicate negli
articoli 596‐597‐598, sono nulle anche se fatte sotto nome di interposta persona”. Il c. 2 dell'articolo 599: “sono
reputate persone interposte il padre, la madre, i discendenti e il coniuge della persona incapace, anche se chiamati
congiuntamente con l’incapace” L'articolo 599 c.2, considerati i rapporti, le relazioni di coniugio o di parentela tra la
persona incapace e i soggetti che sono qua richiamati, afferma che le disposizioni testamentarie, fatte a favore di
questi soggetti sono nulle perché sono reputate persone interposte.
Il fatto interposizione di persona, che è il fatto principale di cui al primo comma dell'articolo 599, viene sostituito, da
parte del legislatore, con l'indicazione di una serie di persone che sono ritenute di per sé interposte. Quindi il fatto
secondario, cioè esistenza di una relazione di coniugio oppure di parentela che è indice del fatto principale da provare,
che è il fatto interposizione, da fatto secondario diventa fatto principale. Quindi, l'effetto nullità della disposizione
testamentaria è collegato direttamente alla circostanza che le disposizioni siano effettuate a favore di queste persone,
cioè delle persone che hanno un rapporto di coniugio o di parentela con l’incapace a succedere. Si tratta di
un'operazione che si muove tutta a livello sostanziale, è un’operazione che riguarda la norma generale e astratta e ha
delle ripercussioni sul piano processuale e sul piano dell'onere della prova perché la parte che intende far valere la
nullità non è tenuta a provare che la disposizione testamentaria, fatta favore del coniuge o del parente, sia una forma
di interposizione. È sufficiente, per la parte provare che la persona, a cui vantaggio è stata prevista una disposizione
testamentaria, è legata da un vincolo di coniugio o di parentela rispetto all’incapace a succedere.
Pur essendo un’operazione che si svolge a livello sostanziale ha ripercussioni indirette sull’onere della prova perché la
parte interessata dovrà provare il fatto secondario, che, a seguito di questa operazione, ha sostituito il fatto principale
da provare. Lo scopo di questa operazione è quello di perseguire esigenze di certezza e di facilitare una certa parte,
perché il legislatore ha sostituito un fatto difficile da provare (l'interposizione), con un fatto diverso che è più chiaro e
facilmente individuabile.
Presunzioni relative
Le presunzioni relative sono disciplinate agli articoli 2727 e seguenti, sono previste nell'articolo 2728. È una tecnica
utilizzata dal legislatore per qualificare un fatto come impeditivo e non costitutivo nell'ambito di una determinata
fattispecie legale astratta. Anche questa è un'operazione che si muove sul piano sostanziale ma ha un’incidenza diretta
sugli oneri della prova, perché sposta un fatto dai fatti costitutivi, la cui prova è a carico dell'attore, ai fatti impeditivi, la
cui prova è a carico del convenuto. È attraverso la tecnica delle presunzioni relative che il legislatore può fare delle
scelte politiche, facilitando la posizione di un cittadino o di un determinato gruppo di cittadini: “le presunzioni legali
dispensano da qualunque prova coloro a favore dei quali essi sono stabilite. Contro le presunzioni sul fondamento delle
quali la legge dichiara nulli certi atti o non ammette l'azione in giudizio non può essere data prova contraria salvo che
questa sia consentita dalla legge stessa”. Nell’ambito delle presunzioni legali, cosiddette relative, si ha uno
spostamento dell'onere della prova e si parla di presunzioni relative perché, come regola generale, può essere offerta
la prova contraria. Gli esempi di presunzioni legali relative sono, in primis, l'articolo 1147 del codice civile secondo cui il
possesso e la buona fede presunta, l'articolo 1335 del codice civile in tema di proposta e accettazione che si reputano
conosciute nel momento in cui giungono all’indirizzo del destinatario, l'articolo 1709 del codice civile secondo cui il
mandato si presume oneroso, l'articolo 1767 del codice civile secondo cui invece il contratto di deposito si presume
gratuito, l'articolo 2600 del codice civile secondo cui accertati gli atti di concorrenza la colpa si presume.
Presunzioni semplici
Infine, le presunzioni semplici, articolo 2729, si tratta di ipotesi in cui l’oggetto dei mezzi di prova non sono i fatti
principali, che sono fatti giuridicamente rilevanti (fatti costitutivi, modificativi, estintivi, impeditivi) ma sono fatti
diversi: sono i fatti cosiddetti secondari. “Le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del
giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti. Le presunzioni non si possono
ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni”. Non è un mezzo di prova, le presunzioni semplici
sono ipotesi in cui, attraverso i mezzi di prova, si acquisisce la conoscenza di fatti secondari detti anche indizi e/o
presunzioni (la prova per presunzioni). Sono ipotesi in cui, a differenza delle precedenti, è il giudice a dover effettuare
questa attività di deduzione del fatto ignoto da un fatto noto.
Le presunzioni non sono altro che, “il ragionamento per il cui tramite, il giudice una volta acquisito attraverso le fonti
materiali di prova la conoscenza di un fatto secondario desume l'esistenza o meno di un fatto principale ignoto”.
Nell’ipotesi in cui, attraverso le fonti materiali di prova, il giudice acquisisce la conoscenza dei fatti cosiddetti secondari
abbiamo la cosiddetta prova per presunzioni, detta anche prova critica, che risponde ad uno schema piuttosto
complesso.
Il giudice non deve semplicemente valutare il mezzo di prova (che può essere la prova documentale o la prova
testimoniale) ma, dopo aver valutato la prova per stabilire l'esistenza o meno del fatto oggetto della prova che è il fatto
secondario, deve svolgere una ulteriore attività logico deduttiva per passare dal fatto noto che il fatto secondario, il
fatto provato, al fatto ignoto che è il fatto principale, è il fatto giuridicamente rilevante. Se il fatto secondario è stato
direttamente percepito dal giudice attraverso l’ispezione, l'attività del giudice è un'attività di percezione del fatto
secondario e poi un’attività logico‐deduttiva per passare dal fatto secondario percepito al fatto principale da provare.
Se invece il giudice acquisisce la conoscenza del fatto secondario da una prova rappresentativa quindi da un
documento o dalla dichiarazione di scienza del terzo, l'attività è molto più complessa: il giudice percepisce il fatto
rappresentativo, cioè documento o dichiarazione di scienza del terzo, dal fatto rappresentativo attraverso l’attività
logico‐deduttiva, il giudice acquisisce la conoscenza del fatto oggetto della prova (il fatto secondario), dopodiché,
attraverso una ulteriore attività logico‐deduttiva, il giudice, dal fatto provato che il fatto secondario può desumere
l'esistenza del fatto da provare che è il fatto principale, il fatto costitutivo, modificativo, estintivo, impeditivo. È
un’attività estremamente complessa (1.10.38 – linea assente ) fatto principale ignoto.
È un'attività che riproduce lo stesso ragionamento sillogistico che rappresenta l'attività che svolge il giudice nel
momento in cui valuta le prove in base all'articolo 116. È un'attività che viene svolta sulla base di una massima di
comune esperienza.
La lettera dell'articolo 2729 sembra alludere alla necessità che il giudice debba sempre acquisire la conoscenza del
fatto ignoto, del fatto principale, da più fatti secondari perché si parla di presunzioni gravi, precise e concordanti,
quindi si usa il plurale quasi a dire che sono necessari più indizi, più fatti secondari, per fondare l'esistenza del fatto
principale. Quando vi affaccerete negli uffici giudiziari sentirete dire “tre indizi fanno una prova”, in verità, quello che la
dottrina più attenta sottolinea è che, ciò che è importante, non è solo il numero degli indizi che il giudice acquisisce,
dei fatti secondari, quello che è molto importante è la forza della massima di comune esperienza che il giudice applica.
Cioè se la massima di comune esperienza è una massima forte, è una massima che è tratta da leggi scientifiche, non
sono necessari più indizi o più fatti secondari ne basta anche uno solo, perché è la massima di comune esperienza che
assicura la stabilità della conclusione a cui il giudice perviene, quindi della valutazione di esistenza e del modo d'essere
del fatto ignoto che è il fatto principale da provare.
Presunzioni giurisprudenziali
A queste presunzioni possiamo affiancare una serie di meccanismi di tipo presuntivo che si chiamano presunzioni
giurisprudenziali e che sono delle figure di matrice giurisprudenziale, che non trovano alcuna previsione normativa e
per questo motivo sono avversate dalla dottrina.
Il primo caso è quello in cui, al di là di ogni previsione normativa, il giudice crea la presunzione della verità di un fatto e
quindi, nonostante, che in base alla legge sostanziale, sia una parte a dover provare un certo fatto, il giudice da quel
fatto come esistente e di conseguenza scarica sulla controparte l'onore di provare il contrario. Esempi:
1. presunzione di gratuità della prestazione di lavoro tra familiarila
2. presunzione del carattere fraudolento del licenziamento di un lavoratore subordinato seguito subito dopo
dalla riassunzione dello stesso lavoratore con le medesime mansioni
3. l'incapacità del testatore che è affetto da malattia che influisce permanentemente sulla psiche nel momento
di redazione del testamento.
Sul piano operativo, questa tecnica richiama molto le presunzioni legali relative (articolo 2728) ma c'è una differenza
fondamentale: le presunzioni legali relative sono poste in essere dal legislatore mentre queste presunzioni
giurisprudenziali sono operazioni che vengono compiute in via creativa dal giudice e che va a incidere sul riparto
dell'onere della prova tra le parti.
Fra queste operazioni è stato, per esempio, indicato anche l'intervento della Corte di Cassazione in tema di
inadempimento e onere della prova (sezioni unite del 2001). Questo spiega perché la dottrina, da sempre critica
queste operazioni che non trovano alcun riscontro a livello normativo e finiscono per violare l'articolo 2697 e seguenti.
Un'altra figura, ancora di matrice giurisprudenziale, è la cosiddetta prova prima facie. Anche in questo caso, al di là di
ogni previsione normativa, in alcune situazioni considerate tipiche, il giudice ritiene sufficiente, affinché una parte
soddisfi il proprio onere della prova, che dimostri l'apparenza o la verosimile esistenza del fatto, scaricando sulla
controparte l'onere di provare che i fatti si siano svolti in maniera diversa da come appaiono prima facie. Anche questa
è un’operazione svolta in totale assenza di una previsione normativa.
PROVA ATIPICA:
La prova atipica: ci dobbiamo interrogare in ordine alla possibilità che il giudice possa fondare il proprio convincimento
anche su mezzi di prova che non corrispondono pienamente a quanto stabilito nel codice civile e nel codice di
procedura civile e che per questo motivo vengono chiamate prove atipiche.
È una tematica estremamente controversa in dottrina ma è una tematica con cui dobbiamo confrontarci perché nel
momento in cui entrerete negli uffici giudiziari sarete messi a confronto con queste fattispecie. Il dibattito trova la
propria origine nella circostanza che, spesso e volentieri, negli uffici giudiziari vengono presentate e talvolta utilizzate
anche prove che non rispondono alla disciplina prevista dalla legge. Questo perché si tratta dei mezzi di prova che sono
state (le fonti materiali prova sappiamo che sono sempre le stesse, sono le ispezioni, il documento o la dichiarazione di
scienza del terzo) acquisite secondo modalità completamente diverse rispetto a quelle stabilite dalla legge. La atipicità
non può riguardare le fonti di prova, ma riguarda le modalità di acquisizione della prova. La atipicità non può
riguardare neppure l'attività di valutazione della prova perché è un'attività già atipica, nel senso che è un'attività
rimessa alla discrezionalità del giudice ed è un'attività che il giudice svolge applicando lo schema del sillogismo e sulla
base di queste massime di comune esperienza. Le prove atipiche sono prove che sono acquisite secondo modalità
diverse rispetto a quelle previste dalla legge.
Alcuni esempi concreti, tratti dalla prassi dei nostri uffici giudiziari: la dichiarazione di scienza che è contenuta in un
atto scritto proveniente da un terzo, la perizia stragiudiziale, le prove che sono state acquisite nell'ambito di un altro
processo, in particolare nell'ambito di un processo penale oppure una sentenza resa nell'ambito di un diverso processo
per esempio la sentenza penale con riferimento ai fatti di cui la stessa esprime l'accertamento oppure si fa le prove
nuove, cioè quelle prove che sono create dal progresso delle scienze e della tecnologia, come la prova del DNA o le
prove ematologiche, che sono prove molto più lontane rispetto a quanto stabilito nel codice civile e nel codice di
procedura civile.
Con riferimento alle dichiarazioni di scienza riportate da un terzo in forma scritta, si deve dire che, a detta di alcuni
esponenti della dottrina, la circostanza che il legislatore del 2009 abbia introdotto la testimonianza scritta nell'articolo
257 bis del codice civile, un certo peso ce l'ha, perché qui il legislatore in maniera, più o meno consapevole, ha
derogato ad una norma fino a quel momento sacrosanta, cioè che la dichiarazione di scienza del terzo la si acquisisce
solo in forma orale, in udienza, di fronte al giudice e di fronte alle parti. Quando parlo di documenti che riportano la
dichiarazione di scienza scritta di un terzo, parlo di un qualcosa completamente diverso dall'articolo 257bis perché, in
base a questa disposizione, la testimonianza scritta passa attraverso l'accordo delle parti, l'autorizzazione del giudice,
l'utilizzo di un modello prestampato che è stato redatto dal ministero della giustizia. Bisogna tener conto di questa
novità: la giurisprudenza non si pone grossi problemi nell’ammettere la possibilità che il giudice, anche in sede di
processo a cognizione piena, utilizzi le prove atipiche e lo ammette facendo leva sulla circostanza secondo cui non
esiste nel nostro ordinamento una norma che sancisca il carattere tassativo delle prove. D’altra parte, le prove sono
soggette al libero apprezzamento del giudice, quindi la giurisprudenza la troverete piuttosto aperta.
Invece i problemi vengono dalla dottrina, che si divide in più orientamenti: c'è chi è totalmente chiuso alla possibilità di
utilizzare le prove atipiche almeno nel processo a cognizione piena, c'è chi ammette che il giudice possa utilizzare le
prove atipiche ma soltanto per supportare i risultati che sono stati acquisiti attraverso le prove in senso tecnico, c'è chi
ammette la possibilità che il giudice possa fondare il proprio convincimento anche sulle prove atipiche, facendo leva
sul fatto che, come regola generale, il nostro ordinamento ha accolto il principio della libera valutazione delle prove da
parte del giudice ma lo subordina al rispetto di alcune fondamentali regole, ad alcune limitazioni molto importanti e
cioè al rispetto del principio del contraddittorio, sia con riferimento al momento in cui la prova viene acquisita sia al
momento in cui viene valutata e alla circostanza che questi mezzi di prova non vadano a sostituire le prove in senso
tecnico disciplinate dalla legge e soprattutto, non si riducano ad una assunzione, in via irrituale, di una prova tipica.
Quest’ultima posizione è una posizione meritevole di essere considerata, è una prospettiva che merita una riflessione,
è un campo problematico.
Non ci sono certezze, si può dire che la disciplina contenuta nel processo, nel secondo libro del codice di procedura
civile, è molto rigida nell’invitare le fonti di prova e soprattutto nelle modalità di acquisizione delle fonti di prova.
Dobbiamo fare i conti anche con quello che succede nei nostri uffici giudiziari: vi troverete difronte anche a queste
fattispecie e la cosa più sensata da fare in questo momento, dopo aver preso atto della problematicità di questo
ambito, è quella di mettere delle limitazioni e di stabilire con certezza quand'è che sicuramente queste prove atipiche
non possono essere utilizzate. Quindi, sicuramente, non dovrebbero essere utilizzati i documenti che contengono
dichiarazioni di scienza di soggetti terzi, almeno nel processo a cognizione piena, perché il codice di procedura è molto
chiaro nella disciplina delle modalità di acquisizione della dichiarazione di scienza del terzo, che deve passare
attraverso le forme della testimonianza, che sono scritte allo scopo di garantire pienamente i valori fondamentali del
processo, ricordando anche che l'ordinamento offre alle parti la possibilità di acquisire questa dichiarazione di scienza
prima e al di fuori del processo attraverso gli articoli 692 e seguenti del codice di procedura civile. Inoltre, non
dovrebbero essere utilizzabili le scritture che contengono le perizie private stragiudiziali perché questa apertura
svuoterebbe di significato tutta la disciplina della consulenza tecnica d'ufficio, così come disciplinata dagli articoli 191 e
seguenti, considerato anche che l'ordinamento offre la possibilità di chiedere una consulenza tecnica d'ufficio anche
prima e al di fuori del processo (articoli 696 e seguenti del codice di procedura civile), salvo la grossa deroga prevista
per i verbali redatti dai pubblici funzionari incaricati dalla legge di svolgere funzioni di controllo. Infine, un’ultima
limitazione, i mezzi di prova che sono assunti illegittimamente, cioè in violazione dei limiti di ammissibilità e in
violazione delle regole che disciplinano le modalità di acquisizione delle singole prove. Questo perché le prove sono
funzionali alla formazione del convincimento del giudice e quindi le violazioni in tema di ammissibilità o di assunzioni
non dovrebbero essere sanabili in base alla disciplina della nullità degli atti processuali.
Per quanto riguarda le prove raccolte nell'ambito di un diverso giudizio, se quel processo si è svolto fra le stesse parti,
la questione è meritevole di una riflessione, salvo considerare che il diritto di difesa non è qualcosa di astratto ma si
misura sempre con il bene della vita che è in gioco. Il cittadino calibra il proprio sforzo difensivo in relazione al bene
della vita che è il gioco quindi, il momento in cui si valuta la possibilità di utilizzare in un processo le prove che sono
state acquisite in un altro processo, sia pure fra le stesse parti, si dovrebbe tener conto di questo principio. In base
all'articolo 238 c. 2 del codice di procedura penale e ammessa nel processo penale l'acquisizione di prove assunte in un
giudizio civile definito con sentenza che abbia acquistato autorità di cosa giudicata. È evidente che questa disposizione
è destinata ad avere un grosso peso su questo dibattito.
Inoltre, è molto importante tenere distinte le prove atipiche da altri fenomeni, per esempio dalle presunzioni semplici
(articolo 2729 del codice civile) oppure dagli argomenti di prova (articolo 116 secondo comma). Spesso queste
espressioni vengono mescolate e si dice che una prova tipica la possiamo utilizzare come un indizio, la possiamo
utilizzare come argomento di prova, invece, si tratta di istituti diversi e devono essere valutati e considerati per quello
che sono.
PROVE ILLECITE
Infine, per quanto riguarda le prove cosiddette illecite: è un tema contiguo a quello delle prove atipiche perché,
spesso, si fanno passare per prove atipiche delle prove illecite. Il problema della prova illecita, storicamente parlando,
si è posto con riferimento alla possibilità di utilizzare, nell'ambito di un processo, un documento illecitamente
sottratto, cioè una prova precostituita che viene fatta entrare nel processo nel rispetto della disciplina stabilita dal
codice di procedura civile ma di cui, la parte che intende avvalersene, è entrata in possesso in maniera illecita cioè
violando delle norme sostanziali. La nozione di prova illecita si è poi ampliata e vi rientra un lungo catalogo fattispecie
piuttosto eterogenee.
La dottrina vi fa rientrare le prove costituende che sono inammissibili ma che comunque sono state assunte, oppure le
prove costituende che sono ammissibili ma che sono state assunte in maniera irregolare cioè non conforme a quanto
previsto dalla legge, oppure le prove costituende o le prove precostituite che si sono formate in maniera irregolare,
oppure le prove precostituite di cui una parte sia entrata in possesso in modo illecito, oppure le prove precostituite che
sono state prodotte nel processo in violazione dei termini delle preclusioni istruttorie.
In verità, la casistica giurisprudenziale è ancora più ampia e soprattutto è in crescente espansione e riguarda
soprattutto alcune tipologie di controversie: le controversie di lavoro e separazione personale.
Una delle prime ipotesi su cui la giurisprudenza ha dovuto confrontarsi è quella dell’interrogatorio formale in cui la
parte interrogata è stata chiamata a rendere confessione su fatti diversi rispetto a quelli riportati nei capitoli della parte
che lo aveva richiesto. A questa ipotesi se ne sono affiancate molte altre, per esempio, la possibilità di utilizzare
scritture e libretti di banca per fornire la prova di un credito ereditario da parte di un soggetto che ne era entrato in
possesso illecitamente, introducendoci nella abitazione del defunto, senza avvertire gli eredi legittimi, oppure la
possibilità di utilizzare corrispondenza epistolare riservata quindi in violazione delle norme relative al diritto d'autore,
la possibilità di utilizzare registrazioni di conversazioni avvenute in vario modo.
Sono ricorrenti poi le ipotesi in cui si pone il problema della possibilità di acquisire al processo documentazione di vario
tipo in violazione del diritto alla riservatezza e alla privacy.
Per esempio, il padre che, nell'ambito di un giudizio avente di disconoscimento della paternità, fa prelevare,
all’insaputa del figlio campioni DNA lui appartenenti e li fa analizzare da un laboratorio e vuole utilizzare i risultati da
cui emerge l’incompatibilità del profilo genetico, oppure l’ipotesi del medico condannato al risarcimento del danno per
aver comunicato e diffuso a terzi una relazione avente ad oggetto lo stato di salute di un paziente, successivamente
prodotta per provare determinati fatti in un giudizio civile. E poi, nell'ambito, per esempio, delle controversie di lavoro,
a fronte della produzione in giudizio da parte del datore di lavoro di riprese audio e video effettuate dallo stesso in
violazione di quanto stabilito nell’articolo 4 dello statuto dei lavoratori, per dimostrare la giusta causa del
licenziamento, oppure la possibilità per i lavoratori di produrre in giudizio documenti aziendali riservati. Nell’ambito
delle controversie di separazione personale si è posto il problema relativo alla possibilità di produrre in giudizio per
provare l'infedeltà varie riproduzioni di conversazioni telefoniche intercorse fra il coniuge e un soggetto terzo, oppure
lettere che sono state scritte da un coniuge nei confronti di un terzo e che l'altro coniuge intercetta oppure la
possibilità di utilizzare sms e WhatsApp che vengono presi dal telefono del coniuge oppure la possibilità di utilizzare la
documentazione bancaria del coniuge di cui la parte è entrata in possesso illegittimamente. Si tratta di una casistica
estremamente eterogenea che è destinata ad espandersi.
Per quanto riguarda le posizioni che si registrano in dottrina e giurisprudenza non c'è uniformità di vedute, ci sono
delle grosse discussioni e infatti, non ci sono semplicemente le posizioni estreme di chi vorrebbe sempre ammetterle o
di chi, invece, vorrebbe ritenerle sempre inutilizzabili, ma ci sono diverse sfumature tra questi due estremi. La
giurisprudenza tende ad effettuare delle valutazioni caso per caso mediante la tecnica del bilanciamento degli interessi
contrapposti, svolto alla luce dei diritti costituzionali che in questa ipotesi vengono in gioco e cioè, da una parte, il
diritto come, per esempio, diritto alla privacy o il diritto e di difesa e dall'altra, la necessità di emanare una sentenza
giusta. Una soluzione non esiste ma quello che è importante è la necessità di fare delle distinzioni perché in tutto
questo grosso catalogo si rinvengono delle situazioni estremamente diverse: da una parte abbiamo delle prove che
sono illegittime, nel senso che si tratta di prove che sono tipiche ma che vengono acquisite in violazione delle norme
processuali delle norme che regolano il processo a cognizione piena (fattispecie che non pongono un problema di
illiceità, pongono un problema di nullità della prova per violazione di norme processuali). Per esempio, il caso in cui
vengono prodotti in giudizio dei documenti quando sono già maturate le preclusioni istruttorie, perché i documenti
non richiedono una valutazione preventiva, non rendono necessario lo svolgimento di un'assunzione, la parte
semplicemente le produce, quindi questa è una fattispecie che si verifica quotidianamente negli uffici giudiziari;
mentre invece, si ha un problema di illecità della prova in senso tecnico soltanto quando c'è una norma che viene
acquisita in violazione delle norme sostanziali.
Qui i problemi sono molto grossi, di difficile soluzione e non potendo aderire alla posizione di chi vorrebbe una totale
apertura alla possibilità di utilizzare questi strumenti nell'ambito del processo a cognizione piena, la cosa più
ragionevole è quella di porre dei limiti, quindi di individuare delle fattispecie, con riferimento alle quali la ammissibilità
dovrebbe essere sicuramente esclusa. Su alcune fattispecie si è formato un certo accordo, almeno nella dottrina, per
esempio, documenti di cui la parte sia entrata in possesso illecitamente oppure le prove che sono state assunte in
violazione di norme sostanziali, laddove c'è una sanzione prevista dalla norma sostanziale che può essere anche
penale. Ci sono, invece, altre ipotesi per le quali c'è meno accordo ma che creano meno problemi perché, magari, si
tratta di prove che possono essere ripetute. È un settore estremamente problematico, uno degli scopi cui siamo
chiamati, in questi corsi di insegnamento, è anche quello di farvi toccare con mano quella che è la realtà e non soltanto
la teoria del processo. Questi stessi problemi li ritroveremo anche nel secondo semestre quando andremo a studiare i
processi a cognizione sommaria, nel cui ambito il problema è meno grave perché la caratteristica della cognizione
sommaria e quella che non è la legge a stabilire le regole di svolgimento del processo, non c'è la rigida
predeterminazione, ma è il giudice a stabilire le regole di svolgimento del processo, in particolare a stabilire le modalità
di acquisizione delle fonti di prova e quindi lì i margini di manovra sono sicuramente più ampi rispetto al processo a
cognizione piena.
Per cui, fermi alcuni dei divieti fondamentali, per il resto, il giudice ha sicuramente più spazio e l'ordinamento stesso gli
offre una maggiore possibilità perché è dotato di un potere discrezionale più accentuato.