Nella lezione di ieri abbiamo esaminato la prima prova orale, la testimonianza, e ci siamo
soffermati sui limiti di ammissibilità alla testimonianza, limiti che abbiamo detto essere soggettivi e
oggettivi.
Andiamo oggi ad esaminare, sia pure più velocemente, le modalità di assunzione della prova
testimoniale. Abbiamo più volte precisato che la testimonianza, che consiste nella dichiarazione di
scienza di un soggetto terzo, si forma solo ed esclusivamente nel processo di fronte al giudice.
La testimonianza è una prova che si assume su istanza di parte, anche se il giudice è ammesso in
talune ipotesi a chiamare d'ufficio soggetti terzi a rendere testimonianza. L'ipotesi principale è
contemplata nell'articolo 257 del cpc laddove si afferma che se uno dei testimoni, che sono stati
chiamati dalle parti nel rispondere alle domande e nel rispondere a tali domande fanno riferimento a
soggetti terzi come soggetti che sono a conoscenza dei fatti, il giudice può d'ufficio disporre che
questi terzi siano chiamati a deporre. Accanto a questa previsione nell'ipotesi in cui il processo si
svolga di fronte al tribunale in composizione monocratica, (non si sente 3:23)
Quindi la strada normale è l'istanza di parte. In base all'art. 244, la prova per testimoni deve essere
dedotta mediante indicazione specifica delle persone da interrogare e dei fatti formulati in articoli
separati sui quali ciascuna di esse deve essere interrogata. Questa è la così detta capitolazione della
prova. Nel senso che la parte che chiama il terzo come testimone non può limitarsi ad indicare, non
soltanto la persona, quindi dare le generalità della persona che chiama a rendere testimonianza, non
può limitarsi ad indicarla come persona informata sui fatti e quindi semplicemente chiedere al
giudice di chiamarlo a rendere testimonianza, ma deve capitolare la prova. Che cosa significa?
Significa che deve indicare in maniera specifica i quesiti, le domande che intende rivolgere al
testimone. Il giudice, in base all'art 245, ammette la prova testimoniale con ordinanza. Il giudice
istruttore in verità ha un potere molto forte, intanto l'art 245 primo comma, dice che il giudice
istruttore ha la possibilità di ridurre le liste dei testimoni sovrabbondanti. Quindi se la parte ha
chiesto un numero esorbitante di prove testimoniali il giudice ha la possibilità di limitarla, ma il
giudice deve anche effettuare un controllo in ordine al rispetto dei limiti di ammissibilità e quindi
può innanzitutto eliminare i testimoni che non possono essere sentiti per legge. Il rifermento a
questo punto è all'art 246 che prevede l'incapacità a testimoniare di terzi che potrebbero avere
interesse nella causa e potrebbero essere legittimati a prendere parte al processo. Il giudice deve
effettuare anche un controllo di ammissibilità e di rilevanza dei singoli capitoli di prova, dei singoli
quesiti che la parte indica e che vuole che siano rivolti al testimone. Il giudice va ad analizzare,
domanda per domanda, capitolo per capitolo, ed ha la possibilità di eliminare i singoli capitoli
laddove ritenga che non siano ammissibili e/o rilevanti. In base al secondo comma dell'art. 245 è
possibile che la parte ad un certo punto rinunci all'audizione di un testimone che ha indicato. La
disposizione però lascia aperta la possibilità che siano le altre parti invece ad insistere per
l'audizione del testimone. Questo lo possiamo ritenere un espressione del principio di “acquisizione
processuale”: una volta che la prova è entrata nel processo può essere utilizzata in qualsiasi
direzione da parte del giudice. Il giudice fissa l'udienza in cui si dovrà procedere alla audizione dei
testimoni. L'audizione di un testimone di solito richiede un tempo considerevole, quindi se sono
stati ammessi più testimoni si renderà necessaria la fissazione di una pluralità di udienza. E' appunto
in udienza che il testimone rende la sua dichiarazione. L'ordinamento italiano negli ultimi anni ha
aperto uno spiraglio alla possibilità che la testimonianza sia resa in forme diverse dalla
dichiarazione in udienza di fronte al giudice nel contraddittorio tra le parti aprendo nell'art 257-bis
alla cosìdetta “testimonianza scritta”. Si tratta di una disposizione inserita dalla legge 69 del 2009
che sicuramente ha aperto una breccia in quello che era un principio assolutamente consolidato
nell'ordinamento italiano, ma si tratta di un istituto che ha una rilevanza pratica modestissima
perchè per i limiti che ha imposto il legislatore è un istituto che non viene mai utilizzato.
In base all'art 250 il testimone deve essere intimato a comparire. La parte interessata, deve attivarsi
e chiedere all'ufficiale giudiziario di intimare ai testimoni ammessi dal giudice istruttore di
comparire nel luogo, nel giorno e nell'ora fissati indicando il giudice che assume la prova e la causa
sulla quale debbono essere sentiti. L'intimazione deve essere effettuata nelle mani proprie del
destinatario oppure mediante servizio postale in busta chiusa e sigillata. Questa appena descritta è la
regola generale. Il comma successivo prevede la possibilità che ad intimazione del testimone possa
provvedere anche il difensore attraverso forme di comunicazione più celeri, qui si fa riferimento,
non soltanto alla lettera raccomandata quanto anche alla Pec.
Il testimone può naturalmente rifiutarsi di comparire, intanto ci sono delle ipotesi in cui il testimone
è esentato dalla legge oppure da convenzioni internazionali. Pensate per esempio a persone che
svolgono un particolare ruolo, che hanno delle posizioni particolari. Il testimone che non compare
all'udienza va incontro a conseguenze pesanti. Se ne occupa l'art 255 che recita: “Se il testimone
regolarmente intimato non si presenta, il giudice può ordinare una nuova intimazione, oppure può
disporre immediatamente l'accompagnamento coattivo all'udienza o ad un'udienza successiva.” Con
la stessa ordinanza il giudice, nel caso in cui la mancata comparizione avvenga senza giustificato
motivo, può condannare il testimone ad una pena pecuniaria non inferiore a 100€ non superiore a
1000€. Nell'ipotesi in cui il testimone insista a non presentarsi senza giustificato motivo, il giudice
dispone l'accompagnamento del testimone all'udienza stessa o ad altra successiva e lo condanna ad
una pena pecuniaria non inferiore a 200€ e non superiore a 1000€. Se poi il testimone si trova
nell'impossibilità di presentarsi o ne è esentato dalla legge o dalle convenzioni internazionali, il
giudice si può recare nella sua abitazione o nel suo ufficio. Se questi si trovano al di fuori della
circoscrizione del tribunale il giudice può anche delegare l'assunzione della prova testimoniale al
giudice istruttore del luogo. Se invece il testimone si presenta regolarmente è in base all'art 252,
immediatamente identificato. Il giudice chiede al testimone il nome, il cognome, il luogo e la data
di nascita, l'età e la professione. Lo invita poi a dichiarare se ha rapporti di parentela, affinità,
affiliazione o dipendenza con ciascuna delle parti oppure interesse nella causa.
Attualmente la circostanza che il testimone sia legato da un vincolo di coniugio, di parentela o di
affinità con una delle parti, non rende il testimone incapace di testimoniare perchè questo limite è
stato rimosso dalla corte costituzionale. Naturalmente queste sono circostanze che rilevano nel
momento in cui il giudice si troverà a valutare la testimonianza, perchè sono circostanze che
incidono sull'attendibilità del testimone che è uno dei profili su cui il giudice deve soffermarsi.
Invece alla richiesta di esistenza di un interesse nella causa si correla la previsione dell'art 246
perchè è questa la circostanza che rende il testimone incapace. In base al secondo comma dell'art
252 le parti possono fare osservazioni sull'attendibilità del testimone e questi deve fornire i
chiarimenti necessari. Di tutto ciò occorre fare menzione nei verbali. E' molto importante la
redazione del processo verbale, esso deve essere il più completo possibile, deve contenere le
dichiarazioni delle parti, dei testi, il giudice deve prendere nota di qualsiasi dettaglio (anche del
contegno che le parti ed i testimoni assumono di fronte al giudice). In base all'art 253 è il giudice
che interroga i testimoni. I testimoni vengono innanzitutto interrogati separatamente (art 251),
quindi non entrano tutti insieme in aula. Entrano uno alla volta, e innanzitutto, prima di essere
interrogati dal giudice, viene ricordato loro che hanno l'obbligo di dire la verità e viene richiamata
la loro attenzione sulle conseguenze penali a cui vanno incontro se non dicono la verità e quindi se
rilasciano una dichiarazione falsa o reticente. Infatti in base all'art 256, se il testimone
presentandosi, rifiuta di giurare o di deporre senza giustificato motivo, o se vi è fondato sospetto
che egli non abbia detto la verità o sia stato reticente il giudice istruttore lo denuncia al pubblico
ministero al quale trasmette copia del processo verbale. Dopo aver identificato il testimone e dopo
aver richiamato la sua attenzione sull'obbligo di dire la verità e sulle eventuali conseguenze penali,
ha inizio l'interrogatorio del teste. In base all'art 253 è il giudice istruttore che interroga il testimone
sui fatti intorno ai quali è chiamato a deporre. Non sono le parti (ovviamente gli avvocati) ad
interrogare direttamente il testimone. Qui la disciplina del processo civile si discosta notevolmente
dalla disciplina del processo penale. Il giudice interroga direttamente i testimoni, seguendo quelli
che sono i così detti capitoli di prova, i quesiti che la parte ha indicato nel momento in cui ha
chiesto l'acquisizione del testimone. In base al secondo periodo, del primo comma, dell'art 253, il
giudice può rivolgere d'ufficio o su istanza di parte tutte le domande che si ritiene utili a chiarire i
fatti medesimi. E' prevista quindi la possibilità di andare al di là dei capitoli di prova che sono stati
richiesti ed ammessi. Questa possibilità deve muoversi dei limiti dei fatti medesimi, cioè sugli stessi
fatti sui quali il testimone è stato chiamato a rendere testimonianza. Naturalmente i confini sono
molto labili, perchè spesso si chiede al giudice di fare nuove domande al testimone con l'intenzione
di far entrare fatti ulteriori rispetto a quelli su cui è stato chiamato a rendere testimonianza. Qui sta
al giudice decidere se rivolgere al testimone le nuove domande oppure no. Il testimone può essere
chiamato a rilasciare le proprie dichiarazioni di scienza con riferimento a fatti da lui direttamente
percepiti, ma si ammette anche la cosìdetta “testimonianza de relato”, quindi si ammette che il
testimone possa essere interrogato anche con riferimento a fatti che non ha direttamente percepito
ma che ha conosciuto indirettamente, cioè che gli sono stati raccontati da soggetti terzi. Se poi il
testimone nel rispondere fa riferimento a questi soggetti terzi allora il giudice può utilizzare il
potere dell'art 257, quindi può d'ufficio chiamare questi soggetti terzi a rendere testimonianza.
Naturalmente la “testimonianza de relato” è una testimonianza che avrà un peso minore rispetto ad
una testimonianza in cui il teste rilascia dichiarazioni di scienza aventi ad oggetto fatti che ha
immediatamente percepito. Questo perchè nella “testimonianza de relato” il giudice dovrà valutare
non solo l'attendibilità del testimone ma anche del terzo da cui il testimone ha appreso i fatti su cui
riferisce. Questo spiega il motivo per cui è opportuno che il giudice chiami il terzo al quale il
testimone ha fatto riferimento. Il testimone dovrebbe limitarsi a fare dichiarazioni di scienza, quindi
a riferire fatti di cui ha conoscenza, mentre dovrebbe evitare valutazioni soggettive oppure
apprezzamenti. Si ritiene, in giurisprudenza, che il testimone possa esprimere valutazioni tecniche
se si tratta di un soggetto che ha una particolare qualificazione professionale e venga interrogato su
dei fatti che passano attraverso questa qualificazione professionale, per esempio può essere un
testimone tecnico, un testimone esperto ecc. soprattutto se è difficile scindere la narrazione dei fatti
dalla qualificazione tecnica dei fatti stessi. Per quanto riguarda la testimonianza scritta, la sua
previsione la troviamo nell'art 257bis. Qui il legislatore ha aperto una breccia in un principio
assolutamente pacifico nel nostro ordinamento, ammettendo che la testimonianza possa essere resa
anche in una sede esterna rispetto al processo e portata all'interno del processo attraverso un
documento scritto. In verità qui il legislatore italiano aveva di fronte a sé un ampio ventaglio di
scelte nel momento in cui ha disegnato la disciplina di questo istituto. Tanto è vero che ordinamenti
a noi vicini fanno largo uso di questa forma di acquisizione della dichiarazione di scienza del terzo.
In alcuni ordinamenti si tratta di istituti che hanno una storia molto lunga, possiamo ricordare ad
esempio:
-il modello statunitense della “deposition” che prevede l'acquisizione di dichiarazioni testimoniali
oralmente o nel contraddittorio delle parti ma comunque dinanzi ad un soggetto che non è il giudice
ma da una garanzia di terzietà; oppure possiamo ricordare l'esperienza tedesca, che offre la
possibilità di assumere la dichiarazione resa dal terzo prima del processo o durante il processo ma
esternamente, con riferimento però a quesiti che sono stati preventivamente formulati dal giudice, in
un certo senso controllati;
-l'istituto inglese della “written statement” che prevede la dichiarazione del terzo resa liberamente
prima del processo o al di fuori di esso, senza controllo preventivo da parte del giudice, su iniziativa
delle parti oppure dello stesso terzo;
-il modello adottato dall'ordinamento francese che prevede la possibilità che il terzo rilasci delle
dichiarazioni spontanee al di fuori del processo ma di fronte ad un'altra autorità che può essere
giudiziaria oppure amministrativa che è abilitata dalla legge a riceverle e ad autenticarle e che, allo
scopo di rendere attendibili queste dichiarazioni, esse vengono accompagnate da un giuramento o
da un'affermazione solenne da parte del terzo. (Anche nell'ordinamento inglese è poi previsto un
istituto simile che è “l'affidavit”).
La scelta che ha fatto il legislatore italiano invece è molto lontana, perchè dando un'occhiata al testo
dell'art 257bis si prevede che il giudice su accordo delle parti, tenuto conto della natura della causa
e di ogni altra circostanza possa disporre di assumere la deposizione, chiedendo al testimone anche
nell'ipotesi di cui all'art 203 di fornire per iscritto e nel termine fissato le risposte ai quesiti sui quali
deve essere interrogato. Vediamo che i presupposti cui è subordinata la possibilità di assumere la
testimonianza scritta sono due: 1) l'accordo delle parti e 2) una valutazione del giudice. Quali sono
le modalità di acquisizione di queste prove? Sono fissate dalla stessa disposizione: il giudice nel
momento in cui ammette la testimonianza scritta, dispone che la parte che ha richiesto l'assunzione
predisponga il modello di testimonianza in conformità agli articoli ammessi e lo faccia notificare al
testimone. Il comma successivo chiarisce che il testimone rende la deposizione compilando il
modello di testimonianza in ogni sua parte, con risposta separata a ciascuno dei quesiti e precisa
quali sono quelli cui non è in grado di rispondere indicandone la ragione. Nel momento in cui il
giudice ammette la testimonianza scritta, la parte che l'ha richiesta deve predisporre il modello di
testimonianza scritta. Come previsto poi dal terzo comma dell'art 257, questo è un modello di
testimonianza predisposto dal ministero della giustizia che deve inoltre essere conforme agli articoli
ammessi (quindi la parte richiedente deve indicare i capitoli di prova su cui il testimone dovrà
rispondere). Nel quarto comma si prevede poi che il testimone sottoscriva la deposizione apponendo
la propria firma autentica su ciascuna delle facciate del foglio di testimonianza che spedisce in busta
chiusa con plico raccomandato o consegna alla cancelleria del giudice.
Nell'ultimo comma si prevede che il giudice, esaminate le risposte o le dichiarazioni, può sempre
disporre che il testimone sia chiamato a deporre davanti a lui o davanti al giudice delegato. Il
giudice, nonostante la procedura si sia perfezionata, una volta lette le dichiarazioni che il testimone
ha riportato sul modello, può sempre disporre che il testimone venga chiamato a deporre davanti a
lui. Ecco perché si tratta di un istituto che ha un rilievo pratico modestissimo: intanto per i
presupposti a cui è subordinata questa particolare modalità di acquisizione della dichiarazione del
terzo e poi per questo ultimo comma. Tra i presupposti vi è infatti l'accordo delle parti: è molto
difficile che le parti prestino il loro accordo soprattutto è difficile che la controparte presti il proprio
consenso, perchè la controparte vuole che il testimone venga in aula, che rilasci le proprie
dichiarazioni di fronte al giudice. Al comune cittadino, la presenza del giudice, l'impegno di
rispondere e l'ammonimento da parte del giudice di dire la verità e le relative conseguenze in caso
di falsità o reticenza, hanno ancora un certo peso. Quindi la controparte non presterà il proprio
consenso perchè vuole vedere il testimone di fronte al giudice e vuole avere la possibilità di
effettuare, sia pure davanti ad un giudice, anche delle domande al testimone. In più dato che l'ultimo
comma prevede che comunque il giudice può disporre che il testimone venga successivamente
chiamato in aula, si comprende che il legislatore, anche laddove le parti prestino il proprio accordo,
di fatto non ha fiducia in questo istituto. Nonostante la testimonianza resa nel rispetto di tutte le
condizioni e di tutte le formalità, comunque il giudice può chiamare in aula.
Questo è un istituto che si mette in contrasto con una tradizione nel nostro paese, molto forte, per
cui diciamo che i tempi non sono ancora maturi, in riferimento però al processo a cognizione piena.
Qual è la ratio che sta a fondamento dell'istituto di “efficacia della prova legale”?
Intanto nelle prove legali in generale il giudice si vede sottratto il suo potere di valutazione secondo
il suo prudente apprezzamento, perchè si ritiene che sia stato il legislatore ad effettuare questa
valutazione, applicando lui stesso la massima di comune esperienza sulla cui base fissare il risultato
della prova. Con riferimento alla confessione si ritiene che il legislatore abbia codificato la massima
di comune esperienza secondo cui nessuno ha interesse ad affermare l'esistenza di fatti contra se,
cioè di fatti che sono a sé sfavorevoli e che invece sono favorevoli alla controparte.
La verità innanzitutto è che questo è un istituto che non ritroviamo in altri ordinamenti, secondo poi
si ritiene che sia un residuato storico, di altri tempi e di altri ordinamenti passati. Ordinamenti in cui
la regola generale in tema di prove era la regola della prova legale. La regola secondo cui era il
legislatore a valutare le prove e non il giudice, quindi erano epoche storiche che evidentemente non
avevano una grossa fiducia nel giudice. Il legislatore quindi effettuava in via preventiva la
valutazione delle prove. Anche la confessione stragiudiziale produce, nel rispetto di tutte le
condizioni che abbiamo già richiamato, efficacia di prova legale. Questo lo si desume dall'art 2735
primo comma, laddove dice che la confessione stragiudiziale fatta alla parte o ad un suo
rappresentante ha la stessa efficacia probatoria della confessione giudiziale. Affinchè la confessione
possa esplicare la propria efficacia di prova legale, la dichiarazione deve essere una dichiarazione
pulita, la parte quindi deve affermare semplicemente l'esistenza dei fatti contra se. La verità è che
spesso, la parte, nel rilasciare questa dichiarazione contra se, sia essa spontanea sia essa provocata,
rilascia una dichiarazione complessa. Cioè accanto alla dichiarazione contra se, la parte rilascia
delle dichiarazione pro se, quindi pur riconoscendo l'esistenza di fatti a sé sfavorevoli, nello stesso
tempo, la parte afferma l'esistenza anche di fatti favorevoli a sé stessa. Questo è ciò che avviene di
solito, è difficile che la parte puramente e semplicemente dichiari l'esistenza di fatti contra se,
generalmente la dichiarazione è complessa. L'efficacia probatoria della dichiarazione cosìdetta
“complessa” in cui sono miscelati profili contra se e profili pro se, trova la propria disciplina
nell'articolo 2734. Questo articolo introduce un principio fondamentale molto importante che è il
“principio della inscindibilità della dichiarazione”. Afferma questa disposizione che quando alla
dichiarazione indicata dall'art 2730 si accompagna quella di altri fatti o circostanze tendenti ad
infirmare l'efficacia del fatto confessato, ovvero a modificarne o a estinguerne gli effetti, le
dichiarazioni fanno piena prova nella loro integrità se l'altra parte non contesta la verità dei fatti o
delle circostanze aggiunte. In caso di contestazione è rimesso al giudice di apprezzare, secondo le
circostanze l'efficacia probatoria delle dichiarazioni. In ipotesi di dichiarazione complessa, si
prevede che l'efficacia dell'intera dichiarazione, quindi ecco il principio della inscindibilità della
dichiarazione, passa attraverso il contegno che va ad assumere la controparte, la parte nei cui
confronti è resa la dichiarazione. Se la controparte, infatti, non contesta la parte della dichiarazione
pro se, allora tutte le dichiarazioni fanno piena prova nella loro integrità. Se invece la controparte,
contesta la verità dei fatti o delle circostanze aggiunte, quindi la parte pro se, allora l'intera
dichiarazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice. Il principio fondamentale che
introduce questa disposizione è quello della inscindibilità delle dichiarazioni confessorie, ed è molto
importante nella misura in cui in questa particolare fattispecie anche una dichiarazione pro se può
assumere il rilievo di prova legale. L'unica altra ipotesi in cui una dichiarazione pro se assume la
rilevanza ed il peso della prova legale è il giuramento, che però è una dichiarazione solenne.
Nell'articolo 2734 si apre la possibilità che una dichiarazione pro se, possa avere efficacia
vincolante.
In base all'art 2732 del cc la confessione può essere revocata soltanto per errore di fatto o violenza.
E' quindi possibile la revoca della confessione, essa ha quindi efficacia di prova legale purchè non
venga revocata. La revoca è possibile in quanto il fatto confessato non sia vero, perchè altrimenti, il
vizio, l'errore o la violenza di cui è stata vittima la parte confitente non ha alcuna rilevanza. L'errore
consiste nella convinzione erronea della parte che i fatti dichiarati fossero veri, e quindi la parte che
intende ottenere la revoca della confessione deve provare innanzitutto che il fatto confessato non è
vero, e poi deve provare anche che è a causa di un vizio del consenso (quindi a causa o di un errore
di fatto o di una violenza di cui è stata vittima) che era erroneamente convinta della veridicità del
fatto. La violenza di cui parla questa disposizione è la violenza morale. Perchè la violenza fisica fa
venir meno anche lo stesso carattere volontario della dichiarazione che è stata resa, sarebbe questa
una dichiarazione già in radice priva di qualsiasi effetto. Nonostante la disposizione non faccia
riferimento espresso al dolo, si ritiene che anche il dolo possa fondare la revoca della confessione,
anche se occorre, ancora una volta, che il dolo abbia indotto in errore la parte in ordine alla
veridicità di un fatto che invece non era vero. In questa disposizione troviamo la differenza che
intercorre tra la confessione e l'ammissione. La confessione può essere revocata solo e soltanto nei
limiti tracciati dall'art 2732, invece l'ammissione ed in particolare l'ammissione espressa, ma anche
le ammissioni implicite o la non contestazione, sono delle dichiarazioni o comunque è un contegno
processuale che la parte può correggere, per definizione. Però ci potrebbe essere un problema di
preclusione, perchè per esempio nel processo di primo grado la contestazione, così detta tardiva,
può essere ammessa soltanto laddove ricorrano i presupposti per una rimessione in termini (art 153
secondo comma), perchè ammettere una contestazione al di là della prima udienza significa
scardinare l'architettura del processo a cognizione piena, questo però è un problema di disciplina
processuale. Di per sé l'ammissione o la non contestazione, possono essere sempre ritrattati, quindi
c'è sempre spazio per una contestazione, si tratta di vedere il momento in cui si può fare ma c'è
sempre lo spazio per una contestazione. Invece, la confessione è un meccanismo che fissa in
maniera formale l'esistenza di un fatto, quindi la confessione può essere revocata solo nei limiti
previsti dall'articolo 2732, quindi come abbiamo detto soltanto per errore di fatto, per violenza e per
dolo (anche se la norma non lo prevede espressamente). Attenzione quindi a non confondere questi
due profili. La confessione invece vincola il giudice, quindi anche se dall'acquisizione di altri mezzi
di prova risulta che il fatto confessato non è vero, il giudice è comunque costretto ad ammetterlo. La
confessione come prova legale è un meccanismo di fissazione formale dell'esistenza del fatto quindi
prevale sulle altre risultanze probatorie. Invece l'ammissione o la non contestazione espungono il
fatto dal thema probandum, quindi la parte a cui vantaggio il fatto opera è esonerata dall'onere della
prova però, se poi dalle prove acquisite emergono elementi che convincono il giudice che quel fatto
invece non esiste, il giudice non è vincolato all'ammissione o alla non contestazione, dovrà attivare
il contraddittorio, dovrà consentire alla parte a cui favore il fatto opera di esercitare i propri poteri di
difesa, dovrà probabilmente riaprigli i poteri istruttori, ma il giudice comunque non è vincolato.
Andiamo adesso ad analizzare il GIURAMENTO. Il giuramento è un altra prova orale, è una prova
solenne che si forma di fronte al giudice. E' una prova legale assoluta, perchè ha una forza di
resistenza anche superiore a quella della confessione. Il giuramento passa attraverso una
dichiarazione giurata, è una dichiarazione solenne che la parte deve rendere di dire la verità. C'è
stato un intervento della corte costituzionale che ha cancellato il riferimento ai valori religiosi, in
verità storicamente parlando il giuramento nasce come dichiarazione resa di fronte alla divinità. La
corte costituzionale è pero intervenuta ed ha cancellato questo riferimento, questo ha rafforzato la
convinzione di molti che sarebbe il momento di cancellare questo istituto che è nato in un contesto
storico-sociale-culturale completamente diverso da quello attuale.
Il giuramento, a differenza della confessione, è una dichiarazione solenne di fatti favorevoli alla
parte che rende la dichiarazione. E' questo il motivo per cui si ritiene, da parte di molti, che questo è
un istituto che dovrebbe essere abrogato. Storicamente, questo istituto è nato in un momento in cui,
affermare il falso di fronte alla divinità era inammissibile, vi erano delle conseguenze talmente
gravi che nessuno si azzardava. Attualmente la maggior parte degli uomini comuni non hanno
difficoltà a giurare i falso, per cui si ritiene che la base sulla quale questo istituto è nato sia ormai
venuta meno. Come ci dice l'art 2736 cc, ci sono due specie di giuramento molto diverse. Il primo
prevede il giuramento DECISORIO che è un mezzo di prova che rientra nella disponibilità
esclusiva delle parti, infatti è decisorio il giuramento che una parte deferisce all'altra per farne
dipendere la decisione totale o parziale della causa. Invece il secondo tipo di giuramento è quello
SUPPLETORIO che è un mezzo di prova che rientra nella disponibilità esclusiva del giudice. E'
suppletorio quello che è deferito d'ufficio dal giudice ad una delle parti al fine di decidere la causa
quando la domanda o l'eccezione non sono pienamente provate, ma non sono nemmeno del tutto
sfornite di prova. [Vi è anche un altro tipo di giuramento, così detto ESTIMATORIO che è quello
che è deferito al fine di stabilire il valore della cosa domandata se non si può accertarlo altrimenti.
Esso riguarda la liquidazione, il quantum, del diritto di credito.]
Entrambi i giuramenti hanno efficacia di prova legale, ci dice l'art 2738 cc che se è prestato il
giuramento deferito o riferito, l'altra parte non è ammessa a provare il contrario né può chiedere la
revocazione della sentenza qualora il giuramento sia stato dichiarato falso. Il giuramento quindi è
un mezzo di prova che ha efficacia di prova legale e quindi vincola il giudice ed è uno strumento a
cui l'ordinamento attribuisce la massima efficacia probatoria legale, addirittura superiore alla
confessione. Infatti anche laddove la parte che ha reso il giuramento viene condannata in sede
penale per falso giuramento (giurare il falso è un reato così come stabilito dall'art 371 cp), la
condanna penale per falso giuramento non può essere utilizzata per revocare la sentenza che sulla
base del giuramento è stata resa. Lo dice espressamente l'art 2738 cc., il secondo comma della
disposizione afferma che la parte interessata può chiedere soltanto il risarcimento del danno. Questo
è il motivo per cui possiamo ritenere che l'efficacia di prova legale del giuramento superi quella
della confessione, che può invece essere revocata ai sensi dell'art 2732 cc. Perchè questo istituto
ancora sopravvive? Si ritiene che tendenzialmente il motivo sia uno solo, che è un istituto che entra
in gioco quando non c'è un altro modo per provare l'esistenza o l'inesistenza di un fatto. Diciamo
che ha una portata residuale rispetto a tutti gli altri mezzi di prova. A questa osservazione si
potrebbe però rispondere che il legislatore, avrebbe a questo punto delle alternative: si ritiene che il
legislatore potrebbe decidersi ad ammettere finalmente la dichiarazione giurata della parte e
superare il vecchio limite dell'inammissibilità della testimonianza della parte, sottoponendola al
prudente apprezzamento del giudice.
Andiamo ad illustrare le due specie di giuramento, perchè si tratta di due istituti completamente
diversi. Cominciamo dall'analisi del giuramento decisorio. Il giuramento decisorio è un giuramento
che deve aver ad oggetto un fatto decisivo, cioè un fatto che oggettivamente è idoneo a fondare la
definizione della controversia totale o parziale. Naturalmente anche sulla base di altri fatti con
riferimento ai quali il giudice ha maturato un convincimento a conclusione dell'attività istruttoria.
Secondo la giurisprudenza il fatto deve essere tale da consentire al giudice di decidere in tutto o in
parte la causa, fondandosi esclusivamente sul contenuto del giuramento. L'efficacia probatoria del
giuramento è molto forte, nel senso che, per opinione pacifica, l'efficacia del giuramento prevale
anche sui risultati di tutte le altre prove, sia nel caso in cui il giuramento venga prestato, sia nel caso
in cui invece la parte si rifiuti di giurare. Questo perchè a differenza di quanto stabilito in
riferimento alla confessione, in base all'art 239 del cpc, se la parte non presta il giuramento si
prevede espressamente che essa soccombe rispetto alla domanda o al punto di fatto relativamente al
quale il giuramento è stato ammesso. Una volta che il giuramento è stato deferito, la parte
destinataria ha di fronte a sé diverse possibilità. Innanzitutto può rendere la dichiarazione giurata, a
questo punto in base all'art 2738 cc i fatti che costituiscono l'oggetto di questa dichiarazione si
considerano definitivamente accertati in suo favore, non è quindi ammessa prova contraria. La
seconda possibilità è che rifiuti di giurare, e la conseguenza cioè l'art 239 del cpc, stabilisce che la
parte soccomberà rispetto alla domanda. La terza possibilità che si apre soltanto laddove i fatti siano
comuni all'altra parte, in pratica la parte a cui è stato deferito il giuramento può a sua volta deferirlo
alla controparte e quindi chiedere che la dichiarazione giurata sia resa dalla parte che
originariamente ha preso l'iniziativa deferendo il giuramento. Per rendere giuramento viene
richiesta la stessa capacità richiesta per la confessione in base all'art 2737 cc infatti, per deferire o
riferire il giuramento si richiedono le condizioni previste dall'art 2731, si fa quindi riferimento alla
capacità di disporre del diritto per deferire o riferire il giuramento.
Il giuramento può essere o un giuramento “de veritate” (si tratta dei casi in cui oggetto della
dichiarazione è un fatto proprio della parte a cui è stato deferito, un fatto favorevole alla parte che
deve rilasciare la dichiarazione) oppure può essere un giuramento “de scientia” (allorquando ha ad
oggetto la conoscenza di un fatto altrui, che non appartiene alla parte che rilascia la dichiarazione).
Questo giuramento è soggetto ad una serie di condizioni, ci sono dei limiti oggettivi di
ammissibilità. Intanto il giuramento decisorio non può essere deferito con riferimento alle cause
relative a diritti di cui le parti non possono disporre. Questo è un limite analogo a quello previsto
con riferimento alla confessione. E' necessario che la controversia abbia ad oggetto, cause o fatti
che si riferiscono a cause relative a diritti di cui le parti possono disporre, questo è previsto dall'art
2739 del cc. E' una scelta analoga a quella effettuata con riferimento alla confessione, nel senso che
il legislatore vuole evitare che in cause aventi ad oggetto diritti indisponibili, le parti possano in
qualche modo vincolare il giudice a ritenere esistenti determinati fatti. Non può avere ad oggetto
nemmeno un fatto illecito, come ci dice l'art 2739 cc, per illecito si intende fare riferimento non
soltanto all'illecito penale ma anche all'illecito extra-contrattuale (richiamo all'art 2043 del cc).
Questo limite lo si comprende alla luce della considerazione secondo cui il legislatore vuole evitare
che la parte sia posta di fronte all'alternativa fra giurare il falso o ammettere di aver compiuto un
fatto riprovevole, ed inoltre non si vuole vincolare il giudice, perchè ammettere un giuramento su
un fatto illecito significherebbe vincolare il giudice sulla valutazione dell'illecito. Ci sono poi
ulteriori limitazioni che riguardano la forma dei contratti, per esempio il giuramento non può essere
deferito con riferimento alla prova dell'esistenza di un contratto per il quale sia richiesta la forma
scritta ad substantiam, non si applica questo limite per la forma scritta solo ad probationem. La ratio
è quella di evitare che, attraverso il giuramento, le parti possano eludere le disposizioni relative alla
forma scritta ad substantiam. Inoltre il giuramento non può essere utilizzato per negare un fatto, che
da un atto pubblico risulti avvenuto in presenza del pubblico ufficiale che ha formato l'atto stesso,
questo limite lo si comprende alla luce dell'istituto della querela di falso, che è lo strumento che
l'ordinamento mette a disposizione per contestare il falso contenuto nell'atto pubblico. Al di là di
queste limitazioni, la verità è che il giuramento è un istituto che trova una scarsa applicazione nei
nostri uffici giudiziari. Le parti ricorrono al giuramento decisorio soltanto quando non hanno
nessun'altra possibilità di raggiungere la prova di un determinato fatto e di conseguenza di vincere
la causa. Quanto alla disciplina processuale del giuramento decisorio, possiamo ricordare che in
base all'art 233 cpc il giuramento decisorio può essere deferito con dichiarazione fatta in udienza
dalla parte o dal procuratore munito di mandato speciale o con un atto sottoscritto dalla parte.
Anche il giuramento così come abbiamo già visto in riferimento all'interrogatorio formale, deve
essere dedotto attraverso articoli separati in modo che sia chiaro e specifico ed in modo che il
giudice possa valutare in maniera precisa l'ammissibilità e sopratutto la decisorietà, che è il primo
requisito. In base all'art 233 cpc il giuramento decisorio, può essere deferito in qualunque stato della
controversia davanti al giudice istruttore ed infatti, con riferimento a questo istituto, tutto il codice
prevede una sorta di corsia preferenziale, perché il giuramento può essere deferito anche in appello
oppure anche di fronte al giudice del rinvio. Quanto alla prestazione del giuramento, esso ci dice il
codice, deve essere prestato davanti al giudice. Egli deve ammonire la parte sulla particolare
solennità ed importanza dell'atto, ma anche sulle conseguenze penali a cui la parte può andare
incontro se rilascia dichiarazioni false. La parte deve giurare pronunciando le parole che troviamo
indicate all'art 238 del cpc, che è stato ritoccato dalla corte costituzionale che ha espunto ogni
riferimento religioso. Dopo di che la parte deve ripetere la formula ammessa dal giudice, se la parte
si presenta, giura ed effettua la dichiarazione richiesta, il giuramento produce i suoi effetti di prova
legale assoluta. Se invece la parte non si presenta senza giustificato motivo all'udienza fissata dal
giudice oppure si rifiuta di prestarlo senza giustificato motivo, in base all'art 239 cpc soccombe
rispetto alla domanda o al punto di fatto relativamente al quale il giuramento è stato ammesso. E'
una conseguenza più pesante rispetto a quella che è stata prevista con riferimento alla confessione.