Sei sulla pagina 1di 5

Tesina modulo 2

Il diritto commerciale internazionale e il marchio Made in


Italy

Il diritto commerciale internazionale si è formato a seguito dell’insorgenza della necessità di


norme applicabili non solo entro i limiti dell’ordinamento giuridico nazionale che le ha
adottate. Tali norme sono volte infatti a regolare i rapporti di tipo commerciale fra stati, fra
persone fisiche e giuridiche di stati diversi o tra Stati e soggetti privati stranieri, evidenziando
una stretta interazione fra il campo del diritto e quello dell’economia. Il diritto commerciale
internazionale investe dunque la sfera dei contratti commerciali, dei contratti di lavoro
internazionali e dei contratti di lavoro internazionali per la vendita di beni mobili.
Sviluppatosi sulla base dell’antica lex mercatoria e delle norme domestiche dei diversi stati, il
diritto commerciale internazionale è considerato come parte del diritto internazionale privato
ed è formato da tre sistemi di fonti:
- Le fonti interne, come la Costituzione, il Codice civile (nel caso italiano) o il Commercial
Code (nel caso statunitense) e le leggi antitrust dei singoli paesi;
- Le fonti comunitarie, ovvero trattati istitutivi e modificativi dell’Unione europea, atti
unilaterali dell’Unione europea, atti e convenzioni;
- Le fonti internazionali, vale a dire consuetudini, trattati, i principi UNIDROIT, la
Convenzione sui contratti di compravendita internazionale di beni mobili, le linee guida
della World Trade Organization.
Tra le numerose convenzioni internazionali stipulate nel tempo al fine di regolare i rapporti
commerciali tra soggetti con sedi in stati diversi, un contributo particolarmente rilevante è
stato apportato proprio dalla Convenzione delle Nazioni Unite del 1980, richiamata spesso
tramite la sigla CISG (United Nations Convention on Contracts for the International Sale of
Goods). Lo scopo di tale convenzione risiedeva nell’armonizzazione del diritto commerciale
sulla vendita di beni mobili a livello internazionale, per arrivare quindi a superare le specificità
delle normative dei singoli stati e per favorire di conseguenza anche una maggiore efficienza
nelle transazioni commerciali. Tramite la Convenzione, i soggetti contraenti degli stati che
hanno aderito all’accordo godono di maggiori sicurezze e certezze relative ai loro diritti e agli
obblighi contrattuali. L’importanza della Convenzione per lo sviluppo dei rapporti commerciali
è testimoniata anche dai dati che evidenziano come le transazioni tra, per esempio, Stati Uniti
e Italia, tra il 1980 e oggi, siano triplicate.
Al fine di promuovere una corretta armonizzazione normativa, la CISG ha delineato dei principi
e delle norme che definiscono in modo chiaro la formazione e l’esecuzione di un contratto di
vendita di beni mobili, i diritti e gli obblighi contrattuali delle parti contraenti e i rimedi alle
controversie che possono emergere dal contratto. Tramite la ratifica della Convenzione, i 95
stati aderenti possono quindi fare ricorso a norme sovranazionali applicabili in caso di vendite
che rientrano nei requisiti della Convenzione. La Convenzione non si applica infatti se non è
soddisfatto il requisito relativo alla tipologia di prodotto oggetto della compravendita, vale a
dire se si tratta per esempio di beni immobili, azioni o altri titoli negoziabili. La Convenzione
prevede inoltre un articolo in riferimento a situazioni patologiche legate all’interpretazione
della CISG stessa. In caso di difformità di interpretazione, la Convenzione stabilisce il ricorso ai
principi generali internazionali privati.
Con lo scopo di garantire una transazione commerciale che salvaguardi e soddisfi gli interessi
di entrambe le parti contraenti risulta imprescindibile una corretta stesura del contratto. Nel
caso di contratti internazionali, l’accordo si realizza fra due o più parti appartenenti a sistemi
giuridici diversi, pertanto nel contratto devono essere sempre specificate quali sono la
giurisdizione di riferimento e la legge applicabile. Nel caso di contratti internazionali è inoltre
necessario che venga specificato qual è la lingua ufficiale su cui basare l’interpretazione del
contratto.
I contratti possono essere classificati sulla base di diversi criteri. Andando a valutare chi si
assume oneri e responsabilità, i contratti possono essere di tipo bilaterale o unilaterale: nel
primo caso entrambe le parti si impegnano ad adempiere e soddisfare una parte dell’accordo,
nel secondo caso solo uno dei soggetti coinvolti avanza delle promesse. A seconda del modo
in cui prende forma il contratto, si distinguono inoltre i contratti espressi da quelli taciti. I
contratti espressi prevedono che le parti manifestino in forma scritta od orale la volontà di
concludere un accordo. Si definiscono invece taciti quei contratti che si realizzano tramite un
comportamento concludente, che manifesta cioè la volontà delle parti di stringere un accordo
anche in assenza di termini espressi. Infine i contratti si definiscono validi nel caso in cui
soddisfino tutti i requisiti previsti dalla legge, sono detti annullabili qualora sia prevista la
possibilità per una delle parti di risolvere l’accordo, per esempio in presenza di una grave
negligenza, o si considerano nulli in caso di oggetto illegittimo.
Per poter essere considerato valido, un contratto internazionale deve necessariamente
contenere alcuni elementi, quali una chiara definizione delle parti contraenti, le premesse con
l’illustrazione delle motivazioni che hanno spinto le parti all’accordo, la definizione degli
impegni delle parti, le caratteristiche dei prodotti in oggetto, nonché tutti i dettagli relativi alla
transazione come il prezzo, il metodo di pagamento, i tempi di consegna ecc. Di primaria
importanza sono anche le clausole che definiscono i metodi di risoluzione delle controversie,
spesso chiamate “midnight clauses”, nelle quali si stabilisce anche qual è la legge applicabile
al rapporto.
Una valida alternativa alla risoluzione giudiziale delle controversie, prevista nel caso in cui nel
contratto vengano individuate una giurisdizione competente e la legge applicabile, è
rappresentata dalle varie possibilità di risoluzione alternativa al giudizio, definite nella
cosiddetta clausola ADR (Alternative dispute resolution). Tali metodi di risoluzione alternativa
delle controversie codificano la volontà delle parti di non portare la vicenda in tribunale, scelta
che presenta numerosi vantaggi per entrambe le parti contraenti e che infatti si manifesta nel
60% dei contratti stipulati. I metodi di risoluzione delle controversie per via extragiudiziali
vengono frequentemente preferiti perché non solo consentono di mitigare l’eventuale
animosità dovuta a un inadempimento contrattuale, ma comportano anche costi minori e
tempi più brevi.
I principali metodi di ADR sono la negoziazione, la mediazione e l’arbitrato. La negoziazione è
un tipo di metodo di risoluzione alternativa al giudizio in cui le parti stesse o i loro
rappresentanti discutono della disputa e si impegnano a trovare una soluzione condivisa,
senza la partecipazione di una terza parte. Il metodo di negoziazione che ha promosso la
diffusione della cultura stessa della negoziazione è il metodo Harvard, di tipo interest-based e
basato sull’approccio win-win: l’idea fondante di tale metodo è infatti la volontà primaria delle
parti non di puntare semplicemente al risultato vincente ma di ottenere un risultato
favorevole a entrambe. Si tratta di un genere di approccio particolarmente fruttuoso anche in
un’ottica di lunga durata e che si basa su alcuni principi. Il metodo Harvard prevede
innanzitutto che le parti siano predisposte all’ascolto attivo, mostrino cioè un interessamento
anche per le ragioni e gli interessi dell’altra parte ponendo numerose domande. Un altro
principio riguarda la separazione da parte del negoziatore della persona dall’interesse e quindi
le proprie convinzioni dal vero interesse del cliente. Un bravo negoziatore deve infine essere
in grado di valutare anche un eventuale ampliamento del valore della negoziazione, una
strategia definita “enlarging the pie.” In questo senso il negoziatore deve essere in grado, se
necessario, di allargare l’orizzonte della negoziazione per poter arrivare a un accordo
soddisfacente per entrambe le parti, prendendo in considerazione opzioni inizialmente non
previste. A differenza di altre forme di risoluzione alternativa al giudizio, la negoziazione non
prevede l’obbligo per le parti di giungere a un risultato positivo. Si tratta di un metodo lasciato
alla loro disponibilità e il cui esito ha la valenza di un contratto.
A differenza della negoziazione, la mediazione prevede il coinvolgimento di una terza persona
neutrale che facilita il dialogo e guida le parti per trovare la soluzione migliore per entrambe.
La mediazione ha come requisito la volontarietà: il mediatore non si sostituisce all’arbitro o al
giudice ma lavora con le parti cercando possibili soluzioni che siano mutualmente
soddisfacenti. Anche la mediazione non è obbligatoria, poiché le parti hanno la facoltà di
rifiutare la raccomandazione elaborata dal mediatore. Nel caso in cui venga raggiunto un
accordo le parti sottoscrivono un settlement agreement, che determina così l’esito positivo
della mediazione e la conclusione della controversia. Un’importante spinta al ricorso alla
mediazione come metodo di risoluzione delle controversie è stata data dalla Convenzione
delle Nazioni Unite sugli accordi transattivi internazionali mediati di Singapore. Tale
Convenzione, entrata in vigore nel 2020, è stata utile al fine di armonizzare le procedure di
mediazione in ambito internazionale e rendere così il meccanismo più efficace. Scopo della
Convenzione era infatti quello di rendere la mediazione un metodo più attraente per la
risoluzione delle controversie e quindi facilitare anche le transazioni internazionali.
Il terzo tipo di metodo di risoluzione alternativa al giudizio è rappresentato dall’arbitrato che,
a differenza della negoziazione e della mediazione, qualora sia inserito in una clausola del
contratto, è obbligatorio e deve concludersi con una decisione vincolante per le parti. Tale
decisione non ha la forma di un accordo ma è detta lodo arbitrale e ha lo stesso valore di una
sentenza, come stabilito dalla Convenzione di New York del 1958. Anche l’arbitrato prevede il
coinvolgimento una terza parte rappresentata da uno o tre arbitri. L’arbitrato viene spesso
preferito al contenzioso giudiziale perché basato su rigidi principi di neutralità e imparzialità e
perché permette di individuare gli arbitri sulla base della competenza specifica nel settore. Un
altro importante vantaggio dell’arbitrato è rappresentato dalla possibilità di ottenere il
riconoscimento del lodo arbitrale all’estero e dal fatto che garantisce una maggiore flessibilità
e riservatezza nonché tempi molto più rapidi. Quest’ultimo fattore è dovuto anche a una
caratteristica intrinseca del lodo arbitrale, vale a dire la sua inappellabilità. Solo qualora si
siano verificate delle scorrettezze da parte degli arbitri o non sia stata concessa la possibilità
a una delle due parti di presentare la propria posizione durante il processo arbitrale, il lodo
può effettivamente essere impugnato presso il tribunale territorialmente competente.
Proprio per i suoi numerosi vantaggi, l’arbitrato internazionale è diventato il principale
metodo di risoluzione delle controversie nell’ambito del commercio e degli investimenti
internazionali e oggi è previsto da circa l’80% dei contratti di diritto privato internazionale.
L’arbitrato può essere avviato solo nel caso in cui sia stata stipulata una convenzione arbitrale
attraverso una clausola compromissoria o tramite un compromesso. Mentre da un lato la
clausola compromissoria è inclusa nel contratto già antecedentemente l’insorgenza della
controversia, il compromesso consiste in un accordo scritto con il quale le parti decidono di
ricorrere all’arbitrato per risolvere una disputa già insorta.
L’arbitrato si distingue inoltre in arbitrato ad hoc e arbitrato amministrato. L’arbitrato ad hoc
si svolge secondo le regole specifiche definite dalle parti in una clausola del contratto. Tale
clausola deve contenere tutte le informazioni relative alle regole procedurali, al luogo, al
tempo, alla lingua, ai criteri per la nomina degli arbitri, alla legge applicabile. Si tratta di un
tipo di arbitrato che richiede competenze specifiche al momento della formulazione della
clausola, perché se in essa risultano assenti una o più delle informazioni essenziali non può
essere posta in esecuzione. L’arbitrato amministrato deve il suo nome proprio al fatto che
viene amministrato da una struttura competente (ad esempio, l’International Chamber of
Commerce, l’American Arbitration Association, il JAMS ecc.). Si tratta del tipo di arbitrato più
adatto specialmente nel caso in cui al momento della stesura del contratto non si dispongano
delle competenze specifiche in materia, poiché la gestione dell’intero iter procedimentale
dell’arbitrato viene affidata a un’istituzione specializzata.
Un tipo di clausola presente molto spesso per definire le modalità di risoluzione delle eventuali
controversie è quella multistep. Tale clausola prevede innanzitutto il tentativo da parte dei
soggetti di risolvere la disputa mediante negoziazione. Nel caso in cui le parti non riescano a
raggiungere un accordo, è previsto che ricorrano alla mediazione, e qualora anche questo
tentativo fallisse le parti dovranno ricorrere all’arbitrato. Per poter essere valida una multistep
clause deve contenere alcuni elementi di base fondamentali, quali l’ordine degli step, le regole
e le limitazioni per ogni step, i termini temporali per passare da uno step a quello successivo,
eventualmente i motivi e le modalità di notificazione dell’avviso.
Una delle fonti interne più importanti del diritto commerciale internazionale è rappresentata
dal diritto in materia di antitrust che impone il divieto di comportamenti distorsivi della
concorrenza. Il diritto antitrust si è sviluppato negli Stati Uniti a partire dallo Sherman Act del
1890 e ancora oggi costituisce uno degli ambiti in cui si riscontra una maggiore interazione fra
sistema comunitario europeo e statunitense. Il sistema di diritto antitrust rappresenta il
sistema centrale su cui poggia l’architettura stessa del commercio basato sulla libera
concorrenza. Secondo il diritto di competizione l’andamento del mercato deve essere guidato
da due principi: da un lato la ricerca di una sempre maggiore innovazione tecnologica e
dall’altro la ricerca di un impatto minore sui consumatori finali. Il sistema antitrust è volto
dunque proprio al contrasto di tutti quei comportamenti che vanno a ledere la competizione,
come la formazione di cartelli, l’abuso di una posizione dominante, le fusioni e, nel caso del
sistema comunitario europeo, gli aiuti di stato.
Sebbene le analogie fra il diritto antitrust statunitense e quello comunitario europeo siano
molto numerose, il sistema di implementazione del diritto antitrust risulta molto più
centralizzato in Europa poiché affidato principalmente a un unico organo, vale a dire alla
Commissione Europea, che a sua volta opera attraverso le 28 singole autorità dei vari stati
membri. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, gli organi responsabili per la valutazione delle
condotte rilevanti in materia di antitrust sono il Department of Justice e la Federal Trade
Commission.
A supporto del diritto di antitrust sono stati introdotti anche i cosiddetti leniency programs,
vale a dire programmi di clemenza che incoraggiano le segnalazioni di eventuali violazioni che
devono essere successivamente esaminate dagli organi competenti. Alla base della normativa
antitrust vi è in ogni caso il principio di deterrenza che agisce sia tramite il public enforcement,
vale a dire l’imposizione diretta di sanzioni sulle società che violano le norme, sia tramite il
cosiddetto private enforcement, ovvero nel risarcimento dei danni alle società che sono
risultate in un qualche modo svantaggiate a causa del comportamento scorretto di un’altra
società.
Un settore che viene necessariamente investito dal diritto commerciale internazionale è
quello del Made in Italy, un marchio che ha visto crescere il suo prestigio in maniera
esponenziale negli ultimi decenni, divenendo simbolo di qualità, eleganza e bellezza in tutto il
mondo. L’espressione “Made in Italy” ha cominciato a diffondersi a partire dagli anni ’80 in
particolar modo per fare riferimento alla specializzazione internazionale del sistema
produttivo italiano nei settori manifatturieri tradizionali, specialmente nei settori
dell’abbigliamento, dell’arredamento, dell’automotive e dell’agroalimentare. Il fatto che il
marchio Made in Italy ha assunto una posizione dominante nel commercio internazionale è
testimoniato anche da indagini recenti, secondo le quali il marchio si posiziona al settimo
posto in termini di reputazione tra i consumatori internazionali (indagine di Forbes del 2017)
e al terzo posto per notorietà dopo Coca Cola e Visa (indagine di KPMG).
Proprio al fine di tutelare il marchio Made in Italy nel corso del tempo sono stati elaborati
numerosi riferimenti legislativi nell’ordinamento nazionale con anche lo scopo di sanzionare
eventuali falsificazioni del brand. Anche a livello europeo e internazionale si possono
individuare diversi riferimenti legislativi che contribuiscono alla tutela dell’indicazione del
luogo di fabbricazione dei prodotti. Un’importante iniziativa del Ministero dello sviluppo
economico, che ha aumentato ulteriormente l’appetibilità del marchio, è stata quella di
istituire nel gennaio 2020 il logo “Marchio storico di interesse nazionale.” Tale logo non
costituisce un nuovo titolo di proprietà industriale ma potrà essere utilizzato per finalità
promozionali e commerciali affiancandolo al proprio marchio registrato, qualora questo sia
inserito nel relativo Registro.

Potrebbero piacerti anche