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LA VITA DELLA LEGGE E LA SENTENZA DEL GIUDICE

Satta apre il 2° paragrafo volendo analizzare la Dottrina e la Giurisprudenza, o


meglio, il rapporto che incorre tra le due. Tutto il secolo decimonono è dominato
dalla preoccupazione di affermare o di mantenere una superiorità della dottrina
sulla Giurisprudenza. Si può, logicamente, ricordare la prefazione del Toullier alla
sua Teoria ragionata del codice civile. Egli rimproverava gli autori di complicare le
dottrine del codice civile ricorrendo a fonti di diversa natura, che determinano
idee confuse in chi già conosce il diritto e scoraggia chi non lo sa; tolgono la
nettezza dai principi.
La posizione mentale di Toullier la si ritrova nei vecchi giuristi francesi, ma anche
nei nuovi che hanno innalzato lo stendardo della razione contro questa tendenza:

Esmein- riserva alla dottrina il compito della conoscenza dei testi e della
esposizione dei principi;
Bonnecase- nonostante nega un rapporto di gerarchia fra giurisprudenza e
dottrina, mantiene a ognuna la funzione distinta nella vita del diritto;
Demogue- considera il diritto elaborato dalla giurisprudenza come distinto dalla
legge, una specie di diritto consuetudinario moderno, di altro diritto che la
dottrina raccoglie e classifica senza per questo venir meno al suo compito.
Ma in realtà nessuno ha mai pensato che il problema tra Giurisprudenza e
Dottrina non esiste, perché esse sono una cosa sola. Tale visione francese (diritto
come norma e norma come diritto) trae origine dal Razionalismo e Illuminismo.
Satta sposta la sua attenzione da questo problema, che poi problema non è, ma
da maggiore attenzione al rapporto tra le due “cose”. Tale analisi del rapporto
inizia col dire cosa sia la Giurisprudenza, associando questa al giudice, o meglio,
al concreto su cui si basa il giudice.
Il concreto si può intendere in 2 modi:
1) In relazione ad un astratto (la norma) nel quale è contenuto tutto il
concreto;
2) In assoluto, ossia come oggetto di conoscenza, e quindi la conoscenza del
fatto attraverso il giudizio.
Nel primo caso (la norma) però si riduce il diritto a una serie di principi di
generalizzazioni, impossibilitati nelle comprensione della realtà. Vengono in aiuto
a tale tesi Vittorio Scialoja in <<Rivista di diritto commerciale>> o Santi Romano
in <<Giurisprudenza scolastica>>.
Nel secondo caso (il giudizio) la conoscenza del fatto è il diritto, ciò che porta alla
conoscenza è il giudizio, ossia trovare il diritto non fuori di noi, ma in noi, perché
siamo noi a compiere quelle azioni che verranno poi messe a giudizio.
Quindi si studia la Giurisprudenza se si vuole studiare il diritto, ma resta capire
come si studia, e secondo Satta non c’è un modo; si coglie dalla decisione del
giudice, ossia dal concreto, tutta l’esperienza in essa racchiusa. Questa cosa
avviene, ovviamente, a seconda della persona che lo fa, l’autore pone qui una
metafora della giurisprudenza con una tavolozza di colori, questi possono creare
un quadro bello o brutto a seconda del pittore.
Satta ci presenta tre sentenze:
1) Il convenuto contesta la legittimazione dell’attore affermando che la striscia
di terreno sulla quale egli pretendeva esercitare il passaggio, non
apparteneva all’attore, perché questi l’aveva usurpata da un terzo. La
Cassazione ritenne che non poteva giudicarsi della servitù se non si
chiamava il terzo in giudizio
2) Tizio aveva acquistato della merce a Milano da Caio. All’arrivo, nota che la
merce è incompleta, Tizio chiama in giudizio il vettore Sempronio, a Napoli.
Questo chiama, in garanzia, un altro vettore, a sua volta un altro e l’ultimo
chiama il venditore milanese. Il Tribunale di Napoli, compiute le dovute
indagini, dichiara che la responsabilità dell’ammanco è del venditore
milanese e riserva a Tizio il diritto di chiedere il risarcimento del danno.
3) Si tratta di un giudizio di dichiarazione di paternità promosso da un Tizio,
figlio di ignoti, sulla base di un ratto compiuto dal preteso genitore. La
Cassazione dice che la donna della quale si afferma il rapimento deve
partecipare al giudizio, e se ne deve ordinare l’intervento, perché il fatto non
pu7ò essere accertato che con la partecipazione di tutti gli attori.
Da queste sentenze si nota come il principio del contradittorio ha una più vasta
significazione di quello che appare nell’ art. 101 C. p. c.- “Il giudice non può
statuire sopra alcuna domanda, se la parte contro la quale è proposta non è stata
citata e non è comparsa” - si modifica il concetto di parte.
Per comprendere meglio la funzione della giurisprudenza, l’autore fa riferimento
ad un fascicolo, a caso, del massimario della Cassazione, vengono riportate dalle
sentenze: n.2001 (nel giudizio di appello non possono proporsi nuove domande),
n.2119 (non si può parlare di inadempienza, se prima non si accerta
l’obbligazione da adempiere), n.1988 (l’acquiescenza deve risultare da fatti
incompatibili con la volontà di avvalersi delle impugnazioni ammesse dalla legge)
per far notare come queste sono stesse norme del codice rivedute e scorrette. Si
vuole calcare sulla monotona ripetizione di precedenti massime, conformi a quella
che si tra trattando.
Quindi lo studio della Giurisprudenza serve a mettere in luce le ragioni profonde
del decidere, che sono poi le grandi componenti dell’esperienza giuridica. Satta
non crede all’unità della giurisprudenza, ma pensa che sia un’utopia priva di
alcun fondamento razionale e non si capacita di quanta gente si lascia “bruciare”
dalla Cassazione, sentendosi ripetere le stesse cose.
Ma, a parte ciò, l’autore porta la nostra attenzione sul vedere se il contrasto sia
sostanziale o solo apparente; a tal proposito vengono proposti due esempi:

1) Riguarda la perpetuatio jurisdictionis – Dopo la famosa sentenza del 1907,


stesa da Fagella, nella causa tra il contr di Bari e il conte di Caserta, erano
apparse due pronunce, una della Cassazione di Roma del 1921, stesa da
Mortara, che nega il principio, l’altra della Cassazione del Regno del 1934
che lo affermava. Nel primo caso si trattava di un’istanza di interdizione,
proposta da un italiano, con i suoi interessi in Francia, e aveva iniziato,
prima della domanda stessa, le pratiche per il cambio di cittadinanza,
concluse dopo l’introduzione del giudizio. Nel secondo, di un marito
convenuto in separazione che aveva acquistato successivamente alla
domanda la cittadinanza straniera, per farla acquistare alla moglie, e
sottrarsi in giudizio.
Entrambe le sentenze sembravano giuste, anche se la giustizia veniva
realizzata con la posizione di due principi astrattamente contradittori. Ma
concretamente non lo erano, perché il principio astratto non è un principio,
si doveva ricavare il vero principio, non ricercare la sua rispondenza a un
principio astrattamente stabilito. Errore commesso anche dal legislatore,
rendendo possibile una frode, nonostante l’intenzione di evitarla.
2) Riguarda due massime contradittorie (Cass. 15 ottobre 1948; Cass. 15
marzo 1950), le quali rispettivamente ammettono ed escludono che la
sentenza ottenuta contro il conduttore sia titolo esecutivo contro il
subconduttore, e ciò nell’ interpretazione dell’art. 1595 c.c. Con altre
ricerche su queste sentenze, è emerso che la sentenza che ha affermato la
massima negativa lo ha fatto per favorire il subconduttore (inteso come
risoluzione del rapporto fra i vari contendenti). Esattamente il contrario di
quello che dovrebbe dedursi dalle massime.
Satta conclude il suo discorso dicendo che chiunque voglia affermare un
principio, deve tener conto di queste esperienze, se no sarebbe come affermare
l’esistenza di due diritti, uno assoluto e uno relativo.

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