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6. “Ius civile” e “summa malitia”. Terenzio testimone dell’affermarsi del “ius honorarium”
Circa cinquanta anni più tardi per Terenzio summum ius potrebbe avere lo stesso valore, forte, pregnante, del
carmen Marcianum.
Provando a verificare quest’ipotesi la prima cosa opportuna è analizzare il passo in cui il servo Siro si rivolge
al suo vecchio padrone Cremete, chiudendo il suo argomentare con il noto proverbio (Heauton. 790-796).
Lo schiavo pone in evidenza l’esistenza di una somma che la figlia del dominus deve a Bacchide, donna di
malaffare. Poi sottolinea la necessità di un pronto pagamento. A questo punto (sostenendo che il padrone non
si nasconderebbe mai dietro tali difese) enumera le possibili eccezioni che Cremete potrebbe apporre per non
pagare:
Non vi è stato arricchimento del padre che giustificherebbe una sua responsabilità;
Non vi fu un iussum da parte sua che avrebbe potuto coinvolgerlo come debitore (quest’ultima
termina con un affermazione della patria potestas non rispettata dalla meretrice).
A tal punto Siro afferma la malitia del summum ius: Cremete, per stretto diritto, potrebbe anche non pagare,
ma assumere questa posizione, ancorandola ad un ius formalistico, non corrisponderebbe a giustizia. Infine,
il padre si dimostra favorevole a pagare immediatamente, spinto anche da considerazioni di tipo sociale.
Questo il quadro, in un contesto permeato dalla considerazione del bonum et aequum. La qualificazione
serve allora a dare una coloritura negativa nella relazione che stringe il summum ius alla malitia, pure
summa. Se così fosse, potremmo trovarci di fronte ad una sorta di laudatio indiretta dell’opera del pretore
peregrino.