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“PRAETOR IS, QUI IUS … DABIT SUMMUM”

1. “Summum ius summa iniuria”


Il proverbio “summum ius summa iniuria”, pur non essendo una vera e propria regola giuridica è uno dei
lasciti perenni che discendono dall’esperienza di Roma antica. Una tale visione del diritto risulta tanto più
rilevante in una società, come quella contemporanea, che si distacca dalle forme e dalle gerarchie delle fonti
che avevano caratterizzato il positivismo giuridico codicistico, per volgersi verso la dimensione del soft law.
Non a caso il riferimento critico al summum ius come summa iniuria è paradigmatico nelle riflessioni
odierne sull’abuso del diritto. Il dictum (dichiarazione autorevole o dogmatica), che nella versione corrente
corrisponde a quanto si può leggere nel de officiis di Cicerone, è parte di una nota catena di testi che
espresse, in tempi diversi, un’idea dal significato intenso e critico, la quale non tardò a divenire diffusa e
colloquiale, tanto da essere qualificata, già da Cicerone come un tritum sermone proverbium (trito
proverbio).

2. Qualche più remota testimonianza


Si possono considerare testi antichi, meno noti che appartengono alla tradizione del proverbio o del suo
senso. Una prima testimonianza si può ricercare in un’epistola di Simmaco, ma altre se ne possono
aggiungere, come quella di Terenzio il più antico testimone romano del concetto, che si pone come
archetipico rispetto all’essenza del proverbio, mettendo sullo stesso piano, l’iniuria e il ius: Quo iure quaque
iniuria praecipitem in pistrinum dabit (Oppure, se gli gira, prende la palla al balzo per sbattermi alla macina,
giusto o ingiusto che sia). Nel tardoantico questo verso ritorna nel significativo commento di Donato:
proverbiale hoc est (questo è il proverbio).
Quest’idea che pone sullo stesso livello diritto (ius) e ingiustizia (iniuria), senza dare prevalenza al primo
può essere rintracciata anche nel mondo greco. Importante in tal senso un frammento poetico attribuito a
Solone: αρχος ακουε και δικαιως κἀδἱκωσ (il condottiero ascolta la ragione e l’irragionevolezza) e un breve
tratto di Aristofane che lo replica alla lettera: και δικαιως κἀδἱκωσ (la ragione e l’irragionevolezza). Il dato
appare particolarmente interessante perché coinvolge anche il pensiero ellenico del quale Terenzo e Cicerone
sono tributari, in questa storia concettuale e ideologica, arricchendola.

3. Il secondo “carmen Marcianum”


Interessante è il ritrovamento della dizione ius summum in un testo Liviano relativo al 212 a.C.: iis ludis
faciendis praesit praetor is qui ius populo plebeique dabit summum (a questi giochi presidierà quel pretore,
che renderà ragione al popolo ed alla plebe). La narrazione dello storico patavino contiene uno dei due
carmina Marciana restituiti dalle fonti. L’autore, Marcius, vates inlustris, ma personaggio storicamente
dubbio, aveva già previsto la disfatta di Canne. I suoi libri sono stati oggetto di conquisitio ex senatus
consulto, nel 213 da parte del pretore urbano M. Atilius, il quale li aveva trasmessi al suo successore nella
carica, P. Cornelius Sulla.
Il vaticinio condusse all’istruzione dei ludi in onore di Apollo; la sua interpretazione non fu semplice: il
senato passò un’intera giornata a discutere sulla profezia, poi diede mandato ai decemviri sacris faciundis di
consultare i Libri sibillini.
Il carmen ha una complessa finalità politica, che interessa l’influsso della cultura greca a Roma, e si
sostanzia nell’introdurre festività annuali in onore di Apollo.

4. Un’ipotesi storiografica: il parallelismo con il “praetor maximus”


Di recente, lo studioso palermitano Bernardo Albanese ha identificato il praetor citato da Livio con il
praetor maximus. Ciò significa che nel carmen Marcianum il termine praetor avrebbe avuto significato
arcaicizzante, per esprimere il sommo potere nelle città. Tuttavia, la suggestione non convince: uno dei
motivi sta già nella comparazione con il racconto relativo alla lex vetusta di Livio, in cui l’autore riporta la
vicenda del clavum pangere rispetto alla quale sarebbe stato competente il praetor maximus e poi consoli e
dittatori. Dunque, se la prescrizione relativa alla nomina del praetor maximus della lex vetusta aveva
prodotto la nomina di un dictator, nel caso del carmen Marcianum si sarebbe dovuto provvedere allo stesso
modo.
Il fatto è che il racconto aveva un’importanza speciale, dati i reduci della guerra con Annibale; quindi solo
grazie a un intervento diretto della divinità rettamente onrata si sarebbe aperta per i Romani la speranza di un
futuro migliore.
Ed ecco che la contingenza che sia poi stato il pretore urbano ad organizzare e presiedere i giochi per Apollo
in quell’anno (e in quelli successivi, senza interferenze consolari). Ciò indica nel modo più certo che il
pretore individuato con quella particolare locuzione nel carmen fosse effettivamente, nelle intenzioni della
profezia come del senato, il praetor urbanus.

5. Dal magistrato ai destinatari: “ius summum” = “ius civile”?


Essendosi verificato il raddoppiamento della carica pretoria a partire dal 242 a.C., con l’istituzione del
praetor peregrinus, e poi la moltiplicazione della stessa in funzione del crearsi dei governi provinciali,
scaturì la necessità di diversificare la titolatura dei diversi praetores, in riferimento alla sors ricevuta.
Sappiamo che tra di loro si scaturì anche una gerarchia di rango, con al vertice il magistrato cui era affidata
la iurisdictio urbana. Se a quest’ultimo si riferiva il vaticinio, allora si possono escludere tutti i pretori che
annualmente partivano per le campagne militari o i territori stranieri sottoposti al potere di Roma. La
possibilità però che nell’Urbe fossero due i magistrati on la funzione di esercitare la giurisdizione,
comportava ulteriori distinzioni.
I destinatari del ius che il praetor ha il compito di “dare” nella descrizione del carmen Marcianum sono
populus e plebs; sappiamo però che la nozione di popolo soprattutto in quest’epoca è comprendente rispetto
a plebe, quindi perché usare entrambe le parole. Secondo Richard, la formula era stata escogitata al fine di
coinvolgere la plebe nei giochi di Apollo, ma anche in questo caso, perché la plebe dovrebbe essere
scorporata dal populus?
Ciò che è certo è l’esclusivismo romano, di quanti ricevono ius da quel determinato praetor: non sono
compresi infatti i peregrini, che proprio da qualche decennio non solo sono ammessi all’attività
giurisdizionale pretoria, ma addirittura sono causa dell’istituzione di un secondo pretore giusdicente. Si
pensa che in un momento in cui (per motivi politici) si accetta l’introduzione di un culto non tradizionale, si
vuole coprirlo attraverso un riferimento tutto romano, in cui si richiamano in un’endiadi stretta sia il populus
che la plebs. Ciò incaricando un magistrato che per le sue funzioni ha un rapporto determinato con la città
che diviene potere forte di controllo, con funzioni che la storiografia ha voluto leggere come poliziesche.
L’altro pretore, che esercita i suoi poteri tra peregrini e populus, o solo tra peregrini, è escluso da una
dizione di questo tipo: e non sarà mai lui ad organizzare i ludi per Apollo.
Summum inserito nel testo forse per motivi metrici, nel carmen Marcianum mostra la natura del ius dato da
quel praetor urbano; questa connotazione del ius civile si manterrà. Ancora nella lex Irniatana, ad esempio,
solo attraverso una espressa previsione i municipes Latini¸ ove nel loro ordinamento vi fosse una lacuna,
potevano agire allo stesso modo dei Romani. Bisogna valutare quindi se per un’età tanto risalente ius
summum possa considerarsi stilema poetico che sostituisce ius civile riferendosi a quel diritto che si
esercitava nel tribunal del praetor urbanus.

6. “Ius civile” e “summa malitia”. Terenzio testimone dell’affermarsi del “ius honorarium”
Circa cinquanta anni più tardi per Terenzio summum ius potrebbe avere lo stesso valore, forte, pregnante, del
carmen Marcianum.
Provando a verificare quest’ipotesi la prima cosa opportuna è analizzare il passo in cui il servo Siro si rivolge
al suo vecchio padrone Cremete, chiudendo il suo argomentare con il noto proverbio (Heauton. 790-796).
Lo schiavo pone in evidenza l’esistenza di una somma che la figlia del dominus deve a Bacchide, donna di
malaffare. Poi sottolinea la necessità di un pronto pagamento. A questo punto (sostenendo che il padrone non
si nasconderebbe mai dietro tali difese) enumera le possibili eccezioni che Cremete potrebbe apporre per non
pagare:
Non vi è stato arricchimento del padre che giustificherebbe una sua responsabilità;
Non vi fu un iussum da parte sua che avrebbe potuto coinvolgerlo come debitore (quest’ultima
termina con un affermazione della patria potestas non rispettata dalla meretrice).
A tal punto Siro afferma la malitia del summum ius: Cremete, per stretto diritto, potrebbe anche non pagare,
ma assumere questa posizione, ancorandola ad un ius formalistico, non corrisponderebbe a giustizia. Infine,
il padre si dimostra favorevole a pagare immediatamente, spinto anche da considerazioni di tipo sociale.
Questo il quadro, in un contesto permeato dalla considerazione del bonum et aequum. La qualificazione
serve allora a dare una coloritura negativa nella relazione che stringe il summum ius alla malitia, pure
summa. Se così fosse, potremmo trovarci di fronte ad una sorta di laudatio indiretta dell’opera del pretore
peregrino.

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