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DALLA DITTATURA AL TRIUMVIRATO

I PRETENDENTI AL RUOLO
Dopo la violenta eliminazione di Cesare (44 a.C.) quanti avevano
puntato su una restaurazione della repubblica dovettero arrendersi.
Appena due giorni dopo la morte di Cesare, il console e fidato
collaboratore di Cesare Marco Antonio, fece appello ai sentimenti dei
ceti popolari, tanto che alcuni corsero all’abitazione di Bruto con
l’intento di dargli fuoco. In quanto console, Antonio era tra i più
gettonati a raccogliere l’eredità politica di Cesare, ma egli non era
l’unico. Poco dopo le Idi di Marzo era sbarcato in Italia dall’Oriente il
pronipote di Giulio Cesare, Gaio Ottavio. Avendo Cesare riconosciuto
Gaio Ottavio come suo figlio adottivo, il suo nome venne cambiato
in Gaio Giulio Cesare Ottaviano. Il fatto di essere stato adottato da
Giulio Cesare faceva di Gaio Ottavio un possibile successore politico
di Cesare.

LA PARTITA DEL SENATO


Di fronte alla nascente rivalità tra i due possibili eredi politici di
Cesare, il senato si trovò a giocare una partita molto rischiosa.
Apparentemente, l’avversario più temibile era Antonio: Ottaviano,
infatti, era considerato ancora troppo giovane e inesperto. Questo
punto di vista era condiviso anche da Cicerone, che fece dichiarare
Antonio nemico pubblico, pronunciando contro di lui un gruppo di
violente orazioni passate alla storia con il nome di Filippiche. Il piano
di Cicerone era infatti quello di servirsi di Ottaviano per liberarsi di
Antonio ed eventualmente di eliminare Ottaviano stesso. Cicerone si
illuse dunque di poter pilotare Ottaviano, senza accorgersi che difatti
era lui ad essere pilotato da Ottaviano: grazie ai buoni uffici di
Cicerone, Ottaviano riuscì a farsi nominare propretore, carica che gli
consentiva di guidare un esercito, a 20 anni, molto distanti dai 40
imposti da Silla.

GUERRA DECIMO BRUTO CONTRO ANTONIO


Alla scadenza del suo consolato, Antonio aveva spinto perché gli
fosse assegnata la Gallia Cisalpina. Tuttavia, quella provincia era
stata affidata già a Decimo Bruto, che si rifiutò di cederla ad
Antonio. Non appena quest’ultimo cercò di imporre con la forza la
propria volontà, il senato inviò delle milizie regolari in aiuto di
Decimo Bruto, che nella primavera del 43 a.C. ebbero la meglio,
anche se Antonio riuscì a scappare senza subire particolari danni.

LA MARCIA SU ROMA
Nell’estate del 43 a.C. una delegazione di soldati si presentò in
senato per chiedere la designazione di Ottaviano a console. Respinta
la richiesta da parte del senato, Ottaviano varcò il Rubicone e giuns
a Roma con le sue truppe, il 19/08/43 a.C.; il giorno dopo, il popolo
riunito in assemblea elesse Ottaviano console alla scandalosa età di
20 anni, ben distanti dai 43 previsti dalla legislazione di Silla. Il
neoeletto cercò l’alleanza di Antonio e di un altro ex Cesariano,
Marco Emilio Lepido: Ottaviano aveva infatti capito che un accordo
con Antonio era per lui più conveniente rispetto ad una nuova
guerra civile.

IL SECONDO TRIUMVIRATO
I tre generali si incontrarono a Bologna e stipularono un accordo
passato alla storia con il nome di Secondo Triumvirato. A differenza
del precedente, si trattava di una vera e propria magistratura dalla
durata quinquennale e con pieni poteri di governo. Secondo la legge
istitutiva, varata nel 43 a.C., i triumviri avrebbero dovuto occuparsi
di riformare lo stato. Le prime mosse dei nuovi triumviri furono
l’istituzione di nuove liste di proscrizione, contro gli assassini di
Cesare e contro la parte filorepubblicana del ceto dirigente romano.

LA LOTTA CONTRO L’ARISTOCRAZIA ANTICESARIANA


Il primo obiettivo dei triumviri era quindi quello di liquidare l’ala più
conservatrice dell’aristocrazia. Di fronte alla nuova situazione,
Bruto, Cassio e i loro partigiani si rifugiarono in Grecia ed iniziarono
ad arruolare un esercito. Contestualmente vennero rese note le liste
di proscrizione, che comprendevano circa 300 senatori e 2000
cavalieri. Tra le vittime delle proscrizioni ci fu anche Cicerone, ucciso
i primi di dicembre del 43 a.C.
LA FINE DI BRUTO E CASSIO
Nel 42 a.C. l’esercito dei triumviri era ormai allo scontro finale, che
avvenne a Filippi e si risolse con la vittoria dell’esercito triumvirale. I
nobili che seguirono Bruto e Cassio morirono quasi tutti in battaglia
e questi ultimi si suicidarono. Tuttavia, una pattuglia di irriducibili
decise di proseguire la lotta, trovando in Sesto Pompeo il loro
leader, il quale era riuscito a creare una sorta di dominio personale
in Sicilia.

LE TENSIONI INTERNE AL TRIUMVIRATO


Dopo la battaglia di Filippi, tornarono a riemergere le rivalità tra
Antonio e Ottaviano. Un primo terreno di scontro riguardò
l’assegnazione delle terre ai veterani, pratica consolidata che
tuttavia suscitava sempre delle resistenze in coloro che si vedevano
espropriati delle loro terre. La rivolta dei proprietari terrieri fu
ulteriormente alimentata dalla moglie e dal fratello di Marco
Antonio, Fulvia e Lucio Antonio. Questa mossa di Marco Antonio era
atta a creare difficoltà a Ottaviano. Le operazioni contro i rivoltosi si
risolsero nel 40 a.C. Nello stesso anno i triumviri procedettero a
spartirsi le varie zone di influenza: Ottaviano avrebbe governato
sull’Italia e sull’occidente mentre Marco Antonio sulle regioni
orientali. A Lepido venne affidato il governo dell’Africa. Nel 39 a.C.
fu invece raggiunto un accordo con Sesto Pompeo riconoscendogli il
governo della Sicilia, della Sardegna, della Corsica e del
Peloponneso. Pompeo, tuttavia, non interruppe gli attacchi alle navi
romane finché non venne definitivamente sconfitto nel 36 a.C. a
Nauloco da Agrippa, generale e amico di Ottaviano

LA CORSA VERSO LA BATTAGLIA FINALE


Il decennio che si aprì con gli accordi di Brindisi rappresentò una
sorta di guerra fredda. La battaglia fu combattuta inizialmente da
Ottaviano con i mezzi della propaganda. Antonio, invece, aveva
deciso di intraprendere una grande campagna contro i Parti. A
questo scopo, il triumviro aveva posto la propria base ad
Alessandria e qui si era legato a Cleopatra. Ottaviano, approfittando
di questa circostanza e del fallimento della campagna di Antonio,
denunciò il tradimento subito dalla propria sorella (moglie di
Ottaviano) e attrubuì ad Antonio addirittura l’intenzione di trasferire
la capitale dell’Impero ad Alessandria. Di fronte a questi pericoli
Ottaviano si presentava come il difensore delle radici e dei valori
dello spirito romano.

LA BATTAGLIA DI AZIO
Nel 37 a.C. il triumvirato venne prorogato per altri 5 anni, ma nel 33
a.C. i rapporti fra Antonio e Ottaviano erano diventati ormai troppo
tesi. Lo scontro finale avvenne nel 31 a.C. ad Azio. Antonio
combatteva al fianco delle forze navali di Cleopatra, circostanza che
permise a Ottaviano di presentare il conflitto non come guerra civile,
ma come guerra legittima contro un nemico esterno. La battaglia si
concluse con la vittoria delle forze di Ottaviano. Antonio e Cleopatra
cercarono rifugio in Egitto, dove si suicidarono l’anno successivo. Fu
eliminato anche Cesarione, figlio naturale di Cesare e Cleopatra. Nel
30 a.C. Ottaviano entra da vincitore ad Alessandria, rendendo di
fatto l’Egitto parte dell’Impero Romano. Lepido, invece, era
talmente innocuo che poté morire di vecchiaia vent’anni più tardi.
Ottaviano venne quindi a ritrovarsi nella stessa posizione del proprio
padre adottivo 15 anni prima. A 32 anni si era liberato di tutti i
propri avversari. Egli governerà fino alla sua morte, avvenuta nel 14
d.C.
LA RIVOLUZIONE PRUDENTE

UNA LENTA PROGRESSIONE


Quando Ottaviano nacque, Roma era una repubblica; quando morì
era ormai divenuta un impero. Ottaviano, nel conquistare il vertice
dello stato, procedette con estrema gradualità, presentandosi come
l’interprete della tradizione repubblicana e il restauratore del vecchio
regime politico. Oltre alla sua abilità politica, anche altri fattori lo
favorirono.

LA CRISI DELLA VECCHIA ARISTOCRAZIA E IL DESIDERIO COMUNE


DI PACE
Negli anni successivi alla morte di Cesare la vecchia aristocrazia si
trovò decimata dalle proscrizioni e dalle guerre; i pochi superstiti
erano pronti anche a consegnare il potere nelle mani di una sola
persona pur di mantenere una parte dei propri privilegi. Il desiderio
di tutti, plebe compresa, era che si giungesse alla pace, qualunque
fosse il prezzo da pagare. Perciò Ottaviano, nel 29 a.C., si apprestò
a chiudere le porte del tempio di Giano, azione che stava a
significare l’assenza di guerre su tutto il territorio dell’impero.
Tuttavia, il governo di Augusto non fu certo un governo di pace,
anche se così viene ricordato e affermato.

IL CUMULO DELLE CARICHE (OTTAVIANO)


Ottaviano evitò di assumere poteri speciali. Nel 23 a.C. gli venne
attribuita la tribunicia potestas, cioè i poteri spettanti ai tribuni della
plebe. La carica di Pontefice Massimo, assunta nel 12 a.C., gli
assicurava il controllo del più grande collegio sacerdotale romano.
Ottaviano, tuttavia, attese la morte del vecchio Pontefice, Marco
Lepido, prima di farsi nominare. Ottaviano era inoltre il rpincipe del
Senato, un titolo che gli dava la possbilità di parlare per primo nei
dibattiti. Infine, rivestì per molti anni il ruolo di console, al quale
rinunciò solo nel 23 a.C. (egli, tuttavia, continuò ad esercitare uno
stretto controllo su questa carica).
I TITOLI ASSEGNATI AD OTTAVIANO
Non meno importanti furono poi i titoli che gli vennero assegnati. Il
primo, Augusto, gli venne attribuito nel 27 a.C. Apparteneva alla
sfera religiosa e significava “venerabile”: esso sottolineava il
collegamento tra il suo potere e il volere delle divinità. Il secondo,
Padre della Patria, gli fu conferito nel 2 a.C. e conferiva ad Augusto
una figura di padre su tutta la popolazione romana.

LA FINE DELL’EQUILIBRIO REPUBBLICANO


Ottaviano dunque non introdusse magistrature e poteri nuovi:
formalmente era tutto come nell’epoca repubblicana, con l’unica
differenza che ora tanti poteri venivano concentrati nelle mani di
una sola persona: bastava questo per cancellare l’equilibrio
caratterizzante il periodo repubblicano. Ne venne fuori una figura
particolare: non un re, termine odiato dai romani, non un dittatore,
che avrebbe riportato all’idea di Cesare e prima ancora di Silla,
bensì un principe, un individuo con forte potere ma non assoluto.

PARADOSSO DEL PRINCIPATO


Ottaviano riuscì quindi a creare un paradosso: un impero senza un
imperatore. Ottaviano dichiarò sempre che grazie a lui era rinata la
repubblica romana, ma i moderni storici usano il termine principato
per riferirsi alla costruzione politica di Augusto.

IL CONTROLLO DELLE PROVINCE


Per quanto riguarda il controllo delle province, il principe procedette
in modo che il controllo di queste ultime fosse concentrato nelle sue
mani.

LA DISTINZIONE TRA PROVINCE SENATORIE E IMPERIALI


Le province vennero distinte in senatorie e imperiali. Le provincie
senatorie erano i territori di più antica romanizzazione, che non
presentavano difficoltà nella gestione e quindi erano smilitarizzate e
governate da ex magistrati. Al contrario, delle provincie imperiali
facevano parte le aree di confine e quelle di recente conquista,
potenzialmente più instabili. All’interno di queste province vi erano
contingenti militari permanenti. I governatori erano scelti dal
principe; in questo modo Ottaviano finì di fatto per controllare tutti
gli eserciti dislocati rispetto a Roma. Uno status a sé ebbe invece
l’Egitto, considerata proprietà personale del principe, la cui gestione
venne affidata ad un prefetto scelto dal principe. I due tipi di
province erano distinte anche dal punto di vista dei tributi: se i
tributi delle province senatorie confluivano nell’erario, i tributi delle
province imperiali andavano a costituire il fisco, una nuova cassa
sotto il controllo esclusivo del principe.

IL PROCONSOLATO SU TUTTE LE PROVINCE


Ottaviano godeva poi di un ulteriore privilegio, riconosciutogli nel 27
a.C.: il proconsolato maius et infinitum, che consisteva in una sorta
di supervisione generale su tutti i territori dell’Impero: la definizione
indicava che tale potere era più grande di quello degli altri
governatori e che tale potere era infinito, cioè esteso a tutte le
province.

IL RUOLO DEI SENATORI


Tuttavia, Augusto sapeva bene di non poter governare da solo. Il
principe cercò di garantirsi quindi il consenso dei cavalieri e dei
senatori con una serie di riforme. Il senato, ricondotto a 600
membri, conservò in parte le proprie funzioni tradizionali: oltre ai
ruoli tradizionali, ai senatori fu riservata la carica di una nuova
istituzione, quella del prefetto urbano, il cui compito era quello di
garantire l’ordine pubblico a Roma. Soprattutto Augusto rese più
esclusivo l’accesso al rango dei senatori, arrivando quasi a ricoprire
il ruolo che in epoca repubblicana fu del censore (egli sceglieva i
senatori e aveva anche il diritto di rivedere le liste di questi ultimi).

IL CETO EQUESTRE E LE NUOVE CARICHE


Ai senatori furono però affiancati i cavalieri, in ruoli di grande
prestigio. Appartenevano al ceto equestre il governo delle province
imperiali, il prefetto dei vigili, la prefettura dei vigili (corpo speciale
con funzioni di protezione civile), e la prefettura dell’annona
(incaricata di garantire il regolare approvvigionamento di cibo a
Roma). Cavaliere era anche il prefetto del pretorio, figura a capo di
un esercito personale di Augusto, di 9000 soldati, detti pretoriani.

LA PROMOZIONE POLITICA DEI CAVALIERI


La creazione di questo sistema di cariche istituzionali costituiva
finalmente una vittoria della classe equestre, che dopo 100 anni
vedeva accettare le proprie richieste di diventare parte integrante
della classe dirigente, e accresceva il consenso di Augusto, che era
ormai creditore dei cavalieri.

LA RIORGANIZZAZIONE DELL’AMMINISTRAZIONE ROMANA


Ma c’è anche una seconda ragione per la quale le riforme di Augusto
furono importanti. Roma aveva conservato per secoli, sin da quando
era una piccola città, la stessa struttura repubblicana: una
situazione ormai insostenibile considerando la vastità dell’Impero
Romano. Grazie alle riforme di Augusto, al fianco dei magistrati si
affermarono nuove strutture amministrative, formate da tecnici
esperti con ruoli più specifici.

LA RIORGANIZZAZIONE DELL’ESERCITO
Dopo la battaglia di Azio, Augusto dovette affrontare il problema
dell’esercito, divenuto ormai economicamente insostenibile per
Roma. Furono congedati 300.000 veterani, ai quali furono date terre
in Italia e province. Le legioni, che prima della battaglia di Azio
arrivarono fino a 60, furono ridotte a 28, e da quel momento furono
costituite da soldati volontari. Gli ufficiali venivano trasferiti
frequentemente, in modo che non si creassero legami troppo stretti
con le truppe. Alle legioni si affiancarono truppe ausiliarie, costituite
da provinciali, che a fine servizio venivano ripagati con la
cittadinanza. Il compito di presidiare il territorio di Roma era invece
affidato ai pretoriani, tutti cives Romani, che avevano una paga più
alta e condizioni migliori rispetto ai legionari.
IL FRONTE SPAGNOLO
La politica estera di Augusto fu indirizzata più verso il
consolidamento dei confini esistenti che verso l’ampliamento delle
conquiste. Grande impegno fu speso nella sottomissione della
penisola iberica, un’area mai completamente conquistata a causa
delle resistenze dei popoli locali. La campagna si concluse con
successo nel 19 a.C.

LE CAMPAGNE NELLE ALPI, SVIZZERA E AUSTRIA, PANNONIA E


MESIA
Lungo il confine settentrionale dell’Impero la politica di Augusto
perseguì l’obiettivo di estendere verso nord i propri confini. Nella
regione delle Alpi Occidentali, le truppe romane conquistarono
l’attuale Val d’Aosta, nel 25 a.C. Una lunga serie di operazioni
militari iniziate nel 25 a.C. e durate circa 10 anni portarono anche
alla sottomissione delle tribù germaniche nelle attuali Svizzera e
Austria. Fra il 12 e il 9 a.C. venne conquistata anche l’attuale
Ungheria e Bulgaria.

LA DISFATTA ROMANA IN GERMANIA


Decisamente meno fortunato fu il tentativo di conquista della
Germania. Nel 9 d.C. tre legioni romane furono annientate nella
selva di Teutoburgo, da un’imboscata di germani guidata da
Arminio, ex soldato romano, che nell’immaginario del suo popolo
diventò un eroe.

LE TRATTATIVE DIPLOMATICHE CON L’ORIENTE


Più modesti furono gli obiettivi di Augusto in Oriente, dove il
principe non voleva fare nuove conquiste bensì continuare a
mantenere il controllo indiretto sulle regioni confinanti, per evitare
un dispendio di energie e di risorse militari. Per la verità, per tutti gli
anni 30, la propaganda non cessò di annunciare un’imminente
campagna contro i parti, campagna che in realtà non fu mai
realizzata. Tuttavia, nel 20 a.C., Augusto ebbe un ritorno di
immagine con la restituzione delle insegne militari sottratte dai parti
all’esercito di Cracco nel 53 a.C. L’episodio era solo il frutto di un
accordo diplomatico tra le due potenze, non un segno di
sottomissione, come la propaganda volle far credere.

Fra gli uomini di cui si serviva Augusto rientravano anche una


categoria speciale di collaboratori, capaci di orientare e influenzare i
pensieri di molti: gli intellettuali. Ottaviano, sin da quando era
triumviro, si era servito di un abile cavaliere etrusco, Mecenate, per
accogliere intorno a sé una cerchia di scrittori e poeti disposti a
contribuire alla sua politica grazie alle opere letterarie. A differenza
dei trascorsi, però, questa volta i letterati erano chiamati a
collaborare ad un progetto molto ampio: una riforma complessiva
dello stato, della società, dei comportamenti individuali.
Nello svolgimento del suo compito, Mecenate scoprì i talenti di
Virgilio e Orazio che, sin da giovanissimi, iniziarono a far parte dei
collaboratori di Ottaviano.
L’idea che l’età di Augusto rappresentasse il punto più alto
dell’intera storia di Roma domina nell’opera dell’Eneide, scritta da
Virgilio. L’opera venne fortemente sollecitata dal principe e quando
Virgilio fu in punto di morte e chiese di bruciare l’opera, Augusto ne
impose la pubblicazione, pur con qualche imperfezione, convinto che
a quel testo fosse affidata una grande parte della sua fama presso i
posteri.
Della politica culturale Augustea fa parte a pieno titolo l’apertura di
nuove biblioteche pubbliche, che fino ad allora erano molto poche e
molto ristrette.
Il rapporto tra il principe e gli intellettuali, però, non era sempre
idilliaco. Non è difficile, infatti, trovare alcuni esempi di censura
imperiale, ufficialmente decretata dal Senato ma probabilmente
influenzata dalle decisioni di Augusto. Il poeta Ovidio, nell8 d.C., finì
in esilio in un villaggio sul Mar Nero: probabilmente i suoi versi
sembrarono ad Augusto non consoni al clima di restaurazione
promosso dal regime. Persino Virgilio fu costretto a cancellare dalle
Georgiche il nome dell’amico Cornelio Gallo, che cadde in disgrazie e
fu costretto a darsi la morte. Un’altra vittima fu Tito Labieno, reo di
aver pubblicato una ricostruzione della storia recente di Roma di
ispirazione filorepubblicana. Fu questo il primo caso in cui venne
data alle fiamme l’intera produzione di un autore ancora in vita.
Mos maiorum --> ritorno alle tradizioni, punizione dell’adulterio,
istituzione tribunale permanente per punire l’adulterio (questione di
interesse pubblico, tutti potevano denunciare). Favoreggiamento di
matrimoni e molti figli, con incentivi, difficoltà ad ereditare la parte
di eredità per chi non era sposato e non aveva figli. Riforme atte ad
accrescere il numero dei cittadini, dunque futuri soldati e futuri
amministratori di Roma.
La letteratura e la poesia furono solo un aspetto della politica
culturale augustea. Il principe, per non trascurare i ceti a cui non
era possibile accedere alle opere letterarie, decise di raggiungerli
con strumenti diversi. Riprendendo il modello di Cesare, Augusto
mise mano ad un intervento di vasta portata nell’area del Foro.
Questo durò molto tempo, ma alla fine il risultato fu di straordinario
impatto visivo. Un richiamo eccezionale era esercitato dal Tempio di
Marte Vendicatore. In questo modo, la figura del principe venne
ancora di più venerata. Durante il suo principato, Augusto effettuò
un grande processo di ristrutturazione. La seconda area ad alto
valore simbolico era il colle Palatino dove, secondo la tradizione,
Romolo fondò la città di Roma e dove si venerava un’antica
capanna, identificata come la casa di Romolo. Proprio sul Palatino il
principe costruì il Tempio di Apollo e stabilì la propria casa. La terza
area su cui Augusto si concentrò fu il Campo Marzio, area mondana
dove in passato passava in rassegna l’esercito. Oltre al Pantheon,
nel Campo Marzio fu collocato uno dei più grandi monumenti voluti
dal principe: l’Altare della Pace di Augusto.
Una delle strategie attraverso le quali Augusto cercò di rendere
familiare la propria immagine fu la moltiplicazione delle immagini ce
lo raffiguravano. Ovunque comparvero statue del principe, sia in
tenuta militare che in toga, a rappresentare la competenza del
principe. Inoltre, il suo volto iniziò ad apparire sulle monete, sulle
coppe e persino sulle gemme. A poco a poco, il volto di Augusto
diventò così un volto familiare.
Infine, Augusto non si dimenticò della plebe: una classe sociale che
poteva essere attratta dalle rappresentazioni circensi, da tempo
occasione per guadagnare consensi tra le fasce meno abbienti della
popolazione. Gli allestimenti furono numerosi e spettacolari, tanto
che lo stesso principe non mancava mai di parteciparvi, su un palco
a lui riservato.

IL PROBLEMA DELLA SUCCESSIONE DI AUGUSTO


Quando il principe morì, nel 14 d.C., il principe non aveva mai
indicato esplicitamente un suo successore, ma si era solo limitato a
prendere in adozione i giovani rampolli della famiglia: dapprima
Marco Claudio Marcello, figlio della sorella, poi Lucio e Gaio Cesare,
figli di Agrippa. Purtroppo, tutti i figli adottivi morirono prima di lui e
alla fine Augusto fu costretto ad adottare Tiberio Claudio Nerone,
figlio di un precedente matrimonio di Livia, poco stimato
dall’imperatore. Alla morte di Augusto fu pertanto Tiberio a
raccoglierne l’eredità. Aveva inizio una dinastia, che durerà fino al
68 d.C., nota come dinastia giulio-claudia, perché i suoi membri
derivano dalla gens iulia e dalla gens claudia.

UN EQUILIBRIO INCERTO CON IL SENATO


Quando Tiberio successe ad Augusto divenne chiaro a tutti che il
principato non era una realtà temporanea, ma si era trasformato in
una nuova forma di governo della Stato. Rimaneva tuttavia incerto il
modo in cui i successori di Augusto avrebbero regolato i loro
rapporti con il Senato. Augusto, ad esempio, tolse potere al Senato,
ma accrebbe il loro prestigio. Si trattava di un compromesso,
indispensabile per garantire il passaggio dalla repubblica all’impero.

UN MAGISTRATO SPECIALE
Per tutta l’età giulio-claudia i poteri del principe restarono invariati.
L’insieme di privilegi che Augusto aveva accumulato nel tempo, si
trasformò in un pacchetto che il nuovo principe otteneva dal Senato.
In questo modo, l’ambiguità del principato restava in piedi:
l’imperatore era un magistrato speciale, al quale il senato conferiva
poteri speciali, ma che in teoria era un esponente del Senato stesso.

L’ATTEGGIAMENTO DEI VARI SOVRANI RISPETTO AL SENATO


Nel definire il proprio rapporto con il Senato, non tutti i successori di
Augusto agirono allo stesso modo. Una parte di essi seguì una
politica di buoni rapporti con il senato, fondata su un atteggiamento
di rispetto reciproco, in una sorta di patto di non belligeranza. Altri
imperatori, invece, scelsero la via di un governo assoluto, che
prescindeva dal senato o andava contro di essi. Sotto il governo di
questi imperatori i senatori meno graditi furono eliminati attraverso
processi molto vaghi. I nobili reagirono spesso attraverso lo
strumento della congiura, puntando ad eliminare quelli che loro
considerano tiranni.

LA STORIOGRAFIA DI OPPOSIZIONE
A questi imperatori assolutistici gli storici latini attribuirono
comportamenti folli e gesti di inaudita crudeltà, anche nella loro vita
privata. Tuttavia, si pensa non ci sia molto di vero nel racconto di
questi storici, considerando che erano tutti senatori e che dunque
finivano per farsi influenzare dal rapporto che l’imperatore ebbe con
il Senato. In realtà, dietro l’assolutismo di queste figure si evinceva
una scelta politica ben precisa: liberare il potere del principe da
qualsiasi vincolo, eliminando il Senato per favorire una monarchia
piena ed esplicita.

IL RUOLO DEL PRINCIPATO


Da un certo punto di vista questi principi strappavano la maschera
dell’ipocrisia al regime creato da Augusto, ma i tempi non erano
ancora maturi per una svolta in senso assolutistico. La monarchia
era un regime molto vicino all’Oriente, dove il monarca veniva
addirittura venerato come fosse un dio. Alcuni principi provarono ad
introdurre la divinizzazione dell’imperatore, ma nel I sec. D.C. i
tempi non erano ancora maturi per uno sviluppo della monarchia in
senso teocratico. Perciò, alle tentazioni autoritarie dei vari
imperatori c’era sempre una forte resistenza dell’aristocrazia, che o
lo liquidava con violenza o ne consegnava ai posteri un ritratto
infamante.

LA DINASTIA GIULIO-CLAUDIA

TIBERIO
La successione di Tiberio Claudio Nerone (14-37 d.C.) era stata
preparata da Augusto per molto tempo, prima attraverso il
matrimonio con la figlia, poi con la progressiva concessione di poteri
e infine con l’adozione, e per queste prerogative il suo accesso al
potere avvenne senza particolari turbamenti.
Sul piano della politica interna, il principe fu un buon
amministratore, puntando a contenere la spesa pubblica e a limitare
gli episodi di corruzione e di malgoverno delle provincie.
Per quanto riguarda la politica estera, Tiberio evitò pericolose
campagne di espansione, puntando soprattutto a stabilizzare i
confini. Egli potè contare sulla collaborazione del nipote Germanico,
che operò con successo sia contro i Germani che contro i Parti, sui
confini romani. Purtroppo Germanico, adottato da Tiberio per
volontà di Augusto, morì in circostanze ignote nel 19 d.C.
Sul piano dei rapporti con il Senato, dopo un iniziale periodo di
accordo, la situazione precipitò, portando Tiberio a ritirarsi a Capri,
nel 27 d.C., lasciando Roma nelle mani del suo prefetto del pretorio
Seiano. Questi sfruttò la situazione di vuoto di potere per tentare un
colpo di stato. Scoperto da Tiberio, venne ucciso nel 31 d.C.,
aprendo ad un periodo di diffidenza da parte del principe che istituì
molte liste di proscrizione, facendo assassinare molte persone con
l’accusa di lesa maestà. Morì nel 37 d.C. a Capri, dove si era ritirato
10 anni prima, non prima di aver nominato suoi eredi i nipoti Gaio
Cesare e Tiberio Gemello.

CALIGOLA
Dei due fu Gaio Cesare a prendere il potere. Con l’avvento del
nuovo principe, detto Caligola (37-41 d.C.) per l’abitudine che aveva
in età infantile di indossare i calzari militari (caligae) si manifestò
una tendenza verso una gestione autocratica del potere.
Inizialmente sostenuto dal Senato, Caligola si orientò verso forme di
culto della personalità, imponendo addirittura un cerimoniale che
imponesse l’obbligo di inchinarsi dinanzi all’imperatore e chiedendo
la collocazione di una stata che lo ritraeva nel tempio di
Gerusalemme, azione che lo mise in conflitto con la comunità
ebraica. Caligola cercò di assicurarsi il consenso della plebe romana,
attraverso l’organizzazione di costosi spettacoli e giochi; questa
politica ebbe però l’effetto di svuotare le casse dello stato e quindi
rese necessaria l’imposizione di nuovi tributi e tasse da pagare.
Anche la politica estera di Caligola di dimostrò abbastanza
fallimentare. Nel 40 d.C. Caligola mise in piedi un corpo di
spedizione che avrebbe dovuto invadere e conquistare la Britannia,
ma la campagna non fu mai avviata. L’anno successivo fu una
congiura ordinata dai pretoriani ad assassinare Caligola e a imporre
il fratello Claudio come suo successore.
[egli fece nominare un cavallo senatore, in segno di non rispetto
verso la classe senatoria del tempo. Questo gesto delineava anche il
suo carattere e la sua psiche, poco stabili]

CLAUDIO
Claudio (41 d.C., 54 d.C.), avendo vissuto alla corte imperiale
sempre in posizione defilata, senza coinvolgimento
nell’amministrazione statale, venne visto come l’uomo perfetto dai
pretoriani, essendo considerato facilmente manipolabile, visti i
trascorsi.
Ciò nonostante, Claudio si dimostrò un ottimo amministratore e un
politico lungimirante.
Sul piano della politica estera, Claudio procedette, nel 43 d.C., alla
conquista della Britannia centro-meridionale e ad un processo di
romanizzazione della Gallia, tramite la creazione di colonie di
veterani, l’estensione della cittadinanza a numerose comunità e
l’integrazione delle sue classi dirigenti in Senato.
A questo si accompagnò, in politica interna, un’attenta
amministrazione delle finanze statali, che risanò il buco finanziario
del periodo di Caligola. Tutto ciò non impedì tuttavia il varo di un
programma di opere pubbliche comprendente, tra l’altro, la
costruzione del porto di Ostia e la realizzazione di nuovi acquedotti.
Claudio infine spinse molto per la creazione di una burocrazia di
corte, formata da cavalieri e liberti, allo scopo di garantirsene
maggiore fedeltà.
Nonostante queste importanti realizzazioni, gli storici
rappresentarono Claudio come una figura debole, succube della
volontà altrui, principalmente della moglie Messalina prima, e della
ambiziosa e spregiudicata seconda moglie Agrippina dopo.
Quest’ultima lo convinse ad adottare il suo primo figlio Nerone,
nonostante Claudio avesse già un figlio, Britannico. Agrippina,
infine, avvelenò Claudio e fece assassinare Britannico nel 54 d.C.,
spianando così la strada verso il trono al figlio Nerone. [si dice che
Agrippina di mattina facesse l’imperatrice, comandando Claudio
come un burattino e che fosse anche una ninfomane]

NERONE
Salito al potere appena diciassettenne, Nerone (54-68 d.C.) fu
guidato nei primi anni del suo regno dal prefetto Afranio Burro e dal
filosofo Seneca. Secondo gli storici una forte influenza era giocata
dal ruolo della madre Agrippina che ne aveva spregiudicatamente
promosso l’ascesa e che ora sarebbe stata pronta a far valere il
proprio potere. Dopo il quinquennio felice (54-59 d.C.),
caratterizzato da un ottimo rapporto con il senato, emerse la
tendenza di Nerone ad una gestione autoritaria e assoluta del
potere: egli diventò insofferente nei confronti di qualsiasi
indirizzamento da parte di terzi della sua attività politica. Per questo
eliminò prima la madre Agrippina e poi fece allontanare Seneca, che
fu costretto a darsi la morte con l’accusa di aver aderito alla
Congiura dei Pisoni, volta ad abbattere Nerone, repressa nel 65 d.C.
in un bagno di sangue [si diede la morte in un simposio letterario,
dove si taglia le vene e continua a parlare di filosofia fino alla
morte]. La figura del principe era molto popolare presso la plebe
grazie ai sontuosi giochi da lui organizzati, a cui l’imperatore stesso
partecipava. Un comportamento inaccettabile per l’aristocrazia
romana.
Nel 64 d.C. un incendio devastante rase al suolo quasi tutto il centro
storico di Roma. Sin da subito Nerone venne sospettato di aver
appiccato l’incendio, anche se egli accusò la comunità cristiana di
aver appiccato le fiamme. Nerone sfruttò gli enormi spazi lasciati
vuoti dall’incendio per costruire la Domus Aurea, costruzione che
avrebbe dovuto essere la sua dimora personale. Uno sfoggio di
arroganza che incrinò il rapporto del principe con i ceti popolari e
che causò una grave crisi finanziaria.
Quanto alla politica estera, Nerone ottenne una vittoria rispetto alla
repressione di una vasta insurrezione iniziata in Giudea nel 66 d.C.,
inviando sul fronte colui che pochissimi anni dopo sarebbe diventato
imperatore: Vespasiano. Nel 68 d.C. Nerone, dopo essere stato
dichiarato nemico pubblico, si suicidò. [nel 68 d.C., alla morte di
Nerone, il Senato istituì un Damnatio Memoriae contro Nerone: il
provvedimento era atto a far cancellare tutto ciò che di materiale
aveva fatto Nerone. La Domus Aurea, non ancora ultimata, venne
quindi rasa al suolo, così come il Colosso, nome dato all’immensa
statua di Nerone presente nella Domus Aurea]

UN PASSAGGIO DIFFICILE - L’ANNO DEI QUATTRO IMPERATORI


La morte di Nerone segnò l’estinzione della dinastia giulio-claudia e
determinò quindi un vuoto di potere. In primo momento, gli eserciti
spagnoli imposero Galba come imperatore. Tuttavia dopo pochi mesi
i pretoriani, delusi dal fatto che Galba non avesse rispettato alcuni
impegni presi, acclamarono al suo posto Salvio Otone, governatore
della Lusitania. Di lì a poco, però, i soldati dislocati in Germania
nominarono imperatore il generale Aulo Vitellio, anch’egli rimasto al
potere per un breve periodo di tempo.
Sui vari contendenti, infine, si impose Tito Flavio Vespasiano,
riconosciuto per la prima volta principe da alcune legioni in Mesia. Il
69 d.C. è così passato alla storia come l’anno dei quattro imperatori.
Qualche anno dopo lo storico Tacito disse che allora, per la prima
volta, era stato chiaro a tutti uno dei segreti dell’impero: il principe
poteva anche essere eletto lontano da Roma, con il ruolo decisivo
affidato agli eserciti. In questo modo l’unico ruolo che rimaneva al
Senato era quello di prendere atto della nomina e riconoscere il
nuovo principe.

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