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MENENIO AGRIPPA

Console nel 503 a. C., avrebbe, secondo la tradizione, vinto i Sabini e trionfato, ma il
suo nome è famoso nella storia per la parte che gli è attribuita nella prima secessione
della plebe. All'annuncio della morte di Tarquinio il Superbo nel 495 a. C.,
l'arroganza e le prepotenze dei nobili contro i plebei non ebbero più freno, e nell'anno
appresso i patimenti di questi per l'oppressione derivante dai debiti erano giunti già a
tal punto che, mentre in armi uscivano dalla città, abbandonarono i consoli,
traversarono l'Aniene e si ritirarono sopra un'altura, detta poi Monte Sacro, a tre
miglia dalla città. Il senato, dopo altri tentativi di conciliazione, mandò ai ribelli una
deputazione di 10 personaggi, fra cui Menenio Agrippa, che era caro alla plebe. Fu
allora che egli raccontò il noto apologo delle membra ribellatesi contro lo stomaco
con danno di tutto il corpo, e simboleggiando nelle membra i plebei, nello stomaco i
patrizi, mostrò ai ribelli che con la loro secessione producevano bensì la rovina dei
loro oppressori, ma non risparmiavano la propria. L'apologo sortì l'effetto
desiderato: si ottenne, cioè, l'accordo mercé la promessa fatta dai patrizi che sarebbe
stata restituita la libertà ai debitori e sarebbero state opportunamente regolate le
relazioni tra creditori e debitori. Prima di rientrare in Roma i plebei chiesero e
ottennero l'istituzione dei tribuni della plebe.

ORAZIO COCLITE
Orazio Coclite fu un eroe dell'antica leggenda romana. La prima menzione del fatto
eroico di Orazio pervenutaci è quella di Polibio. Egli narra che, dopo avere difeso,
solo contro i nemici, la testa del ponte Sublicio dalla parte della riva destra del Tevere
e dato così agio ai Romani di tagliare il ponte, si gettò nel fiume e vi perì. Le altre
fonti più tarde (Livio, Dionisio, Plutarco, ecc.) dànno concordemente gli Etruschi di
Porsenna come i nemici contro cui Orazio combatté, riferendo così la sua gesta ai
primi anni della repubblica (508 a. C. secondo la tradizione), e concordemente
asseriscono che Orazio si salvò e che il suo valore fu solennemente premiato dai
Romani.

MUZIO SCEVOLA
Si narra che nel 508 a.C., durante l'assedio di Roma da parte degli Etruschi
comandati da Porsenna, proprio mentre nella città cominciavano a scarseggiare i
viveri, un giovane aristocratico romano, Gaio Muzio Cordo, propose al Senato di
uccidere il comandante etrusco. Non appena ottenne l'autorizzazione, si infiltrò nelle
linee nemiche, grazie anche al fatto che egli era di origine e lingua etrusca, e armato
di un pugnale, raggiunse l'accampamento di Porsenna, che stava distribuendo la
paga ai soldati. Muzio attese che il suo bersaglio rimanesse solo e quindi lo pugnalò,
ma sbagliò persona: aveva infatti assassinato lo scriba del lucumone etrusco.
Subito venne catturato dalle guardie del comandante, e portato al cospetto di
Porsenna, il giovane romano non esitò a dire: «Volevo uccidere te. La mia mano ha
errato e ora la punisco per questo imperdonabile errore». Così mise la sua mano
destra in un braciere dove ardeva il Fuoco dei sacrifici e non la tolse fino a che non fu
completamente consumata. Da quel giorno il coraggioso nobile romano avrebbe
assunto il cognomen di "Scevola" (mancino).
Porsenna rimase tanto impressionato da questo gesto che decise di liberare il
giovane. Muzio, allora, sfoggiò la sua astuzia e disse: «Per ringraziarti della tua
clemenza, voglio rivelarti che trecento giovani nobili romani hanno solennemente
giurato di ucciderti. Il fato ha stabilito che io fossi il primo e ora sono qui davanti a te
perché ho fallito. Ma prima o poi qualcuno degli altri duecentonovantanove riuscirà
nell'intento».
Alla falsa rivelazione Porsenna, si spaventò a tal punto da prendere la decisione di
intavolare trattative di pace con i Romani, colpito positivamente dal loro valore.
In via Sallustiana a Roma, sul muro di cinta del palazzo ora in uso all'ambasciata
statunitense in Italia, a sinistra del cancello principale, è incastonato un frammento
di bassorilievo (di fattura comunque recente) che rappresenta una mano nel fuoco.

CINCINNATO
Secondo lo storico Tito Livio, Cincinnato riassumeva appieno le caratteristiche del
cittadino romano dell‘epoca della repubblica: un uomo valoroso, integerrimo,
laborioso completamente dedito agli interessi della repubblica, pronto a rinunciare a
onori e pretese personali. Cincinnato fu coinvolto nelle vicende del figlio Cesone, che
era un cittadino patrizio e fu accusato di avere ucciso in una rissa il fratello di un
tribuno della plebe; al processo Cincinnato chiese indulgenza per il figlio supplicando
che non fosse condannato avendo riguardo alla sua persona, che non aveva mai
offeso nessuno con azioni o parole. Il figlio di Cincinnato se la cavò ma dovette
partire in esilio per l’Etruria e il padre fu costretto a pagare una ingente somma di
denaro, che lo costrinse per qualche periodo di tempo a vivere in un tugurio fuori
città. Superate le difficoltà finanziarie, fu nominato console con l’appoggio dei
patrizi. Esercitò l’alta magistratura con equilibrio, seppure tra forti contrasti con la
parte plebea e con i settori del Senato più propensi a concessioni verso di essa. Egli
stesso comunque rifiutò il reincarico, quando comprese che sarebbe stato causa di
nuove frizioni. Egli tornò ai campi, ma in sua assenza la situazione a Roma peggiorò;
i contrasti tra patrizi e plebei indebolivano lo Stato e la guerra contro gli Equi aveva
preso una brutta piega. Fu deciso di nominare dittatore proprio Cincinnato, il quale
era l’unico ad avere l’onore e il prestigio per risolvere la difficile situazione.
Cincinnato da contadino ritornò ad essere un uomo pubblico pronto a sacrificarsi per
il bene dello Stato. In breve raggiunse Roma e cercò di comprendere la situazione al
fine di agire con avvedutezza e prontezza. Il console romano Minucio rimase
accerchiato dagli Equi nella valle sotto il monte Algido e solo cinque cavalieri
riuscirono a portare la notizia a Roma. Cincinnato decise di accorrere in aiuto del
console; gli avversari sorpresi dalla rapidità delle sue azioni furono sbaragliati e a
Cincinnato fu tributato il trionfo. A soli sedici giorni dalla nomina a dittatore e con
grande anticipo sulla sua scadenza naturale, Cincinnato ritenne esaurito il suo
mandato e tornò alla vita agricola. Cincinnato è un personaggio leggendario e le sue
gesta hanno attribuito al suo nome è diventato sinonimo di chi, dopo aver offerto un
contributo importante alla propria patria, accetta di buon grado di tornare
nell’ombra e ad una vita semplice rinunciano agli onori e alla vita pubblica.
LUCREZIA
Livio narra che, durante l'assedio di Ardea, la noia portò i figli del re e alcuni nobili a
tornare di nascosto a Roma, di notte, per spiare i comportamenti delle proprie
consorti durante la loro assenza. Tutti rimasero affascinati da Lucrezia, moglie di
Collatino. Lucrezia, di rara bellezza ed eleganza, dai modi composti e dalla provata
castità, era l'esempio più alto di virtù femminile. Mentre alla reggia, le consorti reali
sopperivano alla mancanza di mariti e fratelli dando un sontuoso banchetto, Lucrezia
era intenta al telaio, circondata dalle ancelle. Collatino fece l'errore di invitare i
compagni a cena, vantando le doti di sua moglie in paragone alle altre. Sesto
Tarquinio, figlio del re Tarquinio il Superbo, osservò Lucrezia per tutta la sera, si
invaghì di lei e desiderò farla sua. Pertanto, qualche giorno dopo, in assenza di
Collatino, si presentò a Collazia, chiedendole ospitalità. Nel pieno della notte, armato
di spada, entrò nella stanza e la immobilizzò. Lucrezia si ribellò, incurante del suo
destino. Ma Sesto minacciò di eliminare lei e un servo della casa, dichiarando poi a
tutti di averli trovati nella stessa camera. La memoria di Lucrezia sarebbe stata
infangata per sempre dall'accusa di adulterio. La donna fu costretta a cedere alla
violenza. Da morta non avrebbe potuto difendere il suo onore. Il mattino dopo,
mentre Sesto Tarquinio ripartiva soddisfatto, Lucrezia inviò un messaggero ad
Ardea. Suo padre Spurio Lucrezio, Collatino e i nobili Publio Valerio e Giunio Bruto
giunsero a Collazia nel più breve tempo possibile. Lucrezia, in lacrime, raccontò loro
l'accaduto. Fece il nome di chi aveva abusato di lei e chiese vendetta. Gli uomini
tentarono di rassicurarla e di consolarla, ma la donna fu irremovibile: afferrò un
coltello che teneva nascosto sotto la veste, si colpì e cadde a terra esanime tra le urla
disperate dei congiunti. Il sacrificio estremo e immeritato di Lucrezia, compiuto in
difesa di tutte le donne, spinse suo padre e Giunio Bruto a farsi promotori della
sommossa popolare che portò alla cacciata di Tarquinio il Superbo e alla nascita della
Repubblica, i cui primi due consoli furono proprio Lucio Tarquinio Collatino e Lucio
Giunio Bruto, artefici della sollevazione.

CORNELIA
Cornelia era la più giovane delle due figlie di Scipione Africano maggiore. Si narra
che, Rimasta vedova ancora giovane nel 154 a.C., rifiutò di sposare il re d’Egitto
Tolomeo VIII Evergete, e si dedicò completamente all'educazione dei figli, che fece
istruire dai migliori maestri greci. È notissimo l'aneddoto della matrona campana
che mostra i suoi gioielli a Cornelia, la quale trae in lungo il discorso, finché i figli
ritornano dalla scuola ed esclama allora: haec ornamenta sunt mea, “ecco i miei
gioielli!”. Dopo la morte di Gaio, avvenuta nel 121, ella si ritirò a Miseno, dove visse
circondata da amici e da letterati. Seneca nella Consolatio ad Marciam racconta che
agli amici che cercavano di consolarla e la chiamavano infelice rispondeva: "Mai dirò
di essere infelice, io che ho partorito i Gracchi". Venne ritenuta la figura di matrona
ideale grazie alle virtù, a lei attribuite, di austerità e di carattere. Da una serie di
indizi pare che essa abbia secondato l'azione dei figli tribuni. In età più tarda le fu
eretta una statua di bronzo nel Portico d'Ottavia; fu la prima statua di una donna
esposta in pubblico a Roma.

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