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Cicerone

Marco Tullio Cicerone nacque ad Arpino nel 106 a.C., non era un nobile ma proveniva da
una famiglia equestre, studiò a Roma con i migliori retori e nell’81 a.C. intraprese la carriera
da avvocato. L’anno dopo si trovò a difendere Sesto Amerino accusato di parricidio da un
liberto del dittatore Silla, capo assoluto della res publica, ma questo mise Cicerone in una
situazione pericolosa, perchè in quel modo si opponeva al suo regime. Dal 79 al 77 a.C.
compí un viaggio in Asia e in Grecia, probabilmente per sfuggire da Silla, ed è qui che studiò
retorica e filosofia. Al ritorno sposò Terenzia da cui ebbe due figli e successivamente nel 75
a.C. divenne questore in Sicilia, una carica importante per Cicerone che gli permise di
entrare nella politica di Roma e di essere definito Homo Novus (colui che per primo nella
sua famiglia riusciva a coprire delle cariche politiche), per il suo essere scrupoloso e attento
ai bisogni dei cittadini siciliani, ed era completamente l’opposto del precedente governatore
Gaio Verre, verso cui Cicerone nel 70 a.C. sostenne trionfalmente l'accusa di truffa e di
empietà con delle orazioni dette Verrine. Con questa esperienza Cicerone si guadagnò la
fama di oratore principe. Nel 63 a.C. fu eletto console e bloccò in modo duro la congiura di
Catilina, che aveva cercato di salire al potere in modo illegale e di stravolgere la res publica:
in quest'occasione compose le 4 Catilinarie, con le quali svelò i piani che il nobile aveva
ordito una volta sconfitto nella competizione elettorale: esse (le catiline), con i loro toni
veementi, minacciosi e carichi di pathos, possono essere considerate il suo capolavoro
consolare. Dopo la formazione del primo triumvirato, cui Cicerone guardava con
preoccupazione perché riteneva che potesse essere insidiosa per l'autorità senatoria, il suo
potere iniziò a decadere : nel 58 a.C. dovette recarsi in esilio, con l' accusa di aver messo a
morte senza processo i complici di Catilina e la sua casa venne rasa al suolo. Richiamato a
Roma, vi rientrò trionfalmente nel 57 a.C. . Nel 52 a.C. Clodio , acerrimo nemico di Cicerone
, rimase ucciso e di questo fatto venne accusato Milone, il diretto rivale di Clodio, e Cicerone
assunse le difese di Milone componendo la Pro Milone , una delle sue opere stilisticamente
più compiuta. Nel 51 fu governatore di Cilicia , pur avendo accettato a malincuore di
allontanarsi da Roma . Allo scoppio della guerra civile, nel 49 a.C., si schierò per Pompeo e
dopo la sconfitta di quest'ultimo ottenne il perdono da Cesare. Negli anni successivi
divorziò da Terenzia e si risposò con la sua giovane Publilia, dalla quale tuttavia divorziò
dopo pochi mesi. Nel 45 a.C. gli morì la figlia Tullia e in quegli anni iniziò la composizione
di una lunga serie di opere filosofiche. Nel 44 a.C., dopo l' assassinio di Cesare, sostenne
il figlio adottivo di qust’ultimo, Ottaviano, ed in seguito tornò alla vita politica e cominciò la
lotta contro Marco Antonio, dove pronunciò le Filippiche ( in totale18 ) per indurre il senato
a dichiarargli guerra e a dichiararlo nemico pubblico: sono orazioni in cui serpeggia l'odio,
dove Antonio viene presentato come un tiranno assoluto , un ladro di denaro pubblico, un
ubriacone. Ma la manovra politica di Cicerone era destinata a fallire. Con un brusco
voltafaccia, Ottaviano si sottrasse alla tutela del senato, e strinse un accordo con Antonio e
un altro capo cesariano, cioè Lepido, e nacque così il secondo triumvirato. I tre divennero
così padroni assoluti di Roma, e inoltre Antonio pretese ed ottenne la testa di Cicerone , il
cui nome venne inserito nelle liste di proscrizione. Venne raggiunto dai sicari presso Formia,
dopo che aveva intrapreso un tentativo di fuga, e ai primi di dicembre del 43 a.C. venne
ucciso e le sue mani e la sua testa vennero appese nel foro.
LE ORAZIONI
Le orazioni di Cicerone non sono solo degli esempi di retorica mirati alla persuasione ma
sono anche preziosissime testimonianze del clima politico del I secolo a.C.,e mostrano,
infatti, attraverso alcuni processi come fu possibile passare dalla repubblica all‘impero. Già
nelle prime orazioni si coglie una forte impronta politica, in cui Cicerone aspira alla concordia
dei ceti dominanti, ad esempio l’orazione Pro lege manilia scritta per far conferire a
Pompeo poteri straordinari nella guerra mitridatica antica, poiché Mitridate era un grande
nemico di Roma e dei pubblicani. Quest’ultimi erano i titolari delle compagnie che si
occupavano di riscuotere i tributi delle province e le guerre Mitridati avevano messo a
repentaglio la riscossione dei tributi della provincia dell‘Asia. Appoggiando quindi i pubblicani
di rango equestre come lui, Cicerone cercava di affermare il ruolo dei cavalieri all’interno
della politica romana per controbilanciare il potere dell‘aristocrazia senatoria, infatti, la teoria
di Cicerone era questa: “concordia ordinum” cioè concordia degli ordini. Cicerone difese lo
Stato romano con la sua arma migliore, la parola. Successivamente, Cicerone ottenne il
consolato nel 63 a.C., ma presto dovette imbattersi in un grave problema : un gruppo di
aristocratici romani capeggiato da Lucio Sergio Catilina sfruttò i bisogni dei poveri di Roma e
di alcune città d‘Italia per cercare di prendere il potere e sovvertire la Repubblica. Questa fu
l’occasione di Cicerone per scrivere quattro orazioni chiamate Le Catilinarie, in cui
smaschera i piani, condannando a morte tutti i congiurati rimasti senza un regolare
processo. Però di tutte le Catilinarie la prima è forse la più efficace perché più ricca di
pathos e utilizza un artificio retorico potentissimo, la personificazione della patria, che
rivolge a Catilina parole piene di sdegno. L‘inizio è “quousque tandem, Catilina, abutere
patientia nostra?” cioè per quanto tempo ancora, o’ Catilina, abuserai della nostra
pazienza. Nel frattempo il pensiero politico di Cicerone si evolse, rendendosi conto che la
dottrina della concordia ordinum non era più sufficiente, cercò di ampliarla nell’orazione la
Pro Sestio, scritta in difesa del tribuno Publio Sestio che fu accusato di atti di violenza dal
soldato Clodio. In questa orazione, Cicerone afferma che era necessario il sostegno di tutti i
Boni (cioè i bravi cittadini che furono anche interlocutori costanti delle sue opere e dei suoi
discorsi). Da la concordia ordinum omnium si passò al consensus omnium Bonorum, cioè
l’accordo totale fra tutti gli onesti cittadini. Tuttavia, Cicerone si rese conto che solo i Boni
non bastavano per il compimento del suo progetto, da questa consapevolezza politica deriva
quindi il suo avvicinamento ai triumviri, gli uomini potenti in grado di ottenere il potere
assoluto. Nel frattempo Roma stava attraversando un periodo di caos e le bande di Clodio si
scontrarono di continuo con quelle di Milone, un sostenitore dell’aristocrazia senatoria.
Claudio muore, Milone viene difeso da Cicerone ma della sua difesa ci resta solo una
rielaborazione successiva. L’orazione però fu un fiasco perché risentì del clima politico
estremamente teso e Milone dovette scappare, altre orazioni che meritano di essere
nominate oggi sono le cosiddette Cesariane, che con la sconfitta di Pompeo Roma
finiscono nelle mani di Cesare, e Cicerone, poteva trovarsi in pericolo, in quanto aveva
appoggiato Pompeo, ma Cesare lo perdona comunque. Anche in questo periodo Cicerone
vuole rendersi utile allo Stato e cerca con queste orazioni di difendere i pompeiani dalla
condanna a morte invocando la clemenza di Cesare. Queste orazioni erano elogi per il
futuro dittatore; Cicerone era sincero e diciamo che i bravi oratori sanno come usare la
parola per tante ragioni diverse. Nel 44 a.C. alla morte di Cesare, Cicerone rientra nella
scena politica, ma si trova ancora una volta di fronte a uno scenario simile al precedente,
come accaduto con Cesare. Ancora una volta i potenti cercarono di impadronirsi del potere
assoluto, con un’unica differenza, che questa volta i protagonisti erano due: Marco Antonio,
luogotenente di Cesare, e Ottaviano, figlio adottivo di Cesare. Cicerone voleva allontanare
Ottaviano dall‘influenza di Marcantonio e avvicinarlo al Senato. A questo scopo scrive le
famose Filippiche: 18 orazioni contro il futuro triumviro Marco Antonio, delle quali rinvenute
a noi solo 14. Antonio venne paragonato ad un tiranno dissoluto, a un ladro di denaro
pubblico, ad un ubriacone che vomita in tutto il tribunale pezzi di cibo fetidi di vino. Cicerone
le ha chiamate così per alludere alle celebri orazioni che l’oratore Demostene aveva
scagliato contro Filippo, il re della macedonia. Dopo a delle simili orazioni era abbastanza
plausibile che la testa di Cicerone sarebbe stata la prima a rotolare se la situazione politica
fosse diventata favorevole a Marco Antonio, e così fu. Il progetto di Cicerone fallì
miseramente, il consensus omnium Bonorum era un utopia, inoltre, Cicerone non poteva
contare su un esercito come avevano fatto invece Cesare, Antonio, e Ottaviano; Ma la verità
è che le istituzioni repubblicane erano arrivate alla fine del loro ciclo vitale, tra Cesare che
garantiva possedimenti e latifondi e Cicerone che invitava al dialogo tra le parti. I Boni
hominis scelsero Cesare e dopo di lui Ottaviano Augusto.
LE OPERE RETORICHE
Nel 55 a.C. scrive il De Oratore, un’opera dialogica che per scriverla si ispira ai dialoghi di
Platone. Questo dialogo è ambientato in un momento abbastanza tranquillo per la res
pubblica, e i protagonisti sono Marco Antonio, il nonno del triumviro di Cicerone e Lucio
Licinio Crasso. Ciascuno di loro dà voce alla propria visione di ciò che deve essere l’oratoria.
Marco Antonio la vede come una cosa istintiva, frutto dell‘esperienza del foro; Crasso,
invece, come frutto di una vasta formazione culturale. Per Marco Antonio è importante la
pratica, mentre per Crasso la teoria. Le capacità dell’oratore devono essere utili ai valori
della res publica romana perché servono a difendere il consensus omnium Bonorum,
infatti esercitando nella sua attività la probitas (L’onestà) e la prudentia (L’attenzione,)
l’oratore si identifica come il vir bonus. Nel De Oratore, Cicerone ci spiega nel dettaglio lo
schema fisso per scrivere un discorso: Cicerone crea una specie di scaletta per gli oratori, e,
in sostanza, la composizione di un’orazione si può dividere in cinque momenti diversi:
l‘inventio, la dispositio, la locutio, la memoria e l’axio.
L’inventio è la ricerca del materiale sull‘argomento dell’orazione, in sostanza è il momento
in cui dobbiamo documentarci per trovare informazioni sull‘argomento che dobbiamo
affrontare.
La dispositio è la modalità in cui sono disposte le argomentazioni dell’orazione, cioè in
quale ordine vogliamo affrontare i punti principali del nostro discorso.
L’elocutio è la formulazione linguistica delle idee trovate nell’inventio e ordinate nella
dispositio, ovvero è il momento in cui dobbiamo scegliere uno stile adeguato e mettere per
iscritto il nostro discorso.
La memoria è la tecnica di memorizzazione delle parti più importanti del discorso: se non
siamo degli ottimi oratori, il discorso non possiamo leggerlo, per questo dobbiamo
memorizzarlo.
L’axio. invece, è la regolazione dell’impostazione della voce e la modulazione dei toni per
rendere più convincente l'orazione. Non basta sapere a memoria il discorso, dobbiamo
esporre bene, dunque esercitarci per pronunciarlo in modo convincente.
In un’altra opera di retorica, Cicerone delinea le caratteristiche dell‘oratore ideale: deve
essere in grado di presentare le tesi con argomenti validi, delectare cioè divertire con la
parola e infine, flectere, cioè suscitare negli ascoltatori dei sentimenti. A Cicerone si
rimproverava una certa tendenza all‘Asianesimo, uno stile caratterizzato da frasi spezzate
e da artifici retorici ricchi di una certa ridondanza. All’ asianesimo si contrapponeva un’altra
corrente, l'atticismo: uno stile piano e scarno che si ispirava alle orazioni di Lisia, il celebre
oratore vissuto nell‘Atene classica. Comunque a queste polemiche, il nostro autore rispose
col Brutus, ossia un’opera apologetica, cioè di difesa, sotto forma di dialogo. Qui Cicerone
sostiene che non bisogna essere ancorati a nessun stile, ma bisogna servirsi di registri
diversi in base alle diverse situazioni. Per valutare lo stile del oratore, bisogna prima di tutto
valutare il successo dei suoi discorsi e Cicerone di processi ne ha vinti tanti, ed inoltre la
grande retorica senza schemi, libera dalle scuole di stile aveva anche un altro grande
rappresentante nel passato greco: Demostene, e ispirandosi a quest’ultimo illustre
predecessore, Cicerone afferma la necessità di adattarsi alle situazioni scegliendo il
contenuto più adatto al contesto, ma soprattutto creandosi uno stile personale. Cicerone era
un politico instancabile, non faceva altro che pensare al bene della sua patria e si
interrogava, spesso, sui modi per servirla, come salvare la res publica di Roma in un periodo
di conflitto e tensione. Per provare a dare una risposta a questa domanda, tra il 54 e 51 a.C.
scrisse il de Repubblica ispirandosi alla celebre Repubblica di Platone. Dell’opera ci sono
pervenuti dei frammenti ed è difficile costruirne il contenuto, ma conosciamo per intero la
parte finale, il celebre Somnium Scipionis, Il sogno di Scipione. Il De Repubblica è
ambientato nel 129 a.C., nell‘età aurea della Repubblica romana, in cui il protagonista è
Scipione emiliano che, insieme all’amico Gaio Lelio, da vita al dibattito sulla miglior forma
di stato, riprendendo la dottrina di Polibio, che a sua volta la riprese da Aristotele. Cicerone
celebra la costituzione mista come la migliore possibile anche se, tramite le parole di
Scipione emiliano, giudica con una certa antipatia l‘irrazionalità del popolo. Per Cicerone la
migliore forma di governo è quella dell’aristocrazia senatoria; il nostro autore tende
concentrarsi maggiormente sulle abilità del Principes. Il Principes di Cicerone va inteso
come un leader, un personaggio prestigioso all‘interno del panorama politico, un sostegno
per il Senato. E’ probabile che pensasse ad un gruppo che governava la Repubblica, ma
non possiamo dirlo con certezza poiché il De repubblica è in uno Stato troppo frammentario,
ma comunque il principe è una figura eccezionale capace di allontanare le pulsioni
egoistiche personali come, il desiderio di ricchezza. Nel Somnium scipionis, nella parte
finale dell‘opera in cui Scipione emiliano sogna il nonno che lo invita a disprezzare le cose
del mondo e a pensare a un bene superiore alla gloria dei grandi uomini politici nel mondo
celeste. Insomma, Cicerone disegna nella figura del Principes una sintesi tra un dominatore
e un asceta, cioè un rappresentante della volontà degli dei che ha a cuore più lo Stato che le
personali inclinazioni. Sappiamo che Cicerone fece un viaggio in Grecia e in Asia minore per
migliorare le proprie conoscenze retoriche e filosofiche. L’autore anche se studiò filosofia,
egli non scrisse mai un’opera su questo argomento fino al 46 a.C., cioè fino ai suoi 60 anni.
Cicerone aveva sempre considerato lo studio come un rifugio dalle sventure politiche, ma
dopo la morte della figlia Tullia e il ritiro dalla vita politica dovuta alla vittoria di Cesare
contro Pompeo, la composizione delle opere filosofiche divenne il proprio sostegno nelle
avversità. Tradusse moltissime opere filosofiche di Platone e si occupò anche di filosofia
ellenistica. Sappiamo che oltre a lui, nello stesso periodo anche Lucrezio, autore del De
rerum natura, tradusse in lingua latina il pensiero di Epicuro in cui trovò delle difficoltà, in
quanto si lamentava della povertà del latino, privo di termini filosofici. Cicerone rivendica la
capacità del latino di esprimere un pensiero filosofico, piegare il latino alla filosofia sarà una
delle sue ultime sfide. Egli credeva che il latino fosse in grado di esprimere in modo efficace
e preciso il pensiero filosofico, anche se riconosceva che la traduzione dei termini
filosofici-greci in latino poteva essere una sfida ardua. Cicerone, tuttavia, grazie al suo
ingegno e al suo talento per la composizione, fu in grado di trovare soluzioni creative per
tradurre i termini filosofici-greci in modo perfettamente comprensibile e facilmente
memorizzabile per i lettori latini. In questo modo, egli contribuì in modo significativo alla
diffusione della filosofia greca tra i romani e all'arricchimento del lessico latino con nuovi
termini filosofici. Nei comportamenti quotidiani della classe dirigente romana, la filosofia
finisce per avere una funzione pedagogica. Non a caso il De Officiis era indirizzato a suo
figlio e, in generale, ai giovani. Di solito, i romani erano molto ostili alla filosofia, in quanto
considerata una perdita di tempo, ma Cicerone vuole far comprendere alla classe dirigente
che non si può assolvere i compiti pratici se non si ha un'adeguata formazione filosofica. Nel
De Officiis c'è un'interessante classificazione delle virtù: c'era la socialità, la giustizia e,
infine, la beneficentia (la beneficenza). Il dovere di ognuno di noi è metterci a disposizione
della comunità, così come Cicerone afferma nel Somnium Scipionis che, solo trasformando
gli istinti personali in virtù si può essere veramente al servizio della comunità.
LE LETTERE
Le lettere scritte da Cicerone erano indirizzate al fratello, alla moglie e agli amici. Ci sono
pervenute, quasi interamente, 16 libri di lettere agli amici più intimi, 16 libri ad Attico, tre libri
al fratello Quinto e due per Marco Bruto, quest'ultime, però, di dubbia autenticità. Questo
epistolario richiude le speranze e le angosce, le delusioni e gli slanci. Queste comprendono
una grandissima varietà di toni: a volte Cicerone è scherzoso, altre volte triste, altre ancora
acuto nelle analisi delle situazioni personali e pubbliche. È chiaro che lo stile delle epistole è
diverso da quello che usa di solito. Infatti, si tratta di lettere reali, come abbiamo già detto, e
dunque sono disseminate di espressioni colloquiali, prese dal parlato. Invece, nelle sue
opere, Cicerone è un autore dal periodare complesso e armonioso, perché il suo modo di
scrivere si fonda sul perfetto equilibrio tra le parti del discorso, la cosiddetta concimato. In
questo si ispirò a Socrate e a Demostene. Ma la caratteristica principale del nostro
Beniamino è il suo modo di strutturare il discorso con una notevole quantità di subordinate
legate a una frase principale: in altre parole, nella famosa Ipotassi Ciceroniana. Cicerone
dominava magistralmente la sintassi del periodo, tanto da riuscire a organizzare narrazioni
lunghe e complesse senza perdere la lucidità e la capacità espositiva dei concetti. Nelle sue
opere troviamo una grande varietà di toni e di registri stilistici, scegliendo le parole giuste e
fornite di una certa musicalità e di un ritmo ben scandito. La prosa di Cicerone rispettava
persino delle regole metriche come una poesia lirica, in particolare nelle fasi finali del
periodo, le cosiddette clausole ciceroniane.

DE AMICITIA:
Il Laelius de amicitia è un riassunto del dialogo avvenuto tra Gaio Lelio e i suoi generi, nel
129 a.C.
Per i romani l'amicizia era una sorta di collaborazione e supporto reciproco, quindi aveva un
ruolo abbastanza importante nella politica ed è per questo che Cicerone ne è molto
interessato. Lo scopo principale dell’opera è definire l’amicizia come un’unione che può
avvenire solo tra i Boni, cioè solo tra persone oneste. All’interno dell’opera Cicerone si
identifica in Lelio, che prima di intervenire sul discorso dell'amicizia, sottolinea l’inutilità delle
discussioni troppo sottili e astratte, che per Cicerone sono argomenti estranei alla filosofia.
Inoltre per l’autore, chi polemizza i filosofi che propongono una virtù irraggiungibile si
distaccano dallo stoicismo. Per quanto riguarda il tema invece, si definisce l'amicizia un
legame naturale perché l’uomo di natura è un essere sociale ma avviene solo tra persone
oneste, però per Cicerone queste non sono solo i sapienti come afferma lo stoicismo, ma
come esempio fa riferimento anche a personaggi politici.

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