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Cicerone

Introduzione
Siamo a Formia, è inverno, è il 7 Dicembre del 43 a. C. Sono state da poco comunicate da
Marc’Antonio, Ottaviano e Lepido le liste di proscrizione, per procedere all’uccisione legale
degli oppositori di Cesare.
Un vecchio e stanco uomo di 64 anni riposa sul letto, siamo nella sua villa vicino al mare, fa
freddo, l’uomo è solo, ha appena salutato il fratello per l’ultima volta. Quinto, ah Quinto mio
perché non sei venuto con me?
Un corvo entra nella sua stanza e solleva il suo mantello sul volto, il vecchio si rammarica e
teme che sia l’ennesimo brutto segno.
Confida ancora nel giovane Ottaviano, ma c’è poco da sperare. I servi lo convincono a
prendere il mare, allontanarsi da Roma, lasciarsi indietro tutto questo.
Ma è tardi mentre la lettiga con sopra il vecchio stremato, si addentra nei boschi, un gruppo
di ferocissimi uomini armati fino ai denti entra nella casa, frugano, gridano, minacciano, e
ottengono l’informazione desiderata. Il vecchio è nel bosco.
Molto più veloci della lettiga la raggiungono, i servi che sostengono il vecchio alla vista della
ferocia degli armati si fermano. Si fermano perché il vecchio ha ordinato di deporre la lettiga,
è stanco di scappare.
Sudato e stravolto sporge il collo e uno dei soldati, Erennio, lo sgozza velocemente.
La testa e le mani saranno mozzate e esposte nei rostra, ovvero le tribune dalle quali i
magistrati tenevano le orazioni, dalle quali questo vecchio aveva parlato tantissimo al popolo
romano. La testa che aveva concepito delle idee contrarie a Marc’Antonio, le mani che
avevano scritto le Filippiche contro Marc’Antonio.
Ma chi era questo vecchio così odiato da Marc’Antonio? Non lo indovinate? È proprio lui,
Marco Tullio Cicerone, questo è l’orribile modo in cui terminò la sua vita e la puntata di oggi
è dedicata alla sua eccezionale figura.

I Argomento
La vita di Marco Tullio Cicerone, fu una vera e propria avventura, cominciò con la nascita ad
Arpino (in provincia di Frosinone) nel 106 a.C., pensate ancora oggi il piccolo comune vicino
a Roma, su tutti i social si definisce città di Cicerone. C’è una torre che pur essendo
medievale viene definita torre di Cicerone, e in città si trovano numerosi negozi di
oggettistica che ti vendono busti e mezzi busti del famoso personaggio romano.
Cicerone nacque da una famiglia agiata, ma non nobile, di origine equestre, il giovane
Marco Tullio studiò a Roma con i migliori retori e filosofi dell’epoca, in particolare è noto
Lucio Licinio Crasso, forse il più grande oratore dell’epoca.
Nell’89 presta servizio nella guerra sociale, la guerra che oppose i rivoltosi italici contro
Roma. La motivazione del conflitto era la richiesta della cittadinanza da parte delle
popolazioni italiche (con la cittadinanza le popolazioni italiche potevano entrare a far parte
attivamente alla vita politica). Infatti quando i Romani concessero con la lex Plautia Papiria
dell’89 a.C. la guerra terminò.
Durante questa guerra Cicerone fu sotto il comando di Gneo Pompeo Strabone, il padre del
futuro Pompeo Magno.
Nell’81 Cicerone cominciò la sua lunghissima professione di avvocato, anche se alcune
fonti ci dicono che abbia iniziato anche prima. Nell’80 difende Sesto Roscio, cosa che lo
mette contro a diversi esponenti del regime sillano, Silla era in quel momento dittatore,
sostanzialmente il capo assoluto della res publica. Personaggio molto feroce nei modi e non
certamente diplomatico.
Tra il 79 e il 77 compie un lungo viaggio in Asia ed in Grecia, forse proprio per fuggire da
Silla, e lì si dedica allo studio della filosofia e ancora una volta della retorica. Consensus
omnium bonorum: l’accordo di tutto gli uomini “boni” che appartengono all’elite senatoria
(optimates).

Al ritorno Cicerone sposa Terenzia con la quale avrà una lunga relazione e due figli: Tullia
nel 76, e Marco nel 65.

Nel 75 ottiene la questura in Sicilia: è una carica importante per Cicerone, diciamo che è il
suo trampolino di lancio per entrare con forza all’interno della scena politica romana.
Cicerone è quello che viene definito a Roma un homo novus, novus in latino significa
nuovo ma significa anche straordinario, cioè fuori dall’ordinarietà, dalle regole.
Homo novus è colui che per primo nella sua famiglia ricopre delle cariche politiche pur non
essendo appartenente alla nobilitas senatoria. Spesso gli inizi della carriera di un homo
novus sono aiutati da un mentore che lo presenta alla scena politica romana.
Cicerone ne sarà sempre molto orgoglioso di questa denominazione. Fu un questore
(gestisce le finanze) scrupoloso e molto attento ai cittadini siciliani.
Governò infatti la Sicilia con grande rigore ed onestà, e l’energia del giovane politico e
oratore piacque molto ai siciliani che venivano dal governo corrotto del precedente
governatore Gaio Verre.
Gaio Verre non era proprio una bella persona. I suoi concittadini lo odiavano per i modi
dispotici, e per il fatto che aveva abusato della sua posizione sociale per ottenere vantaggi
sia politici che in denaro.
Cicerone preparò le accuse nel 70 (Verrine) e le presentò molto velocemente per evitare
che Verre riuscisse a farla franca.

Orazione deliberativa: per far approvare una legge, pronunciata in senato.


Orazione giudiziaria: per condannare qualcuno, pronunciata in tribunale.

Le orazioni furono molto efficaci tant’è che Verre fu condannato (de repetundiis per
concussione) in contumacia, ovvero senza neppure presentarsi al processo e dovette
fuggire dall’Italia.
Fu una svolta nella carriera politica del giovane Cicerone, infatti nel processo contro Gaio
Verre riportò la vittoria contro uno dei più celebri oratori dell’epoca, Quinto Ortensio Ortalo
e salì alla ribalta nella scena politica.
Nel 69 è edile e nel 66 è pretore, e dà il suo appoggio alla proposta di concedere poteri
speciali a Pompeo nella guerra contro Mitridate.
Nel 63 diviene finalmente console e reprime con forza la congiura di Catilina.
Dopo la formazione del primo triumvirato, formato da Crasso, Cesare e Pompeo, il suo astro
cominciò a declinare e nel 58 si recò in esilio, poiché secondo l’accusa di un gruppo di
nobili capeggiati da Clodio, aveva condannato a morte i catilinari senza processo. (i
seguaci di Catilina non erano presenti al processo).
Rientrò trionfalmente a Roma nel 57, appena un anno dopo l’esilio, e svolse una difficile
opera di conciliazione fra le esigenze repubblicane e il nuovo triumvirato.
Opera che era destinata a fallire, perché le difficoltà erano strutturali più che diplomatiche.
Roma si stava avviando verso il principato e la Repubblica era ormai giunta alla fine.
Nel 51 diventa governatore in Cilicia anche se vorrebbe stare di più a Roma. Nel 49
scoppiò la guerra civile si schiera con Pompeo.
Dopo la battaglia di Farsalo del 48 e la conseguente sconfitta dei pompeiani ottiene
comunque il perdono da Cesare. È un momento delicato, e decide di passarlo lontano dalla
scena politica.
Furono le questioni personali a portare una grande tristezza in questa fase della sua vita.
Si separò dalla moglie Terenzia dopo 30 anni di matrimonio, e perse la figlia Tullia, che
morì di parto insieme al nipote di Cicerone. Quest’ultimo avvenimento in particolare fu
davvero drammatico.
Abbiamo detto che Cicerone si era ritirato dalla vita politica e se ne stava tranquillo a
scrivere nella sua villa a Tusculum, ma nel 44 dopo la morte di Cesare fu costretto a tornare
sulla scena politica e a prendere una posizione pro o contro i cesaricidi.
Si schierò con Bruto e Cassio anche se sembra che non condividesse l’assassinio di
Cesare.
Ma soprattutto ingaggiò un’aspra battaglia politica contro Marco Antonio, che viene ben
documentata dalla stesura delle Filippiche, delle orazioni-invettive (di tipo deliberativo)
contro lo stesso generale romano (Marco Antonio).

Quest’ultima battaglia gli costò molto cara, nel 43 venne inserito nelle liste di proscrizione
stilate per ordine di Marco Antonio. Sul suo nome non vi fu accordo immediato fra
Ottaviano e lo stesso Antonio, ma alla fine il futuro Augusto abbandonò il vecchio Cicerone
al suo destino e come abbiamo raccontato nell’introduzione Cicerone morì di una morte
orribile (sgozzato).
Darvi un numero preciso delle opere di Cicerone, oppure elencarvi i titoli delle opere che ha
scritto farebbero terminare i minuti a disposizione del nostro podcast.
Cicerone ha scritto di tutto! Quasi tutti gli ambiti dello scibile sono stati toccati dalla sua
penna, pensate che ha scritto anche delle opere poetiche!
Ma oggi vi vogliamo distinguere un po’ le opere per categorie, per rendervi tutto più facile e
comprensibile: Prima di tutto parliamo delle orazioni, Cicerone fu un grande avvocato, e un
uomo politico di primissimo piano.

Le orazioni sono una specie di cronaca dove possiamo vedere come cambia l’io parlante
(prima combattivo, poi capacità di aggirare il problema e cercare di convincere gli altri).
(aggiunto da me).

Tutto ciò che esercitò nella pratica poi lo tradusse nella teoria e quindi abbiamo un grande
corpus di opere retoriche.
Non potevano mancare delle opere di stampo politico, questi sono solo due e li citiamo il de
re publica e il de legibus.
Abbiamo detto che ci sono stati vari momenti in cui Cicerone si è fermato nella sua
esistenza, o meglio è stato costretto a fermarsi per varie ragioni. Ebbene quando si fermava
gli piaceva dedicarsi all’otium letterario, e in particolare a scrivere opere filosofiche.
Di Cicerone poi abbiamo un grandissimo epistolario: egli scrisse all’amico di una vita Attico,
al fratello, agli amici.
Infine c’è un numero cospicuo di opere perdute.
Partiamo con le opere oratorie, ovvero con quella che Gian Biagio Conte, un illustre latinista,
chiama l’egemonia della parola.
Ragazzi Cicerone sapeva parlare in maniera magistrale, e la sua parola aveva la forza
persuasiva di mille lame acuminate. Partiremo dagli anni in senato a Roma, subito dopo
l’esperienza politica in Sicilia.
Nelle prime orazioni si coglie già una forte impronta politica incentrata alla concordia dei ceti
dominanti.
Pensiamo all’orazione Pro lege Manilia, scritta per conferire a Pompeo poteri straordinari
nella guerra Mitridatica. È un’orazione strana perché Cicerone, che in futuro sarà un
campione della res publica, e della difesa del suo ordinamento tradizionale, in questa
orazione cerca di convincere i senatori a conferire ad un unico uomo poteri straordinari (a
Pomepeo).
Perché? Perché Mitridate era un grande nemico dei pubblicani, e della loro mansione, i
pubblicani erano dei riscossori d’imposte e Mitridate nel Ponto non era favorevole per nulla
alla loro azione. Cicerone era, ricordiamolo, appartenente all’ordine equestre, proprio come i
pubblicani.
Tuttavia... tuttavia la motivazione non è solo quella, aiutando i pubblicani, cercava di
affermare il ruolo dei cavalieri all’interno della politica romana per bilanciare l’importanza
eccessiva dell’aristocrazia senatoria.
Ecco la teoria di Cicerone era questa: solo la concordia di tutte le componenti politiche e
sociali porterà il sistema statale romano a mantenere e allo stesso tempo ad evolvere
la res publica. (Concordia ordinum)

Uno dei motivi per cui la res publica muore è perché c’erano troppi soldi. (aggiunto da me).

Intanto però lo stato romano andava difeso con le unghie e con i denti, e quando un gruppo
di aristocratici romani, capeggiati da Lucio Sergio Catilina, un nobile di origine sillana,
aveva sfruttato i bisogni delle masse povere di Roma e di alcune città d’Italia per prendere il
potere, egli fu in prima linea nella battaglia per la sopravvivenza dello stato.
Nel 63 infatti Cicerone divenuto console soffocò la congiura, utilizzando la sua arma
migliore, le parole.
Quindi scrisse 4 orazioni, le cosiddette Catilinarie in cui smascherò i piani del rivale
(Catilina si era presentato al senato con Cicerone nel 63), e lo costrinse alla fuga.
La prima catilinaria forse la più efficace di tutte le altre è anche la più ricca di pathos, con
toni veementi, quasi minacciosi. Cicerone utilizzò anche un artificio retorico potentissimo,
una personificazione della Patria, che è immaginata rivolgersi a Catilina con parole di
notevole sdegno.
La seconda catilinaria brilla invece per i ritratti di tutti i protagonisti della congiura.
Abbiamo già detto che Cicerone nel 58, venne condannato all’esilio. La condanna fu frutto di
un’azione congiunta di Clodio, e del partito dei populares. Sembra che Clodio avesse un
odio personale per l’uomo politico Cicerone, così fece approvare una legge che condannava
all’esilio coloro che avevano mandato a morte dei cittadini senza processo.
Cicerone dovette andare in esilio, ma per poco tempo, dopo un anno era di nuovo a Roma.
Resosi conto che la dottrina della concordia ordinum non era sufficiente cercò di ampliarla.
Affermò infatti nell’orazione Pro Sestio (nel 56), scritta in difesa di un tribuno accusato dal
solito Clodio di atti di violenza, che è necessaria una comunanza di valori da parte di tutte le
componenti politiche, economiche e sociali insomma di chiunque possa intervenire
concretamente in favore della patria.
Cicerone chiamò i bravi cittadini “I boni”, e saranno un interlocutore costante delle sue opere
e dei suoi discorsi, e la concordia ordinum diverrà consensus omnium bonorum
(accordo totale tra tutti gli onesti cittadini). Per intenderci, accordo totale fra tutti i cosiddetti
boni. Ampliato poi ai Triumviri.
Tuttavia Cicerone si rende conto che i boni da soli non possono essere d’aiuto per il
compimento del suo progetto. Da qui nasce il suo avvicinamento ai triumviri, che da uomini
potenti in grado di ottenere il potere assoluto devono divenire strumenti per il mantenimento
delle istituzioni repubblicane.
Nel frattempo Roma stava attraversando un periodo di caos (52 a.C.) dove le bande di
Clodio che rappresentava il demagogico partito dei populares e quelle di Milone, più vicino
all’aristocrazia senatoria si fronteggiavano in strada.
Durante uno scontro, nel 52, venne ucciso Clodio. Milone fu difeso da Cicerone, ma della
sua difesa ci resta una rielaborazione successiva. L’orazione comunque fu un fiasco,
Cicerone reso nervoso dall’estrema tensione politica fallì nel suo intento e difatti Milone
dovette scappare.
Il 49 fu l’anno delle guerre civili, abbiamo già detto che Cicerone prima si schierò con
Pompeo, per poi accettare dopo la sconfitta del generale romano, il perdono di Cesare.
In questo periodo Cicerone scrisse varie orazioni dette cesariane (scopo portare Cesare
dalla sua parte). L’obiettivo di questi scritti era profondo, difendere i pompeiani dalla
condanna a morte e richiederne il perdono. Tuttavia queste opere abbondavano di così tanti
elogi per Cesare, che è difficile comprendere se fossero una semplice captatio
benevolentiae oppure atti di sincera preoccupazione per tutta la parte della nobilitas che era
ostaggio del giudizio di Cesare.
Alla morte del condottiero delle Gallie, nel 44, Cicerone rientrò nella scena politica ma si
trovò di nuovo una situazione simile alla precedente. Generali romani volevano impadronirsi
del potere assoluto.
Questa volta i protagonisti erano due Marco Antonio luogotenente di Cesare che si proclamò
suo erede, e Ottaviano, nipote di Cesare, che venne proclamato da Cesare suo erede, e
questo prima della morte.
L’obiettivo di Cicerone era staccare Ottaviano dall’influenza di Marc’Antonio per avvicinarlo
di più al senato. A questo scopo dobbiamo la scrittura delle Filippiche, 18 orazioni (ce ne
sono rimaste 14) contro il futuro triumviro, forti e veementi.

Le Filippiche originali erano scritte da Demostene ed erano contro Filippo il Macedone.


Demostene, come Cicerone, sta cercando di salvare la democrazia Ateniese.
Allo stesso modo Cicerone scrive le Filippiche contro Marco Antonio.

Pensate Antonio venne paragonato a un tiranno dissoluto, ad un ladro di denaro pubblico,


ad un ubriacone “che vomita in tutto il tribunale pezzi di cibo fetidi di vino”.
Era abbastanza ipotizzabile che qualora la situazione politica fosse diventata favorevole ad
Antonio la testa di Cicerone sarebbe stata la prima a rotolare. Così accadde. Nel 43 Antonio,
Ottaviano e Lepido strinsero l’alleanza denominata secondo triumvirato.
Antonio volle subito la testa di Cicerone che fu ucciso nel 43.
Il progetto di Cicerone fallì miseramente, il consensus omnium bonorum era un’utopia.
Perché? Perché ogni uomo politico del periodo per affermare le proprie idee aveva un
esercito, Cicerone non ha mai avuto un seguito militare o clientelare e poi c’era un discorso
storico: le istituzioni repubblicane erano arrivate alla fine, ormai il potere era divenuto
sempre di più personale, e quelli che abbiamo chiamato più volte boni homines lo avevano
capito.

Tra Cesare che garantiva possedimenti e latifondi e Cicerone che invitava al dialogo fra le
parti, scelsero Cesare, e dopo di questo Ottaviano Augusto.
Creare una teoria di tutta quest’esperienza di vita fu l’obiettivo di Cicerone dal 55 in poi.

Parliamo delle opere retoriche

Nel 55 per l’appunto Cicerone scrisse il De oratore, opera dialogica sullo stile dei dialoghi
platonici, ambientata nel 91, un momento abbastanza tranquillo della res publica, cioè
sicuramente più tranquillo di quello in cui scrive l’opera il nostro autore.
I protagonisti sono Marco Antonio nonno del triumviro e Lucio Licinio Crasso. Ciascuno di
loro da una propria visione di ciò che dev’essere l’oratoria, Marc’Antonio la vede come una
cosa istintiva, Crasso, altro partecipante al dialogo, come il frutto di una formazione culturale
di tipo filosofico-etica.
Le capacità dell’oratore devono essere asservite ai valori della res publica romana, non
possono essere autonome, perché il loro scopo più profondo è difendere il consensus
omnium bonorum.
L’oratore esercitando la probitas ( la specchiata onestà) e la prudentia (l’attenzione) nella
sua attività si deve identificare come il vir bonus, anche se poi la sua parola dev’essere
necessariamente persuasiva.
Si riprende qui la disposizione già descritta in un’opera retorica precedente il de inventione.
L’arte retorica si può dividere in cinque parti: l’inventio, la dispositio, l’elocutio, la memoria e
l’actio.
L’inventio è la ricerca e l’organizzazione del materiale per l’orazione.
La dispositio è la modalità in cui sono disposte le argomentazioni oratorie.
L’elocutio è la formulazione linguistica delle idee trovate nell’inventio e ordinate nella
dispositio.
La memoria è la tecnica di memorizzazione di parti più importanti del discorso.
L’actio infine, è la regolazione dell’impostazione della voce e la modulazione dei toni per
rendere più efficace il discorso.
Dopo la scrittura del Brutus Cicerone scrisse un agile trattatello in cui completò, per così
dire, la materia presente nell’opera precedente, l’Orator.
In questo trattato si designano le caratteristiche dell’oratore ideale che dev’essere in grado
di probare ovvero presentare le tesi con argomenti validi, delectare ovvero divertire con la
parola ed infine flectere, muovere i sentimenti e le emozioni degli ascoltatori.
Cicerone aveva dei rivali, ottimi oratori che prediligevano la cosiddetta tendenza atticista,
ovvero uno stile molto piano e scarno che prendeva spunto dallo stile di Lisia, avvocato,
oratore, ma soprattutto logografo, scrittore d’orazioni, vissuto nell’Atene classica.
A Cicerone si rimproverava una certa tendenza all’asianesimo, lo stile caratterizzato da frasi
spezzate e da artifici retorici ricchi di una certa concettosità, e di esagerazioni retoriche
ridondanti. A queste polemiche il nostro autore rispose nel Brutus.
Un’opera apologetica sotto forma di dialogo in cui Cicerone sostiene che non bisogna
essere ancorati ad uno stile oppure ad un altro, quanto servirsi di diversi registri in base alle
situazioni che ci capitano.
Per valutare lo stile dell’oratore è necessario valutare il successo dei discorsi dell’oratore
stesso, e Cicerone ne aveva vinti a valanghe di processi.
La grande retorica “senza schemi” aveva anche un altro grande rappresentante nel passato
greco, Demostene e basandosi sull’illustre predecessore Cicerone affermò la necessità di
adattarsi alle situazioni e ribadì la sua ferma convinzione di uno stile tutto suo e non
collocabile in questa o in quell’altra tendenza oratoria.
II Argomento
Dopo la produzione retorica Cicerone, cercò di dare una sistemazione teorica anche alle sue
idee politiche. Per questo motivo utilizzando nuovamente il modello del dialogo platonico,

congeniale a raccontare in modo semplice concetti complessi, scrisse il De Re Publica,


ispirato appunto alla celebre opera del filosofo.
Dell’opera ci rimangono parti e pezzi sparsi, ed è difficile ricostruirne il contenuto, abbiamo
però la sezione finale per intero, il celebre Somnium Scipionis.
L’opera è ambientata nell’età aurea della Repubblica (precisamente nel 129) e il
protagonista è Scipione Emiliano, che con l’amico Gaio Lelio dà vita al dibattito.
La ricerca di uno stato ideale doveva essere un problema molto presente in Cicerone, e
riprendendo la dottrina di Polibio, che a sua volta l’aveva ripresa da Aristotele, egli celebra la
costituzione mista come la migliore possibile, anche se poi il protagonista Scipione Emiliano
guarda con una certa antipatia l’irrazionalità del popolo.
Beh, ciò ci fa pensare che Cicerone suggerisce manco troppo velatamente che la migliore
forma di governo è quella dell’aristocrazia senatoria.
Poi il nostro autore si concentra sulle abilità del princeps. Il princeps considerato non come
imperatore, ma come personaggio di una certa importanza all’interno del panorama politico,
egli tuttavia non deve essere solo. È probabile che Cicerone pensasse ad un gruppo di
grandi personaggi che avesse il compito di governare la Repubblica.
Sì perché la Repubblica è l’unico sistema possibile.
Il princeps sarà una figura eccezionale, capace di allontanare le pulsioni egoistiche
personali, per esempio il desiderio di ricchezza. Nel Somnium Scipionis, il sogno di Scipione,
ovvero la parte finale dell’opera, Scipione Emiliano sogna il nonno Scipione l’Africano il
quale lo invita a disprezzare le cose del mondo e a pensare a un bene superiore, alla gloria
che spetterà ai grandi uomini politici nel mondo celeste.
Cicerone disegna dunque un’immagine di una sintesi fra un dominatore e un’asceta, un
rappresentante della volontà degli dei che ha maggiore interesse per lo stato che per le sue
personali inclinazioni.
Raccontando la vita di Cicerone abbiamo detto che in gioventù fece un viaggio in Grecia e in
Asia Minore, per migliorare le sue conoscenze retoriche e soprattutto filosofiche.
Malgrado però si fosse occupato di filosofia per tutta la vita, non aveva mai scritto nulla fino
al 46, cioè a soli tre anni prima della sua morte, insomma a 61 anni.
Lo studio fu sempre considerato da Cicerone come un rifugio dalle sventure politiche, che gli
erano occorse. Ma dopo la morte della figlia Tullia e il ritiro dalla vita politica coincisa con la
vittoria di Cesare contro Pompeo, la composizione delle opere filosofiche fu per lui un
sostegno dalle gravose sofferenze che stava subendo sia sul piano intimo che su quello
sociale-politico.
Prima di iniziare dobbiamo necessariamente fare una premessa. A Roma ci sono due grandi
scrittori che hanno creato un lessico filosofico latino e sono più o meno contemporanei.
Cicerone e Lucrezio (abbiamo un podcast dedicato a Lucrezio!!Sentitevelo che è bello!).
Cicerone si occupò principalmente di opere in prosa, egli tradusse moltissime opere
filosofiche di Platone, ma fu anche un grande appassionato di filosofia ellenistica.
Malgrado numerosi intellettuali romani criticavano la scelta di scrivere opere filosofiche e
traduzioni in latino, per il semplice fatto che si potevano leggere agevolmente in Greco,
Cicerone era assolutamente distante da queste opinioni. Lo stesso Lucrezio aveva delle
perplessità sulla lingua latina non ritendendola assolutamente congeniale ad esprimere le
dottrine di Epicuro (a proposito abbiamo il podcast letto da Daniele Parisi che vi aspetta)
“per la povertà della lingua e la novità delle dottrine” tant’è che si vanta di aver svolto
un’azione grandiosa in questo senso.
Cicerone rivendica la capacità del latino di riferire un pensiero filosofica complesso. Il latino
ce la può fare, Cicerone era convinto che i Romani fossero superiori ai Greci in tutto, forse
solo nella filosofia erano inferiori. Beh non doveva essere così a lungo nella testa del grande
oratore. Era una delle sue ultime sfide.
Così Plutarco nella Vita di Cicerone racconta: “Fu lui, a quanto dicono, che per primo
introdusse o diffuse tra i Romani nomi equivalenti a phantasia, sunkatathesis, epoche,
atomon
ameres, kenon e molti altri simili. Per renderli comprensibili e facili da memorizzare
s’ingegnò di

comporre i nuovi vocaboli in parte mediante metafore e in parte mediante altre parole già
familiari ai Romani”. Molti termini coniati da Cicerone in
latino, qualitas, perceptio, probabilitas, evidentia, moralis, indifferens, si sono affermati nel
linguaggio filosofico segnandone la storia.
Certo la sfida era ardua molte parole avevano un significato molto tecnico in greco e trovare
un corrispettivo latino non sempre era possibile, allora cercò di conferire uno stile elegante a
questo linguaggio così tecnico, rendendolo concretamente più accesibile.
Ma quali sono queste opere filosofiche?
Sono numerose, abbiamo già visto che Cicerone riprende da Platone la forma del dialogo, e
la stessa forma verrà alternata alla forma del trattato.
Uno dei problemi che era sentito urgente da Cicerone era il problema etico, quindi le prime
opere scritte riguardavano questioni etiche.
Il de finibus bonorum et malorum, distingue il concetto di sommo bene e di sommo male ed
è un riassunto delle teorie filosofiche delle scuole ellenistiche greche, in questo dialogo le
questioni etiche sono predominanti.
Altra opera in forma dialogica sono le Tuscolanae disputationes, forse una delle opere più
accorate di Cicerone. Scritta in cinque libri rappresenta il punto di massimo avvicinamento
alle teorie dello stoicismo. Sono trattati quasi tutti i temi dell’etica, la morte, il dolore, la
tristezza, i turbamenti dell’anima, la virtù come garanzia di felicità.
Cicerone cerca una risposta personale a questi quesisti, ed è questo il motivo per la quale
quest’opera è così appassionata.
Tutto lo sforzo si muove nel senso di ripensare l’intero corpus dei metodi, delle riflessioni, e
delle teorie nate nel mondo greco, per portarle in una sintesi comprensibile al mondo
aristocratico romano. È l’ennesimo strumento che Cicerone utilizza per lo scopo principale
della sua vita la difesa della res publica e della classe senatoria, come garante della res
publica stessa.
La filosofia di Cicerone è stata definita spesso eclettica, ovvero una summa di tante dottrine
filosofiche. E tutte queste dottrine vengono esposte con garbo e attenzione, senza dare
giudizi particolarmente violenti. Dovevano esser degli strumenti del resto, lo abbiamo già
detto.
C’è una sola eccezione caratterizzata dall’epicureismo, per il quale è forte l’ostilità. Infatti
l’epicureismo portava al distacco e al disinteresse dalla vita politica, cosa che era totalmente
in contraddizione con l’impegno e il dovere di partecipare alle cose dello stato dei cittadini
aristocratici.
Inoltre i filosofi epicurei non credevano nella funzione provvidenziale della divinità e questo
era in netto contrasto con la necessità da parte di Cicerone di mantenere un forte legame
con la religione tradizionale romana.
Anche nella sua opera filosofica più ampia e forse più importante Cicerone insiste su questo
concetto. L’opera in questione è il De Officiis.
La stesura del de Officiis iniziò con tutta probabilità nel 44, l’opera è un trattato non un
dialogo filosofico come le precedenti ed è dedicato al figlio Marco, allora studente di filosofia
ad Atene.
È probabile che sia contemporanea a molte delle Filippiche più forti scritte nella lotta con
Marc’Antonio, mentre infatti combatte colui che sta portando la patria alla rovina definitiva,
Cicerone cerca come aveva fatto anche in precedenza un appiglio nella filosofia.
L’ultimo strumento per l’ultima e impossibile battaglia fra la classe dirigente romana e i
generali che ormai avevano nelle mani il controllo pressocché totale dello stato.
La base filosofica che viene offerta è lo stoicismo di Panezio, filosofo stoico appartenuto al
circolo degli Scipioni, attivo nel II secolo a. C. Di Panezio ne abbiamo parlato nel podcast su
Marco Aurelio. Concretamente è colui che ha portato lo stoicismo a Roma.
La filosofia di Panezio fornisce degli esempi chiari per regolare i comportamenti quotidiani
della classe dirigente romana. La filosofia finisce per avere una funzione pedagogica, non a
caso

l’opera era indirizzata ai “giovani”.


Di solito i Romani erano molto ostili alla filosofia, in quanto la vedevano come una perdita di
tempo. Troppo speculativa la filosofia rispetto ai compiti politici, che sono essenzialmente dei
compiti pratici.
Cicerone voleva far comprendere alla classe dirigente che non si poteva assolvere a dei
compiti pratici se non si aveva un’adeguata formazione filosofica. I tempi ormai erano
cambiati. Panezio che sostanzialmente portò la sua dottrina nell’età aurea della Res publica,
l’età degli Scipioni, si assunse il compito di formare la classe politica romana con delle
indicazioni pratiche.
Nell’opera vi è un’interessante classificazione delle virtù, in primo luogo la virtù
fondamentale, per Panezio, era la socialità, poi vi era la giustizia ed infine la beneficentia.
Bisogna mettere a disposizione della comunità di cittadini gli averi del singolo, e la sua
stessa persona per il benessere della collettività stessa. A questo si riferisce Panezio
quando parla di beneficentia.
Ed era lo stile di vita degli aristocratici romani, i quali attraverso gli officia, cioè i propri doveri
pratici e si procuravano un seguito politico che gli consentiva di scalare le cariche del cursus
honorum romano. Insomma una sintesi della vicenda personale di Cicerone.
Ovviamente la beneficenza non dev’essere utilizzata, come faceva Marc’Antonio, come uno
strumento per ottenere consensi personali. Il bene più importante è quello collettivo, quello
dello stato.
Come nel Somnium Scipionis, anche qui Cicerone riprende la teoria in base alla quale solo
trasformando gli istinti personali in virtù, insomma sublimandoli con la ragione, ci sarà la
possibilità di servire davvero la comunità. Tutto ci fa pensare che queste raccomandazioni
non fossero valevoli solo per la classe dirigente, ma che fossero anche un ammonimento
per quegli uomini che sempre di più erano alla ribalta della scena politica romana.
La paura che sfruttassero la loro influenza e che non elaborassero una vera e propria
filosofia del potere doveva essere dominante in questo momento finale della vita del celebre
Marco Tullio.
Per l’appunto la vita, abbiamo visto tanti eventi relativi alla vita di Cicerone, fu un
personaggio politico e un grande intellettuale molto noto, di lui ci parlano tantissime fonti,
pensiamo a Plutarco che abbiamo già nominato, ma ce ne sono tante altre.
Tuttavia, della vita di Cicerone ce ne parla anche lui in una delle opere più sentite
dell’antichità, il suo epistolario. È sentita perché non prevedeva una pubblicazione, quindi a
differenza delle lettere di Seneca, queste sono lettere vere indirizzate al fratello o all’amico
Attico, oppure agli amici in generale. Ci sono arrivate quasi interamente 16 libri di lettere agli
amici più intimi, 16 libri di lettere ad Attico, 3 libri al fratello Quinto e 2, però di dubbia
autenticità, per Marco Bruto.
Quest’epistolario racchiude le speranze, le angosce, le delusioni, gli slanci dell’uomo
Cicerone, sono lettere a cuore aperto, con una grandissima varietà di toni. A volte Cicerone
è scherzoso, altre triste, altre ancora acuto nelle analisi delle situazioni personali e
pubbliche.
Il periodare di queste lettere è un po' diverso dallo stile ciceroniano usuale, infatti si tratta di
lettere reali come abbiamo già detto, e dunque ci saranno numerose espressioni gergali, o
parole pittoresche.
Sullo stile di Cicerone ne abbiamo già parlato quando abbiamo raccontato Tacito nel podcast
a lui dedicato. Cicerone fu l’autore di un periodare così complesso e armonioso che a stento
se ne trovano eguali nella letteratura europea. Il suo modo scrivere si fondava sul perfetto
equilibrio fra le parti del discorso, la cosiddetta Concinnitas e in questo s’ispirò a Isocrate e
Demostene.
Venivano eliminate molte eredità che la prosa latina aveva in dote dalla prosa arcaica, ad
esempio una certa propensione per espressioni mutuate da un linguaggio colloquiale,
oppure una certa incoerenza fra una frase e l’altra. Le frasi invece nello stile ciceroniano
venivano organizzate in ulna notevole quantità di subordinate legate a una principale, in altre
parole la famosa ipotassi ciceroniana.

I periodi di Cicerone erano caratterizzati da un dominio tale della sintassi che gli consentiva
di organizzare narrazioni lunghe e complesse, senza perdere comunque la lucidità e la
capacità espositiva dei concetti.
C’era una grande varietà di toni e di registri stilistici, che conferivano tanti aspetti
interessanti.
Del resto lo abbiamo detto parlando dell’orator, l’obiettivo di chi scrive dev’essere probare,
cioè mostrare solide argomentazioni, delectare, divertire, movere, suscitare compassione e
sentimenti, letteralmente spingere l’interlocutore delle tue parole e anche dei tuoi scritti a
una reazione emotiva forte.
Lo stile può essere semplice, temperato e sublime, e a ogni tipo di stile si adeguavano le
parole giuste, fornite di una certa sonorità, un insieme di armonia musicale, e ritmo ben
scandito.
La prosa rispettava delle regole metriche, quasi come se fosse una poesia lirica in
particolare nelle parti finali del periodo, le cosiddette clausulae ciceroniane. A Cicerone
servivano a dare una certa forza al discorso, in base ovviamente alle necessità contingenti
di ciò che scriveva.
Spunti e riflessioni
Quando parliamo di letteratura latina ci vengono in mente due o tre nomi, anche se non
siamo studiosi di questa materia. In ogni caso il nome di Cicerone, sicuramente l’abbiamo
sentito da qualche parte. È il Michael Jordan dei letterati antichi.
Forse è il personaggio del mondo classico che conosciamo meglio, un po’ per le fonti che ne
parlano, un po’ per il ricco epistolario che ci è giunto.
Ci sono arrivate tante notizie, ma queste notizie non sarebbero arrivate se Cicerone non
fosse un personaggio così interessante. Egli è il protagonista della crisi che porta la
Repubblica romana all’impero, e si oppone con fermezza al tramonto della sua epoca
elaborando un progetto politico impossibile. Consegnare degli strumenti di dominio ad una
classe politica che stava scomparendo, che doveva e forse a volte voleva anche affidarsi al
potere di un solo uomo.
Ma non fu ancorato solo al passato pensiamo al suo apporto per quanto riguarda la filosofia.
Egli fu sempre al limite fra le istanze di rinnovamento e la voglia di conservare i vecchi valori
tradizionali.
La sua vicenda intellettuale così ricca di contrasti sarà semplicemente l’emblema di una
società intera ancorata alle sue convinzioni, ma pronta ormai al salto definitivo verso un
nuovo e straordinario mondo.

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