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Marco Tullio Cicerone era nato ad Arpino il 3 gennaio del 106, due anni
dopo Catilina, da una famiglia benestante della piccola borghesia provinciale.
Pare che il suo cognome derivasse da un avo che aveva sul naso una
protuberanza molliccia a forma di cece (cicer). Questo cognome procurava al
piccolo Marco Tullio facili canzonature da parte dei coetanei, soprattutto a
scuola dove andò assai presto rivelandosi subito un primo della classe,
studiosissimo, diligentissimo, dieci in condotta. E come ogni primo della
classe che si rispetti leccava il culo al maestro e non dava da copiare i compiti
ai compagni che si vendicavano facendogli scherzi feroci e sadici come usano
i ragazzini. Però era talmente bravo che i professori e i padri degli altri alunni
lo segnavano a dito e capitava spesso di vedere il piccolo Marco Tullio che
teneva banco in mezzo a un cerchio di adulti sciorinando la sua erudizione.
(1) Insomma era la tipica secchia detestata dai compagni ma portata ad
esempio dai genitori. Come ogni enfant prodige compose, poco più che
decenne, un poemetto, Ponticus Glaucus, di cui ci è rimasto solo il titolo. (2)
Crebbe magro, esile, gracile, con una salute cagionevole che si porterà dietro
tutta la vita. Il torace stretto ne limitava le capacità respiratorie e gli dette
qualche problema anche come oratore. Ma era lo stomaco in particolare a
farlo soffrire e doveva usarsi molti riguardi. Sarà sempre attentissimo a non
sottoporsi a strapazzi e a evitare eccessi di sorta. Non beveva vino e per
rimediare in qualche modo alla sua vita sedentaria si faceva massaggiare più
volte al giorno e, dopo i pasti, camminava nei suoi orti contando il numero
dei passi. (3) Verso i vent'anni, dopo aver perfezionato gli studi in
giurisprudenza, retorica e filosofia, si trasferì stabilmente a Roma andando ad
abitare in una casetta che il padre aveva comprato alle Carene, un quartiere
periferico dell'Urbe. Era intenzionato a intraprendere la carriera di avvocato.
Dopo un periodo di apprendistato piuttosto lungo, dovuto anche all'infuriare
della guerra civile, esordisce nel Foro nell' 81 con una causa civile di poco
conto. (4) La possibilità del colpo grosso si presenta l'anno successivo. Un
giovane, Sesto Roscio, si era messo in urto col potente liberto di Silla,
Crisogono, il quale pur di incamerare i beni che Roscio aveva avuto in eredità
dal padre lo aveva accusato di parricidio. Nessun avvocato di grido voleva
difendere il giovane, temendo di inimicarsi il clan del dittatore. Gli amici
incitarono Cicerone ad assumere la difesa di Roscio: era un'occasione unica
per farsi un nome. Cicerone tentennava fra dubbi e comprensibili paure. Pur
tenendo conto che Roscio era protetto dalla potente famiglia dei Metelli, la
cosa presentava rischi evidenti. Alla fine l'ambizione prevalse. Difese Roscio
e vinse la causa. Fu l'unico atto di coraggio della sua vita. E infatti gliene
venne una tal paura postuma che fece circolare la voce che era malato e aveva
bisogno di cure, partendo immediatamente per la Grecia. Voleva mettere il
mare e un buon numero di chilometri fra sé e il dittatore. Ritornò a Roma
solo nel 77, dopo la morte di Silla. Rientrato nella capitale Cicerone, di cui
non si conoscono fin qui storie con donne, si sposò. La moglie, Terenzia, era
ricca, avida, gretta, bigotta, arcigna, energica, una virago che dominò sempre
il debole e irresoluto marito e che, nonostante lui la chiamasse «suavissima
atque optatissima» (dolcissima e desideratissima), gli rese la vita impossibile.
(5) La ripudierà trent'anni dopo perquestioni di quattrini. In parallelo con
quella forense inizia la carriera politica che è rapida e brillante perché, come
Catilina, centra al primo anno utile le varie magistrature, ma il fatto che non
«sfori» questo limite dimostra che Cicerone, homo novus, non ha, come
Catilina, aristocratico decaduto, santi in paradiso. E' questore a trent'anni
(76), edile a trentasette (70), pretore a quaranta (66) e console a quarantatré,
nel 63, l'anno del drammatico scontro con Catilina, l'apogeo della sua vita.
Politicamente appoggiò all'inizio i democratici, senza troppa convinzione e
più che altro perché, avendo difeso Roscio contro i sillani, aveva acquistato la
simpatia dei populares che lo avevano scambiato per quello che non era.
Cicerone aveva infatti un genuino e istintivo orrore per la plebe («la feccia di
Romolo» come la chiamava) ed era dell'idea, peraltro assai diffusa all'epoca,
che sei poveri sono tali è solo per colpa loro. Lasciati quindi presto I
democratici, per un certo tempo meditò di costituire un partito di Centro (il
problema, evidentemente, esisteva anche allora) che avesse
come base il ceto da cui proveniva, i cavalieri, e come duplice scopo di
allearsi con gli optimates contro la plebe e di difendere gli interessi della
borghesia degli affari, che si stava affermando proprio in quei decenni, nei
confronti dell'aristocrazia del sangue e della terra. Ma quando, nel 64, gli
aristocratici gli proposero la candidatura al consolato (6) passò dalla loro
parte con armi e bagagli e un pericoloso eccesso di zelo. Quello che doveva
essere un centro-destra divenne subito una destra-destra. Il consolato di
Cicerone fu uno dei più reazionari della storia della Repubblica. Lo inaugurò
buttandosi a testa bassa, con quattro successive orazioni, contro la legge
agraria del tribuno Servio Rullo che prevedeva una più equa distribuzione
delle terre. Esibizione superflua perché gli aristocratici avevano già
provveduto per conto loro prezzolando un tribuno e facendo interporre il
veto. Si batté contro la proposta di restituire i diritti civili ai figli dei
proscritti, che erano stati spossessati di tutto, (7) col solo risultato di farli
accorrere sottole bandiere di Catilina. Osteggiò qualsiasi cosa avesse anche
solo l'odore di una riforma. Difese ogni sorta di privilegio anche quelli più
minuti e ridicoli e arrivò al grottesco di pronunciare, lui console, un'orazione
(Pro Othone) perché a teatro fossero mantenute ai cavalieri quattordici file di
posti riservati. (8) Pur vivendo in un'epoca di grandi rivolgimenti economici e
sociali fu ottuso a qualsiasi istanza provenisse dalla povera gente, verso la
quale dimostrò sempre il più totale e cieco disprezzo. Una chiusura mentale
abbastanza stupefacente in un uomo che certo stupido non era. Per lui la
concordia ordinum significava puramente e semplicemente l'immutabilità
della gerarchia sociale e la conservazione del potere dell'oligarchia
aristocratica nelle cui file Cicerone, da buon borghese, ambiva ad inserirsi
stabilmente per condividerne status e privilegi. La difesa della legalità era da
lui intesa come il mantenimento a oltranza dello statu quo, salvo cambiare
idea quando la legge era d'intralcio a qualche manovra di potere o affaruccio
poco pulito. In questo caso si trova ogni sorta di cavillo per disattenderla e la
si viola con la massima disinvoltura. Naturalmente questo strenuo arrocco a
difesa dei propri interessi è mascherato, come sempre, con nobili parole sulla
humanitas, la dignitas, la virtus, l'amor di Patria, delle tradizioni, dei penati,
degli Dei. Cicerone è davvero il campione dei campioni del benpensantismo
ipocrita e sostanzialmente violento. Ha scritto lo storico Luigi Pareti:
«Cicerone non è che un miope rappresentante bguadagnato dalla fazione dei
plutocrati: pronto a ogni astuzia, a ogni larvata illegalità, a ogni violenza, che
non implicasse la sua sola responsabilità, contro gli avversari democratici».
(9)«Uomo di notoria doppiezza», come lo definisce Mommsen, Cicerone
quando si aprì lo scontro fra Cesare e Pompeo parteggiò ora per l'uno ora per
l'altro, voltando e rivoltando gabbana mille volte, adulando ambedue in modo
sfacciato e impudico, piegandosi alle più umilianti ritrattazioni. Era un
politicante di terz'ordine, maneggione e intrigante, a livello di portaborse. E
infatti nonostante si fosse profferto più volte a Pompeo e a Cesare come
consigliere i due non lo degnarono di alcuna considerazione trattandolo in
una maniera molto vicina al disprezzo. (10) La sua vanagloria è rimasta
proverbiale. Lo stesso Plutarco, che pur ne fa un ritratto complessivamente
favorevole anche se non privo di qualche punzecchiatura, scrive che
«provava un compiacimento smodato a sentirsi lodare». (11) A furia di
menarla con la congiura di Catilina, che aveva scoperto e sventato, finì per
venire a noia atutti. Racconta ancora Plutarco: «Non era possibile recarsi in
Senato, a una seduta dell'assemblea o in un tribunale senza dover
sentire Cicerone che tirava in ballo Catilina e Lentulo. Finì col riempire di
elogi personali anche i libri e i trattati che scrisse e la sua parola così dolce e
ricca di grazia divenne molesta e pesante per gli ascoltatori; sembrava che per
una sorta di fatalità gli si fosse appiccicata questa prerogativa di infastidire gli
altri». (12) E' Cicerone l'autore dello sciagurato verso «O fortunatam natam
meconsule Romam!». Si autocelebrò in tutti i modi e scrisse anche, in tre
volumi, un poemetto, fortunatamente perduto, sulla sua impresa e, in greco,
una Storia del suo consolato che pure non ci è pervenuta (13). Chiese agli
amici Attico e Archia, a Posidonio, a Lucceio di scrivere racconti,
monografie, poemi sulla congiura e poiché Attico ebbe la compiacenza e la
dabbenaggine di assecondarlo manipolò il testo da cima a fondo per
enfatizzare ancor più il ruolo che aveva avuto. (14) Senza ombra di ironia si
paragonò a Pompeo, a Mario, a Scipione l'Africano e persino a Romolo. Fu
avido di onorificenze in modo infantile e quasi patetico. Per aver disperso,
quando era in Cilicia, una banda di predoni pretese il titolo di imperator e
avrebbe voluto anche il trionfo. Del resto è tipico del personaggio
maramaldeggiare con i deboli e i vinti e appiattirsi come una sogliola ai piedi
dei potenti. E' ancora Mommsen a notare come le famosissime orazioni
contro Verre e le ancora più celebri Catilinarie furono pronunciate quando gli
avversari erano già sconfitti. (15) E per i complici di Catilina, ormai inermi,
volle a tutti i costi la pena di morte. Ma alla fine fu proprio la vanità a
perderlo. Dopo aver dribblato per decenni rischi e pericoli non seppe resistere
all'invito del giovane Ottaviano che, per combattere Antonio, lo voleva
accanto a sé in quel ruolo di consigliere che Cesare e Pompeo gli avevano
sempre negato. Questa volta, proprio come all'inizio della carriera quando
aveva difeso Roscio contro il potente liberto di Silla, l'amorproprio poté più
della paura. Giocava anche il comprensibile desiderio senile di rientrare, a
sessantatré anni suonati, nel «grande giro». Accorse al grido «Non posso
restare assente quando mi si chiede di salvare per la seconda volta la Patria!».
Pronunciò quindi, a imitazione di Demostene, le quattordici Filippiche contro
Antonio in cui volle vedere, ossessivamente, «un nuovo Catilina». Ma gli
andò male perché l'anno successivo Antonio e Ottaviano si accordarono per
formare, con Lepido, il secondo triumvirato. E Antonio, che aveva il dente
avvelenato con Cicerone non tanto per le Filippiche ma perché aveva sputato
sul cadavere ancora caldo di Cesare, a cui, vivo, aveva leccato entrambi i
piedi, ne volle la testa. (16) Fu uomo vilissimo, di una viltà, fisica e morale,
patologica e caricaturale. La paura gli giocava dei brutti scherzi anche nel
campo in cui veramente eccelse, l'oratoria, paralizzandolo. Racconta
Plutarco: «Ora pare che Cicerone, oltre a essere poco coraggioso in guerra,
anche come oratore, quando cominciava a parlare, era sempre pervaso da una
grande paura, e in molte cause continuò a palpitare e a tremare anche dopo
aver raggiunto l'apice del discorso. Una volta, nel perorare la causa di
Milone, a vedere Pompeo seduto in alto come se si fosse in un
accampamento, e le armi che brillavano tutt'in giro alla piazza, si turbò e
riuscì a stento a iniziare il discorso, mentre il suo corpo era scosso da brividi
e la voce gli rimaneva soffocata in gola». (17) Quando, dopo averlo utilizzato
come boia in una vicenda dove c'era da sporcarsi le mani con il sangue di
concittadini, gli aristocratici lo mollarono e restò isolato, il giovane, arrogante
e ribaldo tribuno Publio Clodio, che agiva agli ordini di Cesare, prese gusto a
umiliarlo in tutti i modi, affrontandolo per la pubblica via,
insultandolo, schernendolo, prendendolo a pedate nel sedere, facendolo
inseguire da bande di ragazzetti che gli davan la baia egli gettavano addosso
fango e pietre. (18) E lui, il «Padre della Patria», alzava la sottana e se la dava
a gambe. In una società come quella romana in cui si faceva un conto relativo
della vita e si riteneva che fosse la morte e il modo in cui la si affrontava a
dare il significato conclusivo a un'esistenza, si assiste allo spettacolo penoso
di questo vecchio che, sapendo di essere stato condannato da Antonio, tenta
una fuga disperata e grottesca alla ricerca di una impossibile salvezza.
Quando viene informato che il triumviro, nonostante le resistenze, per la
verità blande, di Ottaviano, l'ha messo in cima alle liste di proscrizione,
Cicerone si trova nella sua villa di Tuscolo insieme al fratello Quinto.
Decidono di partire subito per Astira, una città della costa dove Cicerone
aveva delle terre, e, via mare, cercare di raggiungere l'amico Bruto che si
trovava in Macedonia. Scrive Plutarco: «Partirono in lettiga, disfatti dal
dolore. Lungo la stradadi quando in quando si fermavano e, accostando le
lettighe, lamentavano insieme le proprie sventure». (19) Ma, fra un pianto e
l'altro, si accorgono che, nella furia della partenza, hanno dimenticato «la
roba». Quinto torna indietro a prenderla, Cicerone prosegue la fuga. Arrivato
a Ostia si imbarca e, costeggiando, raggiunge il Circeo. I marinai vorrebbero
prendere il largo immediatamente, ma il mare si è alzato, Cicerone ha paura,
decide di sbarcare. Non sa che fare, percorre qualche chilometro a piedi in
direzione di Roma, ci ripensa e torna indietro, ad Astira «dove passa la notte
in pensieri terribili e disperati». (20) Medita il suicidio. Fantastica di
raggiungere Ottaviano e di pugnalarsi platealmente e stoicamente davanti a
lui per attirare sul triumviro la vendetta degli Dei. Ma lascia subito perdere.
Non son cose per lui. Plutarco: «Nella sua mente si susseguirono un gran
numero di propositi affannosi e contrastanti, finché si affidò ai suoi servi:
voleva essere portato, via mare, a Gaeta. Là possedeva delle terre». (21)
Approda a Gaeta, entra nella sua villa, si stende sul letto a riposare un poco
coprendosi il capo con la veste per dimenticare, almeno per un momento,
l'incubo che sta vivendo. Ma degli uccellacci del malaugurio lo svegliano. I
sicari incalzano e i servi lo caricano sulla lettiga quasi di forza. Via, di nuovo,
verso il mare. Appena in tempo: gli uomini di Antonio, il centurione Erennio
e il tribuno militare Popillio, con la soldataglia, sono ormai alla villa.
Sfondano la porta. Interrogati, i servi dicono di non sapere dove sia il
padrone. Ma un giovinetto, un liberto di nome Filologo, che era stato allevato
e istruito personalmente da Cicerone, indica un viottolo alberato che scende
verso il mare dietro le cui curve si è appena dileguata la lettiga. (22) Mentre il
tribuno fa circondare la casa, Erennio si precipita fuori di corsa. Cicerone
sente dietro di séi passi affrettati, fa fermare la lettiga, sporge tremante il capo
canuto e arruffato, protende il collo e «presenta ai sicari un volto disfatto».
(23) Fu scannato senza pietà. Secondo le crudeli usanze del tempo gli
vennero mozzate le mani e la testa che, portata a Roma, fu appesa a irostri del
Foro. Qualcuno, per dileggio, gli infilò uno spillone nella lingua a significare
che era stato bravo solo con quella. A metà dell'Ottocento il grande storico
della latinità, Theodor Mommsen, tutt'altro che tenero con i catilinari ma
evidentemente stufo di diciotto secoli di enfatizzazione del ciceronismo e del
suo protagonista, lo liquidò così: «Da uomo di Stato senza acutezza, senza
opinioni e senza fini, Cicerone ha successivamente figurato come
democratico, come aristocratico e come strumento dei monarchici,
e non fu mai altro che un egoista di vista corta». (24) E' difficile dargli torto.
Come uomo politico fu un mediocre pasticcione, come filosofo un
modestissimo riciclatore di idee altrui, come poeta pessimo e anche come
autore deve la sua fortuna soprattutto al fatto che i suoi scritti sono una specie
di riepilogo, di epitome, di résumé delle regole della lingua latina e quindi
utilissimi alla scuola, ma il suo stile ridondante, enfatico, retorico, pur
tenendo conto che si tratta spesso di orazioni pronunciate in pubblico, suona
ad un orecchio moderno irrimediabilmente fastidioso, soprattutto se
raffrontato con l'asciuttezza ellittica di un Tacito o anche con la concisione
incalzante del più modesto Sallustio. Fu invece, questo sì, un grande,
grandissimo avvocato, il migliore, con Demostene, dell'antichità. Ma quelle
che sono le sue doti di avvocato sono anche il suo deficit di uomo: la
mancanza di convinzioni, il cinismo, l'opportunismo, l'ambiguità. Per il
carattere ameboide, incerto, molle, svirilizzato Cicerone assomiglia ad Aldo
Moro, è una specie di protodemocristiano. Per vanità e trombonaggine
ricorda invece Spadolini, ma uno Spadolini disonesto e moralmente corrotto.
In realtà Cicerone è forse il primo romano non romano della Storia ed è in un
certo senso, soprattutto per le sue umane debolezze, un personaggio molto
moderno, molto attuale. Il contrasto con Catilina, che invece del romano
antico è il prototipo, anche retorico se si vuole, una specie di preforma
romantica di Cesare, non potrebbe essere più stridente. Cicerone non era
assolutamente in grado di capire il suo antagonista: gli era troppo agli
antipodi. E il suo sconcerto è documentato dagli scritti posteriori alla morte di
Catilina quando, passati gli anni, si sforza di valutarlo in modo più equanime.
Così nell'orazione Pro Caelio, a sette anni dalla congiura, scrive: «Chi, in un
certo momento, fu più ben visto dalle personalità eminenti e chi più intimo
dei malfattori? Chi più di lui parteggiò a volte per la parte degli onesti e fu al
tempo stesso più nefasto a questa città? Chi immerso in piaceri più turpi e più
resistente alla fatica? Chi di lui più rapace e al tempo stesso più generoso?
Queste furono doti veramente eccezionali in quell'uomo, la capacità di legarsi
d'amicizia con tante persone, di conservarla con la deferenza, e far parte a
tutti di ciò che possedeva, prestar servizio ai bisogni di tutti i suoi con il
denaro, con le aderenze, con le più faticose prestazioni e, se era necessario,
persino con il delitto. Io stesso, lo dico, per poco non fui un tempo tratto da
lui in inganno». (25) Lo stupore di Cicerone è, una volta tanto, sincero. Uomo
dai limitati orizzonti non può capire l'animo idealista e un po' folle di
Catilina. Proiettando sull'altro la sua ombra scambia l'impegno di Catilina a
favore dei miseri, e quindi a scapito dei ricchi, per pura cupidigia personale.
Uomo gretto non concepisce che si possa condividere i propri averi con gli
amici e spendersi generosamente per loro «con le più faticose prestazioni» e,
se occorre, anche a rischio della vita. Piccolo borghese, gelosissimo dei
propri privilegi, ansioso di essere ammesso nei salotti buoni, guarda con
meraviglia questo patrizio, bello, affascinante, che si mischia ai diseredati e ai
reietti mentre potrebbe avere la Roma-bene ai suoi piedi. Uomo d'ordine,
timoroso d'ogni stormir di foglia, nemico di ogni eccesso, attento alla salute e
al «tengo famiglia», rimane attonito di fronte alla sfrenata vitalità di Catilina
e al modo in cui dilapida la sua esistenza. Per lui prova un istintivo orrore e
l'uomo gli suscita un altrettanto genuino terrore. Le reprimende che gli
rovescerà addosso nelle Catilinarie provengono da un sentimento autentico.
Ma, sotto sotto, si avverte che Cicerone ha una confusa,
inconfessabile ma a volte trasparente, ammirazione per il suo avversario.
Cicerone invidia a Catilina quello che a lui più di tutto manca e che l'altro più
di tutto ha: il coraggio. Ed è il primo astupirsi di aver battuto un simile
avversario. E' ancora Mommsen a far notare il paradosso per cui sarà «il
piùvile degli uomini di Stato romani» (26) a sconfiggere l'uomo che portò
contro il potere oligarchico l'attacco più radicale e pericoloso.
Note
(1) Per uno sguardo d'insieme e sintetico sul periodo vedi M' Rostovtzeff,
Storia del mondo antico, Sansoni, 1975, pp' 488-586.
(2) P'A' Brunt, Classi e conflitti sociali nella Roma repubblicana, Laterza,
1972, pp' 69-91.
(3) P'A' Brunt, op' cit', p' 27.
(4) Appiano, op' cit', 1, 7.
(5) Plinio il Vecchio, op' cit', Xviii, 351.
(6) P'A' Brunt, op' cit', p' 43.
(7) P'A' Brunt, op' cit', p' 106.
(8) Nella Roma dell'ultimo secolo della Repubblica era ritenuto equo un tasso
del 12 per cento (Plutarco, op' cit', Vita di Lucullo,10; sull'argomento vedi
anche Appiano, Mitridate, 83).
(9) P'A' Brunt, op' cit', p' 76.
(10) P'A' Brunt, op' cit', p' 187.
(11) Cicerone, Ad Atticum, I, 19, 4.
(12) Cicerone, De officiis, Ii, 72-87. Come si vede, la convinzione, tanto
spesso esternata di questi tempi, che le classi meno abbienti siano mosse
esclusivamente dall'invidia, non è poi così nuova.
(13) Cicerone, De officiis, I, 52.
(14) Sallustio, op' cit', Xxiii-Xxv.
(15) Plutarco, op' cit', Vita di Tiberio e Caio Gracco, 9.
(16) Prefazione di Carlo Vitali a La congiura di Catilina, Rizzoli (Bur), 1957,
p' 5. Leneo, un liberto di Pompeo, definisce Sallustio «bordelliere, sprecone,
impostore, sguattero, schifoso nella vita e negli scritti». Leneo, Satira contro
Sallustio (in Svetonio, Degrammaticis, 15). Vedi anche Didio, Invettiva di
Cicerone contro Sallustio. Sallustio fu tra l'altro protagonista di un grottesco
episodio: sorpreso a letto con la figlia di Silla, Fausta, moglie del focoso
Annio Milone (l'uomo che uccise il facinoroso Publio Clodio), fu bastonato
di santa ragione dal marito e ricattato. T' Varrone in Aulo Gellio, Notti
attiche, Xvii, 18.
(17) C' Vitali, op' cit', p' 5.
(18) Didio, op' cit'.
(19) Cicerone, Catilinarie, I, 2.
(20) Vedi cap' Iv, pp' 91-95, primo vol' Braille.
(21) P'A' Brunt, op' cit', p' 119.
(22) Lo iugero corrispondeva a circa 2600 mq 256
(23) P'A' Brunt, op' cit', p' 120.
(24) Vedi il discorso di Catilina ai soldati prima della battaglia, pp' 85-87,
secondo vol' Braille.
(25) P'A' Brunt, op' cit', pp' 142-143.
IV. Un rivoluzionario reazionario…
Pochi sanno che prima di ricorrere alla violenza Catilina tentò tre volte la via
legale del consolato e che in almeno due occasioni fu
respinto con trucchi e brogli. Nel 66 si presentavano alle elezioni della
suprema carica dellaRepubblica Lucio Torquato e Lucio Cotta per gli
aristocratici, PublioAutronio e Publio Cornelio Silla per i democratici.Si
trattava di candidati assai sbiaditi e non c'erano conflitti dipolitiche né
tantomeno di programmi ma solo ambizioni di persone. Ilpopolo di Roma
seguiva la competizione con scarsissimo interesse. Ilritorno di Catilina
dall'Africa e la presentazione della suacandidatura furono un fulmine a ciel
sereno che surriscaldòimprovvisamente il clima elettorale. L'esito della
competizionepareva scontato. Da una parte c'erano quattro
personaggiinsignificanti senza idee né progetti tranne quello, consueto,
diruminare un tranquillo anno di consolato per poi andare a rapinarequalche
provincia, dall'altra un uomo affascinante, di grandecomunicativa, di
trascinante eloquenza, un passato di guerriero, famadi duro e, soprattutto, con
un programma o meglio solo ancora un abbozzo nel quale però si intravedeva
netta l'intenzione di por mano a quelle riforme politiche e sociali che il
popolo aspettava da più di sessant'anni, dall'epoca dell'assassinio dei Gracchi.
Attesa vana perché il partito democratico, che dei Gracchi avrebbe dovuto
essere il continuatore, si era rivelato nulla più che una cricca di potere:
ottimati ricchi sfondati che si appoggiavano alla plebe solo per combattere
altri ottimati. Anche Catilina era un aristocratico, anzi un grande
aristocratico, ma non era straricco, non possedeva terre immense, non aveva
particolari interessi da difendere e la plebe sentì istintivamente, così come lo
avvertirono i senatori latifondisti, che stava davvero dalla sua parte. Non
sappiamo perché Catilina, che in gioventù aveva militato con
l'iperreazionario Silla, quindici anni dopo avesse cambiato così radicalmente
posizione. Per screditare le idee di cui si era fatto portatore, riducendo il
movimento catilinario a una vicenda personale, Cicerone e Sallustio scrivono
che era un uomo rovinato economicamente e quindi disposto a tutto.
Mentono. Catilina non era certo ricco alla maniera di Crasso o di Pompeo e
nemmeno di Cesare, che veniva da una famiglia in grande spolvero, perché la
sua era una gens in decadenza e anche perché, a differenza di altri, non aveva
visto nella guerra civile e nelle proscrizioni sillane un pretesto per procurarsi
un bottino personale. Ma tornava pur sempre da una propretura in Africa
dove, anche senza dover pensare ad abusi, aveva sicuramente avuto modo di
incrementare il suo patrimonio perché questa era la ricompensa che spettava
ad un governatore romano in provincia. (1) Se poi fosse vera l'accusa che gli
muovono gli stessi Cicerone e Sallustio di essersi comportato in Africa con
spirito di rapina, accumulando indebite ricchezze ai danni della popolazione
locale, allora a maggior ragione non potrebbe contemporaneamente essere
vero che era sul lastrico. Inoltre i nobili si indebitavano,in genere, proprio per
raggiungere il consolato, la magistratura più prestigiosa, che comportava una
dispendiosa campagna elettorale. Ma poiché Catilina vi concorreva per la
prima volta, e anzi, come vedremo, gli fu addirittura impedito di partecipare,
non poteva essere rovinato prima di cominciare. Infine aveva appena sposato,
o stava per farlo, (2) una ricca ereditiera. Aveva perciò di che vivere
comodamente. Catilina si rovinerà in seguito, per finanziare la congiura. Non
è quindi per un dissesto finanziario che Catilina era diventato filopopolare.
Certamente queste idee erano maturate in lui da tempose da anni teneva
esposta in casa sua, come cimelio e come simbolo, la famosa Aquila di
Mario, il grande antagonista di Silla, che era stato considerato, anche per le
sue umili origini, l'alfiere delle
aspirazioni popolari. E' molto probabile che quando Catilina, ventenne, aveva
seguito Silla lo avesse fatto più per spirito d'avventura e impetuosità
giovanile che perché ne condividesse le convinzioni e i programmi politici
alla cui attuazione, peraltro, non partecipò. Catilina a quell'epoca era un
soldato e stette agli ordini del suo comandante. Gli aristocratici, preoccupati
di quel déraciné, transfuga dalla propria classe, corsero subito ai ripari. E
convinsero il console Lucio Volcatio Tullio, che presiedeva i comizi
elettorali, a respingere la candidatura col pretesto che era stata presentata in
ritardo. (3) Non sappiamo se la prassi romana consentisse ricorso contro
simili provvedimenti e se Catilina lo abbia presentato. (4) Certo è che per
metterlo definitivamente fuori gioco gli aristocratici indussero il giovane
Publio Clodio a sporgere contro Catilina una denuncia di concussione per la
sua attività di governatore in Africa, strumentalizzando le lamentele, che
erano d'assoluta routine, di alcuni delegati di quella provincia. (5) E la legge
escludeva tassativamente che chi era sotto processo potesse candidarsi a una
magistratura. Ciò faceva sì che l'arma della denuncia penale fosse usata
spessissimo come strumento di lotta politica per togliere di mezzo gli
avversari. Negli anni 60 e 50 ci furono un centinaio di processi del genere.
(6) Catilina fu processato nel novembre del 65 quando, essendosi delineato il
suo programma di radicali riforme sociali, era considerato dall'aristocrazia un
«pericolo pubblico». Nonostante il clima a lui totalmente ostile Catilina,
difeso dal grande Ortensio, fu assolto da ogni addebito. (7) Del resto lo stesso
Clodio aveva provveduto a ritirare la denuncia nel corso del processo:
l'obiettivo, che era quello di paralizzarne la candidatura, era già stato
raggiunto. L'assoluzione dimostra che in Africa Catilina, contrariamente a
quanto affermano Cicerone e Sallustio, si era comportato con correttezza,
senza commettere abusi per arricchirsi illecitamente, perché se fosse esistito
un qualsiasi appiglio il Tribunale non se lo sarebbe lasciato certamente
sfuggire. Con la fedina penale pulita Catilina, che aveva in questo modo
perso due anni, poté presentarsi nel giugno del 64 alle elezioni consolari per
il 63. Questa volta non fu stoppato da manovre truffaldine ma dall'abilità e
dai maneggi di Cicerone. I candidati erano sette: Marco Tullio Cicerone,
Publio Sulpicio Galba, Caio Licinio Sacerdote per gli aristocratici, Lucio
Sergio Catilina, Caio Antonio Ibrida, Lucio Cassio Longino e Quinto
Cornificio per i democratici. Cassio Longino si ritirò subito per non
danneggiare, con una dispersione di voti, la cordata dei democratici. Galba,
Sacerdote e Cornificio erano personaggi di nessun conto, per cui la lotta si
restringeva a tre nomi: Cicerone, appoggiato da gran parte del Senato e dai
cavalieri, Catilina e Ibrida che godevano del sostegno di Crasso e Cesare, i
leader del partito democratico, e del favore della plebe. Ibrida era un uomo
debole, ambiguo, manovrabile e ricattabile, anche perché nel 70 era stato
espulso dal Senato per «indegnità», e non preoccupava minimamente gli
aristocratici. Il pericolo era Catilina. Cicerone strinse quindi un patto segreto
con Ibrida accordandosi in modo che i rispettivi elettorati facessero
convergere i voti oltre che sul proprio candidato anche su quello avversario.
(8) Manovra possibile perché il voto era segreto e ogni elettore aveva a
disposizione due preferenze essendo due i consoli danominare. In questa
maniera Cicerone, che per parte sua era già praticamente sicuro della vittoria
dato che era l'unico candidato dipeso nel campo aristocratico e poteva contare
sull'appoggio compatto dei cavalieri, offriva a Ibrida l'insperata chance di
battere il
compagno-rivale, di lui tanto più affascinante e popolare presso la plebe e
quindi favoritissimo. E' probabile che anche Crasso e soprattutto Cesare
abbiano fatto mancare qualche voto a Catilina. I motivi che spingevano i due
a diffidare di Catilina erano più o meno gli stessi che avevano convinto gli
aristocratici a favorire, fra i due, Antonio Ibrida: il suo programma era troppo
radicale. Inoltre avevano capito che Catilina, a differenza di Ibrida, non era
quella docile e gestibile marionetta di cui, come vedremo meglio in seguito,
avevano pensato di servirsi per i loro piani di conquista del potere. Risultato:
Cicerone fu primo, Ibrida secondo per pochissimi voti su Catilina che risultò
terzo, primo dei non eletti. Catilina si candidò al consolato, per la terza e
ultima volta, nel 63 (per il 62). Correva da isolato. Crasso, Cesare e i
democratici lo avevano definitivamente mollato. Aveva solo l'appoggio della
plebe che difficilmente poteva bastare. Per capire perché è bene chiarire come
funzionava il sistema elettorale romano, che era piuttosto complicato. (9) Non
valeva il principio «one man one vote», ma le 193 centurie in cui era
suddivisa la popolazione romana avevano ciascuna, quale che fosse la sua
consistenza numerica, un solo voto. Le centurie erano a loro volta ripartite in
cinque classi e in una sorta di superclasse. La superclasse, che era l'unica a
non essere basata sul censo ma sul sangue (anche se le due cose col tempo
finirono per coincidere o quasi), comprendeva l'intera aristocrazia, vale a dire
gli antichi patrizi e i plebei ricchi che si erano nobilitati, e disponeva di
diciotto centurie. Le altre cinque classi, basate sul censo, si spartivano le
rimanenti 175 centurie, il resto della società romana. La prima, in cui
rientravano coloro che possedevano un patrimonio di almeno 400 mila
sesterzi, cioè i cavalieri, contava su 80 centurie mentre le altre quattro classi,
areddito via via decrescente, avevano ognuna dalle venti alle trenta centurie.
(10) In tal modo aristocrazia e cavalieri, che avevano interessi comuni, si
assicuravano, facendo blocco, la maggioranza assoluta (98 contro 95) pur
rappresentando, dal punto di vista quantitativo, una minoranza della
popolazione. E' un trucco noto di cui le classi dominanti si sono servite
spesso in passato, basterà ricordare la Francia regia dove negli Stati generali,
per quelle poche volte che furono convocati nel corso dei secoli, nobiltà e
clero, contando due voti, prevalevano sempre sul Terzo Stato che ne aveva
uno. Ma ai tempi di Catilina e Cicerone una legge di riforma, introdotta a
metà del III secolo, aveva profondamente modificato la situazione.La legge
aveva tolto alla prima classe dieci centurie e le aveva attribuite alla seconda.
Aristocrazia e borghesia non avevano più la maggioranza garantita. La
conseguenza fu di scatenare fra i candidati, che erano sempre, di fatto anche
se non di diritto, degli aristocratici, una lotta feroce per assicurarsi il consenso
delle centurie plebee. La campagna elettorale divenne costosissima e veniva
fatta a colpi di spettacoli, banchetti, regalie di varia natura quando non con la
corruzione vera e propria che era tanto più facile quanto più si dirigeva verso
le classi più povere. Le leggi sempre più severe contro la corruzione
elettorale (leges de ambitu) testimoniano che ai tempi di Cicerone e Catilina
questa era diventata una piaga molto diffusa. E mentre prima poteva capitare
che un aristocratico non particolarmente ricco ma prestigioso conquistasse le
supreme magistrature, ora la cosa si era fatta molto più difficile. Nelle
elezioni del 63 Cicerone, che in quanto console presiedeva le operazioni,
giocò un primo tiro mancino a Catilina rinviando con un
pretesto i comizi proprio il giorno prima del voto e spostandoli dalla seconda
metà di luglio alla prima metà di agosto. (11) Ciò comportava un
allungamento dei tempi della propaganda che favoriva i candidati ricchi.
Inoltre Catilina aveva una larga fetta di sostenitori fra gli agricoltori delle
campagne italiche che non potevano permettersi un soggiorno prolungato a
Roma. Vinsero Decimo Giunio Silano, appoggiato da Cesare, e Lucio
Murena, appoggiato da Crasso. Catilina, ancora una volta, fu il primo dei non
eletti. Che fosse stato completamente abbandonato dai democratici è
confermato non solo dal fatto che Crasso e Cesare, leader di quel partito,
sostennero altri candidati ma dall'ulteriore constatazione che lo stesso Cesare
e Metello, altro esponente dei populares, furono eletti facilmente l'uno pretore
e l'altro tribuno della plebe. Pochi giorni dopo uno dei candidati trombati,
Servio Sulpicio, e l'austero moralista Marco Porcio Catone accusarono
Murena di brogli elettorali: i suoi galoppini (divisores) erano stati pescati sul
fatto mentre prezzolavano gli elettori. (12) Al processo, che si svolse verso la
fine di novembre del 63, Murena fu difeso da un tris d'assi: Cicerone,
Ortensio e Crasso. Catone, che sosteneva l'accusa, sottolineò l'anomalia, anzi
la grave scorrettezza, di un console il quale difendeva «da privato», come
avvocato, un imputato per brogli che erano avvenuti proprio durante i comizi
elettorali da lui presieduti e sulla cui regolarità era tenuto a vigilare. Fece
anche notare il paradosso in cui Cicerone si veniva a trovare perché dopo
aver fatto approvare in quell'anno, come console, la legge più severa che
fosse mai stata emanata in materia di brogli (lex Tullia) si schierava adesso,
come patrono, contro di essa. Ma non ci fu nulla da fare. Nonostante le
evidenti incompatibilità e sovrapposizioni di ruoli Cicerone rimase al suo
posto. Murena venne assolto. Fu un verdetto scandalo, una sentenza politica.
Al momento del processo infatti Catilina, stufo di essere preso in giro, aveva
già lasciato Roma deciso a farsi giustizia con le armi. In teoria, se Murena
fosse stato condannato, a subentrargli avrebbe dovuto essere proprio Catilina
come primo dei non eletti. Una eventualità del genere era però esclusa perché
Catilina era stato dichiarato hostis («nemico della patria») e aveva quindi
perduto tutti i diritti, politici e civili. Però l'annullamento parziale delle
elezioni avrebbe lasciato in carica, in attesa dei nuovi comizi, un solo console
proprio nel momento in cui il governo correva il massimo pericolo. Cicerone
nella sua arringa conclusiva parlerà pochissimo, per non dir niente, del merito
della causa, se cioè Murena avesse o no commesso i brogli di cui era
accusato, e insisterà solo sulla necessità della sua assoluzione «per il bene di
Roma», perché l'Urbe non fosse lasciata senza un console in un frangente
tanto grave. (13) E che quella sentenza sia stata sfacciatamente politica lo
ammetterà pubblicamente, qualche anno dopo, lo stesso Cicerone quando,
difendendo un imputato, dirà: «Quand'ero console difesi L. Murena console
designato: nessuno di quei giudici ritenne di dover stare ad ascoltare
questioni di broglio elettorale (neppure se erano presenti come accusatori
illustri personaggi), quando tutti sapevano bene, e questo per opera mia, che
dal momento che Catilina ci faceva guerra era assolutamente necessario che il
primo gennaio fossero in carica due consoli». (14) Ma Catilina «faceva
guerra» proprio perché, con i trucchi e con i brogli, gli era stato impedito di
arrivare legalmente al consolato. Come mai Catilina spaventava l'aristocrazia
a tal punto da indurla a ostacolarlo, fin dall'inizio, con tutti i mezzi, leciti e
illeciti? Cicerone e Sallustio lo hanno dipinto come un criminale comune, un
delinquente, assassino del figlio, del fratello, della moglie e di
chissà quanti altri. Ma se fosse stato tutto questo non avrebbe potuto
percorrere con assoluta regolarità l'intero cursus honorum e tantomeno
candidarsi al consolato, né per fermarlo ci sarebbe stato bisogno di un'accusa,
poi rivelatasi infondata, di concussione. Ma c'è di più. Nel 70, pochi anni
prima di questi avvenimenti, fu ripristinata la censura, magistratura che fra gli
altri suoi compiti aveva quello di vigilare sulla moralità dei senatori e che
Silla aveva abolito dieci anni prima. Ci fu un repulisti generale e 64 senatori
su 300 (più di un quinto dell'assemblea) vennero espulsi dalla Curia per
«indegnità». (15) Catilina non fu tra questi. Nel 70 quindi non solo non era
un criminale ma era considerato un cittadino, un senatore, con tutte le carte in
regola. Quando nel novembre del 65 fu processato per concussione Catilina
ebbe come testimoni a favore molti personaggi illustri, anche a lui
politicamente avversi, fra cui il console di quell'anno, Lucio Torquato, un
iperconservatore. (16) Dunque nemmeno alla fine del 65 l'establishment
considerava Catilina un delinquente. Lo stesso Cicerone poco prima del
processo aveva proposto a Catilina di assumerne la difesa come avvocato.
Voleva accattivarselo in vista delle elezioni del 64 alle quali entrambi si
sarebbero presentati in campi contrapposti (17) (meditava di fare con Catilina
contro Ibrida il giochetto che avrebbe poi effettivamente fatto con Ibrida
contro Catilina). Catilina rifiutò l'offerta perché disprezzava profondamente
l'oratore, lo considerava «uno zero». (18) Resta però che l'«avance» fu fatta,
il che dimostra che persino per Cicerone Catilina era un uomo rispettabile. La
verità è che il Catilina del 66, del 65 e ancora del 64 e finanche di parte del
63 era ritenuto un avversario politico certamente pericoloso, col quale
peraltro si potevano all'occorrenza anche stringere accordi, ma niente affatto
un criminale. Catilina aveva partecipato diciotto anni prima ai torbidi della
guerra civile ma quelli erano fatti politici, comuni a un'intera generazione.
Solo dopo il settembre del 63, con la congiura, diventerà il «mostro» dipinto
da Sallustio e da Cicerone. Se non era la fedina penale di Catilina a far paura
all'oligarchia aristocratica, che cosa allora? Era il suo programma
politico,economico e sociale. Questo programma appena abbozzato nel 66 si
venne via via precisando nei quattro anni in cui Catilina tentò inutilmente di
arrivare al potere per vie legali. Per ricostruirlo con sufficiente precisione
abbiamo questi documenti: alcuni discorsi elettorali riportati da Cicerone e
Sallustio, la lettera che Catilina scrisse all'amico Catulo prima di lasciare
Roma, la lettera che ilsuo luogotenente, Caio Manlio, inviò a uno dei
comandanti dell'esercito romano, Marcio Re, esponendogli le ragioni della
rivolta, la legge agraria proposta verso la fine del 64, su diretto impulso di
Catilina, dal tribuno Servio Rullo che conosciamo nei dettagli perché contro
di essa Cicerone pronunciò ben quattro orazioni. (19) Ed è da questa che
conviene cominciare. La lex Servilia, dal nome del tribuno, composta di
almeno 40 articoli, era un progetto assai complesso di riforma agraria. Ma
benché andasse a intaccare in modo consistente gli interessi dell'oligarchia
non era una legge rivoluzionaria. Tanto per cominciare, a differenza delle
leggi agrarie dei Gracchi, ribadiva l'intangibilità del diritto di proprietà e anzi,
per por fine a dannose dispute, sanava anche le dubbie acquisizioni che erano
avvenute in Italia durante le proscrizioni sillane. Messi questi paletti, la legge
prevedeva una vastissima redistribuzione di terreai nullatenenti: alla plebe
urbana ma anche ai piccoli proprietari rovinati dall'espansione del latifondo e
ai veterani che, spesso insediati su campi aridi e poco produttivi, non erano
riusciti a conservare i poderi che avevano avuto a titolo di liquidazione alla
fine del servizio. Il provvedimento aveva tre obiettivi: 1) Garantire una più
equa suddivisione delle risorse. 2) Rilanciare, grazie a una migliore
razionalizzazione produttiva, l'agricoltura italiana che era stata fortemente
impoverita dal latifondo. 3) Sfoltire in modo drastico i ranghi della plebe
della capitale che con l'andar degli anni, la crisi della piccola proprietà,
l'utilizzazione del lavoro servile, si era fatta sempre più numerosa e sempre
più oziosa, poiché viveva delle distribuzioni gratuite di grano, e quindi anche
sempre più turbolenta fino a costituire un grave problema di ordine pubblico.
Come sarebbe avvenuta la redistribuzione? Attraverso il demanio, cioè le
terre di proprietà dello Stato. In Italia però di demanio ne rimaneva
pochissimo, solo alcuni territori appaltati in Campania. Sarebbero stati i primi
a essere distribuiti ma, per quanto molto fertili, rappresentavano una goccia
nel mare delle necessità. Lo Stato romano possedeva però un vastissimo
demanio all'estero, frutto della conquista. Avrebbe quindi venduto le sue
proprietà in Macedonia, in Bitinia, nel Chersoneso tracico, nel Ponto, in
Cirenaica, in Spagna, in Africa, in Cilicia, in Grecia e con le somme ricavate
avrebbe comprato terre in Italia, a cominciare dalle proprietà più recenti e più
dubbie, distribuendole in lotti ai cittadini più poveri. Nessun esproprio
quindi: lo Stato vendeva terre sue all'estero e riacquistava in Italia dai privati
e sempre che fossero d'accordo (la legge non contemplava nessuna vendita
forzosa). Dove stava allora il problema? Nel fatto che le terre demaniali
all'estero erano state occupate abusivamente, come al solito, dai grandi
latifondisti romani che vi facevano lavorare i propri schiavi. Era un arbitrio
puro e semplice perché quelle terre erano state conquistate dai soldati romani
e cioè proprio da coloro che, come aveva ricordato Tiberio Gracco, non ne
possedevano alcuna. Ma non erano queste buone ragioni che potevano
commuovere gli aristocratici latifondisti e i borghesi arricchiti. Costoro si
opposero quindi ferocemente alla lex Servilia perché non erano disposti a
comprare terre che occupavano già gratis e sulle quali oltretutto non
pagavano nemmeno tasse perché non le possedevano a titolo di proprietà. Ma
di ciò diremo più avanti. Per dare esecuzione a questo grande piano la lex
Servilia prevedeva l'elezione di dieci uomini (Decemviri), che sarebbero
rimasti in carica cinque anni, coadiuvati da 200 funzionari scelti fra i
cavalieri. I Decemviri, dotati di propria giurisdizione, oltre a realizzare le
compravendite, dovevano decidere - e questa naturalmente era la questione
più spinosa - quali terre fossero demaniali e quali no. La lex Servilia
prevedeva infine che non potesse essere eletto fra i Decemviri chi era assente
dall'Italia, ma questo codicillo, del tutto logico, fece imbufalire ancor più i
cavalieri perché escludeva dalla carica Pompeo, il loro leader, che in quel
momento stava guerreggiando in Asia. (20) Fin qui la lex Servilia. Ma il
programma economico dei catilinari comprendeva altre proposte, la più
importante delle quali era la cancellazione dei debiti e l'abrogazione delle
leggi che disponevano l'arresto e la carcerazione dell'insolvente. (21) Come
abbiamo visto nel III capitolo, una larga parte della società romana,
aristocratici compresi, era oberata di debiti dai quali non riusciva più a
rientrare perché su di essi gravavano pesantissimi interessi usurari. Se la
legge agraria colpiva i latifondisti, cioè innanzitutto gli aristocratici, la
cancellazione dei debiti colpiva ibanchieri e i finanzieri, cioè innanzitutto i
cavalieri. Per quanto scioccante la misura non era nuova: una ventina di anni
prima, nell'86, la lex Valeria (dal nome del console che l'aveva proposta,
Valerio Flacco) aveva ridotto del 75 per cento quanto dovuto ai creditori in
termini di capitale prestato facendo però salvi gli interessi. Sappiamo che
Catilina avrebbe voluto, per il futuro, abbassare in modo rilevante gli
interessi debitori portandone il limite legale intorno al 12 per cento. Non
abbiamo invece informazioni sufficienti per dire se si proponesse la
cancellazione totale dei debiti o solo parziale. Ma è molto probabile che fosse
orientato verso questa seconda ipotesi perché la prima avrebbe significato lo
sfascio del sistema creditizio romano, mentre la lex Valeria dimostrava che
una riduzione parziale dei debiti, anche consistente, facendo salvi gli
interessi, poteva essere assorbita senza eccessivi traumi. Altra richiesta
economica era il ripristino delle leggi suntuarie che limitavano le spese
eccessive e sfacciatamente voluttuarie. (22) La parte politica e costituzionale
del programma di Catilina propugnava un ritorno alle origini di quella
Repubblica che gli ottimati, e i loro tromboni, avevano sempre in bocca ma
che si mettevano disinvoltamente sotto i piedi. Proclamatosi a più riprese
difensore dei miseri, degli oppressi, dei deboli, dei malati, Catilina era per un
riequilibrio fra l'oligarchia aristocratica, che deteneva di fatto tutto il potere
istituzionale, e la plebe, e per un ridimensionamento drastico dell'influenza
dei cavalieri che, con la potenza del denaro contante, tiranneggiavano l'una e
l'altra. Perché tutti potessero concorrere realmente alla vita politica Catilina
chiedeva innanzitutto «l'abolizione del privilegio ereditario che, dietro il
sipario di elezioni mendaci, riservava a un piccolo numero di famiglie,
sempre le stesse, le magistrature, i comandi e le giurisdizioni». (23) Il fatto
poi che nel movimento catilinario ci fossero moltissime donne (ed era la
prima volta che accadeva) e numerosi schiavi fa ritenere che si volesse dare
dignità politica alle prime e almeno giuridica ai secondi. Le donne infatti, pur
avendo una posizione di rilievo nella società romana e godendo di grande
rispetto e considerazione, (24) erano prive dei diritti politici, non votavano e
non potevano essere elette alle cariche pubbliche. Gli schiavi erano
considerati, dal punto di vista giuridico, delle cose. (25) E' probabile che se il
movimento catilinario avesse prevalso si sarebbe voltato in una dittatura
personale perché questo era l'andazzo dei tempi, come dimostreranno di lì a
poco, dopo le ambigue esperienze dei triumvirati, Cesare e Ottaviano. (26) E
Catilina aveva le qualità carismatiche che sono necessarie al dispotismo. Ma
a parte che, a differenza di Cesare, per non dire di Ottaviano, Catilina era un
generoso e un idealista, e ciò che gli mancò sempre fu il cinismo, non
possiamo fare un processo alle intenzioni ma dobbiamo attenerci ai fatti. E i
fatti dicono che nel programma catilinario non c'è traccia di autoritarismo e di
cesarismo, al contrario si delinea una Repubblica basata sul bilanciamento dei
poteri fra il Senato, le magistrature e le assemblee popolari (comizi centuriati,
curiati e tributi) cui dovevano essere restituiti la dignità e soprattutto i poteri
effettivi che col tempo avevano perduto. Coloro che hanno individuato nei
Decemviri il tarlo ereditario del programma di Catilina, il segno
dell'aspirazione a un potere assoluto fanno torto all'evidenza. (27) I
Decemviri erano, appunto, dieci e già il numero sembra escludere intenzioni
di dittatura personale. Ciò a parte, avevano poteri indubbiamente eccezionali
ma limitati nel tempo, nello spazio e nella competenza che era circoscritta
alla questione agraria mentre per tutto il resto rimanevano pienamente
operanti le consuete istituzioni repubblicane. Più in generale quello di
Catilina è un tentativo di rivoluzione
culturale tesa al riscatto economico e sociale ma anche morale dei ceti deboli
ed emarginati in una società che, perduti gli antichi valori della virtus ridotti
ormai a mere giaculatorie, era diventata ferocemente materialista e dove i
poveri erano disprezzati e i ricchie i «vincenti» onorati e rispettati in quanto
tali, a prescindere dai loro effettivi meriti. Nei discorsi di Catilina è costante,
quasi ossessiva, la rivendicazione del diritto di tutti a una pari dignità sociale
e alla libertà, che è tale se è anche libertà dal bisogno («Eccola, eccola la
libertà che tante volte avete invocato» dirà in un appassionato discorso ai
suoi). (28) Il suo potente richiamo alla Repubblica delle origini è il richiamo
a un tempo in cui a tutti i cittadini, ricchi e poveri, patrizi e plebei, era dovuto
il rispetto e l'esibizione di arroganti disuguaglianze economiche era
considerata un'offesa al costume e alla stessa legge al punto che «il ricco e il
nobile, come il povero e quello di oscuri natali, non potevano comparire in
pubblico che nella stessa semplice toga di lana bianca». (29) Se qualcuno
meritava maggior considerazione era per quanto aveva fatto (o perlomeno i
suoi avi avevano fatto), in pace e in guerra, non per quanto possedeva e
ostentava. La dignitas era fondata su valori morali, di coerenza di vita, e non
materiali. Sbaglia però chi, alla luce della storia recente, interpreta Catilina
come un precursore della lotta di classe. (30) Catilina non guarda, né può,
verso un futuro lontano diciotto secoli e per lui inconcepibile, ma dietro di sé
verso quella prima Roma in cui la sua gens, la gens Sergia, era stata
importante e rispettata e le doti che contavano erano la forza, il coraggio
fisico e morale, l'onore, la lealtà, il rispetto della parola data, lo spendersi
generosamente, cioè le sue doti che adesso erano invece sommerse dalle virtù
borghesi della doppiezza, della sottigliezza, dell'ambiguità, dell'intrigo,
dell'avidità, le virtù volgari che Cicerone incarnerà così esemplarmente
aggiungendovi di suo una viltà sconosciuta al mondo romano di allora.
Catilina è un déraciné della sua classe e della sua epoca, è totalmente in
controtempo: non è un borghese, non è un plebeo, non si riconosce nemmeno
in un'aristocrazia che non è più intesa, né si intende, come élite del valore.
Catilina è un aristocratico di un'aristocrazia scomparsa e perduta, è un
patrizio delle origini e il suo assumersi, come dirà, «la causa generale dei
disgraziati» (31) non ha a che vedere con la lotta di classe ma proprio col suo
essere aristocratico. Perché è della nobiltà autentica, quella del valore e
dell'animo, e non del denaro e del privilegio, la generosità verso i deboli, i
perdenti, i vinti. Catilina il gladiatore, Catilina il criminale, Catilina
l'avventuriero, Catilina il violatore di Vestali è un uomo intrinsecamente
morale se per moralità non si intende quella ipocrita, bacchettona, baciapile,
sessuofoba, borghese del suo secolo ma la moralità profonda di chi è disposto
ad andare incontro alla sua storia fino alle estreme conseguenze e a far fronte,
a qualunque prezzo, alle responsabilità che si è assunto verso di sé e verso gli
altri. In una società in cui si dice una cosa e se ne pensa un'altra, Catilina dice
ciò che pensa, fa ciò che dice e sogna un mondo dove alle parole
corrispondano i fatti. E' per questo che Catilina il forte, il duro, il resistente, il
coraggioso, il valoroso, il guerriero soccomberà a avversari tanto più piccini
di lui e sarà l'uomo di tutte le sconfitte.
Note
Nell'estate del 66, dopo essere stato bloccato con espedienti truffaldini alle
elezioni consolari e pendendogli sulla testa un insidioso processo, Catilina si
rese conto che da solo non poteva farcela e che aveva bisogno di qualche
appoggio. Si avvicinò quindi ai leader del partito democratico che in quel
momento erano Marco Crasso e Giulio Cesare. Crasso, detto Dives, il ricco,
di sette anni più anziano, era una vecchia conoscenza fin dai tempi delle lotte
civili. Erano entrambi due sillani convertiti, anche se per motivi diversi.
Cesare, che aveva otto anni di meno, era invece una novità per Catilina. Le
loro strade non si erano mai incrociate e per Cesare era stato meglio perché
all'epoca di Silla stava dall'altra parte o, per essere più precisi, il dittatore lo
aveva ritenuto un nemico per il solo fatto che aveva sposato una figlia del
mariano Cinna, Cornelia. Cesare si era salvato per la giovanissima età e
perché sua madre, Aurelia, e autorevoli esponenti della gens Giulia avevano
intercesso per lui. (1) Tramite Crasso i due si incontrarono, si fiutarono e non
si presero. Il giovane Cesare aveva un'ambiguissima fama sessuale da
quando, ventenne, si era fatto inchiappettare da Nicomede Iv re di Bitinia (2)
presso il quale era andato ospite, ed era diventato una favola a Roma. Curione
lo chiamava Bithynica regina, il console Dolabella, in modo più articolato,
«sposa segreta della lettiga reale», mentre il poeta Calvo Licinio andava per
le spicce definendo Nicomede paedicator Caesaris, l'inculatore di Cesare. E
anche quando, molti anni dopo, il grande generale conquistò la gloria nelle
Gallie, passò il Rubicone e marciò trionfalmente su Roma, i suoi soldati non
si facevano scrupolo a intonare una canzonaccia che diceva «Gallias Caesar
subegit, Nicomedes Caesarem» (Cesare sottomise la Gallia, Nicomede
Cesare). Ma naturalmente non erano queste le cose che potevano
impressionare un libertino come Catilina che a sua volta, da giovane, fra le
sue tante esperienze non aveva disdegnato quella pederasta anche se non, per
dirla in gergo, nella parte della «corolla», come Cesare, ma in quella, a lui più
congeniale, del «pistillo». Il fatto è che i due avevano personalità troppo forti
e, per certi versi, simili perché fra loro non scattasse immediatamente un
riflesso di rivalità. Cosa che non accadeva con Crasso e perché di un'altra
generazione e perché il Dives, gran tessitore di trame di ogni genere, non si
lasciava sviare da alcun impulso e sentimento, nemmeno di vanità, pur di
raggiungere i suoi scopi. E quindi, con paterna indulgenza, lasciava che «i
ragazzi» se la sbattessero fra loro. L'importante era che fossero utili ai casi
suoi. Comunque in quel momento Cesare e Catilina avevano interessi comuni
e abbozzarono un'amicizia che non c'era e che non era destinata a durare. (3)
Certo doveva essere un bel vedere quando erano insieme: entrambi alti,
magri, aitanti, eleganti nei movimenti, più azzimato Cesare più naturale
Catilina, entrambi ugualmente pallidi e
ugualmente fascinosi, anche se la bocca un po' troppo larga alterava la
regolarità del viso di Cesare e la calvizie precoce lo invecchiava mentre
Catilina, nonostante avesse superato i quaranta e a onta di una vita di
dissipatezze, conservava intatti i tratti aristocratici e perfetti del patrizio e tutti
i suoi capelli fra i quali non si era ancora insinuato un filo bianco. Crasso e
Cesare avevano un piano molto semplice: assassinare i consoli e impadronirsi
del potere. Il loro incubo era infatti Pompeo che da un momento all'altro
poteva rientrare dall'Asia con le sue legioni. I democratici temevano che
avrebbe fatto fare loro la fine che Silla aveva riservato ai mariani sedici anni
prima. Non c'era in Cesare e tantomeno in Crasso alcuna intenzione di por
mano a concrete riforme economiche e sociali e probabilmente, fra di loro,
guardavano con ironica sufficienza l'utopico programma del loro compagno
di strada. Ma ne avevano bisogno perché Catilina cominciava ad avere un
forte seguito fra la plebe, che per quanto contasse poco era sempre meglio
avere a favore che contro, e perché avevano individuato in lui l'uomo di mano
che serviva ai loro piani e che si sarebbe esposto per loro. Una volta arrivati
al potere pensavano che non sarebbe stato difficile gestire l'improvvisato
sodale o liquidarlo. In quanto a Catilina, molto probabilmente era stato
indotto a entrare nella cospirazione dal fatto che in quel momento, paralizzato
da un processo che non si sapeva come sarebbe andato a finire e che poteva
stroncargli la carriera politica, non aveva altra strada per arrivare al potere. In
ogni modo quella dell'inverno 66-65 è impropriamente chiamata la «prima
congiura di Catilina». Catilina era solo un comprimario. I capi erano Crasso e
Cesare, come si ricava sia dagli storici contemporanei, Tanusio Gemino e
Marco Bibulo, (4) sia da quelli posteriori e più noti come Svetonio, (5) sia da
testimoni del tempo come Nasone, Curione e lo stesso Cicerone. La
compagnia era piuttosto nutrita e comprendeva, oltre a Crasso, Cesare e
Catilina, il giovane, promettente e ambiziosissimo questore Gneo Pisone, un
protetto del Dives, Publio Autronio e Publio Silla, due populares che erano
stati eletti consoli per il 65 ma che, condannati per brogli, erano stati
esautorati e sostituiti con i primi dei non eletti (gli optimates Lucio Cotta e
Lucio Torquato), il consolare Cornelio Lentulo, i senatori Caio Cetego,
Antonio Ibrida, Lucio Vergunteio e il giovane Publio Sittio Nocerino. Tutta
gente inquieta che ritroveremo nella congiura del 63. Dopo alcuni
abboccamenti i congiurati tennero la riunione operativa il 5 dicembre del 66
in casa di Crasso. Fu deciso che alle calende digennaio, il primo dell'anno,
durante la cerimonia per il passaggio delle consegne fra i consoli, che si
svolgeva in Campidoglio, una squadra armata al comando di Catilina,
spalleggiato da Pisone e Autronio, avrebbe assalito e ucciso i quattro consoli,
quelli uscenti e quelli designati, e i senatori più ostili al partito democratico.
Amissione compiuta i congiurati se ne sarebbero spartiti i frutti. Crasso
sarebbe stato nominato dittatore. Cesare ne sarebbe divenuto il vice con la
carica di magister equitum (maestro di cavalleria), cosa abbastanza
paradossale per uno che aveva cominciato la sua carriera pubblica come
flamine diale, (6) un sacerdozio che aveva fra i suoi interdetti quello di salire
a cavallo. Ma da allora molta acqua era passata sotto i ponti e Cesare aveva
certamente imparato a cavalcare; del resto lo scopo di quell'incarico era di
creare reparti scelti in grado di fronteggiare Pompeo quando fosse tornato e,
se le cose fossero andate per il verso giusto, di organizzare in seguito una
spedizione in Egitto, un'ambizione antica che Cesare realizzerà ma molti anni
più tardi. Per Pisone c'era invece un comando in Spagna. La condanna di
Autronio e Silla sarebbe stata annullata e i
due reintegrati nel consolato. Catilina si accontentò della promessa che gli
amici lo avrebbero sostenuto nella campagna elettorale del 65. (7) Il 29
dicembre, ultimo dell'anno, (8) ci fu una specie di prova generale: Catilina
irruppe con una banda nel Tribunale dove, presidente Cicerone, allora
pretore, si stava giudicando Manilio, un ex tribuno della plebe, e impedì che
il processo fosse celebrato. (9) La reazione del governo fu inesistente. Ci si
poteva spingere oltre. Il giorno seguente Catilina portò i suoi uomini in
Campidoglio aspettando il segnale convenuto che doveva venire da Cesare il
quale si sarebbe lasciato cadere la toga dalle spalle. La cerimonia si inoltrava,
gli àuguri avevano fatto i sacrifici, le preghiere erano state dette, si
avvicinava il momento delle consegne,Catilina fremeva d'impazienza ma
Cesare non si muoveva. Attendeva a sua volta un cenno da Crasso e Crasso
non si era ancora fatto vedere. Lo aspettarono invano. Non si è mai saputo
per quale ragione Crasso, quel giorno, si sia dato. Svetonio (10) dice che fu
per una crisi di coscienza, cosa da escludere dato il tipo, o per paura e anche
questo è difficile da credere perché il Dives, se occorreva, sapeva prendere i
suoi rischi. E' molto più probabile che abbia fatto qualche calcolo che però si
tenne per sé e che noi non potremo quindi mai conoscere.Cesare giudicò poco
prudente agire senza il capo della congiura e si guardò bene dal lasciar cadere
la toga fatale, se la tenne anzi ben stretta al corpo a scanso di pericolosi
equivoci. La cerimonia si concluse senza incidenti. Riunitisi di nuovo i
congiurati decisero di ritentare il colpo il 5 febbraio quando il Senato si
sarebbe riunito alla Curia Ostilia. Ma fu un altro fallimento. Per colpa di
Catilina questa volta: diede il segnale prima che i congiurati fossero in
numero sufficiente. Ne nacque un tumulto che servì soltanto a far scoprire la
macchinazione. (11) Chi si attendeva dal Senato una dura reazione e
punizioni esemplari rimase deluso. Per la verità il Senato si trovava in una
posizione piuttosto difficile. Temeva certamente i democratici golpisti ma
temeva anche Pompeo. Riteneva che se fosse tornato a Roma senza trovarvi
alcun contraltare avrebbe instaurato una dittatura riducendo drasticamente i
poteri della stessa oligarchia, come aveva fatto Silla il cui nome, a destra e a
sinistra, suscitava ancora terrore. Per il Senato si trattava di stare in un
precario equilibrio fra generali che erano sostanzialmente schierati dalla parte
dell'oligarchia aristocratica e della borghesia, (12) ma che, disponendo
dell'esercito, coltivavano mire di dittatura personale, e democratici che
cercavano di minare il potere senatoriale dall'interno. Il gioco riuscirà per
qualche anno ancora, Cesare verrà fermato dai pugnali di Bruto e di Cassio
ma si tratterà solo di un rinvio, di uno stop momentaneo a un processo ormai
inarrestabile. Ottaviano Augusto chiuderà la partita. Da allora il Senato
perderà ogni seria funzione politica anche se l'oligarchia aristocratica da esso
rappresentata conserverà i privilegi economici e sociali di sempre e gli
imperatori potranno governare a loro piacimento a patto di non intaccarli. Di
fronte a una cospirazione di uomini come Crasso e Cesare il Senato poteva
fare poco, erano troppo influenti perché si ardisse perseguirli. Crasso in
particolare teneva in pugno mezza Roma perché non c'era aristocratico,
ottimate o popolare, che non fosse indebitato con lui. Ci si limitò dunque a
dare un corpo di guardia ai due consoli. Se Crasso e Cesare erano intoccabili,
Catilina era invece vulnerabile anche perché era quello che, come sempre, si
era esposto
più di tutti. Il Senato cercava un personaggio autorevole e prestigioso cui far
sporgere l'insidiosa denuncia contro Catilina e trovò l'uomo adatto in Lucullo
che accettò ben volentieri. Non agiva per astio personale o per calcoli politici
trasversali ai quali, da buon soldato, era estraneo, ma per convinzione: era
uno dei pochi conservatori conseguenti e integri e riteneva che non si potesse
far passare come se nulla fosse un episodio così grave e preoccupante. Un
esempio doveva essere dato. Partì quindi la denuncia ma Cesare, su istruzione
di Crasso, mobilitò i tribuni della plebe e riuscì a far insabbiare il
procedimento. Fu invece processato Publio Silla ma venne assolto da un
tribunale compiacente. (13) Crasso riuscì addirittura ad ottenere che il Senato
conferisse al suo giovane protetto, Pisone, il governo della Spagna nonostante
Pisone, che era solo questore, non avesse i titoli per un incarico del genere.
Peraltro il Senato, e probabilmente non solo il Senato, aveva un certo
interesse a tenere lontano da Roma quel giovane ambizioso e turbolento. (14)
Il favore non portò fortuna a Pisone. Partito per la Spagna, durante il viaggio
fu trucidato dalle sue stesse truppe, chi dice da cavalieri spagnoli esasperati
dalla sua arroganza, chi da soldati fedeli a Pompeo che avevano agito su
ordine di emissari del generale. (15) Finì l'inverno, passò un'altra estate, a
novembre del 65 Catilina fu assolto dall'accusa di concussione e riprese la
propria agibilità politica. Nella primavera del 64 presentò la candidatura al
consolato. Il primo giugno tenne una riunione dei propri simpatizzanti nella
sua casa al Palatino, il quartiere più «in» di Roma. Erano presenti i senatori
Publio Lentulo, Publio Autronio, Lucio Cassio Longino, Caio Cetego, Publio
e Servio Silla (nipoti del defunto dittatore), Lucio Vergunteio, Quinto Annio
Chilone, Marco Porcio Leca, Lucio Bestia, Quinto Curio, i cavalieri Marco
Fulvio Nobiliore, Lucio Statilio, Publio Gabinio Capitone, Caio Cornelio,
molti giovani della capitale, sia nobili che plebei, e agricoltori provenienti da
diverse province italiane. Sallustio la spaccia per un'adunata di cospiratori, la
prima che i catilinari avrebbero tenuto, e non esita a riferire, sia pure come
voce, che durante la serata Catilina avrebbe fatto circolare fra i congiurati
sangue umano misto a vino con lo scopo di cementare, con quell'orrore, la
loro unione. Alla fine del brano però Sallustio è costretto ad ammettere che si
tratta di una notizia inventata di sana pianta. (16) Nella realtà quella del
primo giugno del 64 fu una classica riunione preelettorale («contio
domestica» per dirla in latino) e il discorso che tenne Catilina, per quanto
infuocato, fu un tipico discorso elettorale. Disse fra l'altro: «Ora che il
governo della Repubblica è caduto nel pieno arbitrio di pochi prepotenti, re e
tetrarchi sono divenuti vassalli loro, a loro popoli e nazioni pagano tributi: gli
altri tutti, valorosi, valenti, nobili e plebei, non fummo che volgo, senza
considerazione, senza autorità, schiavi di coloro cui faremmo paura sol che la
Repubblica esistesse davvero. Ma chi, chi se è un uomo, può ammettere che
essi sprofondino nelle ricchezze e che sperperino nel costruire sul mare e nel
livellare i monti, e che a noi manchi il necessario per vivere? Che essi si
vadan costruendo case e case l'una appresso all'altra e che noi non si abbia in
nessun angolo un tetto per la nostra famiglia? Per quanto comprino dipinti,
statue, vasellame cesellato, per quanto abbattano edifici appena costruiti per
ricostruirne altri, insomma per quanto dilapidino e maltrattino il denaro in
tutti i modi pure non riescono a esaurire la loro ricchezza con i loro infiniti
capricci. Per noi la miseria in casa, i debiti fuori, triste l'oggi, spaventoso il
domani.
Che abbiamo, insomma, se non l'infelicità del vivere?». (17) Promise inoltre
l'annullamento dei debiti e concluse: «Queste cose, io lo spero, tratterò con
voi da console». (18) Dopo il discorso esortò i convenuti ad adoperarsi per la
sua elezione. Ora, che senso aveva cospirare se Catilina intendeva farsi
eleggere console? Da console avrebbe potuto mettere in atto le misure che
aveva in mente in modo del tutto legale. E se, come sostiene Sallustio, quella
riunione fu operativa, si presero accordi, si distribuirono armi e altre vennero
inviate in varie parti d'Italia, non si capisce che cosa mai abbiano fatto in
quindici mesi i congiurati visto che non presero alcuna iniziativa fino al
settembre del 63. Sallustio riferisce che ci fu un progetto di assassinare i
consoli e che i congiurati cercarono di attuarlo durante i comizi elettorali del
63. Ma a parte il fatto che di questo tentativo non c'è nessuna traccia se non
nelle parole di Sallustio, (19) che senso avrebbe avuto riunirsi prima dei
comizi del 64 (quando oltretutto i congiurati non potevano sapere che
Catilina sarebbe stato sconfitto) per assassinare i consoli nel 63, un anno
dopo? Le incongruenze del Sallustio storico mettono in imbarazzo anche il
Sallustio scrittore il quale, non sapendo come riempire lo spazio di un anno in
cui non accadde assolutamente nulla, è costretto a fare una lunga divagazione
su una certa Sempronia, un personaggio marginale della congiura. In ogni
caso che Sallustio, equivocando, non si sa se per errore o per malizia, su una
frase di Cicerone, abbia anticipato di un anno la congiura è un dato accertato
dalla storiografia moderna sulla base del raffronto con le altre fonti e della
stessa impossibilità cronologica della ricostruzione sallustiana. (20)
L'infiammato discorso di Catilina allarmò ulteriormente gli aristocratici i
quali non avendo quell'anno nessuna candidatura di prestigio puntarono su
Cicerone. Non avevano alcuna stima dell'oratore, anzi lo disprezzavano
perché era un provinciale, un homo novus, un parvenu, però poteva portare i
voti decisivi dei cavalieri e assicurare così la vittoria. Perciò, sia pur turandosi
il naso, diedero ordine di votarlo. (21) Durante la campagna elettorale
Cicerone pronunciò un'orazione, In toga candida (chi si presentava alle
elezioni portava una toga sbiancata a gesso, da cui il nome di candidato),
nella quale attaccava con inaudita violenza Catilina (22) alludendo
pesantemente alla congiura del 66-65 ma guardandosi bene dal fare i nomi di
Crasso e Cesare. (23) Riesumò anche la vecchia storia di Mario Gratidiano e
non esitò nemmeno a tirare in ballo lo scandalo che aveva coinvolto la
cognata, la vestale Fabia. Attaccò anche l'altro candidato dei democratici,
Antonio Ibrida, ma con minor veemenza. (24) Sappiamo che i due risposero
per le rime e che già in precedenza lo stesso Catilina e il tribuno della plebe
Lucio Orestino avevano coperto Cicerone di scherni atroci e che l'oratore se
l'era presa a morte. Ma il contenuto dei loro discorsi non ci è giunto. (25)
Poco dopo Cicerone stringeva con Ibrida il patto segreto per scambiarsi i voti
e mettere sotto Catilina. (26) Ignaro di questi maneggi Catilina, che aveva, o
credeva di avere, l'appoggio di Crasso e Cesare, pareva abbastanza tranquillo,
sicuro della vittoria. Il 29 luglio si aprirono le urne: aveva vinto Cicerone con
largo margine, Catilina era battuto per pochissimi voti da Ibrida. Deve essere
stata una delusione cocente, ma non reagì. Furono invece gli avversari ad
attaccarlo nuovamente e sempre con lo strumento del processo. Ma qui
bisogna fare qualche passo indietro. All'inizio dell'anno Cesare, che all'epoca
di Silla aveva passato qualche guaio, sia pur modesto, aveva rispolverato la
questione delle liste di proscrizione di diciotto anni prima. Uno degli scopi di
Cesare, che in quel momento, al seguito di Crasso, stava dando la scalata al
potere come leader del partito democratico, (27) era di acquisire benemerenze
presso i populares. Aveva perciò convinto alcuni suoi amici ad avviare un
procedimento contro coloro che più si erano esposti in quelle vicende, (28)
cancellando così difatto l'amnistia che era stata concessa da Silla. (29)
Quindi, sfruttando la propria posizione di edile, si era fatto nominare
presidente dell'apposito tribunale (Quaestio de sicariis). (30) Voleva anche
togliersi qualche sfizio ai danni degli ex sillani. Il «divo Giulio» non
disdegnava infatti la vendetta. E sapeva che è un piatto che si mangia freddo.
Dione Cassio scrive che «la esercitava senza fretta e senza collera, nel
momento più opportuno e imprevisto attraverso vie misteriose e in modo tale
che nessuno fu mai in grado di prevenirne gli effetti e denunciarne la
crudeltà». (31) Non aveva ancora vent'anni quando era stato catturato dai
pirati cilici, i più feroci scorridori del Mediterraneo, al largo dell'isola di
Farmacussa. Alla richiesta di un riscatto di venti talenti Cesare era scoppiato
a ridere: «Voi non sapete chi avete preso, ve ne darò cinquanta». (32) Nei
trentotto giorni in cui fu tenuto prigioniero partecipò con grande tranquillità
agli allenamenti e ai passatempi dei pirati facendoseli amici. Giocava e si
divertiva con loro. «Ogni tanto, per scherzo, minacciava che li avrebbe fatti
impiccare.» (33) E i pirati ridevano, estasiati da quello sfrontato giovane
burlone. Arrivò il denaro e Cesare fu liberato. Equipaggiò una piccola flotta e
andò a cercare i suoi carcerieri. Li scovò, li fece prigionieri e «li impalò tutti
quanti». (34) Ma queste erano crudeltà di un giovane molto conscio di sé. Il
Cesare maturo preferiva le vendette per via legale e a scoppio ritardato. Una
la consumò, qualche anno dopo gli avvenimenti di cui ci occupiamo, proprio
ai danni di Cicerone cui non perdonava di non averlo spontaneamente difeso
dall'accusa di aver partecipato alla congiura di Catilina e di averlo costretto a
«implorare» (35) la sua testimonianza a favore. Così nel 58, a cinque anni
dalla congiura, manovrando il tribuno Publio Clodio perché presentasse una
legge checondannava l'oratore all'esilio, lo cacciò da Roma e fece
saccheggiare la sua casa. Un'altra l'aveva attuata, sia pure per conto terzi, nel
63, un anno dopo la Quaestio de sicariis, trascinando in tribunale un
esponente degli optimates, il vecchio senatore Rabirio che trentasette
anniprima, nel 100, aveva partecipato al linciaggio del tribuno della plebe
Apuleio Saturnino. Era un'iniziativa palesemente assurda: fosse o no
colpevole Rabirio era ormai un ectoplasma inoffensivo e comunque i fatti
erano troppo lontani. Ma Cesare aveva un paio di obiettivi precisi. Uno era
compiacere il giustizialismo della plebe, la sua voglia di rivincita, perché
Rabirio, col tempo, era diventato un simbolo dell'aristocrazia più dura e
reazionaria. L'altro era minare l'autorità del Senato perché l'azione di Rabirio
aveva avuto come base legale un Senatus consultum ultimum. Cesare fece
quindi presentare dal tribuno della plebe Tito Labieno, un suo fedelissimo,
un'accusa contro Rabirio di perduellio (alto tradimento) per la quale era
competente un tribunale speciale formato da due giudici estratti a sorte
(Duoviri). La sorte, affidata al pretore Valerio Flacco, favorì, guarda caso, lo
stesso Cesare e suo cugino, Caio Cesare. I Duoviri non ci stettero a pensar su
e, riesumando una vecchia legge, condannarono l'anziano senatore a essere
battuto a morte con le verghe e quindi decapitato, una pena caduta in disuso
da tempo immemorabile. Rabirio, com'era suo diritto, fece appello al popolo,
cioè ai comizi centuriati. Per quanto fosse tutto grottesco c'era
poco da star tranquilli perché Rabirio era detestato dalla plebe e i comizi
centuriati, in genere di manica larga, avrebbero potuto farsit rascinare dalla
voglia di vendetta. A questo punto intervenne il Senato, sia per difendere uno
dei suoi membri, per quanto ormai in disarmo, sia perché aveva intuito la
manovra di Cesare e dove voleva andare a parare. Ordinò quindi a Cicerone,
che in quel momento era console e che era il più grande avvocato del suo
tempo, di difendere Rabirio davanti ai comizi. Nonostante motivi di
opportunità, dovuti alla sua carica in teoria super partes, lo sconsigliassero,
Cicerone accettò di buon grado: difendere un vecchio reazionario contro la
demagogia della plebe era qualcosa che stava nelle sue corde. Coadiuvato
dall'altro grande principe del foro, Ortensio, si lanciò nell'arringa. Ma lo tradì
l'eccesso di zelo perché invece di appellarsi al tempo trascorso, all'età
dell'accusato, all'eccezionalità del momento in cui erano avvenuti i fatti,
insomma invece di sfumare, volle affrontare puntigliosamente la questione
nel merito e sostenne il diritto di Rabirio a uccidere Saturnino. Il tribunale
popolare si irrigidì immediatamente. Le cose si mettevano male. Le risolse
Quinto Metello Celere, il pretore che presiedeva l'assemblea, facendo cadere
lo stendardo (vexillum) che doveva obbligatoriamente sventolare durante
questi solenni giudizi. Senza vexillum l'assemblea doveva considerarsi sciolta
e tutto finì in una farsa. Ma Cesare aveva ottenuto quello che voleva e anche
qualcosa di più: mettere in dubbio la legittimità del Senatus consultum
ultimum, un istituto di cui il Senato si era servito negli ultimi decenni per
bloccare qualsiasi tentativo di ribellione alla sua autorità, e preparare così il
terreno alle proprie mire golpiste e dittatoriali; accreditarsi, con poca spesa,
presso la plebe come suo amico e paladino dandole in pasto, almeno per un
po', Rabirio; sputtanare Cicerone che si era esposto in modo ridicolo. (36) Ma
riprendiamo il filo della nostra storia e ritorniamo ai primi mesi del 64, al
processo che Cesare aveva fatto avviare contro I «sicari» di Silla. Anche
questo processo, come quello a Rabirio, era una farsa. E non solo perché
erano passati diciotto anni dai fatti. Se fosse stato una cosa seria i primi ad
andare alla sbarra avrebbero dovuto essere Catilina e soprattutto Crasso che
sulle proscrizioni si era vergognosamente arricchito. Ma Crasso era il sodale
di Cesare, colui che ne finanziava la carriera politica, e la Bithynica regina gli
doveva la bellezza di 20 milioni di sesterzi. In quanto a Catilina, quali che
fossero i suoi sentimenti verso di lui, Cesare doveva stare agli ordini di
Crasso. E gli ordini del Dives erano che, per il momento, Catilina doveva
essere considerato uno del clan. Crasso e Catilina non vennero dunque
denunciati. Ma con la Quaestio de sicariis, che rimase aperta per alcuni mesi,
Cesare lanciava ai due un pesante avvertimento: in un'epoca in cui la lotta
politica più che nelle sedi istituzionali si svolgeva nelle aule dei tribunali
faceva capir loro che li teneva sotto tiro e che poteva colpirli in qualsiasi
momento. In tal modo Cesare, che vedeva in Catilina un rivale e che stava già
meditando di scavare la fossa a Crasso, di cui pativa la leadership, preparava
le basi per impadronirsi del partito democratico, prima tappa verso quel
potere assoluto cui sarebbe arrivato pochi anni dopo. Intanto un risultato
immediato l'aveva comunque raggiunto: indebolire oggettivamente la
candidatura di Catilina alle elezioni consolari del 64, pur continuando a
figurare come uno dei suoi sostenitori. (37) Faceva lo sgambetto al rivale
senza disobbedire a Crasso. Un tipo di acrobazia in cui il «divo Giulio» era
maestro. E quella improvvisa riesumazione, in cruda luce, dei torbidi dell' 82,
che avevano impressionato moltissimo la popolazione romana, danneggiò
effettivamente Catilina e diede un
ulteriore spinta alla sua sconfitta elettorale già così abilmente preparata da
Cicerone. Per la Quaestio de sicariis furono processati e condannati due
personaggi minori, il centurione L. Luscio e lo zio materno di Catilina, L.
Bellieno, oltre ad alcune spie che avevano denunciato i proscritti e incassato
le taglie dall'erario. (38) Tutto ciò si svolse fra marzo e giugno del 64. Poi
vennero i comizi, la vittoria di Cicerone e Ibrida, la sconfitta di Catilina.
Quando Cesare aveva aperto la Quaestio de sicariis gli aristocraticinon
avevano potuto inserirsi nel gioco e denunciare per proprio conto Catilina: lo
avevano già bloccato due volte, nel 66 e nel 65, con cavilli legali, provarci
una terza, per le elezioni del 64, sarebbe stata un po' troppo sporca e poteva
provocare una sollevazione popolare, inoltre avrebbe consentito ai
democratici, di cui Catilina era formalmente un candidato, di atteggiarsi a
vittime. Ma passati i comizi queste cautele non avevano più ragion d'essere e
Cicerone, forte del trionfo elettorale, pensò che era il momento buono per
liberarsi una volta per tutte di Catilina secondo i desiderata dell'oligarchia.
Indusse un amico, lo scrittore Lucceio, a denunciare Catilina davanti alla
Quaestio de sicariis. (39) Ma il tribunale era ancora presieduto da Cesare e
Catilina fu assolto con grande dispetto dell'oratore e del suo entourage. (40)
Non è detto però che Catilina ne sia uscito fuori esclusivamente per un
favoritismo di Cesare teleguidato da Crasso. Se ci fossero state delle prove
inequivocabili contro Catilina, Cesare avrebbe avuto buon gioco a
condannarlo e poi, di fronte a Crasso, allargare le braccia dicendogli: «Che
altro potevo fare?». Inoltre se si va a guardare il processo di qualche mese
prima a Luscio e agli altri si nota che furono condannati uomini che avevano
approfittato delle proscrizioni sillane per arricchirsi. Mentre a Catilina questo
non poteva essere addebitato. L'autunno del 64 si consumò quindi con
l'ennesimo processo e l'ennesima assoluzione di Catilina. A dicembre il
tribuno della plebe Servio Rullo presentò la proposta di riforma agraria (lex
Servilia). Alcuni storici ritengono che l'ispiratore della legge fosse Cesare.
(41) Invece era Catilina. Sia perché la lex Servilia ricalcava, nelle sue linee
generali, il programma dei catilinari nel quale era comunque compresa, come
sappiamo da Dione Cassio, la redistribuzione delle terre. (42) Sia perché la
mano di Catilina si avverte in alcuni dettagli molto precisi e significativi. Fra
le terre di proprietà dello Stato da vendere e redistribuire la legge escludeva
espressamente quelle che nel 75 erano state assegnate in usufrutto al re di
Numidia, Jempsale, col quale Catilina, quando era in Africa, aveva stretto
rapporti di amicizia e quelle d'Etruria dove i catilinari avevano il più forte
nucleo di simpatizzanti. (43) Tanto che Cicerone parlerà in proposito di
«eccezioni sospette» dando a di vedere di sapere benissimo chi ci fosse dietro
la legge. (44) Ma che Cesare non c'entrasse nulla con la lex Servilia lo dice il
fatto che quando ebbe il potere non pose mai mano a una riforma del genere.
La legge agraria varata sotto il suo consolato, nel 59, fu una semplice
distribuzione di terre ai veterani, come ce n'erano state tante, concessa
soprattutto per tener buono Pompeo. Ma anche quando fu dittatore, ed ebbe
quindi mano libera, Cesare di tutto si occupò, di rafforzare i confini, di
riorganizzare l'esercito, di raddoppiare la paga ai suoi soldati, di inasprire
l'apparato poliziesco, di rendere più severi i tribunali soprattutto nei confronti
della povera gente, di defalcare le sovvenzioni alla plebe, di varare leggi
moralistiche contro il divorzio e l'adulterio, di regolare il traffico delle
lettighe, di riformare il calendario, di chiamare Julius il mese che prima era
Quintilis, di limitare l'uso della toga
di porpora e persino di proibire alcuni cibi prelibati (tranne che a sé e ai suoi
amici, of course), ma non attuò alcuna riforma economica e sociale di
qualche significato e intimidì a tal punto il tribunato della plebe (oltre che le
altre magistrature che peraltro cumulò quasi tutte nella sua persona) che
questa magistratura, deputata a difendere gli interessi del popolo, durante il
suo regno «non dette mai alcun segno di vita». (45) Un'altra prova che la lex
Servilia era legata a Catilina viene dal fatto che il progetto era stato preparato
prima delle elezioni del luglio del 64. (46) Evidentemente si contava che
Catilina, da console, avrebbe fatto passare la legge. Catilina fu sconfitto ma i
catilinari, quando Rullo ai primi di dicembre fu eletto tribuno della plebe,
decisero di presentare ugualmente il progetto per tastare il terreno. Cicerone
fin dall'estate, cioè dalla sua elezione a console, aveva tentato intutti i modi di
venire in possesso del testo della proposta di legge. Ne aveva fatta anche
esplicita richiesta ai tribuni «impegnandosi» disse «ad appoggiare la legge se
l'avesse ritenuta utile allo Stato». (47) In quell'occasione aveva anche
affermato che sarebbe stato un console «popolare». Ma i tribuni lo avevano
schienato. Poté venire a conoscenza del testo solo il 10 dicembre quando,
insediatisi da qualche giorno i tribuni, fu pubblicato ufficialmente e affisso
nel Foro. Allora mandò in tutta fretta i suoi segretari a ricopiarlo. La proposta
di legge di Rullo non aveva alcuna possibilità di passare perché gli
aristocratici, per mettersi al sicuro, avevano prezzolato il tribuno della plebe
L. Cecilio che aveva annunciato il veto. Cicerone non aveva alcun bisogno di
esporsi. Ma per far vedere agli aristocratici quanto era bravo e pronto a
rendere servigi, il 1° gennaio inaugurò il suo consolato con una violenta
requisitoria contro la legge agraria (De lege agraria) cui fece seguire altre tre
orazioni dello stesso tenore. L'oratore non esita a ricorrere a qualunque tipo di
argomentazione, anche le più abbiette. Come si sa uno degli obiettivi della
legge agraria era dare un impiego e un impegno alla plebe urbana di Roma
che viveva di puro assistenzialismo. Cicerone ricorda al popolino che se
passa la legge gli toccherà andare a lavorare, fuori Roma per giunta, e perderà
le feste, gli spettacoli, i giochi e soprattutto il commercio delle schede
elettorali e le elargizioni gratuite di grano. (48) Usando una serie di
argomenti speciosi attacca poi la legge sotto ogni profilo, anche
costituzionale, e si aggrappa a qualche errore tecnico della complessa
normativa (peraltro facilmente emendabile se il console fosse stato
minimamente in buona fede e quel «vero difensore degli interessi della
plebe» come ebbe la faccia tosta di presentarsi nelle due orazioni che tenne
davanti al popolo) per dichiarare improponibile la lex Servilia. Il suo
discorso, molto abile anche se assolutamente scoperto agli occhi di un
osservatore moderno, dovette far breccia nell'animo di una parte del popolino
se Rullo decise diritirare la proposta prima ancora che andasse a cozzare
contro ilveto del suo collega. E' in questo periodo che Crasso e Cesare
prendono definitivamente le distanze da Catilina. Il suo programma si sta
rivelando troppo radicale per i loro gusti (49) e, ciò che è peggio, Catilina
sembra prenderlo sul serio. Le riforme catilinarie vanno infatti a colpire sia
gli interessi dei grandi latifondisti che quelli dei banchieri. E Crasso è l'uno e
l'altro. In quanto a Cesare poteva forse avere un certo interesse alla
cancellazione dei debiti visto che ne aveva un po' con tutti, ma giudicava
comunque che Catilina si fosse spinto troppo in là sulla via dei cambiamenti e
che, battuto nella corsa al consolato e battuto sulla lex Servilia, fosse ormai
un uomo bruciato.
Fece quindi quello che sempre aveva fatto e sempre farà nella sua vita: tenne
il piede in due scarpe. (50) Continuò ad avere contatti con Catilina anche
quando questi si mise davvero a cospirare ma intanto passava a Cicerone
tutto quanto veniva a sapere sulla congiura. E nel 62, dopo la morte del
ribelle, poiché c'era chi lo accusava di aver simpatizzato per la congiura,
pretese che Cicerone attestasse pubblicamente questa sua benemerita attività
di spione. (51) Passò anche quell'inverno e nel giugno del 63, a tre anni dal
suo ritorno dall'Africa, Catilina ripropose la sua candidatura al consolato. La
parola d'ordine dell'oligarchia era una sola: fermarlo. E la passò a Cicerone,
console, che si mise subito all'opera. Per prima cosa si assicurò la neutralità
del collega, Antonio Ibrida, cedendogli per l'anno successivo il proconsolato
della ricca provincia di Macedonia e tenendo per sé la molto meno
remunerativa Gallia Cisalpina. Era inteso, naturalmente, che Ibrida gli
avrebbe passato una tangente sui profitti. Di questo patto fra gentiluomini c'è
testimonianza in tre lettere ad Attico e in una allo stesso Ibrida in cui
Cicerone si lamenta che il collega non è stato ai patti. (52) Cicerone convinse
poi il Senato a decretare a Lucullo quel trionfo che aspettava da tempo e che
gli era stato fin lì rifiutato per non dispiacere Pompeo. Ciò significava che
uno dei candidati, Lucio Murena, già legato di Lucullo in Asia, avrebbe
potuto contare sui voti dei 1600 legionari che sarebbero entrati in Roma per
celebrare il trionfo del loro generale. (53) Murena si presentava per i
democratici ed era quindi in diretta concorrenza con Catilina. Il console sa
che Pompeo, che invidia e teme Lucullo cui ha sottratto, grazie anche
all'aiuto di Cicerone, il comando in Asia, non sarà contento. Ma Pompeo per
il momento è lontano. Intanto Catilina ha dato inizio alla sua campagna
elettorale, che è violentissima anche perché non deve più tener conto delle
remore di Crasso e Cesare. In un discorso, che fece grande impressione sugli
aristocratici e sui borghesi, disse tra l'altro che «fedele difensore dei miseri
non poteva essere se non chi fosse egli stesso misero, i malati e i bisognosi
non dovevano credere alle promesse dei ricchi e dei fortunati». (54) Il leader
di coloro che cercavano un riscatto, aggiunse, doveva essere un uomo, oltre
che audace, altrettanto sventurato e lui, che non possedeva quasi più nulla, lo
era. (55) Econcluse: «Nella Repubblica romana ci sono due corpi, uno è
gracile e infermo con una testa senza cervello, l'altro è vigoroso e sano ma
senza capo. Se saprò meritarmelo sarò quel capo finché io viva». (56) Erano
dichiarazioni-bomba, con quelle allusioni così trasparenti all'aristocrazia e
alla plebe. L'oligarchia senatoria si spaventò a morte. E giustamente. Era la
prima volta che un patrizio, uno dei loro, parlava un simile linguaggio
dimostrando di aver tagliato completamente i ponti con la propria classe per
assumere «in toto» la causa del popolo. Neanche i Gracchi si erano spinti a
tanto, conservando sempre un certo margine di ambiguità. La plebe aveva
trovato il capo che non aveva mai avuto. L'entusiasmo salì alle stelle. «Tutta
la plebe» scrive Sallustio «eraper Catilina.» (57) La città pullulava di
agricoltori venuti dalle campagne italiche, soprattutto dall'Etruria, per
sostenere il loro leader con il voto. Il clima era rovente. Una vittoria storica,
da tempo sognata, era a portata di mano. Alla disperata i conservatori si
misero a cercare le prove che Catilina corrompeva gli elettori. (58) Ma,
nonostante la nuova legge de ambitu, fatta votare proprio quell'anno da
Cicerone, (59) fosse severissima e vietasse persino i banchetti, (60) non
riuscirono a trovare nulla. (61)
Allora il giorno prima del voto Cicerone, che presiedeva i comizi, rinviò le
elezioni prendendo a pretesto gravi motivi di ordine pubblico. (62) E convocò
per l'indomani il Senato perché ratificasse il suo provvedimento e decidesse i
termini del rinvio. Durante la seduta il console chiese conto a Catilina delle
sue dichiarazioni. «Sfrontato come sempre» scrive Cicerone «Catilina non si
giustificò» (63) ma ripeté punto per punto, lì nella Curia, davanti all'élite
dello Stato romano, quanto aveva detto nelle riunioni private. Quando,
guardando spavaldo i senatori, parlò di «un corpo gracile e infermo con una
testa senza cervello» un mormorio si levò dall'assemblea sferzata da
quell'ingiuria sanguinosa, sgomenta che si osasse tanto. Ma Catilina non se ne
curò. Col suo solito fare irridente uscì di scatto dal Senato ammutolito. (64)
Pochi giorni prima Catilina era stato affrontato a muso duro da Catone il
quale aveva minacciato di denunciarlo per i suoi discorsi che considerava
«eversivi». (65) Marco Porcio Catone, torturato dalla memoria e dall'esempio
del suo mitico avo (il famoso Censore del «Chartago delenda est») che si
riteneva obbligato a copiare, era «una singolare caricatura del suo antenato»,
(66) secondo Mommsen che lo definisce anche «un pazzo sistematico».
Legalista ad oltranza, integralista, moralista, privo di passioni se non quella
per la Patria, onestissimo, Catone cercava di far corrispondere la propria vita
ai princìpi dello stoicismo e ai costumi dell'antica Roma. Andava a piedi,
rifiutava le onorificenze, non prestava denaro a usura, non indossava la
camicia secondo l'uso di Romolo, girava perennemente con un libro in mano,
non perdeva una seduta del Senato, sempre puntuale, sempre primo, sempre
inappuntabile. C'era effettivamente in lui, nella ostentazione narcisistica delle
proprie virtù, qualcosa di parodistico e comunque di eccessivo. Ma Catone, a
differenza della stragrande maggioranza degli aristocratici e dei borghesi del
suo tempo, ormai completamente immersi nel comodo, viscido e truffaldino
gioco della doppia morale, era un uomo che credeva ai princìpi che
professava, per essi visse e per essi seppe morire mettendo in atto un suicidio,
per così dire, esemplare. Anche Catone era uno di quelli che ritenevano che i
pensieri dovessero corrispondere alle parole e le parole ai fatti. Per un curioso
paradosso, che poi è tale solo in apparenza, i rappresentanti della destra e
della sinistra più estreme, per usare categorie moderne, della società romana
non erano così diversi come sembravano e come credevano. Erano entrambi
uomini tutti di un pezzo, incapaci di mediazioni e di compromessi, nostalgici
di una Repubblica dai costumi più semplici e più franchi. Ed erano quindi
entrambi fuori dal loro tempo. Dunque il giovane Catone, che aveva allora 32
anni, affrontò coraggiosamente Catilina e lo apostrofò con durezza. L'altro,
guardandolo fisso negli occhi, rispose: «Se cercherete di appiccare un
qualsiasi incendio contro di me non lo spegnerò con l'acqua ma con le
rovine». (67) Le elezioni furono rinviate di una quindicina di giorni, meno di
quanto sperasse Cicerone che voleva arrivare a settembre quando gli
agricoltori, sostenitori di Catilina, avrebbero dovuto necessariamente tornare
sui campi per la vendemmia. Il rinvio fu comunque sufficiente a sfoltire i
ranghi dell'elettorato catilinario e, soprattutto, a permettere a Murena di
corrompere, con i soldi di Crasso, gli elettori, soprattutto, com'è ovvio, i
plebei. Cicerone sapeva di averla fatta sporca. E aveva paura. Andava ingiro
protetto dalla scorta indossando una grande e vistosa corazza che, sul suo
corpo gracile e già da vecchio, lo rendeva grottesco. (68) Tutta Roma ne
rideva, anche perché era una precauzione inutile
essendo notorio che Catilina, che aveva fama di grande spadaccino, non
mirava a quello che in termini pugilistici si chiama il «bersaglio grosso» ma
usava colpire i suoi avversari di precisione al capo o al collo. (69) Ma
Catilina sembrava pensare a tutt'altro. Era allegro e fiducioso nella vittoria.
Così lo ricorda lo stesso Cicerone: «Catilina, tutto vibrante, lieto, circondato
da una schiera di giovani, protetto da informatori e da sicari, esaltato dalla
speranza che poneva nei militari e anche, a suo dire, dalla promessa del mio
collega inconsolato, aveva intorno a sé un esercito di coloni aretini e
fiesolani. In mezzo a questa folla spiccavano tipi di tutt'altro genere, vittime
dello sciagurato tempo di Silla. E lui, il volto acceso, gli occhi da criminale,
le parole arroganti, pareva avesse già in tasca il consolato, anzi che se lo fosse
chiuso in casa». (70) Ma, ancora una volta, si illudeva. Lucio Murena fu
primo, Giunio Silano secondo, lui, come sempre, terzo. Poco dopo Catone e
Servio Sulpicio formalizzarono contro Murena l'accusa di brogli di cui si era
già vociferato durante la campagna elettorale provocando il ritiro, per
protesta, dello stesso Sulpicio. Si venne a sapere che pure Silano, anche se
non era stato incriminato, aveva vinto con la corruzione. (71) Allora Catilina
decise che ne aveva abbastanza di questi giochi e giochetti «democratici». E
prese le armi. (72)
Note
(1) Svetonio, op' cit', Cesare, I. la leggenda vuole che Silla, cedendo a
malincuore alle suppliche dei difensori di Cesare, esclamasse: «Abbiatela
pure vinta, ma sappiate che in Cesare vi sono molti Marii!». Mario, leader del
partito democratico, era stato il grande antagonista di Silla.
(2) Svetonio, op' cit', Cesare, Ii.
(3) In tutta la sua opera di scrittore Cesare non nominerà mai, nemmeno
indirettamente, Catilina. Cesare, Opera omnia, Einaudi, 1993.
(4) Svetonio, op' cit', Cesare, Ix.
(5) Ibidem.
(6) Svetonio, op' cit', Cesare, I.
(7) L' Pareti, op' cit', p' 313; E' Meyer, Caesar's Monarchie und das Principat
des Pompeius, Stoccarda-Berlino 1918, p' 17.
(8) Nel calendario romano, di derivazione lunare, i mesi erano di 29 e 30
giorni. L'ultimo dell'anno cadeva il 29 dicembre. Prima del 153 a'C' l'anno
iniziava a marzo e finiva a febbraio.
(9) Asconio, op' cit', 60.
(10) Svetonio, op' cit', Cesare, Ix.
(11) La maggioranza degli storici moderni è convinta che la cosiddetta
«prima congiura di Catilina» non sia mai esistita e sia un'invenzione tardiva
per screditare Cesare e Crasso (vedi, tra gli altri, L' Perelli, Il movimento
popolare nell'ultimo secolo della Repubblica, Paravia, 1982, p' 180; H'
Waters, Cicero, Sallust and Catilina, «Historia», 1970, pp' 195-215; E' J'
Phillips, Catilina'sConspiracy, Historia, 1976, pp' 441-448). A me non pare.
Sallustio, che scrive a vent'anni dai fatti, ne parla diffusamente e l'intento del
suo pamphlet è di scagionare Cesare dall'accusa di aver parteggiato per
Catilina. E' vero che per la cosiddetta «prima congiura» Sallustio si guarda
bene dal fare il nome di Cesare e cita solo Crasso. Però se la «prima
congiura» fosse stata un'invenzione (e di chi poi in epoca così vicina ai fatti?)
avrebbe avuto tutto l'interesse a denunziarla come tale o a non menzionarla
nemmeno. Sulla «prima congiura» vedi anche H' Firsch, The First
Catilinarian
Conspiracy, «Classica et Mediaevalia», 1948, Ix, p' 10-36; C'E' Stevens, The
«plotting» of B'C' 66-65, «Latomus», Xii, 1963, pp' 397-435; R' Seager, The
First Catilinarian Conspiracy, «Historia», Xiii, 1964, pp' 338-347.
(12) In verità la posizione di Pompeo era estremamente ambigua: era il leader
dei cavalieri, flirtava con l'aristocrazia, per le vittorie ottenute in Asia godeva
di un vasto consenso fra la plebe e, sia pur fra molti tentennamenti, puntava
alla monarchia. Solo i democratici, vale a dire Crasso e Cesare, gli erano
avversi. Quando nel 60 i tre troveranno un accordo ci sarà il primo
triumvirato che aprirà la strada alla dittatura, non di Pompeo però, ma di
Cesare.
(13) Dione Cassio, op' cit', 36, 44, 4.
(14) Dione Cassio, op' cit', 36, 44, 5; Cil, Vi, 1276.
(15) Sallustio, op' cit', Xix.
(16) Sallustio, op' cit', Xxii. La diceria viene ripresa secoli dopo, come vera,
da Dione Cassio, op' cit', 37, 30, 2 e Floro, op'cit', Iv, 1.
(17) Sallustio, op' cit', Xx.
(18) Ibidem.
(19) In realtà Sallustio retrodata il tentativo di assassinio di Cicerone messo
in atto il 7 novembre del 63. L' Pareti, op' cit', p'443.
(20) Vedi, per tutti, L' Pareti, op' cit', p' 332.
(21) Sallustio, op' cit', Xxiii.
(22) Lo scambiarsi le accuse più feroci nelle arringhe e nelle orazioni
politiche era una consuetudine a Roma. E, come ricorda lo stesso Cicerone, si
dava per scontato che ci fossero molte esagerazioni. Cicerone, Orator, 36,
127; cfr' L' Pareti, op' cit', p'424.
(23) Cicerone, In toga candida, 22.
(24) Cicerone, In toga candida, passim.
(25) Asconio, op' cit', 95.
(26) Ai tempi di Catilina e Cicerone il voto era segreto e consentiva quindi
tutti i consueti giochi di questo tipo di suffragio. In epoca anteriore si votava
per alzata di mano.
(27) J' Carcopino, op' cit', pp' 151-238.
(28) Dione Cassio, op' cit', 37, 10, 2; Asconio, op' cit', 91.
(29) Svetonio, op' cit', Cesare, Xi.
(30) J' Carcopino, op' cit', p' 159.
(31) Dione Cassio, op' cit', 38, 11, 1. Per vendetta Cesare fu anche mandante
di un torbido delitto. Nel 59, quando era console, fece arrestare L' Vettio che
quattro anni prima lo aveva accusato di complicità nella congiura di Catilina.
Quell'arresto sembrava un atto di giustizia disinteressato perché Vettio, che
era un delatore di professione, aveva falsamente accusato due nemici giurati
di Cesare: Lucullo e Domizio Enobarbo. Pochi giorni dopo Vettio venne
trovato morto in cella, avvelenato. Furono sospettati Pompeo e Vatinio. Solo
molto più tardi si scoprì che il mandante era Cesare; Svetonio, op'cit', Cesare,
Xx.
(32) Plutarco, op' cit', Vita di Cesare, 2.
(33) Ibidem.
(34) Ibidem.
(35) Svetonio, op' cit', Xvii.
(36) Sul caso Rabirio vedi P' Grimal, op' cit', pp' 134-35 e P'Zullino, op' cit',
pp' 151-53.
(37) J' Carcopino, op' cit', p' 159.
(38) Cicerone, In toga candida, 21 e Asconio, op' cit', 92.
(39) Asconio, op' cit', 92.
(40) Dione Cassio, op' cit', 37, 10, 3.
(41) Vedi G'U' Sumner, Cicero, Pompeius et Rullus, Tapa, pp' 569-82e J'
Carcopino, op' cit', p' 164.
(42) Dione Cassio, op' cit', 37, 30, 2.
(43) Cicerone, De lege agraria, I, 4, 10 e Ii, 21, 57. Cfr' anche l'analisi di P'
Zullino, op' cit', pp' 89, 98-99.
(44) Cicerone, De lege agraria, I, 5, 18.
(45) M' Rostovtzeff, op' cit', p' 535.
(46) Che la lex Rullia fosse in elaborazione perlomeno da luglio lo sappiamo
attraverso lo stesso Cicerone: fin dal giorno dopo la sua elezione (29 luglio)
tentò vanamente di venire in possesso del testo. P'G' Grimal, op' cit', p' 130.
(47) Ibidem.
(48) Cicerone, De lege agraria, Ii, 27, 51.
(49) Sulle differenze fra il programma di Catilina e quello di Crasso e Cesare
si veda in particolare L' Pareti, op' cit', pp'333-35.
(50) Anche durante la rivolta di Lepido, nel 77, Cesare aveva tenuto contatti
segreti con i ribelli in attesa di vedere come andava a finire. Svetonio, op' cit',
Cesare, Iii. Ed è molto probabile che sia stato Cesare a far fallire la cosiddetta
«prima congiura di Catilina» cui aveva aderito con poca convinzione per
obbedienza al suo capo e finanziatore Crasso. J' Carcopino, op' cit', p' 154.
(51) Svetonio, op' cit', Cesare, Xvii. Fra gli accusatori di Cesare c'era anche
Quinto Curio, ringalluzzito dal perdono e dalle laute ricompense che il Senato
gli aveva concesso per le notizie che aveva fornito sulla congiura,
consentendo di sventarla, e ormai scatenato nella delazione (vedi il prossimo
capitolo).
(52) Cicerone, Ad Atticum, 12, 13, 14 e Ad familiares, V, 5.
(53) Cicerone, Pro Murena, 69; Plutarco, op' cit', Vita di Lucullo, 36.
(54) Cicerone, Pro Murena, 50.
(55) Ibidem. Dopo una campagna elettorale per il consolato andata avuoto,
una in corso, le spese per la difesa nei due processi che gli aristocratici gli
avevano intentato, Catilina era effettivamente alle strette, anche se poteva
contare sui beni della moglie.
(56) Ibidem.
(57) Sallustio, op' cit', Xxxvii.
(58) Cicerone, Pro Murena, 49.
(59) Scoliaste di Bobbio a Cicerone, pp' 269, 309, 324, 362 (a Pro Plancio,
Pro Sestio, In Vatinium, Pro Sulla).
(60) Dione Cassio, op' cit', 37, 29, 1.
(61) Cicerone, Pro Murena, 49.
(62) Cicerone, Pro Murena, 51.
(63) Ibidem.
(64) Ibidem.
(65) Ibidem.
(66) T' Mommsen, op' cit', vol' Vii, pp' 153-54.
(67) Cicerone, Pro Murena, 51; Valerio Massimo, op' cit', Ix, Ii,3.
(68) Cicerone, Pro Murena, 52.
(69) Ibidem.
(70) Cicerone, Pro Murena, 49.
(71) Plutarco, op' cit', Vita di Catone, 21.
(72) Che Catilina abbia ordito la congiura solo dopo essere stato sconfitto per
la terza volta, con ogni genere di brogli, nelle elezioni è opinione pressoché
unanime fra gli storici moderni, anche quelli più prevenuti nei suoi confronti.
Vedi la classica opera di G'Boissier, op' cit', p' 112 e J' Carcopino, op' cit', p'
245 n' 180.
VI. La congiura
Uscito come una furia dal Senato Catilina si precipitò a casa. E si mise a
riflettere. A questo punto lasciare Roma significava dichiarare pubblicamente
la propria colpevolezza e fare un favore a Cicerone. Inoltre raggiungere
l'esercito di Manlio e scendere in campo aperto era suicida. Infatti, fallito il
tentativo di assassinare il console, era caduta anche la possibilità
dell'insurrezione a sorpresa in città. L'esercito di Catilina si sarebbe trovato a
fronteggiare forze preponderanti senza poter contare su un secondo fronte
aperto a Roma. (1) Anche rimanere in città era pericoloso. Ma si poteva
giocare sulle
esitazioni del console. Era chiaro che Cicerone voleva mandarlo fuori dalla
città perché questo gli semplificava le cose. Se rimaneva a Roma il console
era costretto a battere la via giudiziaria sulla quale evidentemente non si
sentiva sicuro. In fondo, pensò Catilina, su di lui non c'erano prove certe,
documentate, in questo era stato abbastanza accorto. C'erano solo sospetti,
forse spie che però Cicerone, per qualche motivo, esitava a portare allo
scoperto. Se il console non lo aveva arrestato in Senato, quando ne aveva
tutte le possibilità, si poteva pensare che non avrebbe osato farlo in una
situazione più difficile, mandandogli a casa i centurioni in una città che
pullulava di suoi seguaci. Sì, rimanere a Roma, riorganizzando con cautela e
col tempo le fila della congiura, era decisamente la cosa migliore per lui. Ma
in questo modo si sarebbero abbandonati Manlio e i suoi, che avevano già
proclamato la rivolta, al massacro. Convocò i principali congiurati: Lentulo,
Cetego, Statilio, Gabinio, Servio Silla, i fratelli Leca. Curio questa volta non
c'era. Aveva ritenuto più prudente girare al largo. Tanto ormai il più erafatto.
Catilina comunicò che aveva cambiato programma. Sarebbe partito
perraggiungere Manlio, come previsto, ma invece di restare in Etruria
avrebbe puntato sulle Gallie dove c'era una forte base del movimento e dove
non sarebbe stato difficile arruolare truppe fresche e valide in mezzo a quelle
popolazioni sottomesse da poco e fra le quali serpeggiava un diffuso
malcontento per la dominazione romana. La via verso nord era ancora libera:
gli eserciti romani erano concentrati a difesa dell'Urbe o impegnati a
controllare i focolai di rivolta che si erano accesi al sud. Nel frattempo i
congiurati avrebbero avuto il modo di riorganizzarsi a Roma. Quando
Catilina avesse raccolto un grosso esercito in Gallia, sufficiente per affrontare
le forze governative, avrebbe marciato su Roma dove i congiurati sarebbero
insorti, così da mettere la città fra due fuochi. Lentulo obiettò che se Catilina
si fosse allontanato troppo, loro a Roma sarebbero rimasti senza copertura
così come le forze catilinarie basate nel sud Italia. Fra Catilina e gli altri si
sarebbe creato un pericoloso scollamento. Catilina riconobbe che l'obiezione
era fondata. Si decise quindi di tornare al piano originario: Catilina sarebbe
andato in Etruria esarebbe restato in zona in attesa che i compagni rimasti a
Roma gli dessero il segnale che erano pronti a insorgere. Era implicito che
Lentulo e i suoi dovessero muoversi molto rapidamente perché per il piccolo
esercito di Catilina e Manlio sarebbe stato sempre più difficile tener testa ai
governativi, via via rinforzati dagli arruolamenti che erano stati decisi col
Senatus consultum ultimum. Proprio perché a Roma potessero operare al
meglio e alla svelta Catilina decise di lasciare nella città tutte le forze
disponibili e di partire per l'Etruria da solo. In questo modo, tra l'altro,
avrebbe potuto far credere, almeno per qualche tempo, che se ne andava in
esilio volontario, che era la via d'uscita lasciatagli da Cicerone. (2) Affidato
quindi il comando a Lentulo abbandonò Roma quella notte stessa
accompagnato da tre giovani. (3) Il più valido dei catilinari che rimanevano a
Roma era Cetego. Antisillano e antiaristocratico da sempre Cetego era stato
un «numero uno» a Roma negli anni successivi alla morte di Silla. Ma nel 74
aveva perso l'occasione della sua vita rinunciando, per amore di una donna,
Precia, al governo della Cilicia in favore di Lucullo che ne aveva fatto il
trampolino di lancio della sua carriera. (4) Probabilmente Cetego era anche il
più affine a Catilina, legato come lui al mito della Roma delle origini. Ancora
giovane era un uomo d'azione, deciso, coraggioso anche se, forse, un po'
troppo
impetuoso. Ma Catilina gli aveva preferito Lentulo facendo prevalere il rango
e la gerarchia perché Lentulo era stato console ed era pretore in carica. Fu
una scelta sbagliata. Publio Cornelio Lentulo detto Sura apparteneva alla più
ragguardevole famiglia romana, quella gens Cornelia che, soprattutto nei
primi secoli della Repubblica, aveva dato decine di consoli e centinaia di altri
magistrati surclassando anche i Valeri, i Claudi,i Fabi, gli Emili. (5) Lentulo
aveva però avuto molte traversie nella sua vita. Dopo essere stato console e
presidente di tribunale, nel 70 era stato espulso dal Senato per «indegnità».
Per rientrare nella Curia aveva dovuto ricominciare la carriera da capo ed era
arrivato al rango di pretore. Per ritentare il consolato avrebbe dovuto
aspettare almeno tre anni (6) e con scarsissime probabilità di farcela perché
l'oligarchia romana, molto «prude», moralista e attenta alle forme, non
perdonava. Fra tanti idealisti, sognatori e disperati Lentulo era certamente
uno di quelli entrati nella congiura solo per ambizioni personali. Anche
perché si era messo in testa di essere chiamato a grandi destini. I Libri
Sibillini (7) avevano predetto che tre C avrebbero regnato a Roma e gli
àuguri gli avevano fatto credere che le tre C si riferissero a tre Corneli.
Poiché c'erano già stati Cornelio Silla e Cornelio Cinna, Lentulo si era
convinto che il terzo Cornelio non poteva essere che lui. Tanto più che gli
àuguri avevano aggiunto che nel 62 sarebbe scoppiata a Roma una guerra
civile. Lentulo meditava di soppiantare Catilina a capo della congiura (8) e
invece di seguire i suoi ordini fece di testa propria. Innanzitutto costituì una
specie di triumvirato con Autronio e Cassio, un grassone astuto ma imbelle,
(9) per emarginare Cetego. Poi, contravvenendo a un esplicito divieto di
Catilina, si mise a reclutare schiavi, cosa che non poteva essere vista di buon
occhio dalla plebe, base del movimento catilinario, perché il solo, povero,
orgoglio dei plebei era di essere cittadini romani liberi e, come sempre accade
fra i miseri, non volevano essere mischiati e confusi con chi stava peggio di
loro. Per la mentalità della Roma di allora reclutare gli schiavi significava far
perdere al movimento catilinario ogni dimensione e dignità politica
riducendolo a pura rivolta banditesca e dando così fiato alla propaganda degli
avversari. La mossa di Lentulo indebolì quindi i catilinari sia presso la plebe
sia in quegli ambienti dell'aristocrazia che simpatizzavano, sia pure al
coperto, per l'iniziativa. Inoltre la plebe era già turbata dalle voci che il
governo aveva messo in giro, e che continuava ossessivamente ad alimentare,
secondo le quali era intenzione dei congiurati incendiare la città e massacrare
l'intera cittadinanza. Voci inverosimili, assurde, se non altro perché cose del
genere andavano contro gli interessi degli stessi congiurati, ma che Lentulo
non fece nulla per smentire e anzi, in un certo senso,col suo comportamento,
incoraggiò. Lentulo concepì un piano megalomane, impari alle forze di cui
disponeva e che in ogni caso richiedeva una lunga preparazione. Aveva
fissato l'insurrezione per la vigilia dei Saturnali, il 16 dicembre. (10) Il giorno
prima il tribuno della plebe Lucio Bestia, affiliato alla congiura, avrebbe
dovuto convocare il popolo e aizzarlo contro Cicerone accusandolo di aver
espulso dalla città Catilina e di essere quindi il responsabile della guerra
civile. La notte seguente i congiurati avrebbero occupato i punti strategici
della città, dato inizio alla sommossa, ucciso il console e i senatori più
conservatori, sequestrato i figli di Pompeo per premunirsi contro il ritorno del
generale. Ma per fare tutto questo occorrevano molti più uomini di quanti ne
avessero i congiurati anche perché il fallito
tentativo di assassinare Cicerone aveva sfoltito i loro ranghi, almeno a Roma.
Quelli che avevano deciso di buttarsi nella mischia andavano direttamente a
Fiesole attratti dal fascino di Catilina. Inutilmente Lentulo cercava di
reclutare nuovi adepti. Fra tanti preparativi, riunioni, abboccamenti, piani
particolareggiati e inattuabili si stava perdendo del tempo prezioso. La
situazione era indubbiamente difficile ma l'indeciso e «sonnacchioso»
Lentulo, come lo definì Cicerone, (11) faceva del suo meglio per peggiorarla.
Invano Cetego esortava i compagni a far presto, invece di perdersi in
chiacchiere, perché più passava il tempo più la posizione di Catilina,
incalzato dagli eserciti governativi, diventava insostenibile. Cetego riteneva
che non si potesse aspettare il 16 dicembre, cioè ancora un mese, e che
sarebbe bastato un manipolo di uomini decisi per dare l'assalto alla Curia
evincere la partita. (12) A queste incertezze contribuì anche un grave
equivoco che pare si sia creato fra i catilinari di Roma e quelli d'Etruria:
Catilina aspettava l'insurrezione per marciare sulla città, Lentulo e gli altri
aspettavano che Catilina si avvicinasse a Roma per insorgere. E' probabile
che tale misunderstanding dipendesse dal fatto che le comunicazioni fra i due
gruppi si erano ormai fatte difficili. Già da qualche tempo i ribelli che
cercavano di raggiungere il campo di Catilina venivano sistematicamente
catturati. (13) All'inerzia dei congiurati corrispondeva però quella di
Cicerone. Il console, che grazie alle sue spie conosceva i nomi di tutti i
principali congiurati e i loro piani, avrebbe potuto benissimo sgominarli. Ma
ancora una volta esitava davanti all'azione militare. Non se la sentiva
nemmeno di arrestarli: i capi erano tutti, o quasi, patrizi di alto lignaggio,
imparentati con le maggiori famiglie romane, gli indizi, per quanto
abbondantemente disseminati da tutte le parti, non raggiungevano la certezza
della prova provata, cosa del resto ovvia in ogni cospirazione che si svela
compiutamente solo quando passa all'azione diretta e allora è spesso troppo
tardi per intervenire come dirà in un suo discorso al Senato un indispettito
Catone. In ogni modo Cicerone temeva che qualcuno, passato il pericolo, gli
avrebbe fatto pagare la sua audacia di homo novus che si era permesso di
mettere le mani su dei nobili. E non aveva tutti i torti, come vedremo.
Insomma Cicerone, al solito, non voleva grane o voleva comunque ridurle al
minimo e aspettava che fosse Ibrida a togliergli le castagne dal fuoco
sconfiggendo Catilina sul campo di battaglia. Una volta eliminato il capo la
congiura si sarebbe liquefatta come neve al sole. Di questo Cicerone era
sicuro. A cose fatte dirà: «Mi rendevo ben conto che allontanando Catilina
non avrei avuto molto da temere dall'indolenza di Lentulo, dalla obesità di
Cassio e nemmeno dall'insensata temerarietà di Cetego. Tra tutti costoro uno
solo faceva paura, Catilina, ma soltanto finché rimaneva entro le mura
dell'Urbe. Conosceva tutti, si insinuava dappertutto, poteva rivolgersi a
chiunque, tentarlo, sobillarlo, e osava farlo; era portato al malaffare e a tale
attitudine non gli mancavano né il braccio né la parola. Disponeva di persone
adatte, scelte, addestrate per determinate azioni. Affidato un incarico però
non lo riteneva già fatto: non c'era cosa di cui non si occupasse
personalmente, non c'era luogo dove non fosse presente, vigile, instancabile,
pronto a sopportare freddo, fame, sete. Un uomo di tal fatta, sveglio, ardito,
audace, pronto a tutto, cauto nel commettere il delitto, preciso nel
pianificarlo, se non lo avessi escluso dalle insidie tramate in città per
costringerlo al banditismo armato non mi sarebbe stato facile stornare da
Roma un pericolo così grande». (14)
stato redatto il verbale cambia idea, si alza in piedi e chiede a gran voce ai
due Allobrogi di dire quali siano stati i loro rapporti e la ragione per cui si
erano recati da lui. Lentulo infatti non sa, anche se dovrebbe intuirlo, che gli
Allobrogi sono d'accordo fin dall'inizio con Cicerone. Crede siano degli
imputati come lui e spera che gli diano una mano per tirarsi fuori insieme dai
pasticci. Gli Allobrogi confermano tutto, aggiungono anzi dei particolari e
raccontano anche che Lentulo si era vantato della profezia dei Libri Sibillini.
Lentulo sbianca in volto, balbetta, si smarrisce, abbassa la cresta, crolla. E'
uno spettacolo penoso cui l'intero Senato assiste muto e allibito, umiliato
dell'umiliazione di lui. Volturcio dà il calcio dell'asino: chiede che sia
prodotta e aperta la lettera di Lentulo a Catilina. In preda a un'agitazione
irrefrenabile Lentulo riconosce ancora una volta i sigilli. La lettera non ha
firma né intestazione ma la scrittura e il contenuto sono inequivocabili.
Quando viene ascoltato Gabinio non è più il caso di negare, anche se lui di
lettere non ne ha scritte. Gabinio confessò. Cosa le fonti non ce lo dicono. In
ogni caso il tentativo di trattare, all'insaputa del Senato, con una potenza
alleata e i contatti con Catilina, che in quel momento è già hostis, sono
sufficienti per configurare l'accusa di alto tradimento. Dirà Cicerone:
«Benché tavolette, sigilli e infine le confessioni di tutti mi apparissero prove
certe, testimonianze innegabili del delitto, quanto più gravi mi parvero il loro
pallore, lo sguardo, l'espressione dei volti, i silenzi. Gli occhi a terra, si
scambiavano sguardi furtivi, tanto che sembravano denunciarsi da se stessi
più che dagli altri. Erano schiantati». (28) A questo punto si aprirono le
cateratte. Giunio Silano, console designato, raccontò di aver sentito dire che
Cetego si era vantato di voler uccidere tre consoli e quattro pretori. Anche il
consolare Cneo Pisone riferì di episodi simili attribuendoli ad altri congiurati.
(29) Il Senato decretò la degradazione all'istante di Lentulo. Dovette deporre,
lì nella Curia, la toga di porpora e cambiarla con un'altra. I congiurati sono
affidati in custodia cautelare: Lentulo all'edile Publio Lentulo Spintere,
Cetego a Quinto Cornificio, Cepario al senatore Cneo Terenzio, Gabinio a
Crasso, Statilio a Cesare. Lo stesso provvedimento viene preso a carico del
liberto Umbreno, di Furio, di Annio Chilone e di Cassio che però è uccel di
bosco. Il Senato decretò un plauso ai due pretori che avevano catturato gli
Allobrogi. In onore di Cicerone ci fu invece una solenne cerimonia di
ringraziamento e fu proclamato «Padre della Patria». (30) Se l'era meritato. In
quei giorni Cicerone fu frenetico. La sera stessa parlò al popolo, nel Foro
(Terza Catilinaria). Rifece un po' la storia della seduta del Senato, ma si
adoperò soprattutto per convincere la plebe del leit motiv che aveva suonato
in tutti quei giorni: i congiurati volevano incendiare Roma e massacrare tutta
la popolazione. Circostanze che non erano affatto emerse durante l'istruttoria
e che anzi, visto che non ne era stato trovato alcun riscontro, potevano essere
escluse. La plebe però gli credette. Ma non fu tanto l'eloquenza del console a
convincerla quanto la sconfitta dei congiurati. Il vento era cambiato. Adesso
la folla non inneggiava più a Catilina, lontano e braccato, ma a Cicerone. Un
tentativo dei servie dei clientes di Lentulo e Cetego di liberare i loro padroni
fallì anche per l'ostilità della folla. Cicerone convocò il Senato per il giorno
dopo. La seduta del 4 dicembre fu interlocutoria. Venne ascoltato un certo
Lucio Tarquinio
che era stato catturato mentre tentava di raggiungere il campo di Catilina. Si
dichiarò subito disposto a collaborare in cambio dell'impunità. Cicerone lo
invitò a dire ciò che sapeva. Tarquinio ripeté, più o meno, quello che aveva
detto Volturcio. Ma al Senato ovviamente non bastava, erano cose risapute.
Tarquinio aveva il problema, diremmo oggi, del «secondo pentito» e quindi,
per aver salva la pelle, la sparò grossa: inventò che a mandarlo da Catilina era
stato Crasso. Cosa del tutto inverosimile sulla quale Sallustio si sofferma
malignamente e a lungo per esaltare indirettamente l'estraneità di Cesare a
spese del Dives. (31) Il Senato non credette una parola e spedì il malaccorto
Tarquinio in gattabuia. Prese quindi provvedimenti minori e stabilì
l'ammontare dei premi da attribuireagli Allobrogi e a Volturcio per la loro
collaborazione. La seduta decisiva doveva essere quella del 5 dicembre che
Cicerone aveva convocato al Tempio della Concordia. Il console era
tormentato dai dubbi: quale pena infliggere ai congiurati, l'esilio, il carcere, la
morte? Di suo Cicerone sarebbe stato per la pena di morte. Se non altro per
una questione di immagine: aveva bisogno di dare l'impressione di essere un
uomo deciso dato che, come scrive Plutarco, «già allora non passava per
essere coraggiosissimo». (32) Ma si ripresentava il dilemma che si era già
posto con Catilina: esistevano delle leggi le quali vietavano che un cittadino
romano potesse essere messo a morte per reati di tipo politico senza che gli
fosse concesso di fare appello (provocatio) al popolo che su questioni del
genere doveva avere l'ultima parola. E Cicerone non aveva alcuna intenzione
di dargliela perché diffidava delle giurie popolari e del mutevole umore della
folla. Il giorno prima della seduta Cicerone, accompagnato dal fratello
Quinto, si rifugiò in casa dell'amico Nigidio per trovare un po' di tranquillità,
meditare sul da farsi e sfuggire a Terenzia che gli stava addosso perché non
lasciasse scampo ai congiurati. Aveva la scusa buona per stare lontano dalla
consorte: quella sera, nella sua qualità di moglie del console, Terenzia
officiava nella loro abitazione, insieme alle Vestali, i riti segreti in onore della
Bona Dea dai quali erano esclusi gli uomini. Ma anche questa volta Terenzia
riuscì a imporre la propria volontà al marito. Con uno stratagemma. Corse a
casa di Nigidio tutta eccitata gridando che durante la cerimonia religiosa era
avvenuto un grande prodigio: quando il fuoco sembrava ormai spento
dall'altare si era sprigionata una fulgida fiamma e le Vestali avevano
interpretato l'avvenimento come il chiaro segno che Cicerone doveva agire
con la massima decisione se voleva salvare la Patria e assurgere a gloria
imperitura. Cicerone non era religioso, ma era superstizioso. Il resto lo fecero
Quinto e gli amici. (33) La mattina del 5 dicembre Cicerone si presentò in
Senato deciso a chiedere la condanna a morte dei congiurati. Si iniziò con la
relatio del console che fece il riassunto delle puntate precedenti mettendo in
evidenza l'esito degli interrogatori, le confessioni e il giudizio di colpevolezza
che il Senato aveva già espresso. Ora si trattava di decidere la pena. Il primo
a intervenire, secondo la prassi, fu uno dei consoli designati, Silano, il quale,
istruito da Cicerone, chiese per i congiurati «l'estremo supplizio». (34) Seguì
una lunga serie di interventi. Parlarono Cicerone, l'altro console designato,
Murena, i Servili, i fratelli Lucio e Marco Lucullo, durissimi, Curio,
Torquato, Lepido, Gellio, Volcatio, Figulo, Cotta, Lucio Cesare, zio del più
noto Giulio, Pisone, Glabrione, (35) che chiesero tutti la pena di morte. La
musica si interruppe solo quando intervenne Tiberio Nerone: disse che per
pronunciarsi occorreva attendere che Catilina
fosse definitivamente sconfitto così da avere in modo chiaro l'intero quadro
della congiura. Ma il discorso che mutò il trend della seduta fu quello di
Giulio Cesare. Cesare, che aveva allora trentotto anni, non era ancora il
Cesare del mito, non aveva ancora conquistato le Gallie, ma era un grande
oratore e, soprattutto, aveva il carisma naturale del leader. Fece un lungo
discorso, che Sallustio riporta integralmente, (36) centrato proprio sulla
questione che angustiava Cicerone: l'illegittimità della condanna a morte
senza concedere la provocatio al popolo. Cesare lanciò anche un
ammonimento che dovette suonare sinistramente alle orecchie del console:
«Certo, anch'io giudico, o padri coscritti, che ogni forma di tormento è poca
cosa se guardiamo alle loro colpe, ma gli uomini, per la maggior parte,
conservano solo il ricordo della conclusione e quando si tratta di malvagi
dimenticano il delitto ma discutono il castigo per poco che si sia ecceduto in
severità». (37) Propose quindi il sequestro dei beni e il carcere a vita per i
congiurati che dovevano essere custoditi in municipi lontani da Roma e ben
vigilati. Sottolineò anche, per convincere la parte più oltranzista del Senato,
che, a conti fatti, quella era una pena peggiore della morte stessa. A Cesare,
in realtà, della sorte dei congiurati non importava assolutamente nulla. Il suo
intervento aveva altri fini: precostituire la base giuridica e politica per mettere
in seguito alle corde Cicerone di cui intendeva sbarazzarsi e tenersi buona la
plebe del cui appoggio aveva bisogno per contrastare gli optimates. Il
discorso di Cesare fece grande impressione. Silano chiese nuovamente la
parola e sostenne di essere stato frainteso: «l'estremo supplizio» per un
senatore romano era la detenzione. (38) Anche altri senatori ritornarono sui
loro passi. Cicerone non sapendo che pesci pigliare «quando si alzò a parlare
esaminò entrambe le soluzioni sostenendo ora la prima ora quella di Cesare»
(Quarta Catilinaria). (39) Si attendevano ora gli interventi del princeps del
Senato Quinto Lutazio Catulo e di Marco Porcio Catone, i più stimati per la
loro integrità ma anche, proprio per ciò, i più detestati. Catulo era un amico di
Catilina cui doveva anche riconoscenza perché uccidendo Gratidiano sulla
tomba del suo avo, Lutazio Catulo, ne aveva vendicato l'onore. Ma era un
conservatore coerente e onesto abituato, come aveva più volte dimostrato
nella sua ormai lunga vita, (40) a passare sui propri sentimenti in nome degli
interessi superiori dello Stato, o di quelli che riteneva tali. Quindi il suo fu
pollice verso: non si poteva dare una risposta debole e fiacca ad un delitto
così grave che, se non punito adeguatamente, avrebbe potuto trovare imitatori
in futuro. Toccava a Catone il quale, tra l'altro, era stato protagonista poco
prima di un curioso incidente che aveva allentato per un momento la tensione
dell'assemblea. Catone e Cesare sedevano uno vicino all'altro. A un certo
punto fu consegnato a Cesare un bigliettino che gli veniva inviato dall'esterno
e Cesare si mise a leggerlo in silenzio. Catone scattò in piedi gridando al fatto
inaudito: Cesare riceveva istruzioni scritte direttamente da Catilina. Allora
Cesare senza dire una parola passò il biglietto a Catone: era una letterina
sconcia di Servilia, sorella di Catone e notoria amante di Cesare oltre che
moglie di Lucullo. Catone infatti, come spesso capita ai moralisti, aveva la
sfortuna di avere due sorelle, entrambe di nome Servilia, una più puttana
dell'altra. Restituì sdegnosamente il biglietto a Cesare dicendogli: «Tieni,
pazzoide». (41) Poi si alzò a parlare. Il suo fu un discorso violentissimo e,
una volta tanto, per nulla moralista ma molto pratico. Disse che in quella
vicenda non si trattava solo di questioni di diritto ma di difendere le proprietà
e
i privilegi degli ottimati oppure di arretrare davanti all'avanzata della plebe
che bisognava invece spaventare con una sentenza esemplare. Disse che non
si doveva star lì ad arzigogolare troppo sugli aspetti giuridici e a tormentarsi
perché non c'era la prova provata che i congiurati volessero davvero
incendiare Roma e massacrare la maggioranza dei cittadini «perché i delitti
ordinari si puniscono dopo che sono stati commessi ma un delitto di questo
genere o si impedisce che accada o, quando è stato commesso, vano è il
ricorso alla legge». (42) Era vero, aggiunse, che i delitti non erano stati
portati a compimento, ma il tentativo c'era stato e quindi era come se i
congiurati fossero stati colti in flagrante. La pena non poteva essere che la
morte. (43) Quando Catone finì il suo discorso e si sedette, ancora vibrante,
fu sommerso dagli applausi: «Catone è grande! Catone è illustre!» si gridava.
(44) Cesare tentò invano di sollecitare i tribuni della plebe presenti in aula ad
interporre il veto; questi, intimiditi dal clima che si era creato, non si
mossero. (45) Cicerone tirò le fila. Accolse un emendamento di Cesare il
quale aveva sostenuto, in subordine, che se si condannavano i congiurati alla
pena capitale andava allora esclusa la confisca dei beni. Poi propose
all'assemblea la formula del verdetto: pena di morte. Il Senato approvò a
larghissima maggioranza. (46) Questa sentenza costò cara a Cicerone. I
contemporanei non gliela perdonarono. O per meglio dire Cesare e i suoi la
sfruttarono propagandisticamente per iniziare, poco dopo, una violenta
campagna di delegittimazione dell'ex console che, isolato e privato della
scorta, fu più volte umiliato, e nel modo più vergognoso, dal tribuno Publio
Clodio. Cicerone ebbe una vera e propria crisi depressiva e di identità.
Andava in giro vestito da straccione, si era fatto crescere i capelli lunghi e
mendicava inutilmente aiuto da quella plebe che aveva sempre disprezzato.
(47) Finché Clodio nel 58 fece approvare una legge che puniva con l'esilio i
magistrati che avessero condannato a morte cittadini romani senza concedere
l'appello al popolo. La legge, fatta su misura per Cicerone, aveva effetto
retroattivo. E il «Padre della Patria», in lacrime, dovette prendere la via
dell'esilio. Ma anche qualche moderno rimprovera a Cicerone quella
condanna. A torto, a parer mio. E' vero che nella procedura messa in atto dal
console c'erano alcune anomalie. La prima è che il Senato si fosse costituito
in Alta Corte di Giustizia mentre, di norma, non aveva poteri giurisdizionali.
In secondo luogo, come Cesare aveva ammonito in Senato, erano state
disattese le leggi che garantivano al cittadino la provocatio. Si trattava di una
lunga serie che cominciava con le XII Tavole, che era un po' la Costituzione
dei romani anche se flessibile e non rigida come la nostra, e proseguiva con la
lex Valeria de provocatione, votata agli albori della Repubblica, la lex Porcia,
la lex Sempronia, voluta dai Gracchi, la lex Cornelia. Cicerone, al quale lo
scombussolamento aveva fatto perdere anche l'abilità di avvocato, si difese
assai male sostenendo che dato che i congiurati erano stati riconosciuti
colpevoli di alto tradimento (perduellio) non erano più cittadini romani ma
hostes e quindi non potevano godere delle garanzie dei cives. Era un
argomento quanto mai specioso perché il tribunale popolare, per decidere se
la sentenza di morte era giusta, doveva appunto giudicare se c'era l'alto
tradimento e quindi gli estremi per dichiarare il cittadino hostis. Però
Cicerone aveva dalla sua il Senatus consultum ultimum che gli conferiva
pieni poteri e che già in passato aveva consentito ai consoli, in diverse
occasioni, di considerare momentaneamente sospese le garanzie fondamentali
del cittadino romano. (48) C'erano
insomma dei precedenti. La differenza stava nel fatto che negli altri casi i
consoli avevano agito manu militari passando direttamente per le armi i
«traditori» e assumendosene l'intera responsabilità, mentre Cicerone aveva
voluto scaricarla sul Senato inventandosi una procedura giudiziaria che non
esisteva. Fu giocato, come gli accadde altre volte, dalla sua mancanza di
decisione, dalla sua titubanza, dal suo orrore per le azioni armate e insomma
dal demone della sua vita: la paura. Chiusa la seduta Cesare, uscendo dal
Senato, fu aggredito da alcuni cavalieri della scorta di Cicerone i quali,
snudata la spada, cercarono di colpirlo. E forse il futuro conquistatore delle
Gallie non sarebbe mai diventato tale se Curio non si fosse coraggiosamente
interposto e lo stesso Cicerone non avesse richiamato all'ordine i suoi
riportando la calma. Cesare se la cavò con un grande spavento, ma per un
mese non si fece più vedere in Senato. (49) Si era fatta sera. Cicerone aveva
una gran fretta di concludere. Ordinò ai triumviri capitales di approntare nel
carcere Mamertino le misure necessarie per l'esecuzione. Dispose quindi che i
pretori andassero a prendere i congiurati nelle case dove erano custoditi e li
conducessero al carcere, badando bene di non farsi vedere dalla plebe. Lui
stesso si mise alla testa del mesto corteo. Il Mamertino, che era situato sul
dorso del Campidoglio, aveva un reparto, il Tulliano, adibito alle esecuzioni.
Si trattava di un sotterraneo posto quattro, cinque metri sotto il livello
stradale cui si accedeva attraverso una botola. Era costruito con grossi blocchi
di pietra che ne costituivano le pareti e anche la volta ad arcate era in pietra.
Un posto che non lasciava vie di scampo. Scrive Sallustio: «L'abbandono,
l'oscurità, il fetore ne rendevano l'aspetto spaventoso». (50) La botola fu
aperta. A uno a uno i congiurati vennero calati nel sotterraneo: prima Lentulo,
poi Cetego, Statilio, Gabinio e Cepario. Sotto li attendeva il boia. Furono
strangolati alla luce delle torce. Intorno al carcere si era radunata una piccola
folla di parenti, di amici, di servi, di clientes, di semplici curiosi. E a quella
folla ansiosa che chiedeva notizie Cicerone rispose ambiguamente e
cinicamente: «Vissero». (51)
Note
08 a'C': Nasce dal senatore Lucio Sergio Silo e da Belliena. 107 a'C': Primo
consolato di Caio Mario. 106 a'C': Si conclude vittoriosamente la guerra
contro Giugurta che era iniziata nel 112. Nascono Pompeo e Cicerone. 102
a'C': Mario sconfigge i Teutoni ad Aquae Sextiae (Aix-les-Bains). 101 a'C':
Mario sconfigge i Cimbri a Vercelli. 100 a'C': Nasce Giulio Cesare. 91 a'C':
Inizio della guerra contro gli Italici che chiedono la cittadinanza romana. 89
a'C': Catilina si arruola nelle milizie del console Pompeo Strabone che
combatte gli Italici. Ha come compagno d'armi il figlio di Strabone, il futuro
Pompeo Magno. Alla fine dell'anno la cittadinanza romana viene concessa a
tutti gli Italici a sud del Rubicone. 88 a'C': Catilina passa agli ordini del
nuovo console, Cornelio Silla, che sta per partire per l'Asia a combattere
Mitridate re del Ponto. Il tribuno Sulpicio Rufo fa approvare una legge che
toglie il comando a Silla e lo affida a Mario. Silla marcia su Roma e la prende
con la forza. Rufo viene ucciso, Mario fugge. Silla parte per l'Oriente.
Catilina è uno dei suoi ufficiali, insieme a Lucullo, Dolabella, Ibrida. 87 a'C':
Vendetta dei mariani. Centinaia di seguaci di Silla vengono trucidati. 86 a'C':
Morte di Mario. Il suo vice, Cornelio Cinna, governa Roma da padrone
assoluto. 84 a'C': Dopo cinque anni di guerra Silla conclude la pace con
Mitridate e rientra in Italia per regolare i conti con i nemici interni. 83 a'C':
L'esercito sillano sbarca a Brindisi ed è raggiunto da Marco Crasso, Quinto
Metello Pio e Cneo Pompeo che ha arruolato una milizia personale. 82 a'C':
Marcia vittoriosa dell'esercito di Silla. Battaglia decisiva a Porta Collina.
Silla è nominato dittatore. Liste di proscrizione. Catilina, al comando di un
gruppo di guerrieri celti, guida una delle squadre punitive come altri ufficiali
di Silla fra cui Crasso. Vengono uccisi più di cento senatori e 2600 cavalieri.
Nuova Costituzione promulgata da Silla. 80 a'C': Inizia la guerra contro
Sertorio in Spagna. 79 a'C': Silla abdica volontariamente e si ritira a vita
privata. 78 a'C': Consolato di Quinto Lutazio Catulo, «colomba» dello
schieramento sillano, e Marco Emilio Lepido. Catilina è eletto questore ed
entra a far parte del Senato. Morte di Silla. 77 a'C': Pompeo viene inviato
contro Sertorio. In Italia insurrezione di Lepido che dà voce al diffuso
malcontento sociale. Lepido, sconfitto, si ammala e muore. 74 a'C': Catilina è
legato in Macedonia. 73 a'C': Inizio della seconda guerra mitridatica. Il
comando è affidato a Lucullo. Rivolta dei gladiatori guidata da Spartaco.
Catilina viene accusato di aver violato la vestale Fabia, cognata di Cicerone.
Processato è assolto. 72 a'C': Dopo nove anni di guerriglia contro Roma
Sertorio, sconfitto da Pompeo e Metello Pio, è ucciso dal proprio
luogotenente Perperna. 71 a'C': La rivolta di Spartaco è annientata da Pompeo
e Crasso. 70 a'C': Consolato di Crasso e Pompeo. Catilina è eletto edile. 64
senatori (su 300) vengono espulsi dal Senato per «indegnità»: Catilina non è
fra questi. 68 a'C': Catilina è eletto pretore. 67 a'C': E' propretore
(governatore) in Africa. Grazie alla lex
Gabinia, appoggiata anche da Cicerone, Pompeo toglie il comando in Asia a
Lucullo proprio mentre sta per assestare il colpo decisivo a Mitridate. 66 a'C':
Catilina rientrato dall'Africa propone la candidatura al consolato con un
programma di riforme sociali. La candidatura è respinta perché presentata in
ritardo. Viene anche accusato di presunte concussioni commesse in Africa. Il
processo blocca la sua candidatura anche per il 65. Catilina si avvicina a
Crasso e Cesare, i leader del partito democratico, i quali lo cooptano in una
congiura che ha l'obiettivo di portare Crasso alla dittatura con Cesare suo
vice. La congiura fallisce. 65 a'C': Processato per le presunte malversazioni in
Africa, Catilina è assolto. 64 a'C': Ripresenta la propria candidatura al
consolato. In un infuocato discorso preelettorale delinea un programma di
radicali riforme economiche e sociali che allarma l'oligarchia e i suoi stessi
alleati, Crasso e Cesare. Gli aristocratici fanno convergere i loro voti su
Marco Tullio Cicerone che, in assenza di Pompeo, è il portavoce dei
cavalieri. L'oratore per battere Catilina stringe un patto segreto con l'altro
candidato dei democratici, Antonio Ibrida. Cicerone vince a larga
maggioranza, Ibrida è secondo con un lievissimo scarto su Catilina, che è
terzo, primo dei non eletti. Cesare fa attivare un processo (Quaestio de
sicariis) contro i protagonisti delle proscrizioni sillane di diciotto anni prima.
Catilina è assolto, vengono condannati alcuni personaggi minori. Il tribuno
della plebe Servio Rullo si fa latore di una proposta di legge agraria (lex
Servilia) che prevede una vasta redistribuzione di terre ai nullatenenti e ai
meno abbienti. L'ispiratore della proposta è Catilina. Gli aristocratici
corrompono un altro tribuno che si impegna a porre il veto. 63 a'C': Cicerone
inaugura il suo consolato con quattro orazioni contro la legge agraria (De lege
agraria). Rullo ritira la proposta. Crasso e Cesare abbandonano
definitivamente Catilina considerando il suo programma troppo radicale.
Catilina presenta per la terza volta la candidatura al consolato. Nel suo
programma ci sono la legge agraria, la cancellazione parziale dei debiti, la
fine dei privilegi aristocratici, una riforma istituzionale in senso democratico.
Tutta la plebe è con lui e dalle campagne italiche convergono nell'Urbe per
appoggiarlo agricoltori, braccianti, piccoli proprietari rovinati dal latifondo.
Cicerone chiede e ottiene dal Senato il rinvio delle elezioni «per motivi
diordine pubblico». I comizi si svolgono una quindicina di giorni dopo in un
clima tesissimo. Catilina è ancora battuto, sono eletti Lucio Murena e Giunio
Silano. Catone denuncia Murena per brogli. Risulta che anche Silano è
ricorso alla corruzione. Catilina decide di passare all'azione violenta e
comincia ad organizzare la congiura procurandosi il denaro necessario, le
armi e inviando emissari invarie zone d'Italia. 23 settembre. Fulvia, l'amante
di uno dei congiurati, svela il complotto a Cicerone che riceve informazioni
anche da Cesare. 24 settembre. Il console convoca il Senato e dà notizia di un
generico pericolo. Il Senato non adotta alcuna misura. In questo giorno nasce
Ottaviano, il futuro Augusto. 20 ottobre. Crasso si presenta a casa di Cicerone
con un pacco di lettere anonime in cui è annunciata un'imminente strage di
aristocratici. 22 ottobre. Il Senato delibera il Senatus consultum ultimum che
concede ai consoli i pieni poteri. 27 ottobre. Caio Manlio, luogotenente di
Catilina, che ha raccolto
un piccolo esercito in Etruria, proclama l'insurrezione. Il Senato allerta i
generali Marcio Re e Metello Cretico e ordina nuovi arruolamenti. Lucio
Paolo Lepido denuncia Catilina per il reato di violenza pubblica. Catilina si
offre prigioniero nella casa di Cicerone. Il console, terrorizzato, si barrica
nella propria abitazione.1 novembre. I catilinari assaltano la fortezza di
Preneste, ma l'attacco fallisce perché il governo è stato informato. Notte fra il
6 e il 7 novembre. I congiurati si riuniscono nella casa del senatore Marco
Porcio Leca e decidono di assassinare il console l'indomani mattina quando
riceve i clientes. 7 novembre. Cicerone, avvertito, sventa l'aggressione. 8
novembre. In Senato Cicerone accusa Catilina, che è presente, di attacco alla
sicurezza dello Stato (Prima Catilinaria). A metà discorso Catilina abbandona
imprecando l'assemblea. Lasciato il comando a uno dei congiurati, Cornelio
Lentulo, esce da Roma la notte stessa per raggiungere il campo di Manlio a
Fiesole. Prima di partire scrive una lettera-testamento all'amico Lutazio
Catulo, princeps del Senato. 9 novembre. Nel Foro Cicerone denuncia al
popolo la congiura e accusa i catilinari di voler incendiare Roma e massacrare
l'interapopolazione (Seconda Catilinaria). Metà novembre. Catilina, dopo
aver finto di andare in esilio volontario a Marsiglia, si ricongiunge con
Manlio a Fiesole. Migliaia di uomini accorrono al campo di Catilina, fra cui
moltissimi schiavi. Catilina accoglie gli schiavi ma rifiuta di impiegarli in
battaglia. Nonostante le laute ricompense offerte dal Senato e la promessa di
impunità, nessuno diserta il campo dei ribelli. Catilina tiene in scacco gli
eserciti romani che gli danno la caccia. Murena, processato per brogli
elettorali, è assolto. Lo stesso Cicerone, che difende Murena, ammette che si
tratta di una sentenza politica. A Roma Lentulo avvicina due ambasciatori
degli Allobrogi, una popolazione della Gallia, perché convincano il loro
governo a dar manforte ai ribelli. I due riferiscono tutto a Cicerone che
consiglialoro di far sottoscrivere ai congiurati gli impegni assunti. Lentulo,
Cetego, Statilio scrivono delle lettere al governo degli Allobrogi. 2 dicembre.
Gli Allobrogi vengono arrestati al Ponte Milvio, le lettere sequestrate. 3
dicembre. Lentulo, Cetego, Statilio e altri congiurati, condotti in Senato e
messi a confronto con gli Allobrogi, confessano (Terza Catilinaria). Cicerone,
per la prima volta nella storia di Roma, è proclamato «Padre della Patria». 5
dicembre. Dopo interventi di Cicerone (Quarta Catilinaria), Silano, Murena,
Lucullo, Cesare, Catulo, Catone e altri il Senato decreta la condanna a morte
dei congiurati che viene eseguita la sera stessa nel carcere Mamertino. Alla
notizia dell'esecuzione e del fallimento dell'insurrezione nel sud Italia molti
lasciano il campo di Catilina. Lui stesso congeda gli uomini male armati e gli
schiavi. Rimasti in tremila i ribelli cercano di raggiungere la Gallia Cisalpina.
A marce forzate per l'Appennino, nel freddo dell'inverno, arrivano sopra
Pistoia. Ma al di là dei monti li attende l'esercito di Quinto Metello Celere
forte di 18 mila uomini. Alle spalle incalza l'esercito, ancora più consistente,
del console Antonio Ibrida. 62 a'C': 5 gennaio. Catilina muore in battaglia nei
pressi di Pistoia insieme a tutti i suoi.
Vocabolarietto
(Breve corso di Diritto pubblico romano)
Ager publicus. Terra di proprietà dello Stato romano. Poteva essere concessa
in sfruttamento ai privati a titolo di possesso (possessio).
Aqua et igni interdictio. Condanna all'esilio che aveva, come dice la formula,
un carattere sacrale perché escludeva il soggetto da ogni comunione di vita
con gli altri associati. Comportava la perdita della cittadinanza e la confisca
dei beni. Il cittadino romano processato per un crimine che prevedeva la pena
di morte poteva, prima della sentenza, scegliere volontariamente l'esilio.
Aristocrazia. Comprendeva l'intera nobiltà, cioè sia gli antichi patrizi sia i
plebei ricchi che, intorno alla metà del Iv secolo, erano stati nobilitati.
Assidui. Coloro che posseggono un pezzo di terra e in quanto tali sono tenuti
al servizio militare. Una legge di Caio Gracco, nel 123, estese la leva a tutti i
cittadini senza distinzione di censo.
Colonie. Piccoli aggregati romani (dalle 300 alle 2600 persone) in territorio
straniero con la funzione di presidio militare.
Crimen vis. Costituzione di banda armata. E' un reato di grado inferiore alla
perduellio (alto tradimento).
Curia Ostilia. Luogo in cui si tenevano solitamente le sedute del Senato che
però poteva essere convocato anche in qualsiasi altro tempio consacrato.
Delatore. Il diritto penale romano non aveva una figura simile al nostro
Pubblico ministero, l'accusa poteva essere avviata e sostenuta da qualsiasi
cittadino che si chiamava, per ciò, delatore.
Familia (communi iure). Famiglia allargata formata dalle persone libere che
sarebbero sotto la potestà del medesimo pater se questi fosse ancora vivo. E'
un istituto teso a impedire la frantumazione della familia alla morte del pater.
Familia (proprio iure). Composta dalle persone libere soggette alla potestà del
medesimo pater (essenzialmente la moglie, i figli e gli altri discendenti di lui
in linea maschile).
Hostis. Nemico della patria. E' lo Stato o il cittadino straniero con cui non ci
sono relazioni di amicitia. Anche un cittadino romano, con determinate
procedure, poteva essere dichiarato hostis e perdeva la cittadinanza con tutti i
diritti connessi.
Intercessio. Diritto di veto dei tribuni della plebe avverso gli atti di qualunque
magistrato. Anche i due consoli hanno un reciproco diritto di veto.
Italici. Sono gli abitanti dell'Italia che non fanno parte dello Stato romano.
Nell' 88 a'C' venne concessa la cittadinanza romana a tutti gli abitanti della
penisola fino, a nord, all'Arno e all'Eusino. Dopo di allora per Italici si
intendono gli abitanti della penisola che non risiedono a Roma e dintorni.
Liberti. Schiavi liberati dai loro padroni. Hanno personalità giuridica ma non
sono cittadini romani. Hanno capacità patrimoniale.
Municipi. Centri locali che fanno parte del territorio romano e sono abitati da
cittadini romani ma conservano, per tradizione e ricordo
di quando erano città libere, una propria autonomia amministrativa.
Plebei. Possono essere definiti solo in negativo: sono coloro che gentes non
habent, non possono cioè vantare una discendenza da un capostipite
gentilizio. Quando compaiono i cavalieri, i plebei diventano coloro che non
appartengono né all'aristocrazia né all'ordine equestre e vengono per ciò
chiamati humiliores.
Princeps del Senato. Era il senatore più anziano che avesse ricoperto la carica
di censore.
Proletari. Coloro che non possiedono terre né altri beni e la cui unica
ricchezza è costituita dalla prole. Fino alle leggi gracchiane non avevano
l'obbligo del servizio militare.
Schiavi. Non hanno personalità giuridica. Sono, per il diritto, delle cose.
Senato. Pur avendo dal punto di vista formale funzioni quasi esclusivamente
consultive e di controllo ha la direzione politica della società ed è il vero
governo di Roma. I consoli, che hanno il potere esecutivo, lo esercitano, di
fatto se non di diritto, su direttiva del Senato. I senatori sono 300 (per qualche
breve periodo 600) e la carica è vitalizia. In Senato si entra dopo aver
esercitato una magistratura e le magistrature, anche se teoricamente aperte a
tutti, sono appannaggio degli aristocratici e dei ricchi poiché comportano una
dispendiosa campagna elettorale.
Tribù. Ha due significati. Uno etnico e indica le tre leggendarie tribù dei
Tities, dei Ramnes e dei Luceres in cui in origine sarebbe stato suddiviso il
popolo romano. Uno giuridico, più importante, e indica la suddivisione, su
base territoriale, della società romana in 35 tribù di cui quattro urbane
(Suburana, Esquilina, Palatina, Collina) e 31 rustiche nelle quali ultime
venivano soprattutto inglobati i nuovi cittadini romani che diventavano tali a
seguito delle conquiste.
Tribuni aerarii. Scelti fra le tribù di censo elevato, in origine hanno il compito
di pagare lo stipendio ai soldati della propria tribù. In seguito vengono
chiamati a far parte dei tribunali affiancando, nel ruolo di giudici, senatori e
cavalieri.
Vestali. Sacerdotesse addette al culto di Vesta, dea del focolare sia domestico
sia dello Stato. Sono sei. Scelte dal Pontefice Massimo fra le bambine nobili
dai sei ai dieci anni avevano come compito principale quello di mantenere
acceso il fuoco sacro. Servivano il culto per trent'anni durante i quali avevano
l'obbligo della castità. Solo dopo potevano sposarsi.
Fonti antiche
Appiano, Mitridate.
Appiano, Storia delle guerre civili.
Fine