Cicerone, adattando il suo stile oratorio sia al tipo di processo sia al singolo momento della trattazione, al gusto e alla
sensibilità dei giudici, alla personalità degli avversari, una VARIETÀ DI FORME E TONI, tale da esaltare la grandezza e
la sensibilità umana.
ATTICISMO, ASIANESIMO E STILE RODIESE
Nella retorica antica distinguiamo due scuole: l’Atticismo e l’Asianesimo.
L’ATTICISMO si diffuse in Grecia nel IV sec. a.C. e si caratterizzò per lo STILE SEMPLICE nella struttura sintattica
uniforme, questo genere di eloquenza divenne un CANONE DI IMITAZIONE, ma con il declino della polis divenne un
modello di un’imitazione ormai priva di slancio vitale. Sul piano linguistico e grammaticale, l’Atticismo propugnò
l’ANALOGIA, secondo la quale è il principio della regolarità che agisce sui sistemi grammaticali, conseguendone
un’immobilità linguistica e la CONDANNA DI OGNI TIPO DI INNOVAZIONE.
L’ASIANESIMO si affermò nel III a.C. e si fondò su uno STILE COMPLESSO, ricco di figure retoriche e di parole.
Propugnò l’ANOMALIA, secondo la quale è il principio dell’irregolarità che agisce sui sistemi grammaticali,
conseguendone una mobilità linguistica e l’ESALTAZIONE DI OGNI TIPO DI INNOVAZIONE.
Quindi Atticismo e Asianesimo sono uno l’opposto dell’altro, il primo ama l’ossequio alle regole, il secondo preferisce
l’uso vivo e cangiante. Lo STILE RODIESE è una specie di via di mezzo, ma alcuni ne negano l’esistenza.
IL DE ORATORE
Negli anni successivi al suo ritorno dall’esilio, Cicerone compose il DE ORATORE. Questo è un DIALOGO diviso in tre
libri in cui viene delineata la figura del PERFETTO ORATORE, il quale deve possedere, oltre alle innate doti naturali,
anche una profonda preparazione culturale, una salda formazione filosofica e un’indiscussa educazione morale. È
ripresa la forma dialogica di Aristotele, in quanto ogni interlocutore espone il suo pensiero in lunghi interventi
interrotti da brevi battute, che servono per scandire il passaggio all’altro interlocutore.
Il dialogo si immagina avvenuto nella villa di L. Licinio Crasso nel 91 a.C.. Ad esso partecipano CRASSO e Marco
Antonio, ma anche gli oratori Aurelio Cotta e Sulpicio Rufo, il giurista Muzio Scevola l’Augure, Q. Lutazio Catulo e il
poeta tragico Giulio Cesare Strabone.
Crasso, nel primo libro, stabilisce che il prefetto oratore deve possedere una profonda preparazione politica e
filosofica. Antonio, nel secondo libro, sostiene che l’oratore deve trarre frutto dai suoi predecessori. Nell’ultimo libro,
Crasso sviluppa la trattazione dell’elocutio e sottolinea la capacità dell’oratore di saper adattare il tono, lo stile il
linguaggio alle diverse circostanze in cui è chiamato a parlare.
Infine viene trattato il tema del sapere. La discussione, che vede Licinio Crasso il portavoce delle tesi di Cicerone, si
svolge in maniera ampia e vivace. Lo stile è accuratissimo, e il periodare possiede quella concinnitas (simmetria) che
è caratteristica dell’equilibrio sintattico ciceroniano.
IL BRUTUS
Nel 46a.C. Cicerone scrisse il Brutus in cui rivolgendosi all'amico Giunio Bruto, delinea una storia dell'ELOQUENZA,
della CRITICA LETTERARIA, dalle origini greche e romane fino ai suoi tempi. Questo è ambientato nella sua villa di
Tuscolo, presenta la forma DIALOGICA, è ambientato nell'epoca contemporanea. I personaggi che dialogano sono
Attico, Bruto e Cicerone. L'opera si apre con un elogio a Ortensio Ortalo, morto da poco e dopo viene dato spazio
all'eloquenza greca, poi alla trattazione dell'eloquenza romana. L'idea forte del dialogo è che l'eloquenza ROMANA
deve essere giudicata la PROSECUZIONE e il PERFEZIONAMENTO di quella GRECA. L'autore delinea un profilo agile e
misurato dei singoli oratori e fornisce notizie preziose per noi a proposito di personaggi della cultura romana.
L’ORATOR
Nel 46 a. C. si colloca l’Orator, terza grande opera retorica di Cicerone che sembra costruire una trilogia ( De oratore e
Brutus).
L’opera, dedicata a Giunio Bruto, non presenta un dialogo e in essa vengono definiti i compiti del perfetto oratore che
vengono individuati nel:
Probare (convincere)
Delectare (dilettare)
Flectere (commuovere).
Nell’opera compare l’idea che il bravo oratore non deve restare legato ad uno stile, ma deve saper padroneggiarli
tutti in maniera tale da utilizzarli a seconda delle diverse circostanze.
Cicerone riserva alla scelta delle cosiddette clausole esametriche, e mostra di privilegiare sulle altre la clausola esse
videatur (cretico-trocaica), rispetto a quella esse videtur che corrisponde alla conclusione dell’esametro dattilico.
Cicerone nell’ultima parte dell’opera sottopone le sue tesi all’amico Bruto e si dichiara pronto a mutare posizioni e
convincimenti.
LE OPERE POLITICHE
Le opere in cui Cicerone esprime maggiormente il suo pensiero politico sono: il DE REPUBLICA e il DE LEGIBUS. La
scelta del genere è quella del DIALOGO.
Nelle opere di Cicerone accade che la filosofia e la politica si uniscono, facendo così legare fra loro la TEORIA e la
PRASSI.
IL DE REPUBLICA
Il De Republica, iniziato nel 54 a.C. e terminato nel 51 a.C., è il frutto del periodo in cui Cicerone si era dedicato
all’otium letterario.
L’opera è un DIALOGO in sei libri, che si immagina tenuto nel 129 a.C. fra Scipione Emiliano, G. Lelio, Muzio Scevola
l’Augure, Elio Tuberone, G. Fannio, Rutilio Rufo, Spurio Mummio; quindi i migliori che aderivano al Circolo degli
Scipioni, e per i quali l’Arpinate mostrava simpatia.
L’argomento della trattazione è lo “STATO PERFETTO”, fondato sulla migliore forma di governo, fra quelle
sperimentate nel corso della storia. Cicerone esalta la forma di governo della “COSTITUZIONE MISTA”, nella quale il
Senato è incarnazione dell’aristocrazia, i comizi popolari incarnano il potere democratico e i consoli sono i
continuatori del potere monarchico; quindi questa forma di governo è l’unione fra tre poteri aristocratico,
democratico e monarchico, poteri che risultano ben bilanciati.
Il De Republica è anche importante perché in esso Cicerone delinea la figura del PRINCEPS o ‘moderator rei publicae’,
che deve possedere prestigio e carisma personali. Il princeps ideale deve possedere un’educazione di prim’ordine,
sostanziata da un acceso desiderio di gloria. Le componenti della sua VIRTUS devono essere la fortezza, la capacità di
essere sempre ponderato, una grande fierezza, un orientamento costante verso il raggiungimento di obiettivi giusti
ed onesti ed, infine, una eccellente piacevolezza espressiva.
Il modello ideale è sicuramente Scipione Emiliano che rispecchia in pieno l’identikit del princeps.
Il De Republica non ci è pervenuto per intero.
La parte conclusiva dell’opera è occupata dal SOMNIUM SCIPIONIS. In esso Scipione Africano Maggiore compare in
sogno a Scipione Emiliano e gli fa notare la grandezza del cielo in rapporto alla piccolezza della terra. Inoltre gli svela
un luogo nel cielo, una specie di paradiso, dove troveranno accoglienza tutti gli uomini virtuosi, i grandi reggitori dello
Stato, gli unici che otterranno l’immortalità.
EPICUREISMO
Nel trattare la questione etica Cicerone mette a confronto lo stoicismo con l’epicureismo, anche se prende molte
distanze da quest’ultimo, poiché credevano che l’intellettuale non dovesse partecipare alla vita politica (vivi
nascosto). L’epicureismo insegnava a limitare I bisogni, che la vita può essere felice a patto di abbandonare la
ricchezza. Secondo Cicerone questo modello di vita rinunciatario porti ad una “egoistica” serenità E che possa
distogliere i “boni” dall’impegno in difesa delle istituzioni. Insomma, la teoria di Epicuro contiene elementi
potenzialmente molto pericolosi per il mos maiorum.
STOICISMO
Grazie al favore degli aristocratici e dei moderati, lo Stoicismo divenne DOTTRINA ROMANA. La levitas (mancanza di
affidabilità) greca era contrapposta alla gravitas (agire in modo coerente) romana. Nella dottrina stoica erano presenti
elementi gravi, sentiti come qualità nazionali. Inoltre, il concetto di RAZIONALITÀ IMMANENTE nel mondo e di un
FATO PROVVIDENZIALE s’attagliavano alla società romana. La dottrina stoica riconosce nel mondo un disegno
provvidenziale che rappresenta il suo principio razionale, garante dell’ordine naturale e dell’armonia delle cose.
Viene assegnata all’UOMO UNA POSIZIONE DI PRIVILEGIO: deve contemplare ed imitare il cosmo, per conseguire il
BENE e far nascere le virtù, che sconfigge le passioni, malattie dell’anima, da eliminare perché fonti di irrazionalità,
fino al raggiungimento dell’insensibilità (apatia) e dell’assoluta autonomia.
Questa visione etica esclude qualunque spazio per la libertà dell’individuo ed investe tutti i campi del vivere umano.
Le tesi degli stoici sono state sottoposte ad una serie di revisioni nel tempo, per esempio Panezio proponeva una
versione più ‘’ammorbidita’’ e a questo proposito Cicerone nel ‘De finibus bonorum et malorum’ assume le difese
dello stoicismo tradizionale.
Cicerone voleva togliere da questo modello gli aspetti socialmente più allarmanti quali l’autarchia e il diritto di
giudicare tutto e tutti.
ACCADEMIA
Nel 155 a.C. dalla Grecia giunsero a Roma una delegazione di filosofi composta da CARNEADE, DIOGENE e CRITOLAO,
ma furono subito fatti rimpatriare perché i loro discorsi, soprattutto quelli di Carneade, ora pro ora contro la giustizia,
dimostravano la relatività di un valore sul quale si fondava la civiltà romana, infatti dicevano che un concetto è valido
se ottiene il CONSENSO del MAGGIOR NUMERO DI PERSONE.
Questa intuizione, invece, trovò accoglienza in CICERONE, che nella sua attività di oratore sempre cercava il consenso
della gente: proponeva varie opinioni su una stessa questione e le confrontava, per rendere chiare le singole posizioni
e vedere se alcune fossero più plausibili di altre.
L’EPISTOLARIO
Cicerone, ci ha anche lasciato delle opere, non destinate alla pubblicazione, in cui egli metteva a nudo se stesso,
svelandosi in tutte le pieghe del suo animo, debolezze comprese.
Il corpus è compreso da circa un migliaio di EPISTOLE, suddivise in quattro raccolte:
Epistulae ad Atticum;
Epistulae ad familiares;
Epistulae ad Quintum fratem;
Epistulae ad Brutum.
Le lettere furono pubblicate da Tirone, segretario ed amico di Cicerone e da T. Pomponio Attico, che era anche libraio
ed editore.
Le EPISTULAE AD ATTICUM, sono formate da 16 libri, e sono indirizzate all’amico Attico. In questa silloge si trovano
anche le lettere dedicate a Cicerone da Cesare, da Pompeo e da Antonio.
Le EPISTULAE AD FAMILIARES, formate anch’esse da 16 libri, sono indirizzate a familiari ed amici e sono catalogate
secondo il nome del destinatario.
Le EPISTULAE AD QUINTUM FRATEM, sono formate da 3 libri e sono indirizzate al fratello Quinto.
Le EPISTULAE AD BRUTUM, sono formate da 2 libri e sono indirizzate a Bruto, amico e discepolo di Cicerone.
L’ESILIO
L’accordo fra Cesare, Pompeo e Crasso determinò la caduta in disgrazia di Cicerone: i triumvirati si sbarazzarono di
Cicerone attraverso Clodio, che propose un provvedimento legislativo, secondo il quale chiunque avesse condannato
a morte un cittadino romano senza l’appello al popolo, doveva essere ESILIATO. Era proprio questa la situazione in cui
si trovava Cicerone, che fu esiliato nel marzo del 58 a.C..
Egli fu esiliato con il divieto di risiedere in qualsiasi località che non superasse i 400 miglia da Roma. Inoltre fu
stabilita la confisca dei beni dell’oratore e la distruzione della sua casa sul Palatino.
Cicerone decise di partire per l’Asia Minore, però poi preferì stabilirsi a TESSALONICA.
Egli intraprese in questa città un periodo di sconforto, convinto di aver causato la sua rovina e quella dei suoi cari, e
amareggiato per non aver contrastato il provvedimento preso da Clodio.
In seguito egli si trasferì a DURAZZO, nell’ipotesi di essere richiamato in patria. Infatti i due nuovi tribuni a Roma si
impegnarono a promulgare una legge per il richiamo di Cicerone. Il Senato era quasi a favore del suo ritorno, ma un
tribuno, amico di Clodio, provocò dei contrasti fino a far rimandare la decisione.
Quando alle nuove elezioni i clodiani furono sconfitti, la legge in favore di Cicerone fu approvata, e inoltre gli furono
restituiti i suoi beni e la casa.
Una volta tornato a Roma cicerone pronunciò due discorsi: uno per ringraziare il Senato (ORATIO POST REDITUM
PRIMA, IN SENATU), l’altro per esprimere riconoscenza al popolo romano (ORATIO POST REDITUM AD QUIRITES).
LO STILE
Lo stile di Cicerone è stato definito, da Quintiliano, un modello di riferimento da imitare. Egli aprì la strada ad un
fenomeno, il CICERONIANISMO, che consiste nel considerare l’autore delle catilinarie un modello da imitare.
Cicerone è stato sempre considerato il migliore degli scrittori dell’antica Roma, per cui quanto è attestato nelle sue
opere diventa ‘regola’, mentre tutto ciò che non si riscontra diventa ‘eccezione’.
Ciò, però, determina una DISTORSIONE STORICA, perché viene attribuito il primato stilistico ad un solo autore,
ignorando l’evoluzione del latino e la presenza di altri scrittori.
Inoltre, nelle opere retoriche Cicerone utilizza la CONCINNITAS (simmetria), cioè un periodare perfettamente
equilibrato, mentre nei Discorsi è presente la BREVITAS (asimmetria) e la VARIATIO.
Quindi, lo stile di Cicerone non è riconducibile ad un unico modello, in quanto varia a seconda della destinazione
delle sue opere e dei generi letterari utilizzati.