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2022-2023
Cicerone nella Pro lege Manilia [28] inserisce la prima attestazione del termine ‘guerra civile’. Civile viene da civis, «civile» e
mette in discussione l’aspetto civile. È un conflitto interno, opposto al conflitto con la realtà esterna.
È un concetto più giuridico, mette cioè in discussione la civitas. Il compito a Cicerone gli viene ordito da Manilio, che vuole
concedere a Pompeo il comando straordinario della spedizione contro Mitridate. Cicerone è entusiasta: di solito spettava a un
magistrato superiore svolgere tale compito, non a un privato come lui. È un antecedente che si ritrova poi nella politica di
Augusto: si danno molti poteri a un privatus, si crea un netto schieramento a favore. Quindi l’orazione è a sostegno di questa
attribuzione di poteri. Il conflitto tra sillani e mariani è definito il primo esempio di guerra civile: si fa riferimento a quando a Silla
è stato tolto il potere, con il salto del Rubicone e il colpo di stato.
In occasione della prima marcia su Roma di Silla Cicerone conia per la prima volta il concetto di «bellum civilis».
Appiano, Guerre civili, I, 2:
Questo è l’unico caso che sia dato trovare fra le dissensioni del tempo antico che sia divenuto un conflitto armato; e lo divenne per
opera di un esiliato. E difatti nessuna arma fu portata mai nell’assemblea né si ebbero uccisioni intensine prima che Tiberio
Gracco, mentre era tribuno della plebe e nel mezzo dell’attività legislativa, perisse per primo in una sedizione e che molti […]
È una sintesi di una serie di fenomeni che noi vediamo susseguirsi nell’ultimo secolo della repubblica. E’ una sintesi di una serie
di dinamiche, rispetto alle quali noi ci troviamo: assassini, sedizioni, esecuzioni capitali, leggi di proscrizioni, disprezzo delle
leggi, procedure che verranno continuamente scavalcate, disprezzo della giustizia e aperte rivolte contro lo Stato, sommosse
pubbliche, ritorno di Cicerone, per le carestie, nascevano le signorie (dinastie), l’usurpazione alle cariche pubbliche, eserciti
personali (secolo dei signori della guerra che si succedono l’uno all’altro: Mario, Silla, Cesare, Pompeo, Antonio, Ottaviano),
pubblico arruolamento di eserciti privati, le fazioni e la città assediata come fosse il nemico, esili, confischi. L’assetto politico
repubblicano va in crisi e si affermano altre procedure di funzionamento.
Appiano nella sua opera sulle guerre civili si concentra sulla dinamica a cui si assiste in questo secolo (Appiano, Guerre civili,
I,2). Nell’incipit si riferisce al tempo dei Gracchi e alla crisi del sistema repubblicano, che ha inizio, secondo Cicerone, con il
tribunato di Tiberio Gracchio 133 a.C. (tribuno della plebe). Già precedentemente abbiamo una serie di fattori che anticipano
questa crisi della res pubblica. Nel II a.C. esplodono i primi problemi della popolazione, insieme a una crisi del senato. Cicerone
individua in Tiberio Gracco la figura di un tribuno pericoloso.
CIC., Rep. 1, 31. L’inizio della crisi coincide con il tribunato di Tiberio Gracco del 133. Indizi di un funzionamento della res
publica che cominciava a cambiare c’erano già antecedentemente. Tutti i fenomeni storici diventano evidenti quando esplodono,
ci sono segnali più o meno evidenti, ed è evidente che ogni fenomeno ha una sua gestazione e anche il tribunato dei Gracchi è un
momento di massima evidenza, tuttavia già il II secolo a.C. mostrava delle questioni: i problemi della cittadinanza, il senato che
voleva preponderare il proprio potere. Chiaramente ci sono segnali precedenti che fanno capire che qualcosa comincia a muoversi.
Un punto cardine era il senato; a un certo punto la preponderanza del senato viene a mutare l’assetto, che si incrina nel II secolo
a.C.: crisi e ricerca di una scelta alternativa, questa è l’età della ricerca delle soluzioni. Questo equilibrio va via via cambiano i
rapporti di forza e gli impatti e la tradizione antica trova un momento di cesura nel tribunato di Tiberio Gracco, figlio di Cornelia,
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figlia di Scipione l’Africano. Tiberio Gracco fa una legge di riforma agraria, che si mette nel solco della tradizione.
Alcune attività e dinamiche vengono recepite come sovvertive, perché incidono e incrimano la tradizione. Diventa il bersaglio
degli aristocratici e per mano di Scipione Nausica porta dei senatori insieme, insegue Tiberio, lo uccidono e gettano il suo corpo
nel fiume. E’ un evento spartiacque. E Cicerone ritiene che la responsabilità sia di Tiberio Gracco, individuato come sedizioso e
tribuno pericoloso. Ma non fa riferimento alle modalità. Abbiamo un continuo cavalcare, è un campo abbastanza scivoloso e
Cicerone esprime quella parte del ceto dirigente cha sta dalla parte da Nausica. Se leggiamo Plutarco, è da condannare Nausica,
che ha violato la sacro santitas del tribuno.
Varrone, De vita populi romani. Viene molto probabilmente scritto dopo la morte di Cesare. Una sorta di deittico con il De gente
populi rimani, percorre la storia di Roma dividendola in epoche. Abbiamo però solo frammenti. E’ un’opera poco studiata ma
nasconde riferimenti preziosissimi. Non è Tiberio Gracco, ma è Gaio Cracco (123 a.C.) a determinare la crisi, a seguito di una
legge sui tribunali: dovevano essere giudici i cavalieri. I tribunali dovevano giudicare reati contro governatori e si voleva
evitare il contrasto di interesse, senatori che giudicano altri senatori.
Cosa notiamo in queste affermazioni di Cicerone e Varrone? L’elemento della divisione, la spaccatura. La civiltà per essere sana
deve essere una, la spaccatura è un indice di pericolo. Varrone parla di discordiarum, sintomo della crisi dello Stato. Quando
l’elemento dell’unità si incrina, lo Stato entra in una stagione di rischi e di cattiva salute.
E’ una situazione patologica a cui bisogna trovare una soluzioni.
Ma quando finisce la Repubblica? Noi ci muoveremo in questo arco tempo, che va dai Gracchi al 31 a.C.
La fine della Repubblica crea un problema nella periodizzazione, perché ci si deve domandare quale repubblica finisce, dato che
nel corso del tempo cambiano una serie di rapporti di potere. Noi moderni ci interroghiamo su quale fosse la natura politica della
Repubblica romana: oligarchia, monarchia ecc.
Polibio dice che nemmeno tra i nativi, non lui che è greco che osserva da lontano (greco portato a Roma da prigioniero dopo la
seconda guerra macedonica), si può dire se la Repubblica sia monarchica, aristocratica o democratica. Nessuno poteva dire quale
fosse il sistema politico, nel suo insieme, con certezza. E’ codificazione di quella che Polibio definisce costituzione mista, non si
può individuare un’unica forma, ma convergono questi tre sistemi. Parlare di guerre civili significa parlare di dinamiche che in
qualche modo sovvertono l’equilibrio costituito. Noi ci dedicheremo in primis al turbamento degli assetti istituzionali. Ci
concentreremo sulle procedure di funzionamento delle istituzioni. La fase comincia a metà del II secolo e finisce in maniera
eclatante con il principato augusteo. Dunque un primo strumento per valutare se effettivamente abbiamo un mutamento delle
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istituzioni è valutare se cambiano o no le procedure istituzionali (ossia le procedure di funzionamento delle istituzioni: assemblea,
magistratura, senato), non secondo un assetto teorico, ma nella prassi, dove non abbiamo leggi scritte. Durante l’analisi
osserveremo una serie di exempla. Uno strumento fondamentale di meccanismo a Roma è la consuetudine; infatti vedremo dove
va a finire la consuetudine nella tarda repubblica. La tradizione ha un valore paradigmatico, e un altro dei fenomeni che
studieremo è la costruzione della tradizione nella tarda repubblica. Nella tarda repubblica verrà invocata a fronte di una situazione
destrutturata la tradizione “ci troviamo nei guai, invochiamo la tradizione!” in alcuni casi quella tradizione sarà creata ad hoc. Non
sarà un ricorso ad un bagaglio. Vedremo come le modalità di creazione (richiamo della tradizione) saranno differenti a seconda di
coloro i quali si rivolgeranno al recupero della tradizione.
Nella percezione degli antichi e dei mdoerni il trubunato dei gracchi è percepito come un punto di svolta della storia romana,
perché viene visto come tribunato sedizioso, che interrompe il percorso della storia della Roma repubblicana, che in qualche
modo costituisce un colpo vitale all’equilibrio politico che si era potuto registrare fino a quel momento. Nella storiografia si
ritiene che in questo momento finisca il periodo cominciato dopo il 367 a.C., in cui si definisce il ceto patrizio-plebeo, che nella
lettura storiografica avrebbe governato le sorti politiche dello stato. Quest’età non fu sempre così compatta, e gli appartamenti al
ceto politico non sempre furono d’accordo. Si ritiene che questo momento specifico del tribunale dei gracchi abbia decretato la
fine di questo periodo. Ricordiamo, tuttavia, che con il tribunato dei gracchi si apre una parentesi di violenza, che inaugra la
destrutturazione dell’equilibrio istituzionale. Gli anni che intercorrono tra IV secolo e i Gracchi contengono già piccoli elementi
che emergono di rado ma che fanno comprendere come questo elemento percorra la storia di Roma, per poi emergere in forme più
eclatanti in altri momenti in cui si raggiunge la maturità di alcuni fenomeni.
Dieci anni dopo si candida il fratello (la madre gli scrive una lettera per dissuaderlo, è una lettera basata sul concetto di inimicizia
politica e bene pubblico). I tribunati dei Gracchi vengono interpretati da Cicerone e Varrone come momenti di interruzione
dell’unità della civitas, momenti separativi, di rottura, di sconquasso degli equilibri. Sono dei momenti considerati di crisi (ricorda
il passo di Appiano). L’apparente compattezza va in frantumi, perché per la prima volta col tribunato dei Gracchi si verifica
l’emancipazione del tribuno della plebe dalla nobilitas, dalla linea politica tradizionale, dal senato e dall’oligarchia del senato. Ci
troviamo davanti a un tribunato della plebe che mette in campo ed esprime pienamente quelle che sono le sue prerogative.
Siccome è una magistratura nata da un atto di secessione, da un atto di divisione della civitas, nel momento in cui il tribubno della
plebe intende le sue prerogative intimorisce l’aristocrazia e la sua azione muta gli equilibri di potere, meglio ha un impatto
determinante sugli assetti e sugli equilibri esistenti. Il tribunato dei Gracchi non introduce nulla di nuovo ma mette in azione
quelle prerogative che già ha, ma che sono rimaste inespresse perché era il tribunato di lunga manos della nobilitas, poteva
approvare anche le leggi. Il tribunato della plebe è un magistrato che comanda l’imperium, e va sui campi di battaglia. Roma è
stata impegnata dal V secolo fino al 146 in esperienze militari come le Sannitiche, la guerra punica, la guerra Corsica, quella
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Sardegna, quella macedonica… una serie di guerra molto lunghe. In questi anni i magistrati cum imperium sono impegnati nelle
guerre; l egli promuove le leggi ma in questo caso la compattezza inizia a saltare.
Noi abbiamo questa idea di un tribunato rivoluzionario, di rottura dell’unità della civitas e dell’inizio di discordia civile. Tiberio
alla fine venne ucciso dalla folla e il suo cadavere venne gettato nel Tevere, nonostante godesse di una specie di immunità.
Scipione Nausica pontefice massimo lo fa per contrastare Tiberio. Cicerone nel De Repubblica dirà che nessuno può dirsi privato
se lo stato è in pericolo. Scipione era privato ma non poteva tirarsi fuori perché la repubblica era in pericolo e ha fatto bene. Ma il
tribunato della plebe aveva la sacro santitas, l’inviolabilità. Eppure, Scipione Nausica era privato, si muove con schiavi e altri
magistrati per ucciderlo. È strano che Tiberio sia visto come tribuno rivoluzionario e poi in tutta la tradizione non si legga questo
profondo atto di corruzione della tradizione, nel momento in cui Tiberio Gracco viene ammazzato. Il Senato è difensore della
tradizione ma potrebbe essere stato uno di quegli attori che sorpassano la tradizione. Con la lettura di un passo di Plutarco si
capisce meglio la dinamica dei sorpassi.
Questi sorpassi vengono compiuti da ogni direzione e attore. Lo stesso senato, presidium della republica (difensore), è stato uno
degli attori che in questa fase ha sorpassato la tradizione. Quello che succede a Tiberio diventa un presupposto per una soluzione
definitiva: senatu consultu ultimo.
[Paragrafo 9]
Comincia il discorso con cui Tiberio tenta di sollecitare l’opinione pubblica alla leicità della sua proposta, ricorrendo ai
presupposti della filosofia stoica, in particolare Tiogene: è impensabile che le belve feroci possiedano una tana e invece i soldati
non hanno nulla. E’ un rivoltamento dell’ordine cosmico, la gerarchia cosmica è profondamente sovvertita. E’ un elemento
filosofico all’interno di una proposta politica. Bisogna riprodurre l’ordine e la gerarchia universale. La ferinità è una condizione
precivica e le bestie godono di una condizione superiore a quella dei cittadini romani. E’ una recessione a uno stato ferino, a belve
feroci. Per ripristinare questo ordine a cosa si ricorre? Si ricorre al diritto, che ha reso possibile il passaggio dalla ferinità alla
società. Qui come si fa a portare nel giusto ordine questo rovesciamento? Faremo una legge, quindi la proposta. Dobbiamo
ricomporre l’ordine cosmico e l’uomo deve portarsi ad un livello di superiorità attraverso il diritto. Dunque Tiberio propone
questa legge per dare un pezzo di terra, così i cittadini romani tornati dalla guerra ricevono questi pezzi di terra. Si impone questo
quadro.
[Paragrafo 15]
La deposizione di Ottavio era diventata ostica.
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[Paragrafo 19]
Nasica, privato cittadino, senatore, pontefice massimo, chiede al console di intervenire anche con un atto violento. E’ la prima
volta che succede. Il console non da l’approvazione, se succede qualcosa da illegale può farlo. Nasica, da privato cittadino, spinge
i senatori alla rivolta. Porterà al senato consulto ultimo. La lotta viene portata fuori dalle istituzioni.
Cicerone, De legibus 3, 20: il passo dà l’idea della risalenza di questo tipo di conflittualità. Lasciamo da parte Gaio Flaminio e
vediamo cosa successe cinque anni prima, quando Decimo Bruto era console ci fu uno scontro tra magistrati, che portò nel 138
a.C., ad imprigionare dei consoli. Quindi gli scontri istituizonali, già prima dei gracchi (momento eclatante) conoscono già una
loro affermazione. Quindi anche se cominciamo il corso nel II secolo, notiamo che già prima dell’età dei gracchi ci sono contrasti
tra consoli e tribuni della plebe, solo che sono puntiformi e sono sotterranei, emergono di tanto in tanto, esprimendo però un
fenomeno che è già nato e che esplode con i gracchi.
Fino al 60 a.C. ci sono delle tendenze innovative per riformare lo stato (ad commutanda); dal 60 in poi invece il tipo di soluzioni
ed espedienti è più di impatto: se fino al 60 i nostri tentativi intervengono su singoli aspetti, dal 60 in poi gli interventi sono più
massicci, si arriva addirittura a pensare ad un cambiamento della forma di governo.
L’età dei gracchi mette in moto certamente un processo di azioni e reazioni politiche. Soprattutto mette in evidenza la trasversalità
di alcuni posizionamenti, aiutandoci a capire che la politica a Roma in questi anni non si può ridurre a una contrapposizione
semplice tra optimati e popolari, presenta varie gradazioni e posizionamenti. Non possiamo pensare che Tiberio abbia fatto tutto
da solo: per esempio Appio Claudio, princeps senati, il pontefice massimo Iginio Crasso l’hanno aiutato. Molti sono da parte di
Tiberio. Questo ci fa comprendere le gradazioni esistenti. Non tutto il senato è contro Tiberio, anzi si pone dalla sua parte perché è
consapevole che esista la necessità di una riforma agraria. Quindi una parte del ceto dirigente è consapevole e favorevole, ha
posizioni avanzate e riformiste. Eppure Appio Claudio non è un rivoluzionario: ma coglie la necessità dela riforma.
La riforma di Tiberio è percepita come un attacco alla proprietà privata, invece egli non agisce sulla proprietà privata bensì
sull’ager publicus. Viene frainteso perché va a toccare le posizioni privilegiate, inveterate. Chiede un ritorno al passato, in cui si
afferma la riproposizione di leggi di due secoli prima. Ma questa legge da una parte della aristocrazia senatoria è percepita come
rivoluzionaria: legge che attacca la proprietà privata perché attacca le posizioni privilegiate e inveterate. Ricorda che la proprietà
privata a Roma è un diritto inalienabile!
Tiberio mette in pista atteggiamenti politici che in qualche modo travolgono la consuetudine nella materia del diritto pubblico, le
cui consuetudini vengono travolte. Per esempio, Tiberio non consulta il senato prima della sua proposta. Ma c’era una legge che lo
stabiliva? No, era solo una consuetudine. Tutto il diritto pubblico a Roma era consuetudinario.
Il senato non è coinvolto nei processi legislativi, ma di fatto interviene. Esso ottiene valore normativo in età imperiale.
Studi recentissimi scorgono in alcuni ambiti una valenza deliberativa e normativa del senato già in età repubblicana, come se ci
fossero alcuni campi in cui il senato avesse poteri normativi. Questa linea di studio tende a scorgere quindi movimenti imperiali
già in età tardo repubblicana. Un altro celebre caso di legge agraria che non passa per il Senato è Cesare. Quindi, nonostante tutto,
il tribunato di Tiberio compie passi che infrangono il dettato consuetudinario. Per esempio in politica estera fruisce del tesoro di
pergamo entrando in una materia senatoria per trovare dei fondi per finanziare la propria riforma. Quindi ci sono atteggiamenti,
atti di sfida nei confronti della egemonia politica del senato. Al contempo il punto più ampio è il momento in cui un privatus
acquisisce una posizione differente anche rispetto a quella del console e a quella di una parte dei senatori e decide di porsi contro
Tiberio Gracco. Nausica mancava di ogni legittimazione politica nel compiere questo atto, non ne aveva la facoltà perché non era
un magistrato. Cicerone dice che il magistrato è colui che genit la maschera dello stato, chi veste i panni dello stato, cioè chi
rappresenta lo stato. Invece Nausica non ha una funzione pubblica, non è un legittimo rappresentante dello stato. È un privato
cittadino che agisce senza il supporto del senato e senza il supporto del console contro un magistrato. È un atto politico altissimo.
Di qui a poco anche i seguaci di Tiberio vengono condannati, aprendo una fase importante della repubblica.
Dieci anni dopo, è tribuno Gaio Gracco. La madre, Cornelia, che aveva avuto una illustre formazione, che le fonti tramandano la
maestra di retorica dei figli, avrebbe dissuaso il figlio Gaio dal candidarsi nel 123 a.C. perché stava compieno un gesto deleterio
nei confronti della repubblica, stava confondendo il piano privato con il piano pubblico.
Nella lettera esordisce: «tu dici che è dolce vendicarsi dei nemici» ma aggiunge che il figlio dovrebbe perseguire questo obiettivo
solo se questo dà salute alla repubblica. Quindi il punto della lettera di Cornelia è che Gaio vuole candidarsi per vendicare il
fratello, tuttavia l’obiettivo primordiale della famiglia è lo stato, per cui l’inimicizia privata non deve confondersi con l’inimicizia
pubblica. Bisogna archiviarare i propri sentimenti di inimicizia finchè i tempi non ci consentano di riesumarli. L’uomo politico
deve mettere in secondo piano se stesso e il proprio desiderio di vendetta fino a quando non lo consentano i tempi dello stato.
Quindi: non c’è una vendetta più dolce del vendicarsi dei nemici, ma i tempi dello stato devono consentirli. Cioè perché la sua
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famiglia deve causare un danno e la rovina dello stato e della repubblica? Quindi la candidatura di Gaio è vista da Cornelia un atto
distruttivo. C’è l’idea che chi si candida alla guida dello stato non deve avere nemmeno un obiettivo che possa entrare in conflitto
con la salus della repubblica.
Il bene dello stato prima di tutto (De vita populi romani: la magistratura è scaduta perché i candidati alla magistratura si
candidano non per il servizio allo stato ma perché animati dallo smodato amore per il potere, venendo meno a quello che dovrebbe
essere il primo amore, cioè l’amore della repubblica). I tempi dello stato per Cornelia sono il momento della quiete civile, in cui
non è a rischio la salute dello stato e quindi il sovrano può anteporsi allo stato. Ma non è detto che questa quiete arrivi. Cornelia
quindi rappresenta la ragion di stato, è un baluardo. Il suo non è il normale messaggio di una madre, ma è un messaggio politico.
Consilium è saggezza, qualità che deve possedere ogni uomo politico. L’insania è il contro valore.
Un uomo politico non può essere insanio nè temerario nè caecus ma providens: previdente, veggente, deve vedere più lontano
degli altri. La miopia non è degli uomini politici. L’uomo politico cieco è colui che conduce la repubblica verso la sua morte.
Il tribunato di Gaio Cracco non è solo vendicativo. Non dobbiamo pensare questo. Non è una mera prosecuzione del tribunato di
Tiberio, altrimenti non coglieremmo gli elementi di progettualità, numerosi elementi di originalità.
Gaio interviene in moltissimi campi, per cui non si può schiacciare il suo tribunato. Gaio infatti ha compiuto un’analisi completa
del tribunato del fratello (sono passati dieci anni), ha avvertito l’esigenza di proporre una prospettiva politica più allargata.
[Paragrafo 25]
La vendetta politica è nella politica di Gaio.
Si insiste sulle capacità retoriche dei Gracchi.
* Come avviene la vendetta di Gaio Gracco sugli assassini del fratello? Attraverso due leggi, cioè due atti normativi.
Vieta che un magistrato, al quale l’assemblea avesse privato di una magistratura, potesse adire ad un’altra magistratura;
Il magistrato che avesse bandito un cittadino romano senza processo dovesse essere giudicato.
[Paragrafo 21]
Come reagisce il popolo alla morte di Tiberio? Il popolo è risentito, voleva aspettare il momento per vendicarsi. Nella storiografia
troviamo la condanna di Tiberio il tiranno. Nasica dice che lui voleva la tirannide. Nelle fonti di Cicerone per esempio si legge
che Tiberio ambisse alla tirannide, che fosse un reversore. Ma Cicerone crede nella supremazia del tiranno, quindi l’atto di Tiberio
è visto da lui come un attentato all’integrità del senato. È evidente che Cicerone sia dalla parte di Nasica. Invece Plutarco ci
restituisce la percezione popolare. Il popolo pensa che sia Nasica il tiranno. C’è un problema non solo di fonti, ma anche di
schieramenti politici. Tiberio infatti è stato ucciso brutalmente, il suo cadavere gettato nel Tevere e mai restituito alla famiglia. È
stata esecrata in questo caso una magistratura, il tribuno è immune, è un gesto empio. Il gesto compiuto quindi è stato eversivo
contro la tradizione.
Cicerone nell’orazione in difesa di Milone dice di legittimare l’omicidio politico quando avessero ucciso un cittadino considerato
pericoloso per lo stato. Cicerone insomma mischia le carte perché nell’orazione subito dopo parla di Gaio Mario, che dieci anni
dopo si ritrova nella stessa situazione di Tiberio, che si ricandida. Si arriva a un nuovo scontro ma questa volta non c’è l’iniziativa
del privato: è il senato che escogita un meccanismo istituzionale per arrivare allo stesso obiettivo. Il senato vota una delibera con
cui autorizza il console ad uccidere il soggetto che sarà stato individuato come nemico pubblico, a privare il diritto alla famiglia
del diritto di sepoltura, a confiscare i beni alla famiglia e a distruggerli.
Trova uno strumento istituzionale cioè per legittimare l’uccisione, creando uno strumento con cui liberarsi dei nemici politici
affinchè non si crei pericolo allo stato. Siamo all’interno dei provvedimenti che caratterizzano uno stato detto d’eccezione. Il
senato consulto ultimo diventerà uno strumento della lotta politica. Cicerone affianca Gaio Mario (un popolare) a Nasica, ma il
secondo ha agito senza il senato consulto ultimo, Gaio Mario no. E l’ultimo riferimento che fa è proprio al senato. Cicerone
raggruppa coloro i quali sono stati raggiunti da un’accusa di omicidio e li depenalizza, li giustifica e fà di loro dei salvatori dello
stato. È interessante che Nasica sia accomunato a coloro che agiscono sulla base del senato consulto ultimo, essendo però lui un
privato. Cicerone sa di poter trovare nella giuria un favore a questo suo discorso, sa cioè che una parte dell’aristocrazia romana
acconsente a questi temi da lui trattati. Il senato consulto ultimo però non sarà invogliato e digerito agevolmente.
L’assassino di Tiberio è stato commesso in modo ‘irrituale’; dieci anni dopo questa irritualità, avviene la determinazione
istituzionale di quella modalità che era stata adoperata volutamente in modo irrituale nei riguardi di Tiberio Gracco. Nella Pro
Milone Cicerone sembra completamente omettere volontariamente l’elemento di irritualità che aveva contraddistinto l’atto di
Nasica, inserendolo nell’ambito di una condotta politica idonea da parte di un uomo che ha a cuore la salute delle istituzioni. Ne
consegue l’affermazione ciceroniana: «Nessuno può dirsi privato quando lo stato è in pericolo». Alla base di questa affermazione
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è contenuta la legittimità di un privatus (un personaggio che può anche non essere un magistrato) e la sua libera iniziativa,
qualora si verifichi una situazione di pericolo per le istituzioni. Questo passaggio contiene la creazione di un presupposto
tradizionale, che non esisteva fino a questo momento, ma che ha in sé molte delle azioni politiche che si susseguiranno nel I a.C. e
che vedranno in più circostanze dei privati armare i propri eserciti personali e agire. Le Res gestae Augusti: un testamento politico
di Augusto, un resoconto redatto dallo stesso imperatore romano Augusto prima della sua morte e riguardante le opere che compì
durante la sua lunga carriera politica. Nell’incipit si dice che all’età di diciannove anni ha organizzato un esercito privato da
cittadino privato che non ha alcun ruolo politico, dando come motivazione la restituzione della libertas. Questa affermazione trova
una legittimità proprio per il fatto di aver restituito la libertà. Per il bene dello stato ogni privato si sente chiamato in causa quando
è a rischio la libertas dello stato stesso. Quindi dieci anni dopo troviamo due formalizzazioni:
I. Formalizzazione non ascoltata, ritenuta pericolosa: la richiesta di Tiberio di candidarsi di nuovo, interpretato come tentativo
di aspirazione alla tirannide. Gaio dieci anni dopo non ha lo stesso problema, perché negli anni è passata una legge che
stabilisce che, nel caso in cui non c’è un numero di candidati pari al numero di posti da ricoprire, è possibile che il tribuno
della plebe che è o è stato in carica si può ricandidare. Questa legge ha permesso a Gaio la ricandidatura. Il fatto che la
magistratura politica durasse un solo anno non permetteva l’attualizzazione del progetto politico progettato.
II. La traduzione legislativa di una procedura che si era attuata in modo estemporaneo.
Secondo alcuni era stata premeditata (questo non possiamo saperlo, perché c’è un crescendo di eventi che fanno pensare a
questa premeditazione dell’atto). Dieci anni dopo, davanti a una nuova conflittualità politica tra il tribuno della plebe, il
sentire popolare, l’assetto della magistratura, c’è una nuova situazione deflagrante, ma la risoluzione questa volta non è
affidata a un privatus, è il senato tutto a farsene carico, traducendo nei termini di una delibera, che ha valore di per sé, la
condanna a morte dei cittadini, condanna attuata con un capo di imputazione secco, perché è un unico punto: «affinchè non
possa portare un che di dannoso allo stato». Quindi, c’è una parte che riconosce nell’azione politica di un magistrato (es: del
tribuno della plebe) un elemento di pericolosità, tanto da dichiararlo un nemico pubblico e condannarlo a morte, affidando al
console il compito di muoversi contro di lui, stabilendo che:
i. la famiglia non ha diritto alle esequie;
ii. i suoi beni possono essere confiscati.
Il tutto in nome di una ricomposizione della concordia, tant’è che alla fine del processo viene anche edificato un
templio della memoria.
Il senato consulto ultimo si inserisce in quell’atteggiamento proprio del senato di affermare una propria preminenza, si va a
inserire nella conflittualità che abbiamo tra magistrato/assemblea e senato, perché questa è un’azione totalmente del senato, che si
arroga la facoltà di emettere una condanna a morte sulla base della individuazione di un nemico pubblico. Ci sono una serie di
senati consulti ultimi. Vediamo La congiura di Catillina: Cicerone è console, al termine del mandato gli viene imposto il divieto
di fare il discorso conclusivo… interviene il senato. Qualche anno dopo c’è il caso Clodio, la situazione è speculare a quella del
62 a.C. ma ora il tentativo contro Cicerone è bloccato. Nel 58 a.C. la questione va avanti; possiamo pensare che l’unico obiettivo
di Clodio sia solo vendicarsi di Cicerone (Lex Clodia de capite civis: stabiliva la pena dell'esilio per chi avesse deliberato una
condanna a morte senza concedere la provocatio ad populum, cioè la facoltà per ciascun cittadino romano di ricorrere in appello al
popolo per evitare la condanna, cioè il processo)? La legge non è unilaterale, viene votata. In questo caso viene chiamato in causa
il senato consulto ultimo.
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dall’esilio (come la legge che l’aveva mandato in esilio). Infatti, a Roma uno dei metodi per far approvare una legge è proporne
una opposta a una già esistente. Le considerazioni di Cicerone in questa lettera sono forti, non le troviamo in nessun’altra parte: …
Nam prior lex nos nihil laedebat: è un’affermazione forte perché la lex Clodia e capite civis è la prima, mentre la lex de exilio
Ciceronis è la seconda. Lontano da tutti, mentre riflette sulla sua condizione, fa la seguente affermazione: «infatti la prima delle
due leggi non mi danneggiava». Quam si ut est promulgata laudare voluissemus aut ut erat…. La sua è un’affermazione
gravissima, perché dice che gli è mancata la capacità di lettura politica, la saggezza. La prima delle due leggi non la loda, anzi
potrebbe lodarla o ignorarla addirittura. Gli è mancata in quel momento l’intelligenza politica, qualità che non deve assolutamente
mai mancare all’uomo politico. Si definisce cieco: se il consilium, se la veggenza (da provideo: “guardare avanti”) sono facoltà
che non devono mai mancare all’uomo politico, la cecità è il più grande difetto che l’uomo politico può incarnare (miopia
politica). L’uomo politico, infatti, per il fatto di essere incaricato per un compito per lo stato non deve mai cadere nella cecità,
anzi: la sua qualità principale deve essere la lungimiranza. Questo è un atto di accusa a sé stesso. Per la prima volta non incolpa
nessuno se non sé stesso, che ha interpretato la legge contro di sè, gli è mancato il consilium, la lucidità politica. Si è cambiato di
abito (mutatio vestis): è sceso al foro vestito a lutto e ha chiesto l’intervento del popolo, ma nessuno aveva fatto il suo nome,
nessuno l’aveva nominato nella legge, è stato lui da solo a offrirsi come caprio espiatorio, e finchè nessuno avesse fatto il suo
nome non ci sarebbe stato alcun pericolo. Dunque, comprende che avrebbe potuto benissimo far finta di niente e trascurare la
legge. Questo è stato il suo sbaglio: si è messo nei guai da solo. Un altro elemento importante che dice è che se si agisce, non si
deve toccare quella legge (lex clodia de capite civis) nella quale risiedono molti aspetti popolari (non nel senso del populismo).
Qui egli ammette di essersi sbagliato e di esser stato poco acuto. Nell’incipit vuole una legge che lo richiami, ma dice anche di
non toccare quella prima legge: chiede una legge che abolisca la seconda legge, non la prima, questo perché quella seconda legge
ha l’approvazione del popolo e continuerebbe ad essere votata. Quando ritorna dall’esilio, Cicerone quasi dimentica queste
affermazioni, rimette i panni del dux togatus, cioè i panni di un console che ha salvato lo stato. Questi pensieri non affioriranno
più. Se quindi nella lettera definisce la Lex Clodia non lesiva nei suoi riguardi e innocua, le orazioni pronunciate immediatamente
dopo il suo ritorno in patria (tra il 57 e il 54 a.C.: Post reditum in senatu 12; Post reditum ad Quirites 8; De Domo sua 55 e 99;
Pro Sestio 26, 27 e 32; Pisone 12, 17 e 18; e si ricorda anche la Vita di Cicerone di Plutarco 30, 6-31, 1, e Cassio Dione XIV 7)
contengono un cambio di prospettiva netto: definisce la legge una legge nociva (ad personam): noceo, perniciosus etc., una legge
destinata esplicitamente a rovinare LUI: salvatore dello stato al tempo della congiura di Catilina, e con lui, la res publica. Ricorda
l’appoggio dei cavalieri e cittadini manifestatogli tramite la mutatio vestis, e conduce l’attenzione specialmente sull’atteggiamento
del senato, che mutando le sue vesti ha compiuto un gesto straordinario, unico a memoria d’uomo. Cicerone vuole, ora in cui è
ritornato dall’esilio, ricostruire la propria immagine pubblica e ristabilire il suo peso politico nella vita delle istituzioni.
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cavalieri romani, l’Italia tutta. L’Italia diventa un soggetto politico, nel senso che diventa concettualmente un elemento di
legittimazione politica: è come se, venendo a mancare quella centralità e quella apicalità del senato, venisse evocato come
elemento legittimante un altro soggetto: l’Italia tutta. Questi signori chiedono ai consoli (a quel furosus) di intervenire a sostegno
di Cicerone. Essi però, non solo rifiutano la richiesta che il popolo tutto fa per venire incontro a Cicerone, ma addirittura si fanno
una grassa risata all’ascolto della sua richiesta. Cicerone è il primo degli italici ad aver raggiunto il consolato, sa che l’Italia può
essere per lui un punto di forza. Tutti ravvisano la necessità di prendere il lutto, tutti si vestono a lutto e scelgono di difenderlo con
qualsiasi metodo suggerito dall’iniziativa personale, dal momento che lo stato non ha più nessuno che lo guidi. Cicerone sta
dicendo che i consoli scellerati non sono più una guida dello stato, e quando lo stato manca di una guida, sono i privati a dover
agire per poter difendere lo stato.
Quando scende al foro ottiene il consenso del popolo affinchè il senato emani un decreto, per i quale tutti i senatori avrebbero
dovuto vestirsi a lutto, attuare cioè la cosiddetta mutatio vestis. Per questo motivo, infatti, i giorni dell’esilio sono vissuti da
Cicerone con pentimento e rammarico, e in orazioni concepite tra il 57 a.C. e il 54 a.C., immediatamente successive all’esilio (Pro
Saestio, Post reditum in senatu e la Post redditum ad Quirites) ritorna su questo fatto. Ritorna a ripercorrere le vicende che aveva
vissuto nei giorni successivi alla Lex clodia de capite civis ma con un atteggiamento diverso: ripercorre con orgoglio la scelta,
non più con rammarico, vedendo nell’appoggio che aveva ricevuto in quella circostanza il segno della considerazione di cui egli
godeva presso il Senato. Anzi, in queste orazioni dice che è stato vittima dell’accordo maturato tra i consoli di quell’anno Pisone e
Gabino, e il tribuno della plebe Clodio, perché i due consoli l’hanno venduto, cioè: pur di ottenere le province, a caccia di una
ingens pecunia di prospicuo guadagno, hanno venduto la sua testa al tribuno Clodio. Quindi, quella legge, dall’essere una legge
che non lo ledeva affatto (lettera del 58 a.C.) è diventata perniciosa (= da Lex Clodio de capite civis a Lex ad personam:
perniciosa, che si abbatte contro un individuo). Cicerone, tornato dall’esilio, sta tentando si riposizionarsi nello spazio politico
romano.
Di solito ci si veste a a lutto quando muore qualcuno. Tuttavia, ritroviamo questa modalità adoperata nella vita pubblica, in
circostanze slegate da quella che consiste la perdita di un affetto. In età repubblicana, infatti, il vestirsi a lutto ha un significato
politico (ricordati del tema principale: le guerre civili). Ci sono inoltre delle circostanze specifiche per cui a vestirsi a lutto è il
senato. La mutatio vestis del senato sembra finalizzata alla creazione di un sentimento di allerta, che vuole sollecitare una sorta di
mobilitazione popolare, strettamente legata a circostanze emergenziali.
Come facciamo a indagare a fondo quello che è successo, possedendo come unica fonte Cicerone?
Lo spazio temporale che a noi interessa va dall’approvazione della rogatio di Clodio, nel momento in cui è emanata la Lex de
Capite civis, alla partenza di Cicerone in esilio. Esiste difficoltà oggettiva nel muoversi in questo lasso di tempo, ricostruibile
per esempio dalla versione ciceroniana, che è infarcita di emotività e retorica. Inoltre, il racconto che forniscono autori e storici su
questo tema (come Cassio Dione), anche successivi a Cicerone, non aiuta a dirimere queste questioni.
I due momenti che dobbiamo tenere bene a mente sono:
A. Lex Clodia de capite civis;
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B. Lex Clodia de exili Ciceroni
- legge ad personam. [A Roma le leggi ad personam erano vietate gdalle leggi delle XII tavole].
Nello spazio che intercorre tra l’emanazione della prima e poi della seconda legge, dobbiamo considerare alcune questioni.
La lex Clodia non incolpava Cicerone, era una legge di portata generale, in cui si puniva chiunque avesse condannato un cittadino
romano senza l’effettuazione del processo. Dopo questa legge ci sono la mutatio vestis e le suppliche di Cicerone, una volta che
la lex Clodia è stata votata. Seguono le manifestazioni a suo sostegno, a cui segue la decisione del Senato di vestirsi a lutto e
infine l’editto dei consoli, che impedisce al senato di prestare fede al proprio senato consulto: i consoli impediscono ai senatori di
rimanere fedeli alla propria decisione. Le forze in campo sono contrapposte (siamo abituati a vedere i tribuni contro il senato, ora
sono i consoli a porsi contro il senato). Lo sviluppo dei fatti si propone dettagliato nei passi seguenti della Pro Sestio:
Cicerone, Pro Sestio, 25-32
[26] Dinanzi alla derisione dei consoli in seguito alla richiesta di aiuto dei senatori, affinchè si facessero carico della questione
“Cicerone” e ne riferissero in senato (ad senatum referrent), si raduna sul Campidoglio una folla composta da gente di Roma e di
ogni regione d’Italia che, per iniziativa personale (privato consilio) si veste a lutto, affiancando Cicerone. Intanto, al tempio della
concordia (qui si sono tenute le riunioni del Senato del dicembre del 63 a.C., dove si è discusso dell’affare di Catilina) si sta
svolgendo una seduta del Senato, durante la quale viene fatta richiesta al console di agire. Innanzitutto, il senato si riunisce in un
luogo inaugurale, come il tempio; infatti, il tempio della concordia rappresenta la memoria del consolato di Cicerone, ricordato
quasi provocatoriamente da Gabino (= console ricciuto). Questi signori chiedono, fanno preghiera al console (universus ordo).
Cicerone mette in luce l’atteggiamento di ostilità e diniego dei consoli (repudiavit) ad ascoltaere le richieste che provengono dal
senato. Dice vos venistis ad senatum, vos, inquam, equites Romani et omnes boni veste mutata… […]. «voi vi siete recati al
senato, cavalieri romani e tutti buoni, vestiti a lutto»; dice pro meo capite «per me», cioè tutti loro si sono prostrati ai piedi di
questo “lenone”. Il linguaggio cambia: cum, vestris precibus ab latrone illo repudiatis, vir incredibili fide… […]: fa riferimento a
fides, cioè uno dei valori più importanti nella struttura politica romana; magnitudine animi, constatia: sostantivi che sottolineano
un personaggio politico solido, sta parlando di Lucio Ninnio (tribuno del 58 a.C.). Ad senatum de re publica réttulit: è una
espressione tecnica, come apprendiamo da Gellio, Notti Attiche, 14. 7, in cui viene riportato l’estratto di uno scritto varroniano sul
funzionamento del senato (lo scritto varroniano è giunto a noi tramite un estratto redatto da Gellio, che probabilmente aveva tra le
mani lo scritto intero); de re pubblica: indica una materia del senato. Un’altra espressione importante è senatusque frequens,
anche questa appartenente al linguaggio tecnico dello svolgimento del senato; vuol dire che le decisioni prese in senato sono le più
legittime, garantiscono cioè una maggiore legittimazione. Anche censuit è un altro termine tecnico; per mea salute «per la mia
salvezza». Questo passo è molto interessante, poichè ci sono degli studiosi che ritengono che questo senato consulto ultimo non
sia mai stato fatto e che Cicerone stia bleffando. E che diceva il senato consulto? A detta di questo passo, ricco di termini tecnici,
pensiamo che loro si vestano a lutto per la salvezza della res publicae.
[27] Cicerone mette in evidenza l’importanza del gesto del Senato. Dice: «quid enim quisquam potest ex omni memoria sumere
inlustrius quam pro… […]: a memoria d’uomo, chi potrebbe ricordarsi di un gesto più illustre di quello per cui, a vantaggio di un
solo cittadino, gli uomini per bene (boni omnes), per mezzo dell’accordo privato (privato consilio), e il senato intero attraverso
una decisione pubblica, presero il lutto. Cicerone usa il lessico tipico dell’iter istituzionale senatoria.
[29] Successivamente accade che Gabino lascia l’assemblea, viene convocata la contio, durante la quale, oltre ad attaccare il
senato e a minacciare i cavalieri che nel 63 a.C. avevano appoggiato Cicerone console, proclama giunto il giorno della vendetta
dei catilinari; e con un editto relega Lucio Lamia, amico di Cicerone, in esilio a duecento miglia da Roma.
A questo punto il lutto si estende a tutta la città (publico consilio).
[30] «Umquam ausus esset senatum, de re publica tollere… […]: la parola chiave è edictis, al plurale, perhè sono stati emanati
nuovi editti, mai ascoltati prima. Al paragrafo [32] torna un altro termine tecnico: edicunt: questo è il significato degli editti,
affinchè cioè i senatori rimettano le loro vesti. Quando mai un console ha proibito ai senatori di ubbidire ai propri decreti? Questo
è un pssaggio importante.
In tutta questa vicenda ci sono due passaggi istituzionali:
1. Il Senato vota di vestirsi a lutto (secondo Cicerone per la sua salvezza);
2. I consoli che con un editto impediscono al senato di vestirsi a lutto e di obbedire ai propri editti.
Questi due passaggi sono accomunati dal fatto di andare contro la consuetudine romana, sono gesti straordinari.
Mai il Senato ha compiuto un’azione simile per un cittadino, mai si è vista una cosa del genere.
Cicerone è convinto evidentemente che il senato si sia vestito a lutto per la sua salvezza. La fonte da cui si parte è la Pro Sestio di
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Cicerone, che racconta gli avvenimenti secondo la prospettiva di chi sta parlando, cioè Cicerone, che adopera allo stesso tempo un
lessico tecnico e che fa notare la grande straordinarietà di questi due gesti.
Anche questi provvedimenti sono dunque straordinari, ma per Cicerone in negativo: la loro azione strappa il senato alla res
publica (senatum de re publica tollere), si mostra sprezzante alle suppliche dei cavalieri (equitum Romanorum preces aspernari)
e calpesta il diritto alla libertà di tutti i cittadini (omnium… ius libertatemque pervertere) [Cicerone, Pro Sestio 30]. C’è in modo
particolare un punto che, nonostante le forzature ciceroniane, suscita interesse: Cicerone non si limita solo a precisare la presa di
posizione del senato a suo favore, ma c’è anche l’interesse a sottolineare che la decisione del senato è stata pubblica, ufficiale.
Gli studiosi moderni ritengono che in qualche modo Cicerone stia manipolando la realtà dei fatti. Tuttavia, questi fatti non sono
solo riferiti nella Pro Sestio, ma anche in altre orazioni di Cicerone: Post reditum ad senatu e Post reditum ad Quirites. Lo
studioso di storia romana si deve chiedere dove sono state pronunciate le orazioni.
Sono state pronunciate in contesti, i cui membri sono stati per la maggior parte quei senatori stessi che hanno votato la mutatio
vestis. Fino a che punto Cicerone può alterare la realtà? Quelle pronunciate in senato, che fanno riferimento a fatti accaduti
proprio in senato, sono pronunciate davanti a un pubblico consapevole e protagonista dei fatti, che conosce bene i fatti a cui
Cicerone fa riferimento. Inoltre, questi decreti sono conservati nell’erario e ci sono termini tecnici, che possono essere verbi,
sostantivi, che significano “quello e null’altro” e che richiamano precise circostanze. Ne consegue che Cicerone non può aver
completamente stravolto il quadro di partenza. Quando parla di consilium pubblicum e di un senato consulto, forse dobbiamo
porci qualche domanda. L’orazione contro Pisone, suocero di Cesare, si è tenuta in senato nell’estate 55 a.C., cioè tre anni dopo
l’accaduto: Cicerone, Pisone 17: ut senatus consulto ne obtemperetur: Cicerone sta definendo il senato consulto, allo stesso
modo nella Pro Sestio 32 fa riferimento al decretum senatum e nella De domo sua 99 fa di nuovo riferimento alla retorica
repubblicana. Vedi Pro Sestio 27: universum senatum publico consilio…Nella Pro Sestio 18: «quod si vestem non publico
consilio patres conscripti… […]»: che, se anche i senatori avesero cambiato il loro abito a lutto, non sulla base di una decisione
ufficiale, ma per una decisione privata o per misericordia, ugualmente questo sarebbe stato un atto di profonda liberalità. Ma in
questo caso la decisione è stata votata (censuisset: verbo tecnico) da un senato reliquo, quindi la decisione è valida.
Gli autori successivi possono offrire un’ulteriore suggestione, Plutarco nella Vita di Cicerone e Casso Dione, dove è andato
perduto il verbo che indica l’azione dei senatori. Nella Vita di Plutarco c’è un verbo greco tecnico che indica la delibera pubblica
del Senato. Questo lascia ipotizzare che la mutatio vestis del 58 del Senato sia stata sostenuta da una delibera, tuttavia resta un
dubbio: essa è stata colpita dall’intercessio dei consoli? Dalle fonti sappiamo che i senatori non aspettarono nessuna approvazione.
Nelle orazioni di Cicerone i destinatari non vengono definiti una volta per tutte. Nella Pro sestio 26 Cicerone dice: «il Senato
all’unanimità stabilì di cambiare la veste per la salvezza». Nel paragrafo 32 dice che dal decreto del Senato dipende il lutto della
civitas: la città tutta, per decisione pubblica, cambiate le vesti, squalevat. Nel passo della De Domo sua si dice che alla base del
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lutto dei senatori c’è la decisione del Senato. Infine, nella orazione contro Pisone la petizione riguarda il Senato, esiste distrazione
nella individuazione dei destinatari. Chi deve cambiare le vesti? Solo il senato? L’ipotesi di un provvedimento di estensione a tutta
la città si trova anche nella Vita di Cicerone di Plutarco, in cui dice che la decisione vale per tutto il demos. Quindi, chi sono i
destinatari? Nella Pro Sestio Cicerone sembra alludere a tutti. Cicerone è coerente nell’indicare come motivazione la sua salute,
ma nei passi ritorna un motivo: lo stato di calamitas della res pubblica, il pericolo che sta passando la repubblica. In Plutarco si
dice che il senato prende tale decisione come si fa in caso di calamità, e nel passo di Cassio Dione il tribuno Ninnio agisce come si
fa in caso di calamità. Anche Cicerone ha usato calamitas in un passo: calamitatem republicem.
Quindi, la decisione del senato ha veramente come unico obiettivo la salute di Cicerone? usa un lessico incontrovertibile: censio,
decreta, senato consulto, auctoritas senatus: questi non possono essere termini ambigui. Quella decisione di vestirsi a lutto, senza
aspettare alcuno editto di approvazione, è stata presa solo per sostenere Cicerone? E il senato consulto è come dice cicerone una
decisione assunta dal senato a sostegno esplicitamente di cicerone oppure contiene altri elementi sui quali bisogna riflettere?
E la decisione del senato è formalizzata? È stata votata dai senatori? È una delibera del senato o votata da alcuni senatori in altre
sedi? Siamo di fronte a un problema costituzionale. Dobbiamo anche tenere presente il contesto in cui pronuncia la Post reditum
ad senatu e altre orazioni: contesti in cui sono presenti fisicamente i senatori che pure hanno partecipato alla vicenda. Cicerone in
quel caso non si nasconde dietro un lessico ambiguo, bensì trasparente e tecnico: senatus consulto, censeo, consilio publico: sfera
lessicale che richiama in modo chiaro il contesto di produzione di un senato consulto. Inoltre, si ritrova l’uso di un sintagma
adoperato da Cicerone, che ritroviamo in Sallustio solo una volta e in Gellio (anche se qui c’è un problema di traduzione testuale):
senator populi romani.1 Cicerone la utilizza per due volte nell’ambito dell’episodio che stiamo studiando. Cicerone dice senator,
non senatus; fa riferimento alla mala accoglienza che ha ricevuto in quanto senatore. L’accostamento di “senato” a “popolo” nel
sintagma deriva dal fatto che il ruolo del senatore è un ruolo che deriva per scelta del popolo. Egli usa in maniera più frequente
l’espressione, ma solo due volte il sintagma senatus poopuli.
Dalle fonti comprendiamo che i senatori immediatamente si vestono e scendono a lutto, senza aspettare alcuna approvazione.
Sappiamo anche che la conseguenza di questo è l’emanazione di un provvedimento da parte del console, che proibisce al senato di
ottemperare alla propria decisione. In uno studio di Lappi si arriva a dimostrare che già in età repubblicana e solo in materia di
politica estera i senati consulti valessero di per sé e non avessero bisogno di approvazione alcuna. In questo modo, Lappi
preannuncia ciò che avviene in età imperiale: in età repubblicana i senati consulti non valgono come delibere, sono mere opinioni
e posizioni del senato; in età imperiale, invece, cominciano ad assumere valore normativo. Quindi, Lappi anticipa la cosa, ma solo
per i temi di politica estera. D’oltretutto, si ricorda che il senato è un organo centrale in materia di politica estera: è in senato che
per esempio si parla di ambascerie, che vengono ricevute solo nel mese di febbraio, in cui il senato sospende tutte le sue attività
per dedicarsi alle ambascerie. Sallustio adopera nelle Catilinae il sintagma del senatus consulto ultimo: la usa quando si tratta di
intervenire contro i cardinali che si sono introdotti a Firenze. Allora, il console dice che essi avrebbero dovuto rivolgersi al senato
in materia di politica estera, perché i catillinari a Firenze, che hanno armato un esercito contro la res publica sono in realtà ormai
nemici stranieri. Quindi, lo stesso Sallustio sta attribuendo al senato questo ruolo. Cicerone adopera il sintagma perché in questa
circostanza non abbiamo avuto nè un editto del console, nè altre delibere, proprio come per le decisioni di politica estera. Far
riferimento al senatus populi romani significa pensare che il senato si stia esprimendo come espressione del popolo romano: pur
non passando dal populus riunito in una assemblea, quella decisione del senato consulto ultimo è una emanazione del popolo
attraverso il senato. Con questa espressione senatus populi romani si dà quindi legittimità alla decisione presa dal senato.
1 Peter Weisman, discutendo delle posizioni varroniane in confronto alle posizioni ciceroniane, usa il sintagma che, secondo un’edizione
dei frammenti di Varrone a cura di Funaioli, derivererebbe da Varrone stesso. In realtà, se si controlla il passo di Gellio, si comprende che
il sintagma non è presente.
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è un altro elemento significativo di una nuova attitudine del senato: decisione presa dal senato senza aspettare che venga votata dal
popolo (senatus populi romani). Questo sintagma risuona anche nel Decreta pisana: il senato ha decretato, ma le sue decisioni
non sono passate alla votazione dell’assemblee: il senato locale della città di Pisa fa sua la delibera del senato, prima che sia stata
approvata dall’assemlbea (o dagli editti dei consoli), atttualizzandola e trovando una legittimazione nella forma stessa del senato,
come frutto dell’emanazione del popolo. È come se si volesse rafforzare la legittimità del senato di quella delibera non passata
come da norma attraverso il popolo, richiamando la formazione del senato e la sua titolarità dovuta proprio al popolo. Tutti questi
sono elementi anticipatori, come quello di Umberto Lappi in merito alla politica estera. Questa eccezionalità del senato non è
altro che il precursore di una nuova consuetudine: ci troviamo in età repubblicana, in una fase di decostruzione della vecchia
tradizione e di ricostruzione al contempo di nuove consuetudini e tradizioni. Il punto di vista di cicerone è pro senato, nel senso
che negli scritti affianca il senato nella mutatio vestis. Questo è un punto fondamentale.
Laboratorio
TESINA: EPISTOLE DI CICERONE
Storicizzare la nozione di bellum civile nelle epistole di Cicerone
Gli studi di lessico politico di Roma antica costituiscono uno strumento per ricostruire la civitas come esito di una costruzione
progressiva e non predeterminata. Lo studio dei concetti consente di approcciarsi in questo modo all’argomento.
Lascito metodologico applicato allo studio di Roma circa la storia dei concetti come è stata teorizzata dagli studiosi tedeschi.
Siamo nell’ambito degli studi di Koselleck Begriffs-Geschichten (Koselleck è uno studioso del ‘900 che ha realizzato degli studi
sul 700-800). La corrente metodologica si è affermata a metà del ‘900. Il modello della storia dei concetti, che ha come maggiore
esponente Koselleck, mette insieme gli studi di storia sociali in unione agli studi di strutturalismo. L’idea di mettere al centro
della storia lo studio dei concetti deriva dagli studi lessicografici: Kant è il primo a insistere sul fatto che non ci sono concetti
senza esperienza e non c’è esperienza senza i concetti, strettamente correlati. Novità di questa metodologia sulla storia dei
concetti: inizialmente c’è la scuola francese del ‘900 che sposta lo studio della storia dalla centralità dell’evento all’attenzione
alla microstoria, cioè alla storia della mentalità e della società, a quelli aspetti collaterali che non vedono nella storia una sola
successione di eventi e guerre. 1) Il concetto di “lunga durata”: i fenomeni di lunga durata sono quei fenomeni di società, quelle
strutture che ritroviamo nella storia. Si riteneva che il criterio di lunga durata significasse esclusivamente studiare gli eventi che si
ripetono in una successione lineare di eventi uguali. Egli insiste sul fatto che esistano strutture ripetitive, tuttavia che gli eventi
mutino, quindi: la storia dei concetti consente di commisurare il mutamento storico, partendo da tali strutture ripetitive. Questo è
L’obiettivo che si pone Koselleck è la ricostruzione degli eventi secondo un criterio di dinamismo prospettico: ogni evento va
considerato nella sua prospettiva e nella sua diversità. 2) Il vocabolo va diviso dal concetto: il vocabolo ha una fissità monolitica,
svincolata dalla variabilità della sua percezione e del suo utilizzo (es: quello che troviamo nel dizionario è fissato). In uno studio
storico è importante guardare ai processi di continuità, di evoluzione e di snodi specifici. Questa è la transizione tra vocabolo e
concetto. Il secondo passaggio è la capacità di tenere insieme sincronia e diacronia: la linea sincronica orizzontale consente di
cogliere la specificità del contesto; la linea diacronica verticale guarda il processo di trasformazione ed evoluzione dell’uso di un
dato lessema. 3) L’altro tributo è l’aver superato l’idea continuistica della storia. L’antropologia per esempio studia la continuità
delle idee, ma questo nella storia diventa un limite, bisogna cioè porre un freno agli approcci continuistici della storia.
4) Approccio semasiologico e onomasiologico devono essere tenuti insieme. Per la semasiologia un unico termine può avere più
significati, un esempio: concetto di provincia dal connotare l’incarico del magistrato, dalla fine della prima guerra punica, connota
il territorio amministrato da qualcuno. Per la onomasiologia significanti diversi usati per designare una specifica nozione in un
preciso arco di tempo, un esempio: bellum civile, seditio, dissensio, discordia (alcuni dei termini da utilizzare per specificare il
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concetto di guerra civile; ci sono termini che arricchiscono il campo semantico della guerra civile e che hanno una loro specificità
d’uso, possono essere un’indicazione, un’anticipazione della guerra civile o indicare la guerra civile vera e propria).
Storicizzare la nozione di guerra civile.
La nozione “guerra civile” corrisponde a una categoria moderna. Secondo Armitage in A History in ideas: noi siamo debitori non
tanto dei romani rispetto alla nozione di guerra civile in sé, ma debitori della riflessione sulla guerra civile sviluppata dai romani.
Infatti, dai romani nascono concetti che durano anch’oggi, anche se con sfumature e campi di affermazione diversi: libertà, diritti,
impero, guerra civile. «Essendo stati i primi a definire il concetto di ‘civile’, vale a dire “fra concittadini”, i romani interpretarono
i loro conflitti in termini politici, come scontri fra i cittadini, la cui intensità arrivava ad eguaglire quella di guerra».
Un volume rappresentativo e di svolta è Il mestiere di cittadino nella Roma repubblicana, che è un approccio agli studi di storia
antica, che sposta il raggio d’azione dalla centralità dei ceti dirigenti alla dimensione dei cittadini e alla partecipazione del
popolo. Si dice che il conflitto socio politico interno è un’anticamera della guerra civile. Il lessico della guerra civile è ricco e ci
restituisce tutti quei momenti di tensione anticipatori, che sfociano nella guerra civile. Poi, ci si chiede perché l’88 è un momento
spartiacque: in precedenza (nonostante l’esperienza graccana) i conflitti politici si verificano nel rispetto delle forme giuridiche di
riferimento, e il ricorso alla violenza non è ancora generalizzato. Invece, a partire dall’88, per la prima volta l’esercito romano
marcia sulla città per regolare un conflitto di competenze. Già quindi si inseriscono alcuni aspetti delle guerre civili: violenza e
presenza dell’esercito armato in città.
Gli elementi che abbiamo ereditato dal concetto di guerra civile romana: 1) guerra interna all’aeger romano, civitas romana ed
estensione di quest’ultima attraverso il processo di estensione della cittadinanza; 2) esistenza di due parti in lotta, una delle quali
rivendica la sua pretesa legittima ad esercitare la sua egemonia e potenza. Quegli elementi che si impongono in modo prepotente
dall’88: dissenso, discordia sono termini presenti nella guerra civile ma che designano conflitti anche precedenti alla guerra civile
(quindi utilizzati in più occasioni). Quando sono impiegati prima della guerra civile, essi indicano conflitti il cui obiettivo è la
ricomposizione dell’ordine iniziale, un ritorno all’ordine di partenza. Quando essi sono impiegati nell’ambito della guerra civile,
invece, designano un punto di non ritorno, in cui si mira a raggiungere la pace, ma al fine di resturare un nuovo ordine, che non
coincide con l’ordine di partenza. Il termine bellum civile è attestato in modo ufficiale a partire dalla fine degli anni 60, primi anni
50, tuttavia un’altra attestazione è la fase degli anni ’40. Da consultare: Il vocabolario latino sous la republique (1963): inserisce
nella categoria “Espressione di termini che alludono a un disaccordo politico interno a gruppi di associazioni”: dissidio, discordia
(divergenza d’animo su determinati contenuti), dissensio (divergenza relativa al diverso modo di sentire e di intendere). Un’altra
categoria riguarda quelle espressioni di disaccordo relative a singole personalità politiche, che possono essere sia dichiarate, sia
nascoste.
Varrone, De vita populi romani fr. 108 P = 114 R = 425 S: …. discordiarum civiliarium…
Idea che la storia si sviluppi a partire da una nascita, una crescita, uno sviluppo e poi una decadenza (è un ciclo di vita, come se la
storia fosse un corpo). Uno dei momenti in cui si riconduce un frantumo nella civitas è quando Gaio, ostile al senato, consegna le
giurie all’ordo equestre e rende la civitas a due teste, fonte della nascita della discordia civile. In questo passo emerge l’idea della
frattura dello stato. Varrone dice che il tribunato di Gaio ha rappresentato la prima fonte di discordie civili, in quanto aveva
modificato la forma dei tribunali, aprendo l’accesso anche al ceto equestre, determinando un conflitto sociale e causando i futuri
conflitti politici (ecco perché si dice civitas a due teste).
Bellum civile: la prospettiva di Cicerone.
Dobbiamo ricordarci che, anche se è la più significativa, non è la sola (ci sono altre fonti che restituiscono altre prospettive, per
esempio Catone per la prospettiva del II secolo d.C., Varrone etc.). Quando ci misuriamo con la prospettiva di Cicerone, vi sono
elementi che ci invitano alla prudenza, soprattutto per il suo esercizio retorico particolarissimo incline all’autorappresentazione e
alla sottolineazione del suo ruolo politico, mirate a giustificare la propria posizione. Il suo lessico, quindi, è manipolato anche in
modo pervasivo a volte. Per demistificare, dobbiamo stare attenti alla contestualizzazione cronologica. L’inquadramento storico e
politico deve anche inquadrare come il Cicerone di un anno, in un altro trattato per esempio si interroghi sulla stessa nozione (es:
Cicerone del 43, Cicerone del 63: considerare le esperienze dell’autore, diversi contesti, diverse contestualizzazioni del presente).
Nelle Epistole ci sono casi in cui Cicerone rievoca dei modelli (per esempio la settima lettera di Platone in una lettera ad Attico),
applica un modello e uno stilema. Una particolarità del genere epistolare: le lettere possono essere lette da diverse prospettive in
quanto genere letterario; a noi interessa maggiormente la dimensione storica (destinatario, circolazione dell’opera).
C’è un problema di autenticità, che dobbiamo estendere a due aspetti: autenticità di Cicerone (quanto cicerone in una lettera stia
raccontando in modo fedele la verità o infedele), specificità dei singoli epistolari (in genere si ritiene che nell’espistolario ad
Attico si possano scorgere dei maggiori elementi di autenticità per via della maggiore intimità con Attico, ma non è detto). Ci sono
anche elementi legati alla circolazione dell’episola: ci interroghiamo su quanto queste lettere potessero avere una circolazione più
o meno elitaria: Cicerone infatti non vuole che esse si diffondano in giro, vuole nasconderle. Il sistema delle corrispondenze ora
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guarda alla scelta di persone fidate, non c’è un servizio di posta (Augusto); se la corrispondenza è tra Roma e le province, non ci si
può affidare all’amico di turno e bisogna inventarsi dei sistemi affinchè esse non andassero in mani sbagliate, in questo caso infatti
diventa un problema (es. il nome di Cesare viene nascosto, oscurate alcune parti).
Cicerone, Lettera a Bruto (17-19 a.C.)
È probabilmente autentica. In questa lettera emerge “bella civillo”. Considerare sempre il contesto specifico: Bruto e Cassio sono
in Oriente, Cicerone approva la loro linea politica ma ci sono delle divergenze di opinioni tra Cicerone e Bruto che riguardano: 1)
il destino di Ottaviano; 2) la posizione da adottare circa il fratello di Marco Antonio. Ci aspetteremmo un Cicerone che invita alla
moderazione, invece la sua posizione è intransigente, perché se secondo Bruto bisogna limitare le guerre civili, Cicerone dissente
in modo vemente, anzi: ritiene che ad essere clementi, le guerre civili non finiranno mai, quindi non si può essere clementi.
Emergono i termini: bellum civile, dissentio.
Risorse online:
- PHI LATIN TEXTS (inserire la voce e vedere tutte le opere in cui compare);
- THE LATIN LIBRARY (vai su un libro di epistole e vedere in quel solo libro tutte le attestazioni).
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Inimicitia
Il termine ha due significati distinti, a seconda che si usi al singolare (inimicizia) o plurale (inimicizie). Al plurale, la valenza è più
specifica. Amicizia nel lessico latino rientra nel lessico dei rapporti personali, forma di solidarietà nel mondo antico; istituto che
ha sue regole precise. L’inimicizia non rientra nello stesso lessico, non dice nulla sulle reti e sui legami personali. Al singolare
designa manifestazioni esteriori dell’ostilità: come l’ostilità si traduce a livello percettivo (es: sentimenti); al plurale, invece, delle
dichiarazioni concrete di ostilità, concreti atti di ostilità. Questa è la prima distinzione. Le inimicizie potevano essere ereditate
dalla famiglia (inimicizie familiari) oppure essere contratte per ostilità politica, divergenze di opinioni in materia di res publica.
Inimicizie politiche: contratte per ragioni pubbliche, per l’interesse dello stato, ma che possono anche essere deposte per il bene
dello stato. Questo lessico delle guerre civili si confonde spesso con il lessico conflittuale, sinonimo di quello della guerra civile,
in quanto indicatore di un dissidio e quindi anticipatore della guerra civile.
Cicerone nel 56 a.C. in un’orazione in senato sostiene la legittimità di prorogare l’impegno di Cesare in Gallia e si ritrova lo stesso
concetto. Cicerone sta appoggiando la proroga, la sua posizione è dissonante con quella di coloro che in senato hanno una
posizione ostile nei confronti di Cesare e che leggono nel comportamento di Cicerone una sorta di giravolta, disappunto, perché è
strano che sia lui a difendere il privilegio che si vuole dare a Cesare. Cicerone si vuole difendere da questa accusa; si difende,
vuole far passare la sua posizione come legittima. Ragione obiettiva: Cesare sta vincendo, la sua campagna non può che recare
beneficio alla res publica. Seconda ragione: anche se Cicerone fosse nemico di Cesare, comunque approverebbe il suo impegno,
non lascerebbe prevalere il sentimento di inimicia, perché il soddisfacimento delle inimicizie personali non può essere slegato
dalla ragione di stato (Cornelia) «inimicitias in aliud tempus reservare deberem» (dobbiamo riservare l’inimicizia a un altro
tempo). La res publica è il centro dell’agire dell’uomo politico. Proprio per questo, non è possibile che l’uomo politico leghi il suo
agire a sentimenti di natura personale, mettendo da parte il bene dello stato. In un’altra orazione poi dice: «cum suis inimicissimis
in gratiam rediit?… res publica reconciliavit, quae alienarat».
Consideriamo l’epistola in cui Cicerone si rivolge ad Attico, dicendo di riportare in coda un carteggio tra lui e Marco Antonio, che
costituisce una testimonianza eccezionale, poichè c’è una conversazione diretta e confidenziale tra due soggetti che si scrivono nel
44 a.C. La materia della necessità di Marco Antonio di coinvolgere Cicerone sta in una questione che ha dei precedenti di storia
repubblicana. Ci troviamo nell’aprile del 44, all’indomani della morte di Cesare. Quali sono le ultime volontà di Cesare? Ci si
chiede cosa farne delle sue ultime volontà. Antonio quest’anno è console, chiede a Cicerone una consulenza, poichè uno degli atti
che era stato avviato da Cesare, che quindi egli avrebbe voluto portare a termine, è il rientro dall’esilio di Clelio, luogotenente di
Clodio. Bisogna capire se farlo rientrare e rispettare così la volontà di Cesare o no. Il bisogno di Cicerone di chiedere un riscontro
ad Antonio deriva dalle gravose ostilità che hanno caratterizzato il rapporto tra Cicerone e Clodio (tribuno del 58 a.C.). La prima
lettera è del 22 aprile 44. La risposta giunge qualche giorno dopo. Cicerone si dimostra d’accordo con Antonio, ma poi abbiamo lo
sfogo con Attico, a cui dice che è stato costretto, che non poteva fare altrimenti, ha dovuto compiacere Antonio.
Emerge inimicitiae (e non inimicitia) al plurale. Ricorre anche il motivo della salus publicae, il benessere della repubblica, che a
volte può diventare copertura che legittima un’azione. È una specie di alibi per sciogliere e contrarre le amicizie.
Cicerone conferma che l’inimicitia legata a Clodio vede la motivazione nella salute della repubblica; essa non è tramandata di
generazione in generazione, non è quindi familiare.
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L’episodio di Saturnino
Oggi rimaniamo sempre all’interno del tema dei sorpassi del Senato, le occasioni cioè in cui il Senato esce dal rispetto delle
procedure istituzionali, l’avevamo già visto con Tiberio e Gaio Gracco e oggi lo riprendiamo in relazione a Saturnino. Nel 104
a.C. Saturnino ricoprì la carica di questore. Il primo riferimento che abbiamo è l’anno 103 a.C., anno del tribunato della plebe e
proviene da Plauto: ne consegue che probabilmente tra il 105 e il 104 ricoprì la carica di questore, ma rimane una data ipotetica.
Da questore è incaricato della gestione dell’aprovvigionamento e del trasporto del grano da Ostia a Roma (questura ostiensis),
facendo il suo ingresso nella vita politica romana. L’entrata in scena non è molto avvincente, poichè viene colpito subito dopo da
un provvedimento anomalo: gli viene sottratto l’incarico. Cicerone in due orazioni (Pro Sestio 39 e De haruspicum responsis
20, 43, entrambe del 56 a.C.) e Diodoro Siculo in un frammento della sua Biblioteca storica, scritta tra il 60 e il 30 a.C. ce ne
parlano. Nonostante le fonti raccontino lo stesso accaduto, mostrano posizioni differenti (tema della divergenza delle posizioni).
Due divergenze:
• Divergenza in relazione alle ragioni che condussero alla deposizione di Saturnino;
• Divergenza riguardante il giudizio che troviamo espresso nelle due fonti sullo stesso Saturnino.
Nec mihi erat res cum Saturnino, qui quod a se quaestore Ostiensi per ignominiam ad principem et senatus et civitatis, M.
Scaurum, rem frumentariam tralatam sciebat, dolorem suum magna contentione animi persequebatur.
Non avevo a che fare con Saturnino che, sapendo che la soprintendenza al trasporto dei viveri era stata con suo disonore tolta a lui
questore di Ostia e affidata a Marco Scauro, primo dei senatori e dei cittadini, sfogava il suo risentimento in un momento di grave
esasperazione.
Saturninum, quod in annonae caritate quaestorem a sua frumentaria provocatione senatus amovit eique rei M. Scaurum
praefecit, simus dolore factum esse popularem.
Quanto a Saturnino, sappiamo che passò al partito democratico sdegnato perché il Senato gli tolse durante la sua questura, vista la
carestia, la carica di soprintendente al trasporto del grano per darla a Marco Scauro.
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Altro passaggio interessante riguarda la stessa orazione (non c’è nel pdf): «tutti furono spinti da una ragione e seppur giusta non
può esserci una giusta causa che possa giustificare l’azione cattiva contro lo Stato, ma ci può essere una ragione seria».
C’è un comportamento assolutorio da parte di Cicerone, perché prima di subire lo scacco, Saturnino era contro i popolares, invece
questa vicenda gli fa fare il salto nei populares.
Tali informazioni fanno riflettere sulle colpe di Saturnino. Quindi, perché è stato espulso dalla carica? Perché la motivazione
cambia tra le due orazioni? È come se nel secondo riferimento egli sottolineasse la questione che Saturnino non sia riuscito a
sostenere la carica, attribuita poi a Mauro Scaro, di cui nella prima orazione è sottolineato il curriculum, esprimendo un giudizio
di inettitudine e incapacità di Saturnino a esercitare la carica. Saturnino all’epoca della sua questura ostiensis non aveva ancora
commesso gli atti che lo avrebbero fatto salire alla ribalta come tribuno seviziosissimo, né aveva violato il sacro santitas degli
ambasciatori. Nel 104 in sostanza è solo un giovane uomo, un semplice cittadino romano che si sta affacciando alla politica, che
impazzisce di dolore al punto che passa tra i popolari. Cicerone quindi nella seconda orazione considera Saturnino come cittadino
romano agli esordi della sua carriera politica.
«Il tribuno della plebe Saturnino, che aveva vissuto senza ritegno una vita dissoluta fu incaricato, in qualità di questore al trasporto
del grano tra Ostia e Roma; ma poichè, in ragione della sua sconsideratezza e della sua inettitudine era parso non adatto a questo
ruolo, ricevette la punizione che meritava. Il Senato, dopo avergli ritirato l’incarico, decise diversamente…».
Da dove arriva il giudizio negativo di Diodoro? Che fonte stava leggendo in quel momento? (La sua opera vuole a raccontare la
storia di Roma che va dall’età di Plutarco a quella contemporanea dell’autore stesso).
Per quanto riguarda la storia di Roma, le fonti variano a seconda del periodo e della tematica trattata. Per esempio, l’analista Fabio
Pittore costituisce un riferimento per l’eta arcaica, Polibio per la fase della distruzione di Cartagine. La sezione storica in cui si
trova questo passo sembra avere come fonte primaria Posidonio Acamera, un filosofo e storico greco del I secolo a.C., che scrive
una storia in cinquantadue libri, in cui racconta gli eventi dal 144 all’85, con la vittoria di Silla su Mitridate. Posidonio era stato il
testimone di molti eventi, e in altri casi aveva anche lui le sue fonti. Tra il 100-99 a.C. aveva conosciuto Quinto Cecilio Metello
Numidico, nemico politico di Saturnino, tant’è che era stata decretata contro di cui l’Interdictio aquae et igni , una punizione che
conduceva all’esilio, perché non ci si poteva né bere, né riscaldare. A Rodi aveva anche conosciuto Publio Rutilio Rufo, un altro
nemico di Saturnino, che era stato tribuno militare sotto Scipione Emiliano a Numanzia ed era legato a Cecilio Metello. Tra 109
e 108 era nata anche una profonda inimicizia tra questo personaggio e Gaio Mario.
A Smirne Rufo, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita, scrisse due opere: un’autobiografia e una storia di Roma, a cui molto
probabilmente si ispira Posidonio. Nell’86, inoltre, Posidonio andò a Roma e in quel momento sarà stato introdotto nella cerchia
degli Scauri, Metelli ecc. Alla famiglia degli Scauri apparteneva Mauro Scauro. Ora non sappiamo se questi due entrarono mai in
contatto, forse scrisse un’autobiografia di Mauro Scauro, non lo sappiamo. Tutto questo potrebbe spiegare il giudizio pesante che
Diodoro fornisce sulla figura di Saturnino. La fonte di Diodoro offre una lettura da un’angolazione diversa, quella filo-senatoria,
di chi ritiene che Saturnino fosse scapestrato e avesse svolto con sconsideratezza e inattitudine la magistratura in un momento
particolare della guerra civile. È l’angolatura che vede il Senato COSTRETTO a rimuovere questa figura. La carica non viene
data a chiunque: si passa da Saturnino, figura alle prime armi, ad un priceps senatus, appartenente ad una delle famiglie senatorie
più potenti; viene insomma il sospetto che dietro questo cambio di rotta ci siano delle motivazioni di carattere politico. Inoltre,
l’inesperienza di Saturnino è un aspetto cruciale, perché il momento che si vive è cruciale (per questo nella seconda orazione
Cicerone è onesto, per la difficoltà di Saturnino in una situazione emergenziale).
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Ma era lecito per il Senato compiere un’azione di questo tipo genere? Il Senato poteva rimuovere un magistrato dalla sua
carica? A Roma un magistrato poteva lasciare la propria carica, ma solo spontaneamente. È difficile capire cosa sia avvenuto in
questo frangente, non c’è indizio sull’esistenza di un magistrato superiore che invita uno di grado inferiore a dimettersi. Sappiamo
solo che egli poteva lasciare la propria carica spontaneamente. Manca nelle fonti qualsiasi traccia che l’abbandono di Saturnino
sia avvenuto secondo la regola, anzi: nelle fonti è indicato il Senato, sono interessanti i verbi in greco, che significano “rimovere”;
la rimozione di Saturnino è stata deliberata dal Senato. Ma il Senato non poteva dare ordini ad un magistrato, al massimo
poteva esortarlo a riflettere, a prendere in considerazione alcune questioni, ma non poteva rimuoverlo dall’ incarico, perché p
stato il popolo ad eleggere quel magistrato. Forse il Senato ha agito in virtù della situazione emergenziale, ma comunque sia il
punto è che non può farlo, quindi sta agendo superando i imiti della sua azione politica stabiliti dalla tradizione.
«Si fece in modo ostinato istigatore e propugnatore del tribuno della plebe, Cecilio Metello, che proponeva leggi rivoluzionarie
contro l’intercessio dei colleghi, finché entrambi furono, per decreto del senato, sospesi dall’esercizio delle prerogative. Osò
nondimeno restare in carica ed esercitare la giurisdizione, quando venne a sapere che erano pronti coloro che lo avrebbero respinto
con la forza e con le armi, licenziati i litori e gettava via la pretesta, si rifugiò di nascosto in casa, per rimanere tranquillo in
preparazione del momento. Anzi due giorni dopo frenò una moltitudine che spontaneamente era accorsa a promettergli con gran
tumulto la sua azione per confermargli la carica. Poichè egli aveva agito diversamente da quanto ci si aspettava, il senato, radunato
in fretta a causa di questa folla, gli rese grazia attraverso i membri più eminenti, chiamatolo nella Curia e lodato con parole molto
onorevoli lo reintegrò nella carica, dopo aver annullato il precedente decreto».
Forse il magistrato vieene privato non della carica ma dei poteri relativi della carica, un po' come fa Silla con i tribuni della plebe,
quando li toglie il veto. Il magistrato viene svuotato del suo potere, è come se diventasse cittadino privato.
Possiamo fare un confronto con Plutarco (Vita di Catone minore 29): dice che dopo la votazione del decreto, Metello convoca la
Ponzio e se la prende con Catone, ritornando ancora come tribuno della plebe da Pompeo: mantiene la carica, ma svuotata. Questo
viene confermato da Cassio Dione, che ritiene che compie un atto illegittimo, perché i tribuni della plebe non potevano passare la
notte fuori Roma e invece Metello va in Oriente da Pompeo. Questo fa pensare che il Senato con questo provvedimento lascia la
magistratura ma gli toglie le prerogative della magistratura, mentre a Saturnino viene tolta proprio la carica. Svetonio usa il verbo
submoveo, che indica sempre un allontanamento, un’esclusione indotta sempre da altri soggetti o leggi, non è autoesclusione!
Non indica una destituzione come nel caso di Saturnino, ma l’indica l’aver privato il magistrato delle sue prerogative.
È una specie di congelamento, Cesare non rispetta le condizioni e la decisione (questo noi non lo troviamo scritto), ma forse non
riconosce legittimità dell’atto, ma quando capisce che si sta agendo contro di lui con le armi, licenzia i lettori, si toglie le vesti e
rinuncia ai segni della magistratura, ritirandosi nella sua abitazione privata. Che fa Cesare simbolicamente? Si toglie i panni di
uomo pubblico e indossa i panni da privato. Il popolo successivamente afferte l’offesa e per sua privata iniziativa interviene per
riaffermare, proteggere e tutelare la dignitas della magistratura. Quando il popolo si esprime in questo modo, il Senato, temendo
un tumulto, richiama Cesare, lo loda con parole onorevoli per aver bloccato un eventuale tumulto, lo rimette al suo posto, gli ridà
la dignitas. È estremamente interessante questo passo, perché il magistrato recupera l’iniziativa politica grazie all’intervento del
popolo: tutti e tre i soggetti politici intervengono.
Gli eventi politico-istituzionali che stiamo tenendo in considerazione mettono in evidenza il tentativo di mutamento degli equilibri
politici attraverso l’uso delle istituzioni. E i protagonisti di questa scena sono essi stessi istituzionali: il magistrato e il senato.
Assistiamo anche ad una forzatura del meccanismo istituzionale. Questo perché, sia nel caso della questura ostiense rivestita da
Saturnino, prima che fegli osse eletto tribuno della plebe, sia nel caso di Gaio Giulio Cesare pretore nel 62 c’è un’interferenza del
senato in questioni di magistratura. Per quello che riguarda Saturnino, l’intervento è quanto mai invadente, dal momento che viene
estromesso dalla magistratura (era stato eletto come questore per occuparsi di questioni connesse all’approvvigionamento. Il porto
di Ostia era importantissimo: quando i pirati minacciano di andare al porto, Pompeo, da privato, ottiene l’imperium straordinario.
Nella Pro Lex Manilia del 66 a.C. lo stesso Cicerone cita Ostia). In questo caso la magistratura, sottratta a Saturnino, viene data a
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un personaggio illustre e di grande rilievo politico. Ricordiamo che nel lessico della guerra civile rientrano i concetti di sorpasso,
contrasto, quello di superare la consuetudine. Con il sorpasso del Senato è superata la consuetuidine, che ora risulta messa in
crisi, viene meno l’equilibrio istituzionale. La crisi è la messa in discussione di un sistema per ottenere una risposta migliore al
funzionamento di quel sistema che sta faticando a procedere. Non esiste una legge che regola il rapporto tra assemblea e senato,
ma c’è sempre stata una consuetudine per cui le due parti si sono rispettate. Ora, però, questo equilibrio si compie, la consuetudine
viene meno. Cicerone ci dà anche un’altra informazione: c’è la carestia. È quindi una situazione unica nel suo genere. Mauro poi è
già un priceps senatus, è cioè il più illustre tra i senatori, con più successi militari. Allora che se ne fa della carica più bassa, vale
a dire la magistratura? Sicuramente la posizione alta di Mauro non è un dettaglio insignificante, anche perché dobbiamo ricordarci
che a Roma in quel momento c’è la carestia, quindi c’è scontento generale. In questi momenti di crisi, c’è bisogno di conquistare
l’opinione pubblica (ecco il gioco politico: il Senato lo toglie a Saturnino e dà la questura ad un uomo che gode di prestigio e che
rappresenta il Senato, in quanto princeps senatus). La risposta alla domanda è un fatto: Cicerone ritorna dall’esilio, a Roma c’è la
bagarre, una grande sollevazione popolare perché c’è di nuovo una crisi di approvvigionamento granario. Il popolo fa pressione
affinchè Cicerone ritorni dall’esilio. Il Senato non si vuole assumere alcuna responsabilità e incarica la figura del curato annone
per occuparsi della questione. Si riunisce il Senato e si fa pressione affinchè Cicerone partecipi alla seduta del Senato, che propone
che la questura sia affidata a Pompeo, il vincitore delle guerre mitridatiche, un grande personaggio politico del tempo, forse il più
prestigioso, che era rimasto a Roma durante il viaggio di Cesare in Gallia. Non c’è nessuno in Senato in quel momento, ma dopo
la proposta di Cicerone, la riunione successiva si riempie, intanto la popolazione freme, si teme la sovversione, bisogna ricorrere
ai ripari. Ottenere la curatela annona pone Pompeo in una situazione di vantaggio, perché non può assolutamente allontanarsi da
Roma, anche se avrà un imperium per andare a combattere fuori Roma. Ma il fatto di dover restare a Roma è un vantaggio, perché
gli permette di controllare i giochi politici. Tornato dalle guerre mitridatiche, non aveva trovato le cose come le aveva lasciate,
voleva le terre per i veterani e la sistemazione della Siria. Ma il Senato si era chiuso nei suoi confronti, se il Senato non si fosse
chiuso e avesse appoggiato Pompeo, non ci sarebbe stato il triumvirato “illegale”. In entrambi i casi c’è la carestia, dunque si teme
la sollevazione popolare. Il Senato fa il suo gioco politico, toglie la carica a Saturnino, che percepisce il tradimento politico e per
questo passa dall’altra parte.
Anni dopo c’è nuovamente un Senato forte, infatti, per comportarsi in questo modo, il Senato deve essere forte. Il Senato debole è
dopo il 60 (ricorda mutatio vestis del 58). Altro episodio in cui il Senato è forte è del 62, Cicerone dice che non c’è niente di più
forte e stabile. Il Senato si veste a lutto e realizza poi il Senato consulto ultimo. Siamo nella stessa temperie:
Consideriamo un esempio: un episodio assimilabile è avvenuto nel 48 a.C e ci è testimoniato dal De bellum civile di Cesare 3, 22.
Il Senato stabilì che Celio dovesse essere allontanato dalla repubblica. Il verbo è removeo (un altro verbo composto di moveo).
Il personaggio in questione, Cellio, è un pretore. Il Senato in questo caso non l’ha rimosso direttamente, ha affidato il compito al
console dell’anno, Publio Servilio Saulico, di rimuovere il pretore. Il Senato non ha agito direttamente, ma ha dato l’incarico al
console di agire sul pretore. Questo è importante, perché il console ha l’iniziativa amministrativa, da questo esempio capiamo che
il Senato non può agire solo, nemmeno con il senato consulto ultimo.
Il Senato non può destituire un magistrato, ma può sospendere le sue funzioni,. Inoltre, solo un magistrato superiore (maior testas)
ha il diritto di sospendere i compiti di un magistrato inferiore, non viceversa.
Non possiamo pensare che questa fosse una preorgativa consueta del Senato, ma ci sono casi in cui il Senato invita i magistrati
superiori a sospendere alcune prerogative dei magistrati inferiori. Nel 62 a.C. non c’è l’azione del console, il Senato non chiede
l’intervento del console di bloccare Pompeo e Cesare, agisce direttamente.
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Nel caso di Saturnino, abbiamo visto che c’è la sospensione diretta da parte del Senato della questura ortiense. La conseguenza
di questa chiusura dell’atteggiamento del Senato è l’accordo tra Pompeo, Cesare e Crasso, che verrà scoperto solo dopo che è stato
stretto. Cicerone in una lettera del 59 a.C. si chiede chissà che cosa penseranno ora quelli che si lamentavano del Senato (che stava
allargando i suoi poteri commettendo gli atti inconsueti di cui abbiamo parlato) del potere di questi tre uomini.
È vero che nel 102 e nel 62 il Senato agisce direttamente, ma non riesce ad arrivare in fondo, perché subisce la mozione popolare.
I Senato ha paura dell’uomo forte, per questo motivo chiude le porte a Pompeo. Il Senato pensa che, escludendo Pompeo, egli non
costituisca un pericolo per la res publica. Càtulo convoca la contio e dice che i senatori stanno affidando il potere straordinario a
un solo uomo, cioè Pompeo. E si chiede: «se Pompeo muore?» La folla gli risponde: «ci sarai tu». L’uomo forte deve risolvere i
problemi, questa è una necessità. E Catulo, scoraggiato, lascia la contio. Ricordati della Lex Manilia e Lex Gabinia del 66 e 65
a.C. L’ccasione del rientro di Cicerone fa avvicinare Pompeo al Senato, c’è la cura annone e Pompeo diventa ‘uomo del senato’.
Marco Antonio nelle Filippiche dice che il Senato era ‘casta Pompei’, ovvero l’accampamento di Pompeo: il Senato è asservito a
Pompeo. Quando Cesare vuole candidarsi ma non gli è permesso ed è costretto di lasciare le legioni, a Pompeo viene prorogato il
consolato in Spagna, Cesare non ha altra scelta se non oltrepassare il Rubicone. Il Senato è entrato nei giochi politici di questi
uomini; la politica cambia dopo il 60 a.C., il Senato tiene le redini della situazione; nel 58 Pompeo è console senza collega, che
significa essere di più di un dittatore. Il principato di Augusto ha alle sue spalle lotte tra bande armate, famiglie della nobiltas
dimezzate, sangue per le strade, situazioni economiche disastrose ecc. Pompeo diventa in questi anni la cusa ad uno stato malato.
Cicerone dice: «le leggi stanno allo Stato come le medicine stanno al corpo umano». In questi anni (50) Pompeo diventa legge.
La collegialità era una blindatura del funzionamento dello Stato rispetto alla tirannide. Invece, Pompeo diventa console senza
collega. Queste non solo altre che le prove generali del principato di Augusto. Con Ottaviano si pone fine allo stato di emergenza,
è la risposta alla crisi. Uno stato di emergenza deve finire, non può durare per sempre. L’emergenza giustifica le soluzioni che si
adottano, a condizione che esse siano limitate al periodo dell’emergenza e che non si normalizzino. Anche la dittatura di Cesare
era una risposta alla crisi; Anche Cicerone pensava che la soluzione fosse dare potere a un solo uomo (lo dice nel De Republica e
nel De legibus). Ma perché non dargli la dittatura? In fondo, la dittatura sarebbe stata migliore, perché il dittatore sarebbe stato più
controllato rispetto ad un console senza collega. Il 49 a.C. (battaglia di Farsàlo e morte di Pompeo) è un anno fondamentale
perché secondo la Todisco segna la fine della Repubblica.
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È interessante appurare che un personaggio come Pompeo chieda alla vigilia della seduta del Senato a un amico ma soprattutto a
una persona esperta di antiquaries di scrivere questo manualetto; non lo chiede a senatore anziano qualsiasi. Questo dettaglio è
importante perché rende la centralità degli antiquites. In Ennio si legge che un uomo politico deve avere tra i propri amici fidati
degli esperti di antiquaries, con cui deve sedere la sera a cena per potersi confrontare. Questo perché non c’è niente di scritto, ed è
importante che qualcuno raccolga il sapere, conservi le procedure e diventi un depositario del sapere istituzionale.
Guerra civile significa crisi della tradizione ma anche tentativo di un suo consolidamento (attraverso le leggi, in presenza
di atteggiamenti non graditi). Nel I secolo a.C. ci sono delle leggi che ribadiscono quelle tante pratiche già esistenti sottoforma
di consuetudini istituzionali, che vanno a ribadire quanto fino a quel momento era stato seguito solo in base alla consuetudine.
Varrone è il padre delle scienze di antiquates, il più rappresentativo. Non è però un erudito in senso astratto, la sua conoscenza non
è una conoscenza che si arresta all’erudizione: è una conoscenza approfondita che ha una sua applicazione e traduzione nella vita
politica della Repubblica. Questo per dire che ci sono degli equilibri che ora vengono messi in discussione, vengono rimescolati in
questo momento per creare risposta e alternative a questo secolo.
Ci soffermiamo De Vita Populi Romani, opera giunta in frammenti. L’opera doveva essere organizzata evidentemente in quattro
libri:
- I libro: trattava l’età monarchica;
- II libro: arrivava alla battaglia contro Pirro,;
- III libro: arrivava fino al tribunato dei Gracchi;
- IV libro: trattava dai Gracchi in poi.
L’opera fa pendant con un altro scritto, il De Gente populi romani: “sull’origine del popolo romano”. Varrone in questa seconda
opera voleva inserire la storia dei Romani all’interno di un percorso di storia universale della durata di 3000 anni, che cominciava
con il diluvio del 3000 a.C.. Se queste opere sono state concepite davvero nello stesso momento, come pare, e sono frutto della
stessa sensibilità politica di Varrone in quel momento preciso, esse possono essere associate cronologicamente. Infatti, se sono
stati concepiti nella stessa fase, è verosimile che vi sia la stessa cronologia.
Tra i termini cronologici di riferimento:
i. In De Gente populi romani sono citati Izio e Panza, i due consoli del 43 a.C.
ii. La guerra civile tra Cesare e Pompeo citata in De vita Populi Romani;
iii. De vita populi romani è dedicato a Tito Pomponio Attico, morto nel 31 a.C. Quest’anno è da prendere in riferimento.
Siamo sempre nello stesso periodo, sebbene Varrone e Cicerone abbiano posizioni contrastanti per alcune cose. Se consideriamo
l’affinità la citazione della coppia consolare ci fa capire che anche De vita populi romani sia stato scritto in un momento di piena
crisi della struttura repubblicana, all’indomani dell’assassinio di Cesare. Si tratta di una cronologia ipotetica.
È importante sottolineare l’atmosfera politica del periodo in cui Varrone si dedica a queste due opere. Questo perché aveva scritto
anche un’opera divisa in otto volumi dal titolo Antiquitates rerum humanarum et divinarum. Con quest’opera Varrone sembra
voler coniugare i suoi saperi antiquati con la storia, perché ha una finalità precisa di natura politica. Ci troviamo nella fase post
cesariana, abbiamo detto che Varrone non si avvicinerà più alla politica attiva dopo la sconfitta di Pompeo. Sembra tuttavia che
dopo la morte di Cesare egli sembri voler trovare una soluzione alla crisi (come fa Cicerone nel De Republica) a partire dagli
strumenti di cui dispone, cioè la conoscenza degli antiquitares, e allargare il pubblico di destinazione della sua opera: non la
cerchia ristretta di intellettuali, ma lettori estesi; da qui la scelta di un genere letterario diverso. Tenta di rendere maggiormente
divulgativo il passaggio di queste conoscenze. Ritiene di poter suggerire una soluzione alla crisi.
In quest’opera si nota un certo ideologismo storico, Varrone è stato colui che ha introdotto questo tipo di storiografia, cioè l’idea
delle fasi della vita di Roma riportate nelle fasi di un organismo civico: la nascita, lo sviluppo, la fioritura e il declino del popolo
romano (da cui il titolo De Vita populi romani). Nell’ultimo libro si occupa della crisi della Repubblica. In quest’opera Varrone
è diretto, è duro, attribuisce le responsabilità a chi deve senza nascondersi, citando le sue fonti. C’è chi ha pensato che la forza
prorompente della denuncia di quest’opera costò a Varrone l’inserimento nella lista delle proscrizioni, ma non possiamo esserne
certi. Fu piuttosto appetibile il possedimento di proprietà. È un’opera di denuncia diretta, che non risparmia colpi, con linguaggio
tagliente e immagini forti e imponenti. Ci viene messo sotto gli occhi questo corpo di uno Stato «pervaso da una cancrena
sanguinolenta»; immagini forti che ci restituiscono una magistratura corrotta, uomini politici che agiscono solo per desiderio di
comando e privi di amore per lo Stato.
Quest’opera costituisce una riposta alla crisi? E’ un’opera di denuncia o di ricetta e di soluzione alla crisi? Varrone propone
qui la sua soluzione, che attinge al suo bagaglio, alla sua formazione e alla sua identità: la sua soluzione è la riproposizione di
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modelli del passato, che però non si configura come una nostalgia di un passato idilliaco; è atteggiamento attivo nei confronti
della tradizione e del recupero della tradizione. Varrone si serve di tutti gli strumenti di cui dispone, come l’etimologia: per lui
esistono molteplici gradi etimologici; il valore principale è che con l’etimologia si arriva a carpire l’elemento generatore di una
parola, un elemento che si è perduto nel tempo ma che possiamo recuperare proprio attraverso (e solo) l’etimologia.
L’erudizione è un tratto della personalità di Varrone, messa al servizio della lettura politica, istituzionale e potremmo dire anche
costituzionale. Questo perché a Roma non c’è una costituzione scritta, non ci sono codici di diritto pubblico o di diritto privato.
Abbiamo visto che c’è piuttosto un sistema basato sulla consuetudine e sulle leges prodotte dai comizi centuriati su proposta dei
magistrati. Nel periodo che stiamo esaminando molteplici sono i movimenti eversivi e le negligenze dell’azione senatoria rispetto
alla consuetudine. Questo significa che quel sistema che ha funzionato fino a questo momento sta cominciando a scricchiolare. In
una società che attribuisce dunque molta importanza alla tradizione e alla consuetudine, i saperi degli antiquitatibus acquisiscono
un valore costituzionale. I depositori della tradizione non solo sono eruditi, diventano i depositari dei saperi costituzionali.
In un contesto storico di squilibrio come questo in cui tutto trema e scricchiola, gli antiquitatibus diventano punti di riferimento e
di orientamento, come lo sono per noi i pilastri costituzionali. Se così non fosse, non servirebbe studiare Varrone proprio in questo
momento. Questo ci fa comprendere anche perché Augusto proponga come maestro dei nipoti che ha destinato alla successione la
figura di Gaio Flacco, un liberto esperto di antiquitatibus. Non ci stiamo muovendo ora in una prospettiva di tipo culturale, bensì
politico: i saperi di antiquitatibus come linea di orientamento nella gestione dello stato. Ecco perché studiamo Varrone.
I passi di Gellio mostrano il legame tra antiquitates e politica. Questo è un punto importante: valore politico delle antiquitates.
[2] Varrone nelle lettere scritte ad Oppiano (si trovano nel IV libro delle questioni epistolari) riferisce che l’opuscolo per Pompeo
è andato perduto (perisse). Gellio non dice né quando né come, forse è successo dopo Farsalo. Per questo lo vuole riscrivere.
Il cambio della giustificazione etimologica è per noi un segnale. Dopo pochi anni Varrone tornando sull’etimologia di curia sposta
il focus dal senato come istitutzione al singolo senatore, come se volesse sottolineare la continuità tra vita privata e vita pubblica.
Anche nella Pro Sestio sottolinea allude al carattere personale, dicendo in casa propria bisogna essere onesti e leali. Negli stessi
anni Cicerone nel Cato maior 38 mette in bocca a un Catone anziano l’affermazione: venio in senatum frequens, ultrove affero res
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multum et Diu cogitatas. “Vengo in senato assiduamente e vi apporto spontaneamente (porto con me da casa) le idee sulle quali ho
riflettuto a lungo”. Emerge l’immagine di un Catone anziano che continua nonostante tutto a dedicare il proprio impegno alla vita
pubblica perché continua ad avvertire la sua responsabilità: porta con sé i risultati di una riflessione continua, sono argomenti su
cui ha pensato molto, è come se avesse un pensiero fisso su quello. Questa figura crea imbarazzo a chi invece si disinteressa alla
vita politica e non presta più la sua funzione nelle istituzioni. Catone va in senato non perché non sa che fare ma perché vuole dare
il suo contributo alla vita pubblica. Dunque, pure Cicerone nel Cato maior mette in luce l’importanza della cura e dell’attitudine
del singolo senatore (in questo caso di Catone). Negli stessi anni Varrone cambia la sua prospettiva. Emerge in ogni caso in questi
passi il motivo del senato come organo presente e attivo e costantemente in ascolto delle esigenze e al servizio della res publica.
Dobbiamo sempre stare attenti al nostro contesto storico, in cui domina un senato assenteistico. La Lex Iulia de senato avendo
del 9 a.C. è l’unica legge della quale fu autore Augusto che regolamentò i meccanismi di funzionamento del Senato.
La conosciamo per la gran parte (non la conosciamo per intero) da Svetonio (Vita di Augusto) e Cassio Dione. Uno dei punti
della legge era l’assenteismo: un senatus frequens (senato pieno, affollato) è un senato più autorevole ovviamente, le cui decisioni
sono maggiormente legittimate. Un senatus frequens da più autorevolezza all’assemblea. Da qui nasce la necessità di valorizzare
l’immagine di un senatore dedito e non del senato per intero come mera organizzazione. Provvedimenti di Augusto per ridefinire
le responsabilità del senato: lectiones ssenatus e Lex Iulia.
Ci stiamo muovendo all’interno del profilo dell’uomo politico coerente con il mos maiorum, caratterizzato dalla lungimiranza, dal
coraggio nel sostenere le proprie idee, dalla forza dello spirito piuttosto che dalla forza fisica (Catone per esempio è un uomo
avanti con gli anni, quello che regge il suo impegno politico è infatti la sua forza dello spirito). È interessante perché tale modello
di senatore si afferma in un momento di profonda crisi del ceto politico a Roma.
Dalle pagine di De vita populi fuoriusciva evidentemente il presente di un ceto dirigente per niente consonante con questo profilo.
È importante mettere in evidenza il concetto di cura di cui Varrone propone un’etimologia in De lingua latina 6.46: cura quid cor
curat. C’è una descrizione efficace e pungente, che si riferisce all’attenzione interiore del senatore ad occuparsi della repubblica.
Cura è anche usato dallo stesso Cicerone con sostantivi come cogitatio, proprio a indicare l’atteggiamento del pensiero ricorrente
di un senatore costantemente teso alla riflessione politica per il bene dello Stato. Cosa ha spinto Varrone a mutare l’etimologia
da De lingua latina a De vita populi romani (opera che ha una prospettiva storica)?
Prima di andare avanti guardiamo anche all’etimologia di consul nel De lingua latina 5.80
Consul nominatus qui consuleret populum et senatum, nisi illinc potius unde Accius ait in Bruto: qui recte consulat, consul cluat.
“È definito console, chi ha il potere di consultare il popolo e il senato, a meno di non voler piuttosto partire da quanto dice Accio
nel Brutus: prenda il nome di console, chi provvede con rettitudine”. Accio nel Brutus secondo Varrone darebbe una definizione
diversa del console, come colui che si occupa e provvede correttamente (recte), con giustizia.
Varrone, De vita populi romani 121R =434S=115P (Varrone dinnanzi alla crisi della Repubblica)
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Tanta porro invasit cupidatis honorum plerisque, ut caelum ruere, dummodo magistratum adipiscantur, exoptent.
“In seguito una così grande cupidigia di cariche ha invaso i più, che accetterebbero persino che venga giù il cielo, pur di ottenere
una magistratura”. Si distrugga pure tutto, la cosa più importante è ottenere una magistratura.
In 112R=435S =116 P non parla del’amore verso lo stato ma dell’amor imperium, cioè l’amore per il potere: a causa del desiderio
e della passione sfrenata per l’imperium (passione in senso negativo) cercano di ottenere in ogni modo le magistrature per ottenere
il potere (ad dominatus), arrivando a provocare seditionibus sanguinolentis “sanguinosi contrasti e sedizioni” (le guerre civili).
È questa una descrizione del ceto politico che non lascia molti spiragli.
In un altro passo Varrone fa riferimento al popolo romano, percorso da una cancrena sanguinolenta, che pervade tutto il popolo
romano (117). Nel quarto libro a Roma domina una magistratura ormai ricoperta da soggetti tesi soltanto all’interesse personale,
ecco perché è importante inserire nell’etimologia di consul l’idea di un magistrato diverso, che si prende cura e provvede ad un
Senato evidentemente ormai allo sbando, quindi un console proteso a prendersi cura dello Stato, non impegnato in una guerra per
la conquista dei propri incarichi magistratuali ma partecipe alla vita dello Stato.
In questo modo vanno a porsi in contrasto due modelli, due immagini, due prosepttive diverse: da una parte la realtà dominante
descritta nel quarto libro, dall’altra i modelli politici che considerano figure di magistrati impegnate nella cura dello stato.
“La curia che ora risplende alta con il senato in pretesta, ebbe senatori vestiti di pelli, animali rustici. Un corno richiamava
all’assemblea i Quirites; cento di loro, spesso, in un prato erano il senato.”
È una elegia incipitaria presente nel libro IV. Si apre con l’immagine di un visitatore che arriva a Roma, gli viene mostrata la città
splendente e rinomata con le sue meraviglie. Dopo dieci versi, colui che mostra la città porta il visitatore a guardare dall’alto la
nuova curia, inaugurata da Ottaviano ma cominciata ad essere costruita sotto Cesare (la curia in cui Cesare era stato ucciso non
fu più adoperata per la vita pubblica). Emerge l’immagine di una cura che erge splendente con il senato in pretesta (in toga) che si
muove nella curia. Ma poi si dice che la curia ebbe un tempo senatori vestiti di pelli, di animo semplice e rustico, in poche parole
gente semplice. Poi si legge che una tromba (corno) richiamava e convocava (cogebat) gli antichi Quiriti a discutere (ad verba)
in assemblea. Quello ad essere rappresentato è il senato lontano di Romolo. All’epoca erano solo 100 (non si riunivano in una
curia nuova e splendente ma in un prato, in campagna) a fronte della plètora dei senatori che caratterizzerà il senato augusteo,
su cui interverrà lo stesso Augusto, per ridimensionarlo. Al tempo di Romolo ci sono quindi solo cento senatori. Il passo proviene
dalla tradizione unanime, tuttavia nel ‘600 Heinsius corregge prato in prati, genitivo. La congettura di Heinsius ha avuto molta
fortuna, anche se non è proprio convincente: saepe sarebbe l’ablativo di saeps, tradotto “nel recinto di un prato” anziché “spesso”.
Forse non c’è bisogno di correggere quel testo: Properzio sta giustapponendo il senato romuleo della prima Roma (cento persone,
vestiti semplici, un prato per riunirsi) a quello del presente (curia nuova e splendente, appena inaugurata, senatori in pretesta).
L’utilizzo di saepe come “spesso” in un’elegia scritta negli anni in cui l’assenteismo è punibile dalla legislazione augustea ha un
senso perché indica venio frequens in senatu “vengo spesso in senato”.
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Ci sono delle parole chiave, come per esempio civili e concordia. De vita populi romani 108P = 114R = 425S: quando parla dei
Gracchi (inizio delle guerre civili) dice: in spem adducebat non plus soluturos quam vellent; iniquus <senatui> equestri ordini
iudicia tradidit ac bicipitem civitatem fecit, discordiarum civilium fontem “(Gaio G.) ostile al senato, trasferì i tribunali all’ordine
equestre e rese la civitas a due teste la fonte delle discordie civili.” Varrone usa discordia: la civitas deve essere una, quando essa
si spezza, la forza dello stato, garantita nell’unitarietà e nella sua compattezza, viene meno. Il tribunato di Gaio, nel momento in
cui ha inserito nelle giurie i cavalieri, ha creato una civitas a due teste, che secondo Varrone è stata fonte di discordie. Tale strappo
e separazione tra i cittadini ha portato la civitas ad ammalarsi e a invecchiare (personificazione della civitas). È per questo motivo
interessante che Varrone all’inizio del libro IV richiami proprio la concordia divile.
Il primo frammento del IV libro è tratto dal De compendiosa doctrina di Nonio Marcello, che viene citato sotto la voce differre,
“diffamare”, insieme a un frammento tratto dal trentesimo libro delle satire di Lucilio. È ovvio che i frammenti delle opere non ci
giungono in modo ordinato: spetta a chi cura le varie edizioni capire qual è l’ordine giusto. Nell’edizione di Pittà il frammento
438 aprirebbe il IV libro di De vita populi, come abbiamo già detto. Il IV libro doveva contenere il racconto dell’epoca Gracchi,
legata alla guerra civile e su cui Varrone si esprimeva (lasciandoci scoprire il Varrone politico): l’autore si inseriva nel racconto in
prima persona, esprimendo giudizi sugli avvenimenti, non rimanendo neutro, giudizi sui personaggi e la sua disapprovazione per
la condizione patologica che affligge le articolazioni del popolo romano. Soltanto Litz 1903 e Salvadore 2004 hanno accettato il
frammento così come arrivato dalla tradizione manoscritta; è stato oggetto di numerosissimi interventi frutto di congetture, perché
così come si propone il frammento, esso è risultato difficilmente comprensibile e ha avuto bisogno di molte rimaneggiature:
- civilis concordiae (edizione Pittà 2015);
- civili <cum> concordia (edizione Muller 1888);
- parent (edizione Kettner, 1863, Muller e Riposati);
- rumore (edizione Quicherat 1872).
- Concordie (C con A).
I problemi che hanno preoccupato gli editori e che hanno portato alla rimaneggiature sono stati principalmente tre:
- L’ablativo civili concordia;
- L’assenza di soggetto di paret nella protasi;
- Differenza tra verbo nella protasi, singolare (paret) e il verbo nella apodosi, plurale (carpant).
Le risposte sono state ottenute correggendo il testo. Nell’ultima edizione di Pittà 106P (la P sta per Pittà) il passo è diventato:
Si modo civilis Concordiae exsequi rationem parent, rumore famam differant licebit nosque carpant.
In questa ultima edizione noi ci troviamo di fronte a un frammento che ha un significato non convincente: “Purché si adoperi un
modo di ottenere la concordia tra i cittadini, facciano pure a pezzi la mia reputazione con chiacchiere malevoli e mi facciano
oggetto di attacchi”. Varrone accetterebbe di essere fatto a pezzi purché la soluzione si risolva, come se fosse il capro espiatorio.
Ma perché dice così? dovremmo pensare che sia lui la causa della guerra civile? Se il testo risulta più corretto e più accettabile dal
punto di vista grammaticale, allo stesso tempo suscita molte perplessità dal punto di vista del significato.
Dobbiamo tenere presente che un testo di Varrone è un sistema complesso, perché è personaggio in cui confluiscono conoscenze,
saperi diversi: è un sistema stratificato su più livelli e consapevolezze; i suoi testi sono pieni di citazioni e tradizioni, ne consegue
che non possiamo fermarci alla prima lettura.
Parmeno lo schiavo dice: rem cognosces, iram expedies, rursum in gratiam restitues. “Capisci cos’è uccesso, fallo calmare,
mettili d’accordo”. Quando si vuole risolvere un conflitto, quindi, la prima cosa da fare è capire la situazione che ha portato ad un
conflitto. Questa è la tappa principale.
Pamfilo risponde: (…) sed magnum nescio quis necesse est evenisse. Parmeno, unde ira inter eas intercessit, quae tamen
permansit diu. Gli risponde stanco e spossato “Ma io non so bene che cosa sia successo. Parmirone, perché sia nata l’ira tra i due,
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la quale tuttavia dura molto tempo”.
Parmeno gli da un consiglio: si vis veram rationem exsequi non maxumas quae maxumae sunt interdum irae iniuras factum. “Se
tu vuoi capire veramente la vera ragione/se tu vuoi veramente capire fino in fondo/se vuoi capire le cose razionalmente, in alcuni
casi non sono gli scontri più gravi a provocare le offese più gravi”. Il senso è che non necessariamente c’è una grande ragione
dietro un grande conflitto.
Poi Parmeno continua: pueri inter sese quam pro levibus noxiis iras gerunt! Quapropter! Quia enim qui eos gubernat animus eum
infirmum gerant. Itidem illae mulieres sunt ferme ut pueri levi sententia. Le liti tra donne secondo lui sono come liti tra bambini:
come i bambini litigano tra loro per delle cose insignificanti, anche le donne hanno uno spirito superficiale.
Lo stesso esempio è riportato da Livio in un discorso fatto pronunciare da Emilio Paolo nel 168 a.C.:
“La stessa cosa, infatti, vorranno i tuoi soldati e quelli dei nemici; la stessa cosa pretenderanno il console romano Varrone e il
comandante cartaginese Annibale. È necessario che tu, da solo, resista a due comandanti. E resterai, se con sufficiente fermezza ti
opporrai all’opinione corrente e alle chiacchiere della gente, se non ti si smuoveranno né la gioia vana del collega né la tua
immeritata cattiva fama”. Il punto è che è necessario che uno da solo resista contro la fama e le dicerie della gente.
Exsequi orationem: conoscere i fatti ci permette di procedere con la risoluzione dei conflitti (rem cognosces).
È l’opposto della lenitas animi del puer e delle donne crea un precipitare della situazione. Quindi, la conoscenza è il primo passo
per risolvere un conflitto.
Rumores differant: quando aspiro a raggiungere un obiettivo, devo essere disposto ad andare contro tutto e tutti, anche a costo di
compromettere la mia persona.
Tornando al frammento, il soggetto di paret è exsequi rationem; paret è stato corretto in parent, è stato quindi ritenuto che venisse
da paro (“preparino”). Se pensiamo che derivi da pareo, paret è per forza indicativo presente. Ma si può avere paret all’indicativo
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se c’è il si modo? Sì, per esempio lo usa Properzio 4.1.49. Avrebbe un valore restrittivo in questo caso. Pareo si costruisce con il
dativo, in questo caso civili concordia (dovrebbe essere concordiae al dativo). Dobbiamo quindi supporre un errore meccanico a
monte della tradizione (inoltre, C con A correggeva concordia con concordie): essendoci dopo concordiae exsequi, forse è caduta
la -e finale.
Se andiamo avanti, nell’incipit del libro IV ci sono molti argomenti delicati, Varrone sa bene di esporsi, però ha una finalità: la sua
opera ha una finalità storica, va alla ricerca della verità: che lo diffamino, l’importante è ripristinare la concordia civile e la
salus rei publicae. La conoscenza infatti è il primo passo per la risoluzione dei conflitti, quindi: ben venga che venga diffamato.
Bisogna approcciarsi razionalmente alle cause delle discordie, andare fino in fondo (razio significa secernere, capire, giudicare in
ogni ambito l’applicazione di un metodo).
Ma non tutte le persone apprezzavano quello che faceva Varrone, molte lo accusavano, ma è difficile per noi capire questi richiami
(entra nelle liste di proscrizione, forse per qualcosa che ha scritto). L’unica cosa che si può dire è che Varrone emerge, nelle lettere
che Cicerone gli scrive, come personaggio dall’occhio acuto, che si comportare in politica, che non cede alle pressioni, che va
sulla sua strada senza distrarsi, i rumores sembrano non toccarlo.
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Un frammento interessante a riguardo è di Ennio in cui parla dell’uomo di governo, che dopo aver trascorso la maggior parte della
sua giornata tra il foro e il Senato, è stanco e torna la sera la casa. È opportuno che un uomo di governo (lo sappiamo perché ha
trascorso la maggior parte della giornata tra il foro e il senato) alla fine della sua giornata condivida la mensa con un personaggio
che abbia una serie di qualità, tra le quali quella di saper padroneggiare le antiquitates.
Perché quindi l’uomo di governo deve affiancarsi a personaggi che conoscano le antiquitates? Nel De lingua latina di Varrone (e
anche in Verrio) troviamo sempre questo sviluppo tra “era” (un tempo”) ed “è” (ora): il suo costume e il suo eventuale sviluppo.
Noi oggettivamente non sappiamo perché Pompeo lo chiede a Varrone, ma sappiamo che Varrone conosce quelle procedure che
sono fondamentali e non possiamo di conseguenza escludere che Pompeo riconosca a Varrone anche quella conoscenza ampia del
vecchio e nuovo costume, che possa fungere anche da bussola nella gestione di alcune funzioni. Il passo di Ennio è significativo,
perché diventa addirittura fondamentale nell’apparato, nell’entourage più stretto che circonda un uomo di governo, questo già in
Ennio, in un momento in cui ancora non scricchiola il sistema di funzionamento ordinario delle istituzioni, per cui già con Ennio
era importante accanto ad un uomo di governo la presenza di un personaggio conoscitore delle antiquitates.
Ed è per questo che Varrone è interpellato da Pompeo per questo delicato compito.
Gellio in un altro passo (cum ex…) dice che quando uscii da quell’angolo segreto ed entrò nel foro, si imbatté in una questione: la
questione è se il questore può compiere presso il pretore un’azione, si può fare o no? I maestri si consultano senza arrivare a una
soluzione. C’è un dibattito tra gli esperti di diritto e Gellio si trova ad ascoltare le questioni. E poi dice: sed ego qui tuum adsiduos
in libris Marci Varronis fui, cioè lui, che era un lettore accanito di Marco Varrone, (qusto consolida l’idea che Gellio conosceva
Varrone), andò a ricercare la risposta nei libri di Varrone, tra i libri che conservava nella sua biblioteca personale, e trovandola
precisamente nel libro XXI. Il giorno dopo si reca al foro, riferisce quanto Varrone aveva scritto e tutti furono d’accordo!
È interessante quindi il fatto che anche a distanza di due secoli il giovane Gellio, che conosce a menadito Varrone, va a casa, sa
dove cercare, trova il libro XXI, trova la risposta, e tutti sono d’accordo, risolvendo il quesito. Il passo conferma due cose: 1) la
conoscenza diretta di Gellio della letteratura varroniana e 2) la sua autorevolezza presso gli stessi esperti di diritto. Varrone lo
leggiamo per le questioni linguistiche ma ora apprendiamo che è anche un’autorità tra studiosi e maestri, di diritto.
Lettura di Gellio, Noctes Atticae 14. 7: …cum initurus foret…. : initurus etimologicamente è importante, indica una introduzione
fisica di Pompeo al senato alla carica di console e insieme una introduzione alle conoscenze necessarie allo svolgimento di questo
compito è il commentario che per lui viene redatto da Varrone.
In questi passi sembra che Gellio avesse accanto a sé e scandisse lo svolgimento di questa lettera, avendo la necessità (quando
dice: prima, ora, dopo, in seguito, come dice Varrone) di confermare quello che sta scrivendo e di far capire al lettore che ha nelle
mani questo passo. Per il secondo punto da sottolineare bisogna entrare in una questione che Varrone tratta e che Gellio riprende.
È una questione tecnica. In primo luogo, come prima cosa, pone una questione, cioè chi fossero i magistrati attraverso i quali,
secondo il costume degli antichi, soleva essere convocato il Senato. Gellio non si ferma ad enunciare il tema. La prima cosa da
dire è chi convoca il Senato, chi è competente e nomina chi sono i magistrati: pretorem, consules, tribunus plebis, praefectum
urbi… (pretore, console, tribuno della plebe, pretore urbano). Se tutti questi magistrati sono contemporaneamente a Roma bisogna
tenere presente il modo in cui sono elencati. Prima mette quelli secondo consuetudine, prima il più alto di tutti e poi quello per
diritto straordinario, i tribuni militari, che svolgevano la loro funzione al posto dei consoli (nel I secolo la plebe chiede di poter
accedere al consolato, i patrizi sono restii perché ciò avrebbe dato diritto agli auspicia e quindi si risolve con l’introduzione di
questa figura, che ha potere di console ma non è console), i decemviri e i triumviri republicae costituendi causa cioè il secondo
triumvirato del 43. C’è però una cosa strana, perché i triumviri republicae costituendi causa sono successivi al 70 a.C.
Poi parla di una località, scrive dei luoghi, dei posti, in cui si può per iure (legge proposta senza seguire le procedure) produrre un
senatoconsulto. Docere ritorna sempre. Diede l’insegnamento e rinforzò l’idea che il senatoconsulto non è fosse stato votato in un
luogo inaugurato, non fosse legale ma prodotto di iure. Solo quello votato in un luogo inaugurato è legittimo. Emerge un altro dato
strano consistente nel riferimento alla cura Iulia, inaugurata nel 28. Si tratta di interlopazioni di Gellio?
Al par. 9, antea ritorna di nuovo (pure nel De lingua latina ci troviamo nella stessa attitudine: era e poi si è trasformato. Lo
studioso di antiquitaribus non è un semplice registratore di notizie tuttavia sa bene di cosa sta parlando, ha un quadro chiaro degli
sviluppi). L’argomento è chi ha il diritto a parlare per primo in Senato (ius primae sententiae), dice: «certamente un tempo
(antea) era solito essere interpellato per primo colui che, quando è stata fatta la lectio senatus dal censore (Plebiscito Ovinio 312
a.C.), cioè la rassegna del senato, per capire quanto ce ne sono di senatori e quanti ne mancano e ha elaborato la lista dei senatori,
il senatore che occupa il primo posto e che ha il curriculum più forte è il princeps senatus che ha il diritto a parlare per primo
(antea, un tempo) mentre scriveva questi argomenti (cum haec scriberet: Gellio lo sta prendendo da Varrone evidentemente; usa
refert, un verbo collegato a Varrone, per cui riporta le informazioni direttamente alla fonte di Varrone). C’è il riferimento a novum
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morem: nuova consuetudine, institutum. Si è affermata una nuova consuetudine per cui si è affermato un cambiamento, un novus
mos sulla scorta di ambitionem gratia: ambitio e gratia non sono però due valori positivi. Qual è questo novus mos? Chi aveva
convocato il senato poteva scegliere chi dovesse iniziare a parlare per primo tra gli ex consoli (si ritrova nella Lex Senatus
Iulia habendi). L’uso di gratia è di per sé positivo. Tuttavia nel I secolo a.C. troviamo un valore negativo soprattutto nell’attività
giudiziaria. In ogni caso dobbiamo chiederci perché nel 71 a.C. si dice che chiamare a parlare per primi i princeps senatus è una
consuetudine antica? Questo ci porta fuori l’asse cronologico rispetto al 71 a.C., che abbiamo considerato come l’anno di stesura
dell’opuscoletto. Si apre un dibattito: le interpolazioni di Gellio sono una della prime ipotesi avanzate, ancora oggi è così. Gellio
in questo passo tiene a sottolineare la sua aderenza al testo di Varrone, e lo sottolinea in più parti (come haec scriberet: uno che sta
interpolando non dice che si sia affermato un nuovo costume mentre lui stesso scriveva): sembra esserci una chiava aderenza del
testo di Gellio allo scritto di Varrone.
Proprio in relazione allo ius prime sententiae c’è un altro passo di Gellio: 4.10. 1-4.
Si dice che il princeps senatus parla per primo. La seconda procedura di Gellio, che chiama a parlare per primi i consoli designati
(coloro eletti a dicembre e diventati consoli a gennaio) non c’è in Varrone. Il terzo punto è la scelta di consoli per studi, a seconda
di quello che sembrava più opportuno. Gellio riporta quindi tre possibilità, prima ne riportava due perché prima leggeva Varrone e
nel testo Varrone ne riporta due. Come possiamo spiegare queste aggiunte? La risposta è nel testo, che cosa ha davanti Gellio? Il
libro IV delle questioni epistolari, che si riteneva fosse una riproduzione anastatica del commentario escatogico. Gellio non sta
dicendo che sta leggendo il commentario, ma legge il IV libro delle questioni epistolari e le lettere ad Oppiano che Varrone aveva
redatto tornando a un argomento che aveva già trattato e lo scritto riguardo al quale è andato perduto.
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