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LETTERATURA ITALIANA DELL’ETÀ ROMANTICA

12 CFU – prof. Marco Antonio Bazzocchi


a.a. 2020/2021
Programma
1. Edizione qualunque di Operette Morali e Promessi Sposi
2. Leopardi, a cura di F. D'Intino e M. Natale, Carocci 2018 (in particolare: La prosa, di F. D'Intino; La filosofia di
A. Aloisi; Le traduzioni e gli scritti filologici, di V. Camarotto; L'ironia e la comicità, d M. A. Bazzocchi; L'antico
e il moderno, di F. Camilletti e M. Piperno);
3. Manzoni, a cura di P. Italia, Carocci 2020 (in particolare: Il primo romanzo: Fermo e Lucia, di D. Brogi; Dal
Fermo e Lucia alla Venisettana, di D. Martinelli; I promessi sposi (1840), di M. PAlumbo; La Storia della
colonna infame, di G. Raboni; Il romanzo e la storia, di G. Panizza; La religione, di P. Frare; Il romanzo
illustrato, di S. Nigro e F. de Cristofaro)
4. Per i temi trattati nelle Operette Morali si può fare riferimento a F. D'Intino, L'immagine della voce. Leopardi,
Platone e il libro morale, Marsilio 2009
5. Per i temi del comico e dell'ironia è fondamentale la lettura di: M. Bachtin, Dostoevskij, Torino, Einaudi (le pp.
133-179, dedicate alla tradizione del carnevalesco).
6. Per i temi del romanzo in generale (per es. la differenza novel/romance) si fa riferimento a G. Celati,  Finzioni
occidentali, Torino, Einaudi (in particolare il primo capitolo).

FILONI DEL CORSO: Tragico e comico; ironia; personaggio e racconto; voce narrante; emozione e testualità.
Per informazioni pratiche sul corso scrivere a Tommaso Grandi: tommaso.grandi2@unibo.it

Calendario lezioni

15/02 Problema dell’opera. Leopardi a Napoli. | 24/03 Dialogo di un Fisico e di un Metafisico.|


16/02 Oralità/Scrittura: I Promessi sposi e Introduzione.| 29/03 Dialogo di Cristoforo Colombo e Gutierrez.|
17/02 Indiscrezione, curiosità e fascinazione in Manzoni.| 30/03 Dialogo di Cristoforo Colombo e Gutierrez.
22/02 Storia del genere umano. | Manzoni: XVI-XVII. |
23/02 Storia del genere umano. | 31/03 Manzoni |
24/02 Storia del genere umano. | 6/04 Elogio degli Uccelli
1/03 Il carnevalesco. Dialogo d’Ercole e di Atlante.| 7/04 Elogio degli Uccelli
2/03 Dialogo di Ercole e di Atlante. Il Carnevalesco ne I Promessi 12/04 Elogio degli Uccelli
Sposi. 13/04 Filosofia cinica. Don Abbondio.
14/04 Italo Calvino. Pirandello. Don Abbondio.
3/03 Dialogo della Moda e della Morte|
19/04 Detti Memorabili di Filippo Ottonieri
8/03 Dialogo della Moda e della Morte. Idea del corpo grottesco.
20/04 Dialogo di Timandro ed Eleandro.
Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo.|
21/04 Ultime operette
9/03 Dialogo di un folletto e di uno gnomo. Faust. |
26/04
10/03 Faust-Leopardi.|
15/03 Dialogo di Malambruno e Farfanello |
16/03 Rapporto Faust-Manzoni|
17/03 Dialogo della Natura e di un’Anima|
22/03 Ironia. Dialogo di un Fisico e di un Metafisico.|
23/03 Dialogo di un Fisico e di un Metafisico. |

Operette Morali: Storia del genere umano, Dialogo di Ercole e Atlante, Dialogo della Moda e della Morte, Dialogo di un
Folletto e di uno Gnomo, Dialogo di Malambruno e Farfanello, Dialogo della Natura e di un’Anima. Dialogo di un Fisico e
di un Metafisico. Dialogo di Cristoforo Colombo e Gutierrez. Elogio degli Uccelli. Detti Memorabili di Filippo Ottonieri.
Cantico del Gallo silvestre. Frammento apocrifo di Stratone di Lampasco. Dialogo di Timandro ed Elenadro. Dialogo di
Tristano e di un amico.

Promessi Sposi: Capitolo I-III-VIII-XI-XX-XXI-XVI-XVIII-

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Problema dell’opera.

Promessi sposi e Operette Morali: opere che nascono con due intenzioni opposte l’una all’altra. Si tratta di opere che
ovviamente non nascono dal niente: i Promessi Sposi hanno un inizio, al quale seguono avventure più o meno complesse
distribuite su un preciso arco temporale; hanno un finale, laddove con finale intendiamo il momento conclusivo
dell’opera, in cui c’è lo scioglimento dell’azione. Anche le Operette Morali hanno un inizio e una fine: Leopardi le ha
predisposte secondo un ordine non casuale, ma non sappiamo se l’inizio delle Operette coincide o meno con l’apertura di
un’azione che vuole compiersi; e non sappiamo se il finale è la fine di un percorso che Leopardi ha tracciato. Questo
perché l’opera non segue un filo logico: non c’è un’avventura. Noi possiamo sceglierne un pezzo e leggerlo. Se facciamo
così con i Promessi Sposi, invece, ci troviamo in difficoltà perché non riusciamo a capire cosa c’è prima né cosa c’è dopo.
Che cosa sono l’inizio e la fine di un’opera? E perché sono importanti? Quale consapevolezza avevano gli autori
nell’utilizzare termini come inizio e fine? Anche i termini trama e intreccio: come li concepivano Manzoni e Leopardi? E
che cos’è un’opera?

Cosa possiamo definire realmente libro? Il concetto di opera è abbastanza moderno, ha a proprio a che fare con le due
opere di cui ci occupiamo. In maniera più neutra, possiamo chiamarle testi, libri. Sia Manzoni che Leopardi quando
hanno deciso di pubblicare queste due opere hanno dato loro una specificazione per aiutare il lettore nella lettura.
Manzoni ha dato un’indicazione esplicita: la sua è una storia ambientata nel Seicento, ripresa e tradotta per un pubblico
moderno, che appartiene a un genere chiamato romanzo e a cui Manzoni aggiunge l’aggettivo ‘storico’: è cioè un romanzo
che s’intreccia con la storia. Con la sua opera infatti dovremmo riuscire a comprendere qualcosa della storia del ‘600. Ma
a questo punto ci chiediamo: Manzoni è fedele o no agli eventi storici? Non è detto infatti che, dai libri consultati, l’autore
abbia ricavato dati davvero obiettivi. Sappiamo quali libri ha consultato e ha studiato prima di scrivere il romanzo, ma
quando Renzo pensa di uccidere don Rodrigo, dove sta la fonte che ci documenta questa cosa? Forse lui pensa che in
quell’occasione, un uomo povero come Renzo avrebbe deciso di vendicarsi (come accade in ogni epoca). Il problema è che
nel ‘600 la vendetta ha una sua ritualità, soprattutto nel mondo aristocratico, quindi Manzoni sa bene di non poter
cadere nell’errore di rappresentare Renzo che corre da Don Rodrigo e lo pugnala alla schiena, perché Manzoni sa bene
che quei passaggi non gli sono consentiti nella sua epoca. Per quanto riguarda le Operette Morali, invece, Leopardi non ci
dà nessuna indicazione. Operette è una parola un po’ strana: la troviamo in molte opere antiche, ma non sappiamo bene
che significato assume quando Leopardi sceglie di utilizzarla. Lui stesso a volte parla di ‘ satirette’; e alla fine opta per
‘operette’, un diminutivo vezzeggiativo.

Ci troviamo tra il 1835 e il 1836: Leopardi poco prima di morire sceglie di trasferirsi a Napoli assieme all’amico Ranieri,
e lo fa per due ragioni: la prima è legata alla salute dell’autore, dato che è malato all’intestino, stomaco e occhi, quindi
pensa che spostarsi a sud dove il clima è più mite, li possa fare bene, anche su consiglio del dottore. Napoli però è una
scelta un po’ strana: Leopardi, uomo del centro-Italia, non è abituato a una città del sud; eppure Napoli è molto vivace
intellettualmente, forse all’epoca lo è ancor più di Roma, ricca di scuole filosofiche. Però lui fondamentalmente pensa al
clima mite e a un luogo che gli consenta di stare lontano da Recanati, per non subire l’ingerenza del padre e della
famiglia. Quando giunge a Napoli scoppia un’epidemia scoppia di coléra (in una città come Napoli è frequente): la gente
muore per la strada, così Ranieri pensa di andare a vivere fuori città, in un posto meno rischioso; eppure a Leopardi piace
molto vivere in città e intrattenersi con gente modesta che non lo conosce e che dunque non lo mette in difficoltà
intrattenendolo con questioni complicate. I due amici vanno così a vivere in campagna, vicino al Vesuvio – qui nascerà la
Ginestra –. Nelle lettere di questi anni Leopardi parla con suo padre soprattutto per ragioni economiche (lui infatti a
differenza di Ranieri non lavora, quindi ha bisogno che il padre lo sostenga economicamente). Quando scrive ai genitori

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però, Leopardi è molto attento a dire loro che, malgrado l’epidemia di colera, si trova in un luogo sicuro. E a Napoli
succede che un editore di nome Staridda, grazie anche alla mediazione di Ranieri, li propone una cosa nuova: raccogliere
tutte le sue opere, tutto ciò che ha scritto sino a quel momento e in parte già pubblicato, in un’opera unica (quindi: Canti,
Operette Morali, studi vari di filologia e altre cose).

Le Operette Morali hanno già avuto precedentemente una loro fortuna perché pubblicate a Milano presso l’editore Stella
nel 1827 (non tutte ma solo un gruppo, seppur consistente). E nel 1834 un editore di Firenze, Piatti, pubblica un altro
volume, corrispondente più o meno alle Operette così come le conosciamo adesso. A differenza di Manzoni, Leopardi non
gode di fama. Si tratta di un aspetto importante: innanzitutto Manzoni è un nobile aristocratico molto ricco e influente,
dunque a differenza di Leopardi può contare su vari aiuti, in virtù della sua condizione sociale. Inoltre Manzoni si dedica
a un genere letterario molto in voga all’epoca: il romanzo, che è diretto a un pubblico vero – soprattutto femminile –
poiché fatto di gente che ama leggere romanzi. Al contrario, Leopardi non ha fama né pubblico: scrive poesie fuori moda
e contro il gusto dell’epoca, quindi non viene letto da nessuno. L’unica fama gli proviene dalla carriera di studioso, più
che di autore: infatti fin dai 15 anni si occupa, in qualità di erudito, della materia che noi oggi chiamiamo “filologia
classica”; quindi è conosciuto in quanto studioso e apprezzato per questo. A partire dal 1836, inoltre, comincia a
diffondersi tra gli ambienti letterari la sua fama poetica (quindi piace come poeta ma non come prosatore). La letteratura
italiana ha messo al primo posto Dante, trascurato Boccaccio; per l’età moderna ha messo al primo posto Manzoni e di
Leopardi ha accettato unicamente la poesia. Quando altri studiosi parlano delle Operette Morali, come De Sanctis, hanno
dei dubbi; per non parlare di Croce, secondo cui le Operette non sono altro che “prosa accademica”, considerandole
quindi un fallimento vero e proprio. Presto però Leopardi finalmente trova un editore disposto a pubblicare non solo i
suoi versi ma anche le sue prose, e questo con uno stratagemma: il primo volume contiene poesie; il secondo, invece,
contiene le Operette, con il titolo ‘Prose’ perché già circola l’idea che l’opera sia eretica. È un fatto divertente perché
Leopardi in quel tempo dice a un suo amico che a Napoli, dopo il secondo volume pubblicato, hanno bloccato la
pubblicazione perché la sua filosofia è mal vista dai preti o comunque da coloro che, in un modo o nell’altro, potremmo
chiamare ‘preti’. Ma cosa c’è di davvero così pericoloso nell’opera? Sicuramente qualcosa che va contro una visione
ortodossa, che nonostante Leopardi ha nascosto bene, i preti ci hanno visto lungo perché sempre in grado di riconoscere
un qualcosa che possa mettere in pericolo la loro ideologia. Anche in Manzoni c’è un tentativo forse polemico (si pensi
alla figura di don Abbondio) ma lui è più bravo a mascherarla. Quindi qualcuno ha bloccato la pubblicazione del secondo
volume, tanto che la pubblicazione si ferma.

Nell’ultimo periodo della sua vita Leopardi è in corrispondenza con l’erudito francese Louis De Sinner, il quale considera
lo scrittore un genio a tutti gli effetti. L’erudito si trova a Parigi, mentre Leopardi a Napoli. Proprio a questo amico,
Leopardi si confessa: dice che sa bene che nessuno qui a Napoli vorrà portare avanti la pubblicazione della sua opera,
però forse a Parigi qualcun altro potrebbe farlo. Si domanda dunque se ci sia qualcuno disposto a farlo. C’è un certo
Tommaseo a Parigi che, secondo Leopardi, nella città francese gli sta rovinando la fama: si tratta di un vero e proprio
nemico di Leopardi che ha diffuso voci sgradevoli sul suo conto. Il rapporto di odio è reciproco: anche Leopardi lo odia al
punto da usare un’espressione del tipo mi girano i tommasei. Anche Tommaseo scrive una strofa offensiva nei confronti
di Leopardi: natura lo prese e gli diede un colpo, facendolo diventare gobbo, e poi gli disse di cantare. Eppure
Tommaseo è un uomo molto conosciuto quindi Leopardi teme che l’influenza negativa esercitata sul suo conto abbia
conseguenza per la sua carriera letteraria. In questi anni è interessante notare che Leopardi scrive a molti suoi amici
raccontando la sua vita a Napoli e la preoccupazione per l’epidemia.
A un certo punto un allievo di De Sinner di nome Charl Le Bretton rimane così affascinato da Leopardi da chiedere al suo
maestro il permesso di scrivergli. Leopardi gli risponde nel giugno 1836 con una lettera scritta in lingua francese e il cui
contenuto è senz’altro interessante. Leopardi infatti ringrazia Le Bretton poiché gli ha fatto dei complimenti, e gli dice
che i poeti di solito scrivono per delle anime gentili, e dei cuori teneri e sensibili come il suo (si riferisce a le Bretton). È
un complimento vero e proprio quello di Leopardi; il termine ‘sensibile’ è significativo. E poi aggiunge un’altra riflessione:

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e che io avrei scritto se fossi stato poeta. È una frase particolare “se io fossi stato poeta”: cosa vuol dire? Forse Leopardi
sta facendo un’operazione retorica, quindi cerca di dissimulare; oppure ha la consapevolezza di non riuscire a essere un
poeta (ormai sono molti anni che non scrive poesie: la Ginestra è più che altro un poema complesso e filosofico; e le
ultime poesie le scrive a Firenze). E poi aggiunge: io so che De Sinner mi ha dipinto a voi con caratteristiche esagerate,
non credetegli troppo a ciò che vi ha detto perché la sua amicizia lo porta troppo lontano dalla verità. E poi aggiunge:
dite a De Sinner, ve ne prego, che malgrado il titolo magnifico di ‘opere’ che il mio editore ha voluto dare alla mia
raccolta, io non ho mai fatto delle opere. È la prima volta che Leopardi fa quest’affermazione: egli crede di non aver mai
scritto delle opere vere e proprie ma piuttosto delle ‘prove’, dei tentativi letterari. Leopardi nella lettera usa il termine
francese essait, che oltre a significare ‘prova’ significa anche ‘saggio’, Ha fatto delle prove pensando e tentando sempre di
iniziare a scrivere un’opera vera. Usa un verbo francese che però non ha corrispondente italiano: noi usiamo il verbo
‘preludere’, dal lat. preludus = qualcosa che viene prima del gioco. Il corrispettivo termine francese indica la fase iniziale
di un qualcosa: prima del gioco, infatti, c’è il preludio. Leopardi sceglie di usare il termine francese perché è forse quello
che più lo aiuta a spiegare ciò che sente in questo momento. Leopardi quindi ha cercato di iniziare, tuttavia la sua
carriera non è andata più di tanto avanti: non ha mai scritto opere, ma tentativi; pensava di cominciare, ma la sua
carriera non è andata avanti. La cosa che più fa riflettere è che Leopardi si rivolge a una persona a lui estranea e le fa una
confessione così tanta privata e personale. La consapevolezza leopardiana – un anno prima della sua morte – di non aver
mai cominciato deriva dallo scarso successo ottenuto dai volumi pubblicati fino ad ora; inoltre, nonostante egli abbia
intenzione di pubblicare altri volumi, pensa in realtà di non essere riuscito in niente di ciò che ha effettivamente
progettato. Il concetto e pensiero di Leopardi non è molto semplice da capire per noi, dato che consideriamo il testo
letterario come un ‘insieme compiuto’.

Siamo abituati a pensare che il libro fondamentalmente nasca e si diffonda attraverso la stampa, tuttavia l’avvento della
stampa non cancella le altre espressioni culturali del passato. Certamente essa è importante perché permette di creare
un’industria legata ai libri, industria oggi messa in discussione più volte dalla trasformazione del libro fisico in un oggetto
senza più consistenza fisica (che può viaggiare, cioè, attraverso altre forme); eppure l’impronta notevole della stampa
permane perché anche se leggiamo un libro sul computer o su un altro strumento esso ci appare diviso in pagine e/o
sezioni, esattamente come quello cartaceo. È anche importante precisare che la stampa non cancella le altre forme di
espressività: non distrugge l’oralità, piuttosto la relega a una condizione perlopiù popolare. Quando Manzoni stesso
scrive i Promessi Sposi, le classi sociali medio-basse di certo non vanno in libreria a comprare i libri: si servono piuttosto
di qualcuno che sappia leggere, e che si propone di leggere l’opera a un pubblico di ascoltatori. Non è un caso che
Manzoni nei Promessi Sposi alluda più volte alla presenza di gente analfabeta – Renzo e Lucia, ad esempio – e quindi
bisognosa di qualcuno che legga e scriva messaggi al posto loro. Quindi ai tempi di Manzoni e Leopardi l’oralità è ancora
una forma vivida e diffusa. La cultura stessa viene trasmessa oralmente, se solo pensiamo alla gente che viene pagata per
recitare in mezzo alla strada i poemi cavallereschi, le opere di Ariosto, Boiardo o la Divina Commedia dantesca. E ancora
oggi, nei teatri, nei cinema, permangono forme di oralità. Quindi la parola scritta non cancella le altre forme espressive,
eppure un elemento non è trascurabile: dopo l’invenzione della stampa nascono forme appositamente per la scrittura, e il
romanzo è sicuramente la forma più importante. Quando gli scrittori francesi pubblicano su giornale le varie puntate dei
propri romanzi – ancor prima che questi escano in volume – sanno già che i lettori compreranno il giornale. Anche
Leopardi sa che, scrivendo un romanzo, il pubblico – alfabeta o analfabeta che sia – lo leggerebbe e apprezzerebbe.
Quindi il romanzo si modella sull’idea di un lettore isolato che, chiuso nella sua stanza, come sostiene Walter Benjamin
agli inizi del Novecento, recepisce l’opera da solo anche per allietare il sentimento di solitudine.

Allora cosa succede quando assistiamo allo sviluppo della cosiddetta epoca di modernizzazione? Ci sono dei contrasti
molto forti tra opere che vogliono prendere il sopravvento e opere che vengono messe in una posizione subordinata.
Perché Manzoni non scrive un poema cavalleresco? Perché comprende che non lo leggerebbe nessuno, quindi opta per un
altro genere: il romanzo. Invece Leopardi non sceglie il romanzo perché comprende che il romanzo non è la giusta via per

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esprimere ciò che vuole raccontare. In un periodo di cambiamenti sociali, politici e culturali, collocabili tra la fine del
Settecento e gli inizi dell’Ottocento (rivoluzione francese, Napoleone rivoluzionario ecc.), molti scrittori pensano che sia
necessario abbandonare quelle che erano state le abitudini del secolo precedente e cominciare a pensare a nuove forme di
trasmissione culturale. Ciò che era valido fino al Settecento, cioè il patrimonio della cultura greca, ellenistica, e gli autori
fondamentali di quella cultura, quali Omero, Esiodo, Platone e autori della retorica, che erano riusciti a sopravvivere fino
alla rivoluzione francese, improvvisamente vengono messi da parte nel nome di una cultura di massa e di un’opera
letteraria che il lettore borghese può permettersi di acquistare e leggere da solo, nella sua stanza. Cerchiamo ora di capire
cosa realmente in questo momento storico possiamo chiamare un libro: un libro è un oggetto di consumo, qualcosa di
effimero. Effimero è un termine greco che significa ‘dalla durata di un giorno solo.’ È effimero per definizione il giornale,
ad esempio, che prende nome dal giorno. Quindi il pubblico si affida molto spesso al giornale, cioè lo strumento più
diffuso dell’epoca in questione. Gli scrittori devono adattarsi a questa forma di fruizione delle opere letterarie, dunque
devono adattarsi a quello che è il modo di consumare del pubblico: le opere vengono lette e subito dopo sostituite da
un’altra opera. Per i classici non è stato così: autori come Omero, Eschilo e Saffo non sono stati sostituiti da nessun’opera.
Ma ora l’atmosfera culturale e il pubblico sono diversi, e Manzoni e Leopardi ne sono consapevoli. Allora Leopardi, che
conosce molto bene i greci, ancor meglio di Manzoni – nonostante abbia la sua stessa cultura – sa bene che la cultura
antica – molto resistente e mai consumatasi – è fondata su una trasmissione orale e non scritta: Omero nei secoli è stato
tramandato nei secoli attraverso l’oralità e la stessa cosa è successa per gli altri grandi autori. Adesso invece nasce
un’epoca in cui il libro scritto sostituisce qualsiasi altra forma di trasmissione culturale. La prima soluzione che Leopardi
trova a questo problema è scrivere poesia e non prosa (cioè una forma espressiva che nulla ha a che vedere con la
trasmissione in prosa) tanto che, pensando a Omero, intitola la sua poesia I Canti (termine che rimanda all’oralità e non
alla scrittura). Quando però decide di scrivere delle prose, Leopardi sa che non ha più a che fare con i Canti, perché le
prose devono avere un altro tipo di consistenza.

Lettura passaggio dello Zibaldone: Leopardi si chiede come faccia uno scrittore a diventare famoso oggi se nel giro di
poco le sue opere vengono dimenticate. Dunque come si fa a diventare, come gli antichi, immortali? Omero è immortale,
nonostante le sue opere siano state inizialmente recitate e solo in un secondo momento messe per iscritto. La risposta di
Leopardi è che oggigiorno ci sono troppi libri, buoni/ cattivi o mediocri che siano, essi per necessità fanno dimenticare
quelli del giorno innanzi, sia pur eccellenti. Questo perché la società ottocentesca si sta pian piano trasformando in una
società di consumo: i libri, anche se sono eccellenti, si dimenticano perché ce ne sono troppi. Allora giunge alla
consapevolezza che l’idea di immortalità sia solo un’illusione: gli antichi classici conserveranno quella già conquistata e
mai verranno dimenticati, mentre la sorte dei libri odierni è paragonabile alla vita effimera degli insetti, quindi alcune
specie sopravvivranno un’ora, altre un’intera notte, e altri ancora pochi giorni, ma si tratta pur sempre di giorni.
Introduce praticamente il concetto della globalizzazione: ormai oggi abbiamo una visione complessiva della terra, quindi
a causa della moltitudine dei fatti e delle vicende umane – che ormai sono infinite –, a tutte le professioni è negata la
conquista dell’immortalità. Egli crede infatti che tra duecento anni resterà comunque più noto il nome di Achille
piuttosto che quello di Napoleone, perché l’Iliade ha una vita lunghissima: è stata letta da tempi memorabili e per molte,
moltissime generazioni. Con l’avvento della globalizzazione – quindi della visione globale della terra –, invece, tutte le
azioni degli uomini si consumano troppo velocemente: la loro memoria, la loro capacità di farsi ricordare e anche le opere
letterarie. Paradossalmente il libro di Achille, che in origine era soltanto un insieme di canti – diventa libro a partire
dall’età ellenistica – sarà il libro più conosciuto, pur essendo nato in un’epoca in cui l’identità di libro ancora non
esisteva, quindi pur senza essere un libro vero e proprio. Nel mondo greco dei poemi omerici la trasmissione
dell’esperienza avviene con l’oralità, quindi la verità passa dall’oralità (oggi avviene il contrario). Sappiamo che Platone
ha criticato molto il momento in cui la parola orale è diventata parola scritta, tanto che la gran parte delle sue opere
consiste nei dialoghi di Socrate, nel tentativo di ergersi a portavoce di un insegnamento avvenuto attraverso l’oralità.
Nello Zibaldone Leopardi si domanda come vengono pubblicate le opere degli antichi, e per molti secoli secondo i greci
pubblicare voleva significare questo: insegnare a qualcuno affinché questo potesse eseguire oralmente e di conseguenza

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trasmettere l’opera. Quindi non è che le opere all’epoca dei greci non c’erano, il fatto è che non erano come le intendiamo
noi oggi, ma piuttosto discorsi orali tramandati grazie a precise tecniche di apprendimento e memorizzazione,
considerate insegnamenti scolastici veri e propri. Secondo Leopardi in quell’epoca non era considerato pubblicato edito
quello che non era comunicato veramente. In un altro pensiero, Leopardi afferma che camminando per le strade di
Napoli ascolta degli oratori recitare poemi cinque/seicenteschi, come la Gerusalemme Liberata del Tasso, e nota che la
gente partecipa con foga alla recita, prendendo le parti dell’uno o dell’altro eroe con tanto ardore che, dopo la lettura,
discorrendo tra loro e questionando, per poco non finiscono per uccidersi.

Quando Leopardi e Manzoni pubblicano le opere ci troviamo più o meno verso tra gli anni venti e quaranta
dell’Ottocento. Ma quali sono i modelli a cui guardano i nostri autori quando decidono di dedicarsi alla prosa? Ogni
scrittore inevitabilmente si rifà a un modello ben preciso; ma precisiamo che il modello non è necessariamente solo colui
che si desidera imitare, ma è anche colui da cui ci vogliamo differenziare. Ci sono però dei padri/madri spirituali, veri e
propri modelli ideali ai quali gli scrittori guardano. Si dice spesso che Manzoni guarda molto a Walter Scott, modello del
romanzo storico ma non è propriamente così: certamente Scott andava di moda all’ora, tuttavia dobbiamo sempre
ragionare su una sorta di stratificazione di modelli: sono tanti, infatti, gli elementi che, interagendo gli uni con gli altri, si
depositano nella mente dello scrittore. Il modello a cui essi afferiscono è un ‘autore’ che è abbastanza anomalo, perché
compone senza scrivere, che appartiene a un’epoca in cui la scrittura non c’è. Quando Leopardi dice che nell’epoca della
letteratura antiscritturale – che viene prima della scrittura – il solo modo di pubblicare i propri componimenti era il
cantarli oppure insegnarli agli altri affinché li cantassero, notiamo che la letteratura si eseguiva con la voce, s’insegnava
cantando. Quel tempo là a cui Leopardi si riferisce è importante perché in quell’epoca sono nati i primi libri – Iliade e
Odissea, ad esempio, anche se non erano veri e propri libri, bensì insieme di canti –. Quindi insiste tanto su queste due
opere e soprattutto sulla figura Achille, considerato da Leopardi un modello di vita ed esistenziale, e questo per un
elemento ben preciso: l’emotività, che fa riferimento alle emozioni e al modo in cui queste possono influenzare il lettore.
Infatti Leopardi dice che piangeva e si disperava quando leggeva le pagine di Achille, e dice queste cose perché vuole far
capire quanta capacità di coinvolgimento poteva avere su di lui un personaggio così lontano nel tempo. Anzi, forse nessun
altro personaggio poteva coinvolgerlo così tanto o poteva suscitare in lui una reazione emotiva così forte. Tant’è vero che
poi dice che a Napoli ancora oggi ci sono attori che mettono in scena sulle strade dei passi della Gerusalemme liberata e
ci sono gli spettatori che arrivano a far a botte tra di loro perché parteggiano per l’uno o per l’altro eroe. E poi aggiunge:

Qualcuno mi ha informato che i napoletani non hanno bisogno che quelle opere antiche vengano per loro
tradotte, perché le capiscono aldilà del fatto che la loro lingua non sia semplice.

Dunque secondo Leopardi i napoletani capivano perfettamente i passi della Gerusalemme liberata perché quelle forme
di espressione, ovvero modi di pubblicazione (perché vengono rese pubbliche), coinvolgevano e coinvolgono ancora
emotivamente il pubblico. In un altro passaggio interessante dello Zibaldone, Leopardi aggiunge:

Simile entusiasmo del resto producevano nel popolo greco anche i tempi colti, e dopo l’uso della scrittura, e
quindi in condizione similissima a quella del popolo napoletano, le poesie recitate dai rapsodi (coloro che
professionalmente recitano in pubblico le poesie).

Quindi, anche dopo che era stata inventata la scrittura, nei greci le poesie recitate producevano emozioni tanto intense,
pari a quelle provate oggi dal popolo napoletano. Siamo cioè a un punto cruciale: Leopardi capisce che un’opera non deve
necessariamente essere conforme a quelli che sono i modelli imperanti della scrittura, tanto è vero che nella lettera al
giovane Le Bretton confessa di non essere mai riuscito a scrivere delle opere vere e proprie, bensì tentativi letterari; e
qualcuno potrebbe pur pensare che questi tentativi per il nostro autore non siano altro che una nuova forma di
letteratura. In quest’ottica, Leopardi comprenderebbe che la letteratura non può più essere come prima, cioè letteratura
di grandi opere, o ‘canone’, come lo chiamiamo noi per intendere quell’insieme di autori che, attraverso manuali e azioni
critiche, vengono considerati gli autori fondamentali di una tradizione letteraria. Per Leopardi il canone si è fermato più o
meno all’altezza di Torquato Tasso e Galileo Galilei; il canone comprende anche Dante e Petrarca, altri poeti trecenteschi

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e cinquecenteschi tra cui Ariosto e Boiardo, però dopo Galileo e Tasso, dal Settecento in poi, secondo Leopardi è nata una
nuova ‘cosa’, che noi continuiamo a chiamare letteratura ma che è diversa dalla letteratura di una volta – perché non ci
sono più le grandi opere né i grandi modelli di una volta –. È stato innescato cioè un processo che muterà per sempre il
panorama letterario, tant’è vero che lui stesso ammette di non riuscire a scrivere un’opera. L’atteggiamento di Manzoni,
invece, è completamente diverso da quello di Leopardi perché al contrario lui sa benissimo che sta per creare un’opera
scritta, un libro vero e proprio il quale, secondo lui, non solo si ricollega a tanti libri del passato, ma addirittura importa
in Italia un qualcosa che non c’era prima.

Novel e Romance

Nel terzo capitolo di Manzoni (Carocci) secondo l’autrice Manzoni quando pensa al Fermo e Lucia in realtà ha di fronte a
sé molte possibilità diverse, che vengono annullate quando egli prende una strada specifica (che noi capiamo subito sin
dalla prima pagina del romanzo), quella corrispondente al novel inglese (= romanzo realistico), opposto al romance (=
romanzo fantastico, d’avventura, che corrisponde al poema cavalleresco, e che oggi ritroviamo al cinema con il Signore
degli Anelli). Il romance in Inghilterra era molto diffuso in virtù della tradizione legata al fantastico – streghe, maghi,
animali parlanti, oggetti fatati – che la letteratura italiana non aveva inizialmente e che fu introdotta dalla Francia, grazie
ad Ariosto. Poi, intorno al Settecento nacque in Inghilterra un romanzo opposto al romance, in cui dunque non c’erano
più magie né streghe, maghi o fate, e che venne chiamato novel. Il termine è intraducibile in italiano: significa ‘romanzo’
in maniera ampia e generale. Le caratteristiche principali del novel: c’è gente comune, la storia è ambientata in un
territorio e paesaggio ben definito (il lago di Como), ci sono sì le forze del male e del bene, tuttavia queste non hanno più
l’aspetto di maghe o streghe, bensì di esseri umani veri e propri (es. Monaca di Monza, Innominato). La narrazione
quindi è verosimile (non proprio aderente alla storia, ma vicina a essa), ma non dobbiamo affidarci completamente a ciò
che ci dice Manzoni. Questo infatti è ciò che vorrebbe realizzare, tuttavia i problemi ci sono; basti anche solo pensare al
titolo ‘I Promessi Sposi’: c’è mai una scena d’amore, o sentimentale tra Renzo e Lucia? No, perché come dice Manzoni: “ il
cuore è un organo pericoloso”. Secondo Manzoni, infatti, un narratore non può cedere più di tanto alle leggi del cuore.
Forse si può alludere a queste in un episodio della monaca di Monza, la suora, che a un certo punto intrattiene rapporti
sessuali e occasionali con altri; tuttavia Manzoni non dice chiaramente che cosa succede, ma si limita a dire: “la
sventurata rispose”; e questo è il massimo dell’erotismo. Quindi (1) un primo problema – presente anche in Leopardi – è
relativo ai sentimenti. (2) Il secondo problema ha invece a che fare con il comportamento, la morale: come ci si deve
comportare in certe situazioni? Si possono fare alcune cose oppure no? Quali sono le leggi non scritte alle quali bisogna
obbedire? Questo non è un problema da poco tuttavia, secondo il professore, Manzoni dimostra sensibilità nell’idea di
inventarsi che questo romanzo non sia originale, bensì una storia del Seicento, scoperta e rifatta da lui stesso. L’autore
nel capitolo di introduzione – sia ne Il Fermo e Lucia, che ne I Promessi Sposi – mette sé stesso in primo piano; è come
se dicesse: “io, Alessandro Manzoni, per voi che siete miei lettori, rifaccio e riscrivo questa storia”. ‘Rifare’ non vuol dire
semplicemente tradurre la storia in un italiano più vicino a quello della sua epoca, ma la rifà abbondantemente, ci mette
del suo insomma. E chi è l’anonimo scrittore della storia del Seicento, rifatta da Manzoni nell’Ottocento? È interessante
per altro rendersi conto che l’Innominato è il primo personaggio, e secondo nel romanzo a non avere nome: Anonimo e
Innominato. Manzoni inoltre nelle prime pagine del romanzo parla di scartafaccio, e ancor prima dice: ‘dilavato e
graffiato autografo’ ha cioè in mano pagine dilavate nel senso che l’inchiostro si è sbiadito; inoltre l’autografo è graffiato,
cioè la scrittura è talmente di difficile lettura, che più che di scrittura si potrebbe parlare di graffi veri e propri. Tuttavia
‘graffiato’ è un termine che fa molto riflettere perché dà anche l’idea di ‘unghie che lasciano dei segni sulla pagina’. Non
sappiamo dunque cosa aveva in testa Manzoni quando ha usato questo termine. Se però Manzoni chiama ‘anonimo’
l’autografo, noi dovremmo fidarci. Quindi noi abbiamo un’opera che non è firmata e l’altra sì, rifatta cioè da Manzoni;
quindi il modello d’autore ce l’abbiamo, tuttavia è complesso: in certi punti (ma non per tutto il romanzo) sappiamo che
alcune espressioni sono dell’anonimo, dato che Manzoni scrive: “qui l’anonimo ha scritto così”. Quindi ci sono punti in

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cui siamo sicuri di star leggendo una traduzione, e punti invece in cui non siamo sicuri di chi parla effettivamente. C’è
però un punto del romanzo molto strano, in cui si dice che Renzo alla fine delle sue avventure non stava mai zitto (egli
infatti fa sempre la figura dello stupido: si caccia nei guai, si fida di tutti, rischia sempre di essere catturato, tanto che alla
fine lui stesso dirà di essere stato in giro); egli raccontava sempre le sue avventure, e dice anche che una persona
probabilmente le aveva ascoltate da lui e le aveva scritte. Quindi guarda caso abbiamo un testo scritto che deriva da un
testo orale: dobbiamo immaginare infatti che il testo scritto dei Promessi Sposi abbia in realtà tre autori:
· Renzo, che ha raccontato i fatti oralmente e alterandoli, perché ognuno di noi quando parla altera i fatti (cfr.
Svevo nella Coscienza di Zeno, in cui si dice che ognuno di noi con la sua parlata toscana dice bugie. Egli infatti
era triestino e quando si cimenta nella scrittura dell’opera è costretto a usare la lingua toscana, che non è la sua).
· Anonimo, che trascrive successivamente e probabilmente altera pure lui i fatti;
· Manzoni, che prende i fatti e li riscrive di nuovo.

La cosa più interessante è che anche con Manzoni andiamo a toccare l’ambito dell’oralità. L’oralità in questione non è
quella del mondo greco e arcaico, ma ha comunque a che fare con un mondo lontano da Manzoni, quello cioè del Seicento
(due secoli prima di Manzoni). C’è l’oralità anche nell’idea di autore che ha Leopardi.

INTRODUZIONE. Come cominciano i Promessi Sposi? Con un’invenzione linguistica grazie alla quale solo nella prima
pagina percepiamo la voce dell’anonimo attraverso l’uso di un linguaggio particolare. Infatti questa voce parla in una
lingua che per noi è quasi incomprensibile, fatta di metafore, sintassi complicata e tutta una serie di elementi lontani
dalla lingua di Manzoni, oltre che da quella che noi stessi riconosciamo come lingua letteraria dell’Ottocento. La prima
immagine che troviamo è tipica della cultura seicentesca: viene inscenata la lotta tra la storia e la morte.

L’historia si può veramente deffinire una guerra illustra contro il tempo, perché togliendoli di mano gli anni già
suoi prigionieri, anzi già fatti cadaveri, li chiama in vita, li passa in rassegna e li schiera di nuovo in battaglia.

L’anonimo sta dicendo che la storia è una lotta contro la morte: toglie a quest’ultima gli anni di cui si è impossessata e che
ha reso cadaveri e li richiama in vita, li passa in rassegna e li schiera nuovamente in battaglia. Questa prima immagine si
riferisce alla storia, cioè a un’attività tipica degli uomini, scritta dagli uomini e consistente nel prendere dal passato
elementi (personaggi, ambienti e situazioni) e rimetterli in vita. In realtà qualsiasi scrittore preleva dal passato degli
elementi e li riporta in vita, sottraendoli per sempre alla morte. Infatti una volta che Manzoni ha scritto i Promessi Sposi,
Renzo e Lucia rimangono nella memoria per sempre; una volta che Dante ha parlato di Paolo e Francesca, questi
rimangono per sempre (facciamo riferimento alla concezione figurale della Commedia di Dante, secondo cui soltanto
mediante l’incontro con Dante i personaggi trovano la loro verità: non è detto che Paolo e Francesca fossero realmente
quelli che Dante rappresenta, perché non abbiamo prove davvero così esatte, ci basiamo solo su quello dettoci
dall’autore). Successivamente l’Anonimo dice:

Ma gl’illustri Campioni che in tal Arringo fanno messe di Palme e d’Allori, rapiscono solo che le sole spoglie più
sfarzose e brillanti, imbalsamando co’ loro inchiostri le Imprese de Prencipi e Potentati, e qualificati Personaggi,
e trapontando coll’ago finissimo dell’ingegno i fili d’oro e di seta, che formano un perpetuo ricamo di Attioni
gloriose. Però alla mia debolezza non è lecito solleuarsi a tal’argomenti, e sublimità pericolose, con aggirarsi tra
Labirinti de’ Politici maneggi, et il rimbombo de’ bellici Oricalchi: solo che hauendo hauuto notitia di fatti
memorabili, se ben capitorno a gente meccaniche, e di piccol affare, mi accingo di lasciarne memoria a Posteri,
con far di tutto schietta e genuinamente il Racconto, ouuero sia Relatione.

La storia salva dal passato i personaggi illustri, ma lui (l’anonimo) non ha osato rivolgersi a quei grandi personaggi, ma
avendo avuto notizia di gente modesta, si accinge ora a lasciarne memoria ai posteri. Egli dunque non si sente in grado di
occuparsi di grandi personaggi, piuttosto preferisce occuparsi di gente meccanica e di piccolo affare. Attraverso questa
gente modesta, l’anonimo dice che riuscirà lo stesso a farci vedere cose che riguardano personaggi illustri. Dopo aver
trascritto questa pagina e mezzo Manzoni si ferma e dice di non riuscire ad andare avanti a trascrivere questo autografo,
perché anche se lo facesse, chi è che riuscirebbe a leggere una pagina del genere? Dunque ci offre la rappresentazione di

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sé stesso, costretto a fermarsi mentre sta cercando di decifrare l’autografo dell’anonimo e sta provando a trascriverlo.
Infatti dice che si mette a pensare a cosa conviene di più fare:

Questa riflessione dubitativa, nata nel travaglio del decifrare uno scarabocchio che veniva dopo accidenti
[l’ultima parola che Manzoni legge prima di stoppare la lettura], mi fece sospender la copia, e pensar più
seriamente a quello che convenisse di fare.

Conviene probabilmente agire su questo manoscritto, che tuttavia è già frutto di un processo di finzione. Non è che
Manzoni aveva lì la testimonianza di Renzo che li confermava o meno la verità dei fatti raccontati dall’Anonimo, quindi
non gli resta che fidarsi del suo intuito:

Ben è vero, dicevo tra me, scartabellando il manoscritto, ben è vero che quella grandine di concetti e di figure
non continua così alla distesa per tutta l’opera. Il buon seicentista ha voluto sul principio mettere in mostra la
sua virtù; ma poi, nel corso della narrazione, e talvolta per lunghi tratti, lo stile cammina ben più naturale e più
piano. Si; ma com’è dozzinale! Com’è sguaiato! Com’è scorretto! Idiotismi lombardi a iosa, frasi della lingua
adoperate a sproposito, grammatica arbitraria, periodi sgangherati! E poi, qualche eleganza spagnola seminata
qua e là; e poi, ch’è peggio, ne’ luoghi più terribili o più pietosi della storia, a ogni occasione d’eccitar meraviglia,
o di far pensare, a tutti que’ passi insomma che richiedono bensì un po’ di retorica, ma retorica discreta, fine, di
buon gusto, costui non manca mai di metterci di quella sua così fatta del proemio. Ecco qui: declamazioni
ampollose, composte a forza di solecismi pedestri, e da per tutto quella goffaggine ambiziosa, ch’è il proprio
carattere degli scritti di quel secolo, in questo paese. In vero, non è cosa da presentare a lettori d’oggigiorno: son
troppo ammaliziati, troppo disgustati di questo genere di stravaganze. Meno male, che il buon pensiero m’è
venuto sul principio di questo sciagurato lavoro: e me ne lavo le mani.

Per fortuna questa pioggia di concetti e figure retoriche non continua così per tutta l’opera. All’inizio l’anonimo procede
così, ma poi andando avanti il racconto scorre più naturalmente. Manzoni dunque dà un’idea molto esplicita di censura,
dato che considera questo manoscritto: sguaiato (non rispetta le regole del decoro), dozzinale (di poco valore) e
scorretto (non usa un italiano che sia grammaticalmente e sintatticamente conforme alle regole). Dunque secondo lui
questo manoscritto del Seicento va corretto perché altrimenti è illeggibile per il pubblico del suo tempo. Correggere
etimologicamente vuol dire che bisogna “far assumere una struttura regolare” (da cum+regere = tirare su, dare a
qualcosa una forma): bisogna in primis eliminare l’eccessivo ricorso agli elementi tipici del dialetto lombardo. Questo
autore, infatti, secondo Manzoni si dirige verso quegli “effetti di eccesso espressivo”, e cioè verso quello che gli inglesi
chiamano il romance, cioè la ricerca della meraviglia. In tutti quei passi in cui ci sarebbe bisogno di una retorica fine,
discreta e di buongusto, l’Anonimo invece vi inserisce una retorica esagerata. Quindi Manzoni ci dice chiaramente che
secondo lui per rendere la storia più razionale e verosimile possibile, occorre togliere di mezzo tutte quelle esagerazioni
emotive, passionali e sentimentali che portano alla meraviglia, e correggere sia la grammatica, sia la lingua. Dunque
l’autore inserisce nella prima pagina del romanzo la prefazione seicentesca non per avviare il romanzo attraverso lo
stratagemma specifico del manoscritto perduto (in base a cui qualcuno ritrova un manoscritto e decide di riscriverlo e
pubblicarlo in una forma adatta al su tempo); Manzoni attraverso questa finzione narrativa mette in atto un’operazione
di normalizzazione, perché:

- Vuole che i suoi lettori conoscano una storia verosimile e non fantasiosa o scritta con una lingua eccessivamente
elaborata, con figure retoriche fuorvianti e divaganti. Infatti i lettori del suo tempo secondo lui hanno bisogno di
essere educati: devono essere abituati a un processo di normalizzazione linguistica, quindi a delle regole nuove, che
sono lontanissime dalle stravaganze del secolo seicentesco; il lettore non deve appassionarsi al meraviglioso.
- Vuole che i suoi lettori seguano una storia che abbia alla base delle regole fondamentali che sono alla base di un
nuovo codice, chiamato codice romanzesco.

Questo intento si evince chiaramente all’inizio del romanzo, quando per esempio Renzo viene a sapere che è stato Don
Rodrigo colui che ha obbligato Don Abbondio a interrompere il matrimonio, e decide dunque di prendere il fucile e di
correre verso il castello di Don Rodrigo per vendicarsi. Tuttavia Padre Cristoforo consiglia a Renzo di trovare un’altra
strada per vendicarsi: strada che lo porta a viaggiare e lasciare il paese per molto tempo.

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Se però facciamo un salto all’indietro ci rendiamo conto di una cosa molto strana, cioè che il romanzo moderno nasce
con Don Chischiotte di Cervantes, con un’opera che esplicitamente parla della malattia dell’immaginazione (nata guarda
caso quando le grandi opere del passato cominciavano a scomparire a favore di nuove forme di opere), e che si trasmette
attraverso i libri. Infatti questo romanzo del ‘600 parlava di un uomo qualsiasi rovinato dalla letteratura; aveva infatti
letto troppi poemi cavallereschi, credeva di essere diventato un cavaliere e andava in giro per il mondo a uccidere quelli
che considerava nemici pericolosi e salvare, invece, creature deboli da difendersi. Insomma egli si era fatto contagiare
dalle opere letterarie del secolo precedente, quelle risalenti al ‘400 e ‘500, a dimostrazione del fatto che i libri possono far
male e cambiare la vita delle persone. Si tratta di una identificazione romanzesca. Nell’articolo di The Athenian Mercury,
risalente al 1692, ci si domanda se sia o meno legittimo leggere i romanzi. La risposta è che può anche essere legittimo e
utile, ma i romanzi non sono utili per il volgo poiché li mettono in testa idee stravaganti sulla realtà, facendo prevalere
l’immaginazione, cosicché la gente popolana crede di essere re, regina e cose simili. Il romance deve la propria origine
proprio all’ignoranza, alla vanità e alla superstizione, e con ignoranza s’intende perlopiù questa debolezza mentale,
propria non solo del volgo ma anche dei giovani, i più influenzabili. Quindi i romanzi sarebbero nocivi perché
produrrebbero l’identificazione romanzesca, inoltre sono vizio nocivo anche perché la loro lettura ruba tante ore che
potrebbero essere impiegate meglio. Un’altra testimonianza deriva da Antoine Adam, che ci informa che nei circoli
raffinati francesi del primo Seicento ci si ribattezzava con nomi presi dagli eroi dei romanzi: grandi signori avevano la
pretesa di sentirsi e vivere come gli eroi cavallereschi. Da qui l’importante uso delle cosiddette prefazioni paradossali:
Defoe nella prefazione a Moll Flanders, dice che l’opera è rivolta specialmente a coloro che sanno come leggerla e sanno
fare buon uso di ciò che per tutta la storia viene loro raccomandato. Il presupposto è che il vizio descritto non inviti a una
identificazione romanzesca ma piuttosto al suo ripudio ed esame critico. Secondo Eliza Haywood una prefazione
paradossale deve risvegliare la dormiente coscienza del lettore consapevole. Manzoni tutto questo lo sapeva bene, anche
Leopardi. Guarda caso negli ultimi anni della sua vita Leopardi non solo si mette a leggere Don Chischiotte, ma anche a
tradurne alcuni estratti, rimanendo molto attratto da quest’opera così strana. Si tratta tuttavia di un’attrazione pericolosa
perché capisce che in quel romanzo ci sia qualcosa che riguarda, in fondo, anche lui; la stessa cosa è percepita da
Manzoni, però lui cerca di censurare il romanzesco di quel genere. A proposito di ciò, il filosofo Michel Foucault negli
anni ’60 scrive il suo primo libro importante, dedicato al tema della follia, nel cui primo capitolo si parla proprio di Don
Chischiotte. Egli è molto attratto da questo tema poiché sostiene che l’epoca moderna nasce nel momento in cui le società
europee cominciano a distinguere i malati mentali dai malati di malattie fisiche. La società inoltre fa una premessa
esplicita: gli individui hanno un significato solo se lavorano. C’è tuttavia un fatto significativo: l’Europa era percorsa da
enormi masse di individui che non lavoravano, come i vagabondi che giravano da un paese all’altro, rubando e uccidendo
bambini o stuprando le donne, e dunque individui non facilmente controllabili. Per questo nacquero due luoghi: ospedali
per tutti coloro che hanno anomalie fisiche, e prigioni per tutti coloro che hanno comportamenti anomali. O ancora, terza
ipotesi, si proponeva ai vagabondi di fare un lavoro modesto: se accettavano bene, altrimenti finivano in prigione, in
ospedale o addirittura venivano cacciati dal paese. Questo ci permette di capire che Don Chischiotte, cavaliere che
fuoriesce dagli schemi con il suo comportamento, è l’esempio principale di una letteratura che meglio riesce a esprimere
la marginalità e qualcosa che non sta dentro le regole. Leggiamo un passo tratto dal romanzo di Foucault dedicato alla
follia:

Le chimere (le fantasie) si trasmettono dall’autore al lettore, ma ciò che da un lato è la fantasia, dall’altro diviene
fantasma. L’artificio dello scrittore è accolto in tutta ingenuità come un aspetto della realtà: in apparenza tutto
questo è la critica facile dei romanzi di invenzione, ma un po’ più in profondità c’è un’inquietudine tra i rapporti
tra realtà e immaginazione nell’opera d’arte, e forse anche sulla torbida comunicazione che esiste tra
l’invenzione fantasmatica e gli incantamenti del delirio.

Dunque Foucault dice che nei libri si trovano delle fantasie che nella mente di chi legge possono diventare fantasmi,
qualcosa cioè di complesso e pericoloso perché può agire.Quindi cosa deve fare lo scrittore dal Settecento in poi? 1 La

1 Precisiamo che in Italia il tutto avviene un secolo dopo, dunque nell’800 e precisamente con Manzoni, e non con
Foscolo perché per esempio Jacopo Ortis è un altro personaggio che cade nel delirio fantasmatico, tant’è vero che si

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letteratura attraverso il nuovo tipo di romanzo dovrà designare una separazione tra sfere del pensiero e sfere
dell’emotività: deve mettere una linea netta tra ciò che è permesso, ciò che è lecito immaginare e ciò che non è più lecito
immaginare, tra verità e romanzesco, tra cose e parole. Allora dove vanno a finire le storie romanzesche antiche, i
cosiddetti romance (es: poemi cavallereschi, racconti con streghe ecc.)? In primis nella letteratura dell’infanzia o di
natura propriamente popolare, dove le favole spaventano i bambini e li fanno crescere con la consapevolezza della
differenza tra bene e male, comportamenti leciti e illeciti. Un’occasione di ritorno di questo tipo di letteratura si verifica
con l’avvento del cinema fantastico (es. Harry Potter).

Ritornando a Manzoni, egli vuole fare della storia seicentesca la base con cui condurre un’operazione di rifacimento,
censura e riammodernamento. Leopardi invece quando comincia a scrivere le Operette Morali, mette al primo posto
un’operetta che si rifà a una tradizione mitologica più antica e si intitola la storia del genere umano. Si tratta di una
mitologia che ripercorre nel giro di una ventina di pagine quella che è la storia dell’umanità dalle origini ai nostri giorni.
È una mitologia fondata su un’altra mitologia più antica, che risale a Platone e quindi alla filosofia greca, e alle teorie
platoniche relative all’amore e dunque alla sfera di passioni e sentimenti che Manzoni, invece, cercava di tenere a tutti
costi sotto controllo nel suo romanzo. Quindi da questo punto di partenza ci rendiamo conto che una differenza tra i due
autori c’è. Secondo i filologi, Leopardi comincia a scrivere le Operette a partire dal 1819, ovvero un libro di prosa privo di
corrispondenti nella letteratura italiana e che ne ha pochi nella letteratura straniera. Si ferma più volte perché soprattutto
tra il 1819 e il 1820, e poi anche negli anni seguenti, si dedica a componimenti poetici, prendendo però anche degli
appunti interessanti. Nel 1824 probabilmente realizza una sorta di bella copia delle Operette Morali. Oltretutto è
necessario sottolineare che Leopardi non seppe dedicarsi, in questo periodo preciso, contemporaneamente a poesia e a
prosa, quindi egli dedica tutto questo anno alla prosa. Nello stesso 1824 Manzoni comincia a lavorare al Fermo e Lucia e
sta già pensando al suo rifacimento, che noi chiamiamo i Promessi Sposi. Guarda caso Leopardi e Manzoni usano lo
stesso termine ‘storia: Storia milanese del XVII secolo è il sottotitolo dei Promessi Sposi; Storia del genere umano, è
invece la prima Operetta di Leopardi. Con la differenza che quella di Leopardi è una storia di umanità che si svolge in
poche pagine e segue un principio anti realistico e mitico, mentre quella di Manzoni è una storia che segue un nuovo
codice romanzesco e nel quale il mito viene totalmente eliminato anche grazie alla depurazione da lui fatta dell’anonimo
seicentesco.

La presenza del termine ‘storia’ in entrambe le opere non si può trascurare. Il termine non ha il significato tecnico di
storia come ‘disciplina che si occupa della ricostruzione del passato’, ma in entrambi i casi sta a significare ‘racconto’,
quindi storia intesa come una ‘forma di narrazione’.
Ne i Promessi Sposi leggiamo a un certo punto:

Nell’atto però di chiudere lo scartafaccio, per riporlo, mi sapeva male che una storia così bella dovesse rimanersi
tuttavia sconosciuta; perché, in quanto storia, può essere che al lettore ne paia altrimenti, ma a me era parsa
bella, come dico; molto bella. “Perché non si potrebbe”, pensai, “prender la serie de’ fatti da questo manoscritto,
e rifarne la dicitura?”

Cioè a Manzoni la storia sembra bella, gli dispiace dunque che debba rimanere sconosciuta. Al lettore magari può
sembrare brutta, ma a Manzoni no. Ma in che cosa consiste la bellezza di questa storia, per Manzoni? L’autore non lo
dice esplicitamente, ma leggiamo:

Taluni però di que’ fatti, certi costumi descritti dal nostro autore, c’eran sembrati così nuovi, così strani, per non
dir peggio che, prima di prestargli fede, abbiam voluto interrogare altri testimoni; e ci siam messi a frugar nelle
memorie di quel tempo, per chiarirci se veramente il mondo camminasse allora a quel modo. Una tale indagine
dissipò tutti i nostri dubbi: a ogni passo ci abbattevamo in cose consimili, e in cose più forti; e, quello che ci

uccide perché ha letto troppa poesia d’amore e dunque non riesce a superare l’accaduto. Renzo invece non si ucciderebbe
per amore, e tanto meno Lucia lo farebbe. Forse, l’unico personaggio che potrebbe uccidersi per amore sarebbe la
Monaca di Monza).

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parve più decisivo, abbiam perfino ritrovati alcuni personaggi, de’ quali non avendo mai avuto notizia fuor che
dal nostro manoscritto, eravamo in dubbio se fossero realmente esistiti.

Manzoni dice di trovarla bella anche perché leggendola ci sono cose talmente strane che lui stesso non ci crede. Quindi
inizialmente è sorpreso e dubita che la storia letta e raccontata dall’Anonimo sia realmente accaduta, e quindi spinto
dalla voglia di fare chiarezza fruga nelle memorie di quel tempo (il Seicento) per vedere se all’epoca il mondo andava
davvero in quel modo. Con questa indagine, a ogni passo, Manzoni si imbatte in cose simili a quelle narrate e anzi ancor
più forti, trovando personaggi reali di cui non conosceva l’esistenza. Se Manzoni non avesse dimostrato la verità dei fatti
raccontati dall’anonimo, mai gli avrebbe creduto. Quindi in un certo senso compie un’operazione simile a ciò che fa lo
storico, quella cioè di scavare nel profondo nel tentativo di portare alla luce dei particolari altrimenti sconosciuti. Quando
Manzoni ci fa presente la sua necessità di andare alla ricerca di quelle verità che altrimenti non verrebbero fuori, allude
proprio al fatto che la sua non è più un’operazione di finzione o immaginazione, ma ha a che fare con una particolare
attenzione per i documenti, infatti il rapporto che si instaura tra l’Anonimo e Manzoni è di tensione, dato che il secondo
non crede alle parole del primo, ma preferisce indagare sui fatti. Quest’attività tra l’altro non è casuale: nel 1975 Gianni
Celati scrive un volume di saggi dedicato alle tecniche della narrazione intitolato Finzioni Occidentali. Il sottotitolo del
libro è indicativo perché contiene tre termini: fabulazione (quella che noi chiamiamo l’attività del fabulare, raccontare),
comicità (termine riguardante i modi con cui si racconta), e scrittura. La prima parte del saggio di Celati fa riferimento
all’iniziale distinzione fatta in Europa, nella prima metà del ‘700, tra il novel (romanzo verosimile) e il romance
(romanzo di fantasia/formazione).

L’indiscrezione romanzesca

C’è un concetto significativo messo a punto da Celati: L’indiscrezione romanzesca. L’indiscrezione è quell’azione per la
quale qualcuno va a curiosare nei fatti privati di qualcun altro e ne parla in giro; romanzesca fa riferimento alla necessità
di ricercare nelle vite degli uomini qualche cosa che prima nessuno cercava. Infatti se noi pensiamo alla distinzione tra
romanzo cavalleresco (tra ‘500 e ‘600), e romanzo come lo intendiamo noi (nel ‘700), notiamo che il romanzo
cavalleresco non è altro che racconto e fabulazione, dato che non troviamo l’introspezione riguardante i personaggi, né
qualcosa relativa alla loro vita privata. Ma si tratta perlopiù di azioni pubbliche: Orlando si innamora di Angelica, perde
la testa e compie azioni inimmaginabili; non c’è l’analisi dei meccanismi psicologici che fanno innamorare e poi impazzire
Orlando. Invece Celati dice che lentamente si comincia a scavare in quelli che sono gli aspetti più nascosti e privati degli
individui, non visibili perché fanno parte del fuori della società, quindi della loro vita non pubblica. Egli estrapola un
primo esempio da un famoso romanzo inglese che riguarda la vita di una prostituta chiamata Moll Flanders: ella durante
la sua gioventù è stata una prostituta, dopodiché si è sposata per cinque volte, ha praticato addirittura l’attività del
ladrocinio ed è stata condannata ai lavori forzati. Il novel ha dunque la necessità di scovare la realtà segreta, cioè il
segreto, l’indiscreto, ciò che è collocato al di fuori della società: qualcosa di scandaloso e che la società vuole, invece,
mantenere nascosto per la riluttanza che suscita. Celati definisce l’indiscrezione come: “quel desiderio di andare a
cercare laddove prima non si aveva il coraggio di cercare”. Questo ci fa capire che nella società c’è un aspetto pubblico e
uno privato, ufficiale e non ufficiale. Il romanzo si pone a cavallo tra il pubblico e il privato (come dice Celati, tra il dentro
e il fuori). Se ci pensiamo proprio Renzo e Lucia nel romanzo fanno venire alla luce questo aspetto della storia, perché
tutti coloro che incontrano (Don Rodrigo, l’Innominato, la Monaca di Monza) hanno una vita nascosta. Chiaramente su
questa vita nascosta Manzoni non si sofferma più di tanto perché non vuole eccedere nell’indiscrezione, tuttavia ce lo fa
presente (per esempio nei due capitoli sulla Monaca di Monza). Il secondo esempio Celati lo estrapola dalle avventure di
Robinson Crusoe. Nel romanzo che ha gli aspetti tipici di un diario leggiamo che questo marinaio dopo essere naufragato
su un’isola deserta, tramite i relitti della nave naufragata deve ricostruirsi tutti gli strumenti necessari alla sua
sopravvivenza (casa, letto, armi per cacciare ecc.), e costruisce così nell’isola una vera e propria microsocietà; il tutto nel
solo tentativo di difendersi da qualsiasi nemico: animale feroce, temporale, malattia ecc. Questo timore dell’altrove è la
giusta introduzione a un’avventura nel fuori della società, in una dimensione in cui l’uomo dovrà badare a sé stesso senza

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l’appiglio del consiglio e supporto familiare, senza le garanzie delle soglie rituali che lo salvano dalla sua singolarità
profonda. Celati dice che questo uomo nudo e separato dalla società è l’esempio di ciò che l’uomo europeo ottocentesco
teme: la paura che dall’esterno possa provenire qualcosa o qualcuno che possa mettere in crisi la propria esistenza.
Nonostante il timore, Robinson è molto attirato dall’idea di esplorare l’isola e spingersi laddove potrebbe venir fuori il
pericolo: esplora e vaga continuamente nell’isola: è colpito dal fascino dello sconosciuto. Il saper calibrare la paura per
l’esterno con la volontà e necessità di andare alla ricerca di qualcosa che è ignoto, pone le basi al concetto di romanzesco.
Con romanzesco s’intende quella dimensione di intensità libere, lo spazio in cui meglio si concentra il romanzesco è la
famiglia, luogo privilegiato di molti racconti di questi anni: è il dentro che si oppone al fuori, alla realtà esterna e
pericolosa in cui l’uomo si trova nudo, esposto alla violenza. I Promessi Sposi sono il racconto di come nasce e si
costruisce una famiglia: si narrano cioè tutti i pericoli che Renzo e Lucia devono oltrepassare affinché possano creare una
famiglia. Nel caso di Manzoni, dunque, abbiamo l’introduzione (=forma breve attraverso la quale l’autore porta il lettore
nella propria opera). I Promessi Sposi si aprono con una specie di carta geografica animata: l’autore descrive un territorio
circoscritto, il lago di Como, descrivendone le caratteristiche spaziali, la collocazione del sole e della luce ecc., e al termine
di questa descrizione geografica accurata compare la figura di Don Abbondio. Per un romanzo ottocentesco tradizionale
questo passaggio è essenziale perché serve a introdurre il lettore dentro l’opera, cioè in una finzione a cui però si deve
credere. È verosimile infatti che, lungo la strada di questo lago, cammini un prete che torna a casa dopo la sua
passeggiata.

Storia del genere umano.

Invece Leopardi come fa a introdurci in un’opera non narrativa? Non c’è premessa, né introduzione. E non essendoci
alcuna prefazione o premessa, non vi è nessun autore che si presenta (come accade invece nell’introduzione ai Promessi
Sposi). Leopardi, al contrario, apre le sue Operette Morali con la Storia del genere umano. Si tratta di un racconto a
tendenza mitologica che potremmo dividere in dodici/tredici paragrafi (non decisi da Leopardi ma enucleati da noi).
Leopardi utilizza più volte un termine (che qui però non usa subito) che spiega per bene cosa lui intende con storia:
favola, cioè mito. Il termine greco mithos infatti vuol significare ‘racconto’, o meglio: ‘storia favolosa della comparsa
dell’uomo sulla terra dalle origini fino al presente’. Come vedremo però l’autore non ci dice né quali sono le origini, né
tantomeno qual è il presente, e non ci da nemmeno l’idea dello svolgimento dei fatti, implicito, invece, nelle fasi che
riguardano l’evolversi del genere umano. Possiamo considerare la storia del genere umano la premessa di tutte le
Operette? Secondo alcuni critici sì: per loro questa storia coinciderebbe con una sintesi iniziale, di cui le Operette
seguenti saranno lo sviluppo parziale. Per loro cioè ogni Operetta che segue sviluppa qualcosa che questa iniziale è già in
principio. Secondo il professore non è proprio così, tuttavia bisogna ammettere che molti termini presenti in questa
Operetta si ritrovano anche nelle successive. L’idea di Leopardi deriva dagli autori antichi (autori greci come Callimaco e
autori latini come Ovidio), secondo cui gli uomini nascono come bambini (Giambattista Vico li chiama ‘giganti’: non
sanno parlare, si rotolano per terra, mangiano ciò che trovano offerto dalla natura. Lentamente, secondo Vico, attraverso
un processo di affinamento, quest’umanità primitiva ha cominciato a evolversi). Secondo Leopardi dunque quest’umanità
bambina viene poi nutrita in modo magico da alcuni animali; inoltre quel che la caratterizza, come anche per i bambini, è
il senso della meraviglia (chiamata così da Leopardi). La meraviglia è il senso dell’estraneità, che troviamo anche in
Robinson Crusoe: un’estraneità che spaventa ma al contempo attira e incuriosisce (il senso del mistero che è artefice per
esempio dei viaggi di esplorazione geografica, in luoghi lontani e disabitati). Questa meraviglia riguarda il ‘fuori’ di Celati,
cioè ciò che è estraneo alla società e va oltre i limiti; il concetto peraltro è implicito anche nell’ Infinito di Leopardi,
laddove il concetto di ‘infinito’ non è altro che una dimensione che la mente umana non riesce proprio a rendere propria:
la poesia è infatti una prova della limitazione della mente umana, che non può comprendere ciò che è infinito, dato che è
lei stessa finita.

Narrasi che tutti gli uomini che da principio popolarono la terra, fossero creati per ogni dove a un medesimo
tempo, e tutti bambini, e fossero nutricati dalle api, dalle capre e dalle colombe nel modo che i poeti

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favoleggiarono dell’educazione di Giove. E che la terra fosse molto più piccola che ora non è, quasi tutti i paesi
piani, il cielo senza stelle, non fosse creato il mare, e apparisse nel mondo molto minore varietà e magnificenza
che oggi non vi scuopre. Ma nondimeno gli uomini compiacendosi insaziabilmente di riguardare e di
considerare il cielo e la terra, meravigliandosene sopra modo e riputando l’uno e l’altra bellissimi e, non che
vasti, ma infiniti, così di grandezza come di maestà e di leggiadria; pascendosi oltre a ciò di lietissime speranze, e
traendo da ciascuno sentimento della loro vita incredibili dialetti, crescevano con molto contento, e con poco
meno che opinione di felicità.

Gli uomini vengono creati in ogni luogo tutti bambini e vengono nutriti dagli animali che hanno virtù legate a divinità:
api, capre e colombe. Nella tradizione mitologica, Giove era stato nutrito dalla capra amaltea (essere mitologico legato
alla figura di Giove); le api, producendo miele, erano considerate insetti in grado di nutrire i poeti. Inoltre la terra per
Leopardi era molto più piccola di quanto lo sia adesso, il che vuol dire che Leopardi considera la terra da una prospettiva
astronomica, cioè come un globo visto da lontano nel cosmo insieme ad altri globi; soprattutto per lui la terra non aveva
le caratteristiche che ha oggi, ma era uniforme: piccola, senza montagne, stelle e mare, e soprattutto con minore varietà
di quella che si vede oggi. Leopardi inoltre dice che malgrado questo, gli uomini mai si stancavano e mai sazi erano di
osservare il cielo e la terra, meravigliandosi e reputando l’uno e l’altra bellissimi. Viene fuori il concetto di infinito, infatti
questo senso di meraviglia è connesso al senso di infinito. In opposizione, all’inizio dei Promessi Sposi c’è un luogo
specifico e delimitato (cioè il lago di Como), ci dice addirittura quale parte del lago di Como, quali sono le caratteristiche
olografiche delle montagne descritte, poi una generale prospettiva di tutto il paesaggio e alla fine concentra l’attenzione
sul Don Abbondio. Manzoni fa quindi è un’operazione narrativa perché per un narratore ottocentesco era fondamentale
portare il lettore dentro spazio e tempo definiti. Leopardi invece non dà indicazioni di tipo narrativo: parla di bambini e
del concetto di meraviglia derivato dalla visione di un mondo che sembra loro infinito e che produce in loro il piacere.
Questi bambini non hanno la felicità ma hanno più o meno l’opinione di essere felici (la credenza della felicità). A un
tratto però quest’epoca finisce:

Così consumata dolcissimamente la fanciullezza e la prima adolescenza, e venuti in età più ferma,
incominciarono a provare alcuna mutazione. Perciocché le speranze, che eglino fino a quel tempo erano andati
rimettendo di giorno in giorno, non si riducendo ancora ad effetto, parve loro che meritassero poca fede; e
contentarsi di quello che presentemente godessero, senza promettersi verun accrescimento di bene, non pareva
loro di potere, massimamente che l’aspetto delle cose naturali e ciascuna parte della vita giornaliera, o per
l’assuefazione o per essere diminuita nei loro animi quella prima vivacità, non riusciva loro di gran lungo così
dilettevole e grata come a principio. Andavano per la terra visitando lontanissime contrade, poiché lo potevano
fare agevolmente, per essere i luoghi piani, e non divisi da mari, né impediti da altre difficoltà; e dopo non molti
anni, i più di loro si avvidero che la terra, ancorché grande, aveva termini certi, e non così larghi che fossero
incomprensibili; e che tutti i luoghi di essa terra e tutti gli uomini, salvo leggerissime differenze, erano conformi
gli uni agli altri. Per le quali cose cresceva la loro mala contentezza di modo che essi non erano ancora usciti
dalla gioventù, che un espresso fastidio dell’esser loro gli aveva universalmente occupati. E di mano in mano
nell’età virile, e maggiormente in sul declinarsi degli anni, convertita la sazietà in odio, alcuni vennero in sì fatta
disperazione, che non sopportando la luce e lo spirito, che nel primo tempo avevano avuti in tanto amore,
spontaneamente, quale in uno e quale in altro modo, se ne privarono.

Questi bambini, cioè, giunti alla prima adolescenza, cominciano a provare e avvertire il cambiamento. Leopardi in una
dimensione filosofica cerca di capire cosa sia la ‘mutazione’ di ogni individuo; nello Zibaldone ne parla molto: parla della
mutazione dall’infanzia all’adolescenza, dall’adolescenza all’età adulta, dall’età adulta alla vecchiaia; indaga anche sulla
mutazione degli esseri a seconda dei luoghi in cui vivono; la mutazione degli animali; la mutazione dell’uomo rispetto
all’animale o alla donna e viceversa ecc. Leopardi si è sempre occupato di questo concetto in tutte le sue sfumature:
mutazione come ‘adattamento’, ‘cambiamento’ ecc. La particolarità dell’uomo è proprio la capacità di adattamento a
qualsiasi tipo di condizione (cosa che non riguarda gli animali, perché se gli togli dal clima in cui sono nati difficilmente
sopravvivono). Tuttavia questa mutazione per Leopardi è catastrofica, nel senso etimologico del termine: ‘catastrofe’
infatti è qualcosa che dall’alto si rivolta e arriva fino al basso, e la mutazione in questo caso è catastrofica perché tutte le
sensazioni positive prodotte dalla meraviglia improvvisamente svaniscono. Infatti queste meraviglie avevano fatto sì che
gli uomini producessero delle speranze, cioè proiezioni verso il futuro. Leopardi nello Zibaldone dice che prima di

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provare la felicità, noi possiamo alimentarci delle speranze, e se queste sono forti e costanti, il tempo loro è il tempo felice
dell’uomo, come avviene nell’età della fanciullezza e della giovinezza. Dopodiché, provata questa felicità, l’umanità
bambina, crescendo, è destinata a precipitare nella disillusione e nell’infelicità (quindi da una prima fase si passa a una
seconda). Infatti a un tratto quest’umanità, camminando, può spingersi dove desidera dato che non vi sono mari né
montagne, e scopre pian piano che, salvo leggerissime differenze, tutto è conforme, uguale, e soprattutto collocato entro
certi confini. Per Leopardi però l’unica forma di piacere concessa all’uomo coincide con l’indeterminatezza, cioè il senso
di avere di fronte un qualcosa che non si conosce fino in fondo. È l’indeterminato che provoca piacere. Invece il limitato e
determinato provocano assuefazione e noia. Non è un caso che egli dica: “il piacere sommo per un uomo è il piacere
legato ai profumi e agli odori”, ma lo dice perché quando noi sentiamo profumi e odori, attraverso il naso non riusciamo
mai a stabilire l’inizio o la fine di quel profumo, ma lo percepiamo attorno a noi senza che ci sia una causa specifica.
Succede dunque che questi uomini, di fronte a questa presa di consapevolezza della limitatezza e conformità del mondo,
cominciano a sentirsi infelici: “cresceva la loro mala contentezza”: è significativo l’utilizzo di ‘mala contentezza’, che
indica un ‘piacere al contrario.’ Anche il termine “occupati” poco dopo è uno dei termini chiavi nel sistema leopardiano, e
indica proprio questa specie di condizione in cui ‘ci si sente pieni di vuoto.’ Questo senso di sazietà si trasforma in vero e
proprio odio tanto che alcuni cominciano ad uccidersi. Leopardi così in poche righe ha delineato la vita di un uomo:
infanzia felice, età adulta, che coincide con l’inizio dell’infelicità, crescita e maturazione che coincidono con l’acquisizione
di una malacontentezza assoluta dovuta al sentirsi ‘occupati’: morte.
Questa “Storia” del genere umano tuttavia non ha uno sviluppo, dunque se vuole procedere in questa direzione, deve
inventare. Leopardi ricorre agli dei (tra cui Giove), i quali scelgono di aiutare gli uomini, rendendo più grande, varia e
complessa la conformazione del mondo, e concedendo così agli uomini, una seconda volta, la possibilità e capacità di
meravigliarsi, dunque concedono loro una nuova illusione.

Giove intendeva che gli uomini si querelavano principalmente che le cose non fossero immense di grandezza, né
infinite di beltà, di perfezione e di varietà, come essi da prima avevano giudicato; anzi essere angustissime, tutte
imperfette, e pressocché di una forma; e che dolendosi non solo dell’età provetta ma della matura, e della
medesima gioventù, e desiderando le dolcezze dei loro primi anni, pregavano ferventemente di essere tornati
nella fanciullezza, e in quella perseverare tutta la loro vita. Della qual cosa non potea Giove soddisfarli, essendo
contraria alle leggi universali della natura, ed a quegli uffici e quelle utilità che gli uomini dovevano, secondo
l’intenzione e i decreti divini, esercitare e produrre. Né anche poteva comunicare la propria infinità colle
creature mortali, né fare la materia infinita, né infinita la perfezione e la felicità delle cose e degli uomini. Ben gli
parve conveniente di propagare i termini del greato, e di maggiormente adornarlo e distinguerlo: e preso questo
consiglio, ringrandì la terra d’ogn’intorno, e v’infuse il mare, acciocché, interponendosi ai luoghi abitati,
diversificasse la sembianza delle cose, e impedisse che i confini loro non potessero facilmente essere conosciuti
dagli uomini, interrompendo i cammini ed anche rappresentando agli occhi una viva similitudine
dell’immensità.

Ma gli uomini continuano a lamentarsi perché il mondo non è più vario, grande e pieno di cose attraenti come un tempo,
e quindi vorrebbero tornare indietro nella fanciullezza. Qui si colloca la radice di un pensiero mitologico: questo pensiero
consente di ripensare all’origine come un’ipotesi di rinascita perché più ritorno all’origine, più ho la sensazione di
rinascita. Nella prospettiva di questi uomini infatti l’infanzia è bella perché coincide con quella condizione che li
rimetterebbe di fronte al mondo nella stessa posizione in cui erano quando erano bambini. È impossibile però ritornare
nella fanciullezza, però Leopardi pensa che potrebbero esserci delle condizioni, seppur brevi e momentanee, nelle quali si
potrebbe recuperare la sensazione simile a quella della fanciullezza. Tuttavia per Giove non si può tornare indietro: le
leggi universali della natura implicano che ogni essere proceda e si sviluppi nel tempo; Giove non può neanche dare agli
uomini quell’infinità che lui possiede, perché le cose degli uomini sono per natura limitate e finite. Dunque poiché non
può dare al mondo l’infinità, elabora uno stratagemma che consiste nel dare agli uomini l’illusione di immensità, cioè
l’illusione che la terra sia più vasta e piena di differenze: allarga i confini, vi inserisce il mare, favorisce anche la
mescolanza di età (uomini anziani infatti convivono con bambini, adulti, ecc.). Questi stratagemmi consistono nel cedere
agli uomini delle vere e proprie apparenze che portano con sé la creazione di fenomeni che hanno a che fare con
l’immaginazione:

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Creò l’eco, lo nascose nelle valli e nelle speloche, e mise nelle selve uno strepito sordo e profondo, con un vasto
ondeggiamento delle loro cime. Creò similmente il popolo de’ sogni, e commise loro che ingannando sotto più
forme il pensiero degli uomini, figurassero loro quella pienezza di non intelligibile felicità, ch’egli non vedeva
modo a ridurre in atto, e quelle immagini perplesse e indeterminate, delle quali esso medesimo, se bene avrebbe
voluto farlo, e gli uomini lo sospiravano ardentemente, non poteva produrre alcun esempio reale. Fu per questi
provvedimenti di Giove ricreato ed eretto l’animo degli uomini, e reintegrata in ciascuno di loro la grazia e la
carità della vita, non altrimenti che l’opinione, il diletto e lo stupore della bellezza e dell’immensità delle cose
terrene. E durò questo buono stato più lungamente che il primo, massime per la differenza del tempo introdotta
da Giove nei nascimenti, sicché gli animi freddi e stanchi per l’esperienza delle cose, erano confrontati vedendo
il calore e le speranze dell’età verde.

Giove vuole dunque che l’immaginazione degli uomini diventi più ricca, quindi crea delle illusioni che agiscono laddove
Giove sa potersi arricchire la vita interiore degli uomini. Grazie a questi espedienti in effetti Giove dà all’umanità una
svolta. Qui naturalmente passiamo alla seconda fase dell’umanità: è come se questa si rinnovasse, non nella sostanza ma
bensì nelle apparenze vere e proprie (non nelle cose realmente ma nelle immagini delle cose, in quelli che sono i prodotti
dell’immaginazione). Ad esempio la differenza nei nascimenti permette maggiore diversità, dato che gli animi freddi e
stanchi si confortano vedendo il calore e la speranza dell’età della giovinezza. Così facendo l’umanità si salva. Tuttavia
questa condizione non può continuare all’infinito: Leopardi infatti ragiona in una logica perlopiù ciclica e non lineare,
secondo la quale si ritorna sempre laddove si è partiti. Quindi si ritorna apparentemente a una condizione di infanzia, ma
nel giro di poco si ritorna, di nuovo, nella condizione dell’infelicità. Tant’è vero che subito dopo leggiamo:

Ma in progresso di tempo tornata a mancare affatto la novità e risorto e riconfermato il tedio e la disistima della
vita, si ridussero gli uomini in tale abbattimento, che nacque allora, come si rede, il costume riferito nelle storie
come praticato da alcuni popoli antichi che lo serbarono, che nascendo alcuno, si congregavano i parenti e loro
amici a piangerlo; e morendo, era celebrato quel giorno con feste e ragionamenti che si facevano
congratulandosi coll’estinto.

Questa è una leggenda che Leopardi ricava da una delle sue tante letture e secondo cui in certi popoli quando un bambino
nasce tutti i parenti s’incontrano per piangerlo, quando invece muore tutti si incontrano per festeggiarne la morte. Si
rovescia, cioè, quello che dovrebbe essere l’andamento normale dell’esistenza. Ma per noi è interessante che Leopardi, nel
giro di un’altra pagina, ha ricominciato e ricondotto l’umanità alla fine. Questo processo si è ripetuto due volte già e si
ripeterà altre volte nell’operetta perché essa è tutta basata su questo processo ciclico di iniziare e finire, il che ci fa
pensare che Leopardi, attraverso questa forma di narrazione, in realtà stia evitando e ignorando l’idea di una narrazione:
se il mondo funziona sempre nello stesso modo, non si può fare storia, e anzi egli ironizza intorno alle possibilità di creare
una storia. In profondità, dunque, questa Storia del genere umano non è una vera e propria storia perché mancano gli
elementi fondanti della storia: ci sono soltanto degli elementi (inizio e fine) che si ripetono ciclicamente fino a un terzo e
futuro intervento di Giove, che ci proietterà in una dimensione assoluta, che è l’unica dimensione per Leopardi
concepibile. Se così fosse, Leopardi con questa operetta rifiuta l’idea di uno sviluppo narrativo. Infatti nelle Operette
Morali questo problema è costante poiché esse non sono quasi mai operette narrative (o se lo sono, lo sono in maniera
parziale).

Ci sono delle operette che fin dagli anni ‘20 Leopardi pensa di realizzare e che in parte confluiscono nelle Operette
Morali che conosciamo noi oggi. La Storia del genere umano è la prima Operetta della prima raccolta (1827). Prima di
questo volume però Leopardi aveva fatto degli esperimenti: nel 1826 aveva inviato il manoscritto a un suo amico che
aveva scelto tre Operette a caso da pubblicare sulla rivista “Antologia” (Dialogo di Timandro ed Eleandro; Dialogo di
Torquato Tasso e del suo genio familiare; Dialogo di Cristoforo Colombo e Pietro Gutierrez ). Leopardi mai avrebbe
voluto che le sue operette venissero messe così a caso e in un ordine privo di senso (infatti Leopardi considerava per
esempio il Dialogo di Timandro ed Eleandro quello da posizionarsi alla fine); inoltre c’erano molti errori di stampa e
Leopardi dunque rimane scontento. Molte delle operette hanno la forma di dialogo ma non tutte lo sono. Leopardi disse

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al suo amico che non le avrebbe dovute far vedere a nessuno, quindi per lui era importante che l’opera fosse pubblicata
con una determinata struttura (la Storia del genere umano, infatti, doveva per forza trovarsi all’inizio). Inoltre
prescindendo da questa strana pubblicazione anticipata, nessuno da Leopardi si aspettava un’opera filosofica in prosa,
quindi lui contava molto sulla sorpresa. Sapeva bene che c’erano soprattutto tre città importanti dove queste operette
sarebbero state prese di mira e osservate con attenzione (benché l’Italia all’epoca fosse molto frazionata): (1) Milano,
dove lui sapeva non avrebbe avuto nessuno che lo difendesse; (2) Firenze, nella quale conosceva già più persone; (3)
Roma. Quando però queste prime tre operette vengono pubblicate, Leopardi si rende conto che non c’è da parte di
nessuno un’attenzione particolare. Dobbiamo inoltre aggiungere che le idee più o meno filosofiche presenti nella Storia
del genere umano non le conosceva nessuno; noi queste idee filosofiche le conosciamo solo perché abbiamo letto lo
Zibaldone, (libro fatto di pensieri collegati tra di loro), ma nessuno sapeva, per esempio, che per Leopardi la felicità ha a
che fare con la meraviglia. Forse soltanto qualcuno aveva potuto ricavare questa informazione da qualche testo poetico.
Quindi la Storia del genere umano era per lui la base su cui costruire tutto il libro nel suo insieme. Non a caso poi ha
scelto la forma della storia, un racconto che in realtà un racconto non è: abbiamo un’umanità nelle condizioni di provare
piacere grazie alla meraviglia, la quale cala da un certo momento in poi, coincidente con la crescita di questi ultimi, e
quindi poiché si deve ritornare a quelle condizioni iniziali, Giove concede di volta nuove illusioni così gli uomini possono
provare sempre qualcosa di nuovo, così da far crescere quel senso di meraviglia che è andato calando. Sta enunciando
quindi un’idea abbastanza lontana dalle convinzioni religiose cattoliche, per cui la Genesi è il primo libro della Bibbia,
dove si racconta che Dio ha creato il mondo, ma non per far piacere agli uomini: il punto è che Adamo ed Eva da una
condizione di felicità assoluta, poi compiono la colpa che li porta alla condizione di peccato, da cui l’umanità si deve
riscattare. Se Adamo ed Eva non avessero trasgredito, non ci sarebbe stata colpa, né senso del peccato. Invece per
Leopardi questa umanità non ha colpe ma vive in una condizione in cui, finché può provare quel senso di meraviglia (che
porta loro a una condizione sempre più maggiore di felicità: infatti Leopardi usa non a caso l’espressione “crescevano con
molto contento”), allora non ci sono problemi per l’umanità. Tuttavia consumata la fanciullezza e l’adolescenza,
crescendo, gli uomini subiscono una mutazione e perdono il privilegio delle illusioni. Abilmente dunque Leopardi mette
da parte quella che è l’ideologia cristiana. Secondo Rousseau l’umanità poteva ritornare a una condizione di felicità
primigenia, mentre Leopardi dice che non si può tornare indietro: cioè gli Dei fanno di tutto per rendere più piacevole la
vita agli uomini (infatti Giove rende il mondo più complicato – con mari, monti, stelle, ecc. – per evitare che gli uomini si
annoino completamente, infatti dice “maggiormente adornarlo e distinguerlo”), ma in realtà non si può tornare indietro.
Al contrario della Genesi, in cui tutte le creazioni dell’universo vengono all’inizio, dunque prima della creazione
dell’uomo, con Leopardi l’uomo c’è già dal principio e poi Giove (divinità pagana non a caso), in un secondo momento,
crea la varietà del mondo, per “moltiplicare le apparenze di quell’infinito che gli uomini sommamente desideravano”.
Quindi l’azione di Giove è salvifica. Questa espressione è significativa perché dimostra che non può esserci la sostanza
dell’infinito, perché per definizione l’infinito non può avere sostanza, ma solo apparenza, perché la mente umana non può
concepire la sostanza dell’infinito dato che è lei stessa finita. Nello Zibaldone che ripetiamo, nessuno all’epoca poteva
conoscere dato che non viene pubblicato quando lui è in vita (infatti si tratta di un insieme di appunti ceduti ad Antonio
Ranieri, il quale a sua volta li cede alla sua donna di servizio, e soltanto nel 1901/1902 questi vengono venduti allo Stato
Italiano. Una commissione di intellettuali, presieduta da Carducci, decide poi di pubblicare la raccolta di pensieri. Quindi
lo Zibaldone lo conosciamo soltanto ottanta anni dopo la morte di Leopardi), Leopardi dice chiaramente che nella natura
non c’è l’infinito, poiché esso è un prodotto dell’immaginazione umana. Questi espedienti prodotti da Giove inizialmente
funzionano, tuttavia nel giro di una pagina si ritorna al punto iniziale, infatti Leopardi dice: “ in progresso di tempo
(espressione che usa in tutta l’operetta per indicare il trascorrere del tempo, indefinito, perché questa storia non ha una
dimensione cronologica, ma è ideale. Non c’è niente di storico in questa apparente storia infatti tutti i passaggi relativi al
tempo sono sicuramente indefiniti, cosa che nei Promessi Sposi invece non è possibile, perché dentro la forma chiamata
romanzo non ci può essere un tempo indistinto) si ridussero gli uomini in tale abbattimento": nasce quella strana
abitudine per cui quando si assiste alla nascita di un bambino si piange, quando si assiste alla morte di un uomo anziano
si fa festa. E qui Leopardi mette una nota probabilmente perché aveva bisogno, in alcuni punti, di dare una base

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attendibile al suo discorso, perché: in quale cultura si piange quando un bambino nasce e si fa festa quando uno muore?
Proprio perché l’affermazione è anomala, Leopardi vuole mettere dei riferimenti. L’uso di questa nota è un uso
particolare, perché ci accorgiamo che Leopardi vuole, come Manzoni, che noi crediamo a quello che lui ci dice. Ma
Manzoni ci mette sotto gli occhi la verosimiglianza del documento, riportandocelo, mentre Leopardi non ci dice più di
tanto, al massimo potrebbe dire “va’ a vederti Erodoto in quel punto”. Leopardi dice poi che, in conseguenza di questa
seconda fase di abbattimento degli uomini, essi si volsero all’empietà, cioè essi non credono più nei loro dei: il loro
atteggiamento non è più di rispetto nei confronti della divinità, ma anzi è un atteggiamento contrario perché è di sfiducia.
Si volsero all’empietà o perché pensavano di non essere ascoltati da Giove, oppure perché, anche gli animi migliori,
“bennati (nati bene nel senso ‘con delle grandi ed elevate qualità dell’animo’, concetto antico), possono essere corrotti
dalle miserie e disamorati (allontanati dall’amore) per l’onesto e per il retto.” Questa è una forte idea anticristiana, quasi
eretica. Nella concezione cristiana, infatti, se io coltivo delle virtù, esse inevitabilmente mi conducono alla strada del
bene. Nei Promessi Sposi Renzo e Lucia sono bennati nel linguaggio leopardiano perché, anche se poveri, hanno una
morale quindi entrambi rispettano i valori. Anche Renzo, anche se non è dotato della perfezione di Lucia (infatti compie
dei guai), riesce sempre a mostrare l’intima qualità del suo animo. Pasolini ha scritto un articolo sui Promessi Sposi in cui
dice che Manzoni, che per tutta la vita è stato costretto dai familiari a fare ciò che loro volevano che lui facesse, ha creato
Renzo sulla base di quello che lui sarebbe voluto essere se fosse stato un ragazzo libero (fuggire, scappare, compiere
disastri ecc.). Renzo invece è “libero”. Manzoni infatti trasporta sempre Renzo sino ai stremi limiti del pericolo, poi però
alla fine riesce sempre a riportarlo sulla retta via. Leopardi quindi dice che anche i bennati, coloro che hanno gli animi
retti, nati con qualità e virtù, possono perdere interesse verso ciò che è onesto e retto ed essere corrotti. Poi aggiunge:
“Perciocché si ingannano a ogni modo…”:rovesciamento del pensiero che si trova nei testi del cristianesimo: si
ingannano tutti quelli che pensano che gli uomini si siano macchiati della colpa originaria a causa dell’azione primordiale
di Adamo ed Eva che ha creato l’infelicità, ma sono bensì le calamità toccate agli uomini a renderli malvagi. È la
condizione di infelicità dunque a renderli malvagi. Il secondo tentativo di Giove di salvare gli uomini nell’Operetta
consiste nel fatto che gli dei puniscono gli uomini perché li vedono infelici (e non il contrario). La punizione secondo il
mito presente in Ovidio, corrispondente al mito del diluvio universale che Leopardi chiama Il diluvio di Deucalione:
mentre nella Bibbia il diluvio universale salva Noè che sale sulla barca con rappresentanti di ogni specie animale, nella
mitologia greca invece, il mito di Deucalione è un diluvio che uccide tutti gli uomini tranne un solo uomo e una sola
donna, Deucalione e Pirra. Ma Leopardi rimaneggia il mito a modo suo: gli Dei puniscono la testardaggine degli umani
nel non essere contenti di quello che si ha; Deucalione e Pirra sono convinti che l’unica soluzione a questa condizione sia
che la stirpe umana venga annientata (stessa idea di Leopardi). Invece Giove obbliga loro a riparare alla solitudine della
terra, ma siccome loro due sono talmente presi da questa situazione di sconforto da non voler unirsi per generare
l’umanità, Giove li costringe a un atto puramente simbolico: devono prendere delle pietre dalla montagna e gettarsele
dietro le spalle, così che tutte le volte che Deucalione ne lancia una nasce un uomo, e quando la lancia Pirra, una donna.
Così facendo “restaurarono la specie umana”. Il verbo “restaurare” ha in sé l’idea di “rifare”, “ripetizione”. Però Giove
capisce che l’umanità non può andare avanti così, dunque compie un gesto ancor più eccessivo nei confronti degli
uomini, e che nella Genesi è la conseguenza della colpa, qui invece è Giove a obbligare l’umanità a soffrire e faticare per
togliere loro il senso della noia. Quindi Giove non li punisce per una colpa, è il contrario: dà loro questo per potersi
distrarre. Emerge poi un nucleo molto forte del pensiero leopardiano: è inutile che gli uomini si intrattengano a
esaminare sé stessi. Giove deve piuttosto distrarli, prendendoli e allontanandoli da sé stessi. Nello Zibaldone Leopardi
dice se la felicità consiste nel piacere, e non è possibile ottenere il piacere sempre, allora i mali, le fatiche e gli impegni
sembrano contrari alla felicità, ma in realtà sono attività che ci impegnano e ci consentono di distrarci dalla
consapevolezza dell’infelicità. Giove a questo punto “diffonde morbi e sventure fra gli uomini”, cioè: Giove, affinché gli
uomini smettano di lamentarsi per l’impossibilità di raggiungere la felicità, li fa soffrire. L’errore degli uomini per
Leopardi è quello di pensare di poter vivere per sempre in una condizione di felicità, ma Leopardi dice che questo non è
possibile per nessun essere vivente. Ogni essere dotato di un principio vitale, soffre (anche le piante). Ma Leopardi si
chiede: è possibile ogni tanto ottenere una pausa da questa infelicità? Una volta che Giove costringe gli uomini a

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soffrire, se questi si trovano al riparo da queste miserie scagliate da Giove, si sentiranno più felici. Quando infatti un
uomo guarisce dal suo male si sente più felice, o anche quando ha compiuto una grande fatica, si sente più felice. Poi
Giove crea anche tante altre cose, come le tempeste, quindi tutte quelle condizioni climatiche che possono danneggiare e
spaventare gli uomini, con la consapevolezza che questi riconcilierebbero alla vita, almeno per un piccolo tempo. Giove
però non si ferma qui perché siamo nel punto in cui l’umanità acquista la forma che noi oggigiorno conosciamo: ci sono le
malattie, i fenomeni atmosferici quali temporali, terremoti (come il terremoto che all’epoca distrugge Lisbona, da cui
nasce una questione filosofica e sulla quale lo stesso Leopardi s’interroga: cioè se l’umanità vive nel migliore dei mondi
possibili, com’è possibile che un terremoto, ovvero un evento naturale, ci faccia regredire anziché progredire verso il
progresso?). Dunque Giove aggiunge anche “il bisogno e l’appetito di nuovi cibi e bevande”. Quando Leopardi parla della
California parla di un mondo che non ha avuto modo di conoscere direttamente ma solo grazie ai libri, in cui si presenta
come “mondo delle origini” corrispondente all’età dell’oro. Ora improvvisamente Leopardi fra le righe sta alludendo al
paradiso terrestre, e al fatto che l’umanità prima di questo momento si nutrisse di ciò che la natura offriva. Adesso invece
inserisce negli uomini il bisogno di nuovi cibi e gusti, quindi quel bisogno di varietà. Possiamo sommariamente affermare
che questa operette si basa su un unico principio: dall’uniformità si passa alla varietà; laddove ‘uniformità’ coincide con il
piacere quasi assoluto, mentre ‘varietà’ coincide con la ricerca di un qualcosa che va contro il piacere. Giove poi distingue
i luoghi a seconda dei climi, le parti dell’anno (prima non c’erano le stagioni, ma c’era la primavera perenne tipica dell’età
dell’oro) e soprattutto gli uomini sono costretti a trovare un espediente per ripararsi, cioè sono costretti a vestirsi.
Quindi fino a questo momento l’umanità era stata nuda perché non c’era bisogno del vestiario dato che faceva sempre
caldo (non esistenza la differenza di climi). Essi devono inventare degli stratagemmi per riparare alle mutazioni e
inclemenze del cielo, dunque per sopravvivere. Giove inoltre impone a Mercurio (Dio che trasporta i messaggi fra uomini
e divinità) che fondi le prime città, distingui il genere umano in popoli, nazioni e lingue, ponendo gara e discordia tra loro
(è il famoso mito che nella Bibbia coincide con il mito della torre di Babele, cioè quella costruzione nata dal desiderio
degli uomini che vorrebbero arrivare a toccare il cielo e che Dio punisce inevitabilmente: nascono infatti stirpi diverse,
nazioni e popoli diverse, lingue diverse: tutti in discordia tra loro ). Nasce quindi il senso del contrasto, impossibile da
questo momento in poi eliminare. Eppure grazie a Mercurio si mostrano agli uomini anche le arti e il canto. Ultimo dono
di Giove agli uomini: manda tra gli uomini alcuni fantasmi “di sembianze eccellentissime e sovrumane a cui permise il
governo e la potenza”: Giove cioè dà agli uomini i principi che dal mondo antico ad oggi sono stati gli ideali fondanti di
ogni società: giustizia, virtù, gloria, amor patrio ecc. Questo è un punto fondamentale perché Leopardi inserisce l’idea del
fantasma (cioè un qualcosa che ha a che fare con la fantasia. Termine chiave nel resto dell’operetta). Secondo Leopardi
questi fantasmi hanno un’apparenza eccellentissima, non sono dunque reali, sono appunto fantasmi.  Essi vengono
definiti con una terminologia che rimanda a tutta una serie di valori (ne nomina alcuni, giustizia, virtù, amor patrio ecc.),
quindi dobbiamo immaginare che siano qualità supreme, eccellentissime, che per Leopardi avranno una funzione
centrale in questa nuova fase dell’umanità, perché questi fantasmi da questo momento in poi orienteranno per sempre le
scelte degli uomini. Fra questi nuovi fantasmi uno si chiama amore (che per la prima volta viene in terra). Ma com’è
possibile che non ci fosse già prima l’amore? E com’è possibile che Leopardi lo chiami ‘fantasma’? Teniamo presente che
Leopardi aveva letto i dialoghi platonici, in particolar modo Il Simposio, dove veniva espressa una teoria particolare a
proposito dell’amore, quindi Leopardi sa che in questo momento sta prendendo una posizione a favore della filosofia
platonica. Ma oltre a Platone potrebbero esserci altre filosofie, come per esempio quella di Lucrezio, che nel quinto libro
del De Rerum Natura narra che Venere nei boschi faceva congiungere i corpi degli amanti, quindi era Venere, dea
dell’amore, che spingeva il desiderio degli uomini, in modo tale che il corpo degli amati si ricongiungesse (è un amore
carnale quello di Lucrezio). L’amore platonico invece prescinde dalla carnalità perché avviene per contemplazione e
ammirazione. Leopardi sembra più vicino a Lucrezio perché dice che, prima che fossero inventati i vestiti non c’era
amore, ma impeto di cupidità, e desiderio, non dissimile da quello che c’era negli animali. La teoria di Leopardi è che
quando l’umanità era nuda non c’era bisogno di desiderare qualcosa che non si vedeva, perché si vedeva tutto e c’era
facilmente il congiungimento; quando vengono inventati i vestiti gli uomini, non vedendo più com’è fatto il corpo,
immaginano cosa c’è sotto i vestiti delle donne e viceversa, e si desiderano. Nasce quindi il desiderio di poter vedere il

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corpo che desiderano. Quindi Amore non è una divinità, come pensavano gli antichi Greci e Romani: Leopardi parla di
una forza che corrisponde a un fantasma (esattamente come la giustizia, la virtù e la gloria), cioè una specie di ideale
(come l’ideale di perseguire la gloria o la giustizia) che provoca delle illusioni (con il vestiario, gli uomini desiderano la
donna e viceversa perché non possono vedere i rispettivi corpi). L’amore è un fantasma ideale, non è una sostanza, non
corrisponde a qualcosa che si può sperimentare realmente, ma è solo un prodotto della mente, un’illusione. Tutti questi
stratagemmi di Giove funzionano (parla di ‘larve’, termine latino significante ‘fantasma’). Laddove un filosofo o un
pensatore dell’800 avrebbe puntato alla sostanza e alla realtà, Leopardi invece punta al fantasma, all’irrealtà, e alle
illusioni. Per lui le illusioni non sono vanità, bensì cose sostanziali (punto che lo rende incompatibile con le idee di
Manzoni). Le larve per Leopardi funzionano così tanto perché gli uomini iniziano a seguirle e a onorarle come se fossero
degli Dei; esse inoltre infiammano i poeti e gli artisti al punto che l’umanità può morire per questi fantasmi (c’è stato un
tempo in cui addirittura si moriva per la gloria, giustizia, amore e amor patrio ecc.). Giove accetta che gli uomini si
possano sacrificare per queste cose, belle e gloriose. Ma è vero che gli uomini sono un po’ più felici di prima però Giove
non ha previsto che tra queste larve/fantasmi ce n’è è uno in particolare che modifica per sempre la condizione degli
uomini: la sapienza. “Il totale rivolgimento della loro fortuna [della fortuna dell’umanità] …” Mentre il romanzo deve
contenere degli ideali di saggezza, avendo una finalità morale, cioè capacità di trasmettere dell’esperienze (Manzoni dice
chiaramente nei Promessi Sposi, che la storia serve a salvare gli uomini di cui deve necessariamente rimanere memoria
nella storia), Leopardi invece stravolge un luogo comune: dice che questo fantasma della saggezza inganna gli uomini. Si
pensava che il momento maggiore di utilizzo della ragione avrebbe portato a sconfiggere il più possibile i mali
dell’umanità, invece la tecnologia ha portato alle guerre mondiali, alla bomba atomica ecc. Leopardi si chiede com’è
possibile affidarsi soltanto a questa verità: possibile che la sapienza porti in terra la verità? Allora gli uomini si rendono
conto che anche in questo caso qualcosa non funziona, che gli Dei non sono fedeli alle loro promesse, cioè la verità non
arriva mai. Quindi gli uomini ricominciano a lamentarsi: perché non ci dai la verità? Gli uomini cominciano a pensare
che tutti i fantasmi e le cose che Giove ha mandato loro non servono a niente se non c’è la verità. La pretendono. Giove
rendendosi conto di fare per sempre il male degli uomini concede alla verità di scendere sulla terra: atto di vendetta nei
confronti degli uomini perché quando arriva la verità sulla terra, tutti i fantasmi a cui gli uomini credevano scompaiono,
la verità annienta tutte le illusioni.
Il punto è questo: Giove, dal momento che gli uomini insistono sul volere la verità, lui la concede quasi come se volesse
punirli. Infatti Leopardi scrive

molte cose avevano già da gran tempo alienata novamente dagli uomini la volontà di Giove; e tra le altre
gl’incomparabili vizi e misfatti, i quali per numero e per tristezza si avevano di lunghissimo intervallo lasciate
addietro le malvagità vendicate dal diluvio. Stomacato del tutto, dopo tante esperienze prese, l’inquieta,
insaziabile immoderata natura umana […] egli si risolse, posta da ogni parte ogni pietà, di punire in perpetuo la
specie umana, condannandola per tutte le età future a miseria molto più grave delle età passate. Per la qual cosa
deliberò non solo mandare la verità fra gli uomini a stare, come essi chiedevano, per alquanto di tempo, ma
dandole eterno domicilio tra loro, ed esclusi di quaggiù quei vaghi fantasmi che egli vi avea collocati, farla
perpetua moderatrice e signora della gente umana.

Quindi già da gran tempo molte cose avevano allontanato dagli uomini la benevolenza di Giove, tuttavia stomacato dalle
loro richieste, superbe domande e comportamenti, sceglie di punirli e condannarli per sempre (“in perpetuo”) senza
possibilità di riscatto o di salvezza (“posta da parte ogni pietà” allude proprio all’atto di vendetta assoluto che Giove
sceglie di attuare, che non ha vie di scampo). Con l’avvento della verità, finisce l’epoca delle illusioni e dei fantasmi
(chiamati qui “vaghi”, termine indicante un qualcosa privo confini e che si amplia continuamente, che dunque rimanda
ancora una volta al concetto di infinito, e dunque portatore di felicità perché garante della meraviglia). Dunque i
moderni, rispetto agli ideali (fantasmi) antichi (amore, virtù, amor patrio) hanno sostituito delle solide conoscenze
moderne, nonché origine del processo di infelicità del genere umano. Gli Dei si meravigliano dell’azione di Giove: perché
mai egli avrebbe deciso di inviare tra gli uomini la verità? Risulta rovesciato anche il paradigma platonico: per Platone la
verità non può stare tra gli uomini, eventualmente sono questi ultimi a poter trascendere la loro dimensione umana per
andare verso la verità:

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Giove li rimosse da questo concetto mostrando loro, oltre che non tutti i geni, eziandio grandi, sono di proprietà
benefici, non essere tale l’ingegno della Verità, che ella dovesse fare gli stessi effetti negli uomini che negli Dei.
Perocché laddove agl’immortali ella dimostrava la loro beatitudine, discoprirebbe agli uomini interamente e
proporrebbe ai medesimi del continuo dinnanzi agli occhi la loro infelicità; rappresentandola, oltre a questo,
non come opera solamente della fortuna, ma come tale per niuno accidente e niuno rimedio non la possono
campare, né mai, vivendo, interrompere. Ed avendo la più parte dei loro mali questa natura, che in tanto sieno
mali in quanto sono creduti essere da chi li sostiene, e più o meno gravi secondo ch’esso gli stima; si può
giudicare di quanto grandissimo nocumento sia per essere agli uomini la presenza di questo genio. Ai quali
niuna cosa apparirà maggiormente vera che la falsità di tutti i beni mortali; e niuna solida, se non la vanità di
ogni cosa fuorché dei propri dolori.

Cioè essenzialmente dice che negli Dei la verità non ha lo stesso effetto benefico che ha, invece, negli uomini: la verità
negli Dei ribadisce la loro felicità continua, mentre negli uomini non fa altro che svelare la loro perpetua e propria
infelicità. Rappresentando l’infelicità, gli uomini non possono evitarla, né mai interrompere la sua azione. Agli uomini
uomini a questo punto ogni bene mortale apparirà inutile, e l’unica cosa che apparirà loro reale e solida sarà la presenza
del dolore nella loro vita. la verità opera quindi un rovesciamento nella vita dell’uomo: mentre prima Giove aveva cercato
di tamponare, con vari espedienti, la loro infelicità, ora non c’è più possibilità di rimediare a questa, tant’è vero che Giove,
quasi con rabbia, lo condanna alla verità irreparabilmente. Una volta che la verità si è diffusa tra gli uomini, nessun
rimedio si può trovare ad essa. Fino ad ora Leopardi ha narrato attraverso un narratore onnisciente, ma a partire da ora
sembra che sia lo stesso Giove a prendere la parola, quindi da un narratore onnisciente si passa a un narratore che narra i
fatti in prima persona e che coincide con la divinità stessa:

Per queste cagioni saranno eziandio privati della speranza; colla quale dal principio insino al presente, più che
con altro diletto e conforto alcuno, sostentarono la vita. E nulla sperando, né veggendo alle imprese e fatiche
loro alcun degno fine, verranno in tale negligenza e abborrimento da ogni opera industriosa, non che
magnanima, che la comune usanza dei vivi sarà poco dissomigliante da quella dei sepolti. Ma in questa
disperazione e lentezza non potranno fuggire che il desiderio di un'immensa felicità, congenito agli animi loro,
non li punga e cruci tanto più che in addietro, quanto sarà meno ingombro e distratto dalla varietà delle cure e
dall'impeto delle azioni.

Non avendo più speranza, tutte le azioni saranno inutili e quindi la loro esistenza, da vivi, sarà simile a quella di morti.
Essere vivi dunque sarà come essere sepolti. Malgrado questa infelicità e disperazione, continueranno a sentire il
desiderio di una felicità, congenito agli animi loro. La cosa interessante è dunque che il discorso di Leopardi prende
chiaramente l’aspetto di uno dei temi che sviluppa anche nello Zibaldone: il desiderio. Desiderio è sempre guardare oltre
ciò che si ottiene, quindi è sintomo dell’incompletezza dell’esistenza. A questo proposito, Leopardi fa un esempio
all’interno dello Zibaldone: se sei appassionato di cavallo e ne desideri uno, quando lo avrai comprato, desidererai
comprarne un altro che sia ancor più veloce e più abile. Quindi il desiderio è segno di una mancanza costituzionale, fa
parte della natura umana ed è imprescindibile da essa poiché la designa. Quando l’uomo nasce, diventa automaticamente
mortale. Dobbiamo ragionare che, da questa prospettiva, Leopardi è materialista: per lui non c’è via d’uscita a questa
condizione umana di perenne mancanza (che ripetiamo essere costituzionale); inoltre è una prospettiva che rovescia e
non accetta i tradizionali luoghi comuni.

E nel medesimo tempo si troveranno essere destituiti della naturale virtù immaginativa, che sola poteva per
alcuna parte soddisfarli di questa felicità non possibile e non intesa, né da me, né da loro stessi che la sospirano.
E tutte quelle somiglianze dell'infinito che io studiosamente aveva poste nel mondo, per ingannarli e pascerli,
conforme alla loro inclinazione, di pensieri vasti e indeterminati, riusciranno insufficienti a quest'effetto per la
dottrina e per gli abiti che eglino apprenderanno dalla Verità. Di maniera che la terra e le altre parti
dell'universo, se per addietro parvero loro piccole, parranno da ora innanzi menome: perché essi saranno
instrutti e chiariti degli arcani della natura; […] ciascheduno odierà tutti gli altri, amando solo, di tutto il suo
genere, se medesimo. […] Ma Giove seguitò dicendo. Avranno tuttavia qualche mediocre conforto da quel
fantasma che essi chiamano Amore […] Così rimossi dalla terra i beati fantasmi, salvo solamente Amore, il
manco nobile di tutti,

Emerge qui la prima persona (il che è strano, nemmeno il professore riesce a spiegarne il motivo). Nel medesimo tempo,
di fronte alla verità, si troveranno destituiti della virtù immaginativa, perderanno cioè la virtù grazie alla quale riescono a

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creare immagini e illusioni, che sola poteva, in parte, fornirli una felicità non compresa né da me (Giove), né dagli uomini
stessi che la desiderano. Tutte quelle parvenze e somiglianze dell’infinito che io (Giove) avevo inserito nel mondo per dar
loro un esempio di infinito per nutrirli, riusciranno insufficienti a causa della dottrina che apprenderanno dalla verità,
dunque processo conoscitivo. La verità non è una meta da raggiungere, ma anzi è ciò che elimina per sempre, negli
uomini, la possibilità di raggiungere questa meta. In modo che, tutte quelle parti del mondo che ho creato per distrarre
gli uomini, questi le conosceranno una per una: daranno nome alla varietà del mondo. Quindi nella prospettiva di
Leopardi questo è l’approdo definitivo e dal quale non si può tornare indietro. Giove aggiunge addirittura che a causa di
questa ricerca e presenza della verità, nascerà un altro fenomeno ancora più grande: non avendo più ideali (fantasmi) da
perseguire e che li avevano resi momentaneamente felici, gli uomini ameranno solo sé stessi. Leopardi parlerà molto del
concetto di “amor proprio”: nello Zibaldone dice addirittura che non si può dar vita umana senza amor proprio. Qui,
tuttavia, l’amore per sé medesimo è considerato in un’ottica negativa perché egoistica e che porta gli uomini a odiarsi tra
di loro. Il discorso di Giove è talmente assoluto, che anche gli Dei provano pietà, tanto che Giove dopo un po’ aggiunge di
essere disposto a lasciare agli uomini un’unica cosa, cioè quel fantasma (e unico rimedio) che gli uomini chiamano
“Amore”. In tutta la tradizione occidentale Amore era quel principio che in qualche modo presupponeva la virtù: non
esiste amore slegato dalla virtù. Nell’idea platonica, Amore è il manco nobile di tutti, cioè il meno nobile di tutti i
fantasmi, questo perché se leggiamo il Simposio di Platone (= banchetto in cui Socrate convince i convitati a esporre
ciascuno la propria idea sull’amore. Il primo è Aristofane, con la sua teoria dell’ermafrodita, secondo cui gli uomini
primitivi erano sfere complete e autosufficienti che si completavano a vicenda perché metà uomini e metà donne. Poi
Zeus volle punirli e separarli, allora da quel momento in poi gli uomini andavano alla ricerca della loro metà perduta),
Socrate sostiene che, tutti hanno esposto la propria teoria sull’Amore, tuttavia lui non è d’accordo fino in fondo con
nessuno. Infatti racconta di aver ascoltato, da giovane, una donna mitica di Mantinea chiamata Diòttima (poi presa come
emblema dal pensiero femminista), molto preparata su queste questioni. Questa donna ha istruito Socrate sulle questioni
dell’amore, così il filosofo cerca di riportare il discorso da lei fattole. Si rivolge innanzitutto a uno dei commensali
presenti, chiamato Agatone e gli dice, dato che ha appena parlato dell’amore, definendolo il più buono e il più bello tra gli
Dei, che inizialmente, prima di conoscere Diottima, anche lui pensava che l’Amore fosse un gran Dio. La donna però
sosteneva che l’Amore non fosse né bello, né buono, convincendo anche Socrate di questo. Amore secondo la donna non è
buono né bello, dunque non è un Dio, ma ciò non vuol dire che sia cattivo e brutto, ma bensì è qualcosa che si trova a
metà strada tra questi due estremi. Tutti gli Dei infatti sono belli, buoni e felici, mentre l’Amore è privo di bontà e
bellezza. Esso è piuttosto una mancanza, cioè qualche cosa che sta a metà, che trasmette agli uomini ciò che hanno gli
Dei, e agli Dei ciò che hanno gli uomini. Per mezzo di Amore, appunto, è possibile che avvenga il passaggio tra gli Dei e
tra gli uomini. Quindi non può esserci perfezione nell’Amore. Le parole di Platone, Leopardi le adopera in maniera sottile
per dire che Giove ha lasciato tra gli uomini solamente il fantasma di Amore, che è il meno nobile di tutti, perché inserito
sempre in una condizione di privazione e desiderio. E aggiunge poi:

Giove mandò tra gli uomini la Verità, e diedele appo loro [presso di loro] perpetua stanza e signoria. Di che
seguitarono tutti quei luttuosi effetti che egli avea preveduto. E intervenne cosa di gran meraviglia; che ove quel
genio prima della sua discesa, quando egli non avea potere né ragione alcuna negli uomini, era stato da essi
onorato con un grandissimo numero di templi e di sacrifici; ora venuto in sulla terra con autorità di principe, e
cominciato a conoscere di presenza, al contrario di tutti gli altri immortali, che più chiaramente manifestandosi,
appaiono più venerandi, contristò di modo le menti degli uomini e percossele di così fatto orrore, che eglino, se
bene sforzati di ubbidirlo, ricusarono di adorarlo.

Mentre tutti gli altri Dei sono amati e venerati, quando la Verità giunge tra gli uomini, non viene né amata, né venerata,
anche se gli uomini sono sforzati di ubbidirle. A questo punto arriviamo all’ultimo momento del racconto, coincidente
con l’ultimo intervento di Giove nel tentativo di rimediare ai danni della Verità. Leopardi dice: “non è gran tempo che
Giove si commosse sopra tanta infelicità”. Questo “non è gran tempo” è strano perché sembra quasi che quest’ultima
fase coincida non con il presente ma con un’epoca molto vicina a quella in cui Leopardi sta scrivendo. Ecco la soluzione
ultima di Giove:

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Avevano usato gli Dei negli antichi tempi, quando Giustizia, Virtù e gli altri fantasmi governavano le cose
umane, visitare alcuna volta le proprie fatture, scendendo ora l'uno ora l'altro in terra, e qui significando la loro
presenza in diversi modi […] Ma corrotta di nuovo la vita, e sommersa in ogni scelleratezza, sdegnarono quelli
per lunghissimo tempo la conversazione umana. Ora Giove compassionando alla nostra somma infelicità,
propose agl'immortali se alcuno di loro fosse per indurre l'animo a visitare, come avevano usato in antico, e
racconsolare in tanto travaglio questa loro progenie, e particolarmente quelli che dimostravano essere, quanto a
se, indegni della sciagura universale. Al che tacendo tutti gli altri, Amore, figliuolo di Venere Celeste, conforme
di nome al fantasma così chiamato, ma di natura, di virtù e di opere diversissimo; si offerse (come è singolare fra
tutti i numi la sua pietà) di fare esso l'ufficio proposto da Giove, e scendere dal cielo onde egli mai per l'avanti
non si era tolto; non sofferendo il concilio degl'immortali, per averlo indicibilmente caro, che egli si partisse,
anco per piccolo tempo, dal loro commercio. […] Ma esso non prima si volse a visitare i mortali, che eglino
fossero sottoposti all'imperio della Verità. Dopo il qual tempo, non suole ancora scendere se non di rado, e poco
si ferma; così per la generale indegnità della gente umana, come che gli Dei sopportano molestissimamente la
sua lontananza. Quando viene in sulla terra, sceglie i cuori più teneri e più gentili delle persone più generose e
magnanime; e quivi siede per breve spazio; diffondendovi sì pellegrina e mirabile soavità, ed empiendoli di
affetti sì nobili, e di tanta virtù e fortezza, che eglino allora provano, cosa al tutto nuova nel genere umano,
piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine.

Leopardi dice che tutti gli Dei nei tempi antichi qualche volta si facevano vedere dagli uomini, scendendo sulla terra e
dando segni della loro presenza in modi diversi. Ma dopo ciò che era successo, questi avevano smesso di cercare gli
uomini, così Giove propose loro se qualcuno fosse disposto a riscendere ancora una volta sulla terra a consolare gli
uomini che meritavano di essere consolati. Tutti si rifiutano eccetto Amore. Questo Amore non è più il fantasma (infatti
Leopardi dice “conforme di nome al fantasma ma di natura, di virtù e di opere diversissimo”) ma è l’amore vero e
proprio, figlio di Venere: è Divinità vera e propria. Amore appare così vicino alla definizione di Diottima perché quella
Divinità che riesce a mettere in comunicazione Dei e uomini. Tuttavia gli immortali non avrebbero mai accettato che
Amore si allontanasse dal loro “commercio” intendibile etimologicamente come ‘rapporto di scambio’, non ‘scambio di
merci’. Per la prima volta però Amore sceglie di scendere, dall’Olimpo sulla terra. Scende però quando c’è già, sulla terra,
la Verità e trova dunque un compromesso con quest’ultima: scende solo su tempi limitatissimi. Con l’espressione
“quando viene in terra” il discorso si catapulta nel presente, dunque non c’è più il passato arcaico e lontano. Il punto del
discorso di Leopardi è: ci sono attimi nella vita degli uomini in cui, sotto l’influsso di questa divinità, la vita sembra
realmente bella (piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine). Quindi non è la conoscenza o l’ampliarsi della verità
e dell’azione che portano piacere, ma solo l’influsso di Amore può portare beatitudine. Leopardi, riprendendo il discorso
di Aristofane, dice poi:

Rarissimamente congiunge due cuori insieme, abbracciando l'uno e l'altro a un medesimo tempo, e inducendo
scambievole ardore e desiderio in ambedue; benché pregatone con grandissima instanza da tutti coloro che egli
occupa: ma Giove non gli consente di compiacerli, trattone alcuni pochi perché la felicità che nasce da tale
beneficio, è di troppo breve intervallo superata dalla divina. A ogni modo, l'essere pieni del suo nume vince per
se qualunque più fortunata condizione fosse in alcun uomo ai migliori tempi. Dove egli si posa, dintorno a quello
si aggirano, invisibili a tutti gli altri, le stupende larve, già segregate dalla consuetudine umana; le quali esso Dio
riconduce per questo effetto in sulla terra, permettendolo Giove, né potendo essere vietato dalla Verità;
quantunque inimicissima a quei fantasmi, e nell'animo grandemente offesa del loro ritorno: ma non è dato alla
natura dei geni di contrastare agli Dei. E siccome i fati lo dotarono di fanciullezza eterna, quindi esso,
convenientemente a questa sua natura, adempie per qualche modo quel primo voto degli uomini, che fu di
essere tornati alla condizione della puerizia. Perciocché negli animi che egli si elegge ad abitare, suscita e
rinverdisce per tutto il tempo che egli vi siede, l'infinita speranza e le belle e care immaginazioni degli anni
teneri. Molti mortali, inesperti e incapaci de' suoi diletti, lo scherniscono e mordono tutto giorno, sì lontano
come presente, con isfrenatissima audacia: ma esso non ode i costoro obbrobri; e quando gli udisse, niun
supplizio ne prenderebbe; tanto è da natura magnanimo e mansueto. Oltre che gl'immortali, contenti della
vendetta che prendono di tutta la stirpe, e dell'insanabile miseria che la gastiga, non curano le singolari offese
degli uomini; né d'altro in particolare sono puniti i frodolenti e gl'ingiusti e i dispregiatori degli Dei, che di essere
alieni anche per proprio nome dalla grazia di quelli.

Sono tanti coloro che desiderano l’Amore, ma sono pochissimi quelli che lo ottengono, Giove lo concede solo ad “alcuni
pochi” perché la felicità che nasce dal vero amore è quasi simile a quella divina, quindi così facendo gli uomini diventano
simili agli Dei. Questa visione dell’esistenza è opposta a quelli che sono, invece, i luoghi comuni dell’esistenza, anche

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rispetto al luogo comune che vede l’amore fonte perenne e costante di felicità. Invece in questo caso per Leopardi l’amore
può renderci felici per pochi momenti in rari casi. Inoltre essere posseduti dal Dio Amore vince qualunque condizione di
qualunque tempo. Quando arriva amore, tutte le larve, segregati dalla consuetudine umana, automaticamente si
presentano. Fondamentalmente Leopardi ci dice che gli unici momenti di felicità sono quelli in cui non si è in possesso di
sé stessi (grazie all’amore), infatti la Verità è inimica di tutti i fantasmi, ma mai riesce a contrastare Amore (che non è
inteso, in questo caso, uno dei tanti fantasmi, ma è il Dio Amore!) 2. Siccome l’amore è l’unico Dio dotato di fanciullezza
eterna, grazie ad essi gli uomini ritornano alla condizione di puerizia (da puer), dunque all’origine, coincidente con
l’infanzia. Ci sono tuttavia uomini che deridono l’amore e anche chi è innamorato, ma l’amore non bada a tali critiche.
Anche perché gli Dei, dal momento che hanno condannato la nostra stirpe, non si curano delle offese loro recate dagli
uomini, e la vera punizione degli uomini ingiusti e dispregiatori consiste nel fatto che sono primi ad essere allontanati ed
esclusi dalla grazia divina. L’operetta si conclude con un ironia nei confronti degli uomini che deridono l’azione degli Dei
verso gli uomini.

Questa operetta funge da preludio alla raccolta delle Operette Morali. In essa è esposta la teoria che nello Zibaldone
veniva esposta attraverso pensieri frammentari e che qui, invece, coagula in una storia ‘paradossale’. ‘Paradossale’
perché: è una storia a rovescio: prosegue secondo un’idea di peggioramento (non miglioramento), che non porta
l’umanità a migliorare bensì a peggiorare; ed è a rovescio anche perché, sotto una specie di patina classica (che
s’intravede nei termini e sintassi tipicamente classici), Leopardi nasconde qualcosa di più complicato che viene fuori nel
finale, nella contrapposizione tra Amore e Verità: la vita umana è caratterizzata da rari momenti, corrispondenti a quelli
in cui il Dio Amore s’impossessa dell’uomo, che interrompono l’uniformità data dalla noia e ricerca del piacere. C’è
un’idea leopardiana della vita umana non conforme all’idea che può avere un uomo qualunque dell’epoca del nostro
autore: la vita non cambia, non si sviluppa, non progredisce. L’unico momento di possibile miglioramento coincide
quando, per pochi attimi, si manifesta l’Amore e momento che, lo ripetiamo, colloca l’uomo nella condizione più
fortunata e felice che possa desiderare di avere. Ed è paradossale perché gli interventi di Giove tendono a far ricominciare
le varie epoche ma, esattamente come esse cominciano, finiscono.

Perché Leopardi sceglie un testo paradossale per aprire il suo libro? È l’unica a chiamarsi “Storia del genere umano”,
dopo essa si susseguono operette tutte dal titolo “Dialogo…”. Questa operetta non parla della natura (come nelle altre) ma
di Giove (vista come divinità suprema con un potere assoluto) e poi anche Amore. Ci troviamo più o meno intorno al 1818
e 1819, quindi negli anni in cui Leopardi scrive Canzoni e Idilli, il che ci fa capire che l’opera leopardiana non procede
attraverso una scansione lineare e ben precisa: egli pensa già di avviare operazioni sia nel campo della poesia che della
prosa.
Tra gli autori antichi, Leopardi cita spesso Luciano di Samosata, contraddistinto nella cultura classica per aver scritto
dialoghi di tipo comico ambientati ora nel mondo degli Dei, ora nel cielo e nel mare, e poi per aver scritto un racconto
lungo quasi un romanzo e narrante un viaggio sulla luna. Luciano attira l’attenzione di Leopardi, nominandolo nel saggio
Sopra gli errori popolari degli antichi, precisamente nell’elenco delle famose scuole filosofiche ellenistiche (pitagorici,
scettici e tante altre scuole): “qualche vero saggio si rideva di tutti”. Questo qualcuno più saggio di tutti potrebbe essere
Luciano, profondo conoscitore delle scuole filosofiche del tempo e che si prendeva gioco, attraverso i suoi dialoghi, di
tutti gli altri.

Il carnevalesco.

2 Leggiamo una considerazione contenuta in un articolo di uno storico degli anni ’60 di nome Vincenzo Di Benedetto che
si è occupato di Leopardi e soprattutto del rapporto tra Leopardi e i pensatori antichi. Secondo lui la cosa più notevole è
quella di distinguere l’amore dalla verità, pensiero in netto contrasto con la teoria esposta da Platone nel Simposio.
Eppure Leopardi ammira il filosofo, come capiamo con lo Zibaldone, dove Leopardi considera il filosofo un creatore di
“grandi immaginazioni”. Qui però entra in contrasto con il filosofo: per quest’ultimo è attraverso l’amore che l’uomo si
eleva alla scoperta della verità.

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Lo studioso russo Michail Bachtin nel suo libro su Dostoevskij, elabora un discorso che ruota intorno al principio del
comico, partendo dalla definizione di genere letterario. Con genere letterario s’intende la natura specifica dell’opera che
leggiamo e lo strumento grazie al quale comprendiamo, a prima vista, la natura dell’opera scritta. A fronte di un genere
definibile, come quella del romanzo e utilizzato da Manzoni, l’opera di Leopardi non ha una tradizione riconoscibile nel
mondo contemporaneo (ma soltanto nel mondo antico). Non abbiamo, infatti, il genere dell’Operetta Morale. Lo
studioso russo dice che tra la fine dell’età classica e l’età ellenistica si sviluppano numerosi generi letterari
apparentemente diversi tra loro ma legati da un qualcosa che li rende affini e che, insieme, formano un settore della
letteratura, chiamato ‘serio-comico’. La caratteristica di questi generi è quella di collocarsi a un livello intermedio tra il
serio e il comico. Le opere nominate dallo studioso russo sono anzitutto i dialoghi socratici (quelli di Platone e altri autori
che hanno ripreso il nome di Socrate, come Senofonte), la satira menippea (risalente a Menippo) e altri generi minori,
come i mimi di Sòfrone, i libelli, tutta la poesia bucolica e altri più difficili da classificare. Si tratta di un genere originale,
contrapposto ai generi seri quali l’epopea, la tragedia, la storia, la retorica classica ecc., e caratterizzato dal il riso
carnevalesco o il carnevalesco, particolarità propria della letteratura serio—comica (si parla infatti di letteratura
carnevalizzata: quella letteratura che ha risentito dell’influsso di forme di folclore carnevalesco). Con carnevalesco
s’intende un momento del mondo antico coincidente con particolari periodi dell’anno (non a uno solo come il nostro
Carnevale), consistente nella liberazione di tutte quelle forze che durante l’anno sono invece tenute sotto controllo, e
dunque nel rovesciamento delle regole della società, che vengono ripristinate soltanto al termine del periodo in
questione. Dunque secondo lo studioso tutta la letteratura serio-comica è permeata dal carnevalesco. Secondo Bachtin
tutte le opere che appartengono al carnevalesco o serio-comico è legato al folclore. È legato cioè a delle tradizioni popolari
e non al mondo perlopiù colto. D’altra parte il carnevalesco in ogni caso deriva da pratiche e consuetudini che si
trovavano in modo diverso nel mondo classico e che non sono state dimenticate nel mondo moderno. Una scena molto
famosa attraverso cui si spiega l’effetto del comico è la scena “dell’esibizione degli organi sessuali”: l’uso degli organi
sessuali in maniera esplicita e amplificata è una delle modalità utilizzata per realizzare un effetto comico. Il carnevalesco
lo ritroviamo in primis nel sistema mitologico del mondo antico. Per esempio in molti si dice che figure femminili in certi
momenti alzano la veste per mostrare l’organo genitale e produrre in chi le guarda una scarica di riso. Se diamo
un’occhiata al Pentamerone, una raccolta di novelle italiane risalente al ‘600 e composta da Giambattista Basile, notiamo
che la prima novella ha come protagonista una fanciulla triste che nessuno riesce a far ridere: a corte in tanti modi
cercano di farla divertire, tuttavia ogni tentativo sembra vano, finché un giorno si affaccia alla finestra e sofferma lo
sguardo su un’anziana signora che passeggia per la strada e che scivola su una macchia d’olio. La caduta le scopre la parte
del corpo relativa ai genitali, e provoca il riso nella fanciulla. Questo folclore per Bachtin ha a che fare con il sentimento
carnevalesco del mondo; quest’ultimo secondo Bachtin è il principio extra letterario (non lo troviamo solo nell’ambito
della letteratura) che possiede una potenza vivificante di trasformazione e una vitalità indistinguibili. È connesso a esso
il senso della vitalità continua. Anche nella nostra epoca, benché lontani dalle culture arcaiche permeate dal folclore,
permane il carnevalesco all’interno di certi aspetti della letteratura (che Bachtin chiama “letteratura carnevalizzata”). Egli
dice addirittura che il carnevalesco è uno dei problemi principali di tutta la letteratura (non solo antica, ma di tutti i
secoli). Egli cerca di individuare gli elementi attraverso i quali possiamo riconoscere la presenza del serio-comico:

1. Nella letteratura antica le rappresentazioni seguono le regole che troviamo nell’etica o nell’opera tragica, cioè
soprattutto il fatto che c’è sempre la presenza di personaggi che appartengono a una sfera elevata della società (nella
tragedia troviamo per lo più personaggi appartenenti alla nobiltà), oppure c’è un trattamento della materia tale che
tutto ciò che troviamo viene mobilitato creando un’unità perfetta del mondo rappresentato, basata interamente
sull’altezza delle qualità dei personaggi che vi fanno parte. Addirittura se guardiamo al mito e alla leggenda, essi
narrano sempre di mondi alti e trasferiti in epoche lontane. Invece nella letteratura serio-comica è come se tutto
venisse portato verso il presente. Bachtin cioè dice: “i personaggi del mito e le figure del passato sono volutamente
e accentuatamente contemporaneizzate”. Non c’è più la distanza data dall’etica o dal tragico ma c’è un effetto per cui
anche ciò che sembrerebbe appartenere al passato, lo sentiamo come immerso nel presente. La stessa figura di Giove
presente nella Storia del genere umano non è una figura mitica ma contemporaneizzata. Perché a un certo punto

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Giove parla in prima persona? La spiegazione potrebbe proprio essere che Leopardi opera quello che Bachtin
chiama lo ‘scoronamento delle figure del mito e della leggenda’, cioè esse rimangono figure mitiche ma perdono le
caratteristiche sacrali che avevano nelle opere originali (‘scoronare’ significa infatti togliere la corona, snobilitare).
La letteratura serio-comica procede dunque attraverso una contemporaneizzazione delle figure della letteratura
antica. Facciamo un altro esempio: nei Promessi Sposi notiamo che, seppur senza la forza leopardiana, Manzoni
mette insieme un personaggio storico reale (es. il famoso cardinale Federico Borromeo, che appartiene a una
dimensione nobile e alta) e un personaggio non storico (es. Don Abbondio, che appartiene a una dimensione bassa).
Manzoni ci vuol far capire che, pur essendo entrambi uomini di chiesa, essi hanno interpretato in maniera
completamente diversa e con due prospettive opposte, quella che è la loro missione sulla terra. Quindi anche in
opere romanzesche ottocentesche troviamo questo effetto serio-comico (per cui il passato è portato nella dimensione
contemporanea).
2. I generi del serio-comico non rispettano la tradizione: anche quando riprendono la tradizione, non la rispettano.
Bachtin dice: “non si fanno consacrare dalla tradizione”, cioè rispetto alla tradizione il genere serio-comico fa
un’operazione per cui la tradizione viene trasportata in un territorio dove abitualmente non starebbe. Non c’è più
rispetto per la tradizione. La parola etica, propriamente nobile e dotata di sacralità, perde i propri connotati nel
serio-comico. Vi rimangono tracce e citazioni, che però non hanno più la nobiltà che avevano all’origine. Questo
perché il serio-comico si fonda sulla libera invenzione, per cui nei confronti della tradizione avviene un processo di
scoronamento. Per la prima volta in questo genere compare un personaggio che agisce a contatto con l’esperienza
reale. Un esempio lo si riscontra ne I Promessi Sposi, precisamente nel viaggio di Renzo dalla provincia a Milano.
3. La pluralità degli stili. Bachtin dice che, mentre l’epopea, la lirica e la tragedia hanno un’unità stilistica ben definita e
riconoscibile, nel genere serio-comico:

La mescolanza di sublime e di infimo, di serio e di ridicolo, toglie allo stile alto le caratteristiche che aveva;
addirittura troviamo mescolanza di discorso prosaico e poetico, oppure l’utilizzo di dialetti e di germi presi dal
vivo, per cui il rapporto con la parola letteraria è completamente diverso.

Bachtin fa un’affermazione strana: queste caratteristiche della letteratura antica hanno un’importanza significativa per lo
sviluppo di un nuovo genere, cioè il romanzo. Egli insomma pensa che nel romanzo moderno (del ‘700 e ‘800)
confluiscano queste forme antiche o meglio, i suoi residui. Il romanzo può essere epico, quando segue la tradizione, o
carnevalesco quando invece non segue la tradizione e anzi procede mediante la sconfessione di quest’ultima. Bachtin
analizza poi alcune caratteristiche del dialogo socratico vero e proprio, poiché secondo lui questo è la base di tutto il
sistema della letteratura serio-comica. Con dialogo socratico intendiamo lo sviluppo scritto di quanto Socrate aveva detto
oralmente nel corso delle sue lezioni e conversazioni: egli non aveva mai scritto, tuttavia i suoi allievi avevano inserito i
suoi discorsi nelle loro opere, costruendo spesso intorno ad essi dei quadri narrativi, cosicché per la prima volta un
personaggio reale veniva trasformato in un personaggio letterario vero e proprio. Socrate è un personaggio reale perché è
vissuto, ma noi assistiamo per la prima volta alla sua trasformazione. Egli non diventa un personaggio letterario perché
ha compiuto azioni particolari o perché si è contraddistinto in qualche episodio della sua vita, ma per la tecnica dialogica
che ha applicato (cioè ha spiegato oralmente a una platea alcune cose). Con tecnica dialogica intendiamo propriamente il
metodo propriamente dialogico (perché basato sul dialogo con interlocutori) grazie al quale si arriva alla scoperta della
verità. Infatti Socrate viene definito nelle opere di altri filosofi ‘mezzano’ (=qualcuno che favorisce incontri erotici e
sentimentali) poiché univa attraverso i suoi dialoghi persone diverse, portandoli a scontrarsi in una disputa fino a che
non si intravedeva la verità. Proprio per questa sua capacità di far sorgere la verità, Socrate viene definito anche
un’allevatrice (come le donne che aiutano le donne durante il parto), e il suo metodo denominato ‘ metodo maieutico’. La
cosa che tuttavia Bachtin sottolinea maggiormente è il fatto che Socrate non diceva di possedere la verità e trasmetterla
agli altri; egli piuttosto fa venir fuori la verità attraverso la tecnica del dialogo: è lui che provoca, attraverso il dialogo, i
suoi interlocutori, affinché si arrivi alla definitiva sconfessione e distruzione di verità, opinioni e luoghi comuni, facendo
al contempo venir fuori una nuova forma di verità. Si tratta di una vera e propria rivoluzione: la forma del trattato (in cui

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un filosofo esprimeva, attraverso concetti ed esempi, la sua visione del mondo) viene sostituita dal dialogo e dalla
provocazione, affinché gli interlocutori si rendano conto degli errori a cui intercorrono e ricerchino dunque la verità da
un’altra parte. Per lo studioso russo la forma dialogica è quella che caratterizza maggiormente il romanzo moderno. Noi
sappiamo inoltre che molte Operette Morali hanno una forma dialogica. È un dialogo vicino a quello socratico o di altra
natura? (lo capiremo leggendole). Lo studioso russo in questo modo nota anche che Socrate non è portatore di una verità
ufficiale, quindi non si arroga la funzione di ‘maestro’ (=colui che insegna e trasmette la verità), ma è piuttosto
l’allevatrice (che deve aiutare a far nascere e portare alla luce la verità). Secondo questa visione di Bachtin la filosofia
socratica non impone un’idea superiore capace di risolvere i contrasti (idea tipica della ‘filosofia dialettica’, laddove
‘dialettica’ per lo studioso russo è l’opposizione di ‘dialogica’). I personaggi del dialogo socratico secondo lo studioso
russo sono figure, ascoltatori, scolari, o gente anche semplice che viene attirata dentro al dialogo, che in qualche modo
acquistano tutte il profilo di ideologi (=portatori di idee): tutte hanno un loro sistema di idee. Socrate fa insomma sì che i
suoi interlocutori diventino tutti rappresentanti di un sistema di idee. Inoltre lo studioso russo parla anche del ‘ dialogo
sull’estrema soglia’: secondo lo studioso la posizione in cui si trova Socrate in alcuni dialoghi (specialmente nel Fedone) è
quella dell’uomo che si trova sull’estrema soglia, che sa di star per morire e quindi per questo è più vicino alla morte di
altri uomini. È una posizione eccezionale che a detta dello studioso: “fa scoprire gli stradi più profondi della personalità
e del pensiero”. Questo dialogo sull’estrema soglia secondo lo studioso non lo ritroviamo solo nella letteratura ellenistica
e romana, ma anche nel Medioevo, in tutta l’epoca del Rinascimento e nella stessa letteratura moderna. Per esempio a
detta di Bachtin il Don Chisciotte di De Cervantes è un romanzo i cui dialoghi del protagonista hanno la caratteristica di
avvenire su una soglia (da un lato il mondo dei fatti, dall’altro il mondo della fantasia di Don Chischiotte). Anche le opere
di Pirandello sono caratterizzate da questo: Il Fu Mattia Pascal è la storia di un uomo che, per una serie di casualità,
perde la propria identità e decide di ricostruirsi una vita (ne approfitta perché non era soddisfatto della sua vita
precedente). Nel momento in cui comincia la creazione della nuova identità, Mattia si pone sull’estrema soglia, cioè in
uno spazio ideale che non è quello della normalità bensì dell’eccezionalità, fino a che non si rende conto che non può
vivere per sempre con una sembianza e in un’identità che non gli sono proprie, dato che queste lo condurrebbe in modo
inevitabile alla morte. Il dialogo socratico secondo lo studioso russo dura poco nel tempo (la sua vita è limitata ai suoi
allievi) e dalla sua disgregazione sorge la satira menippea. A detta dello studioso russo, questo la definizione del termine
deriva dalla figura di Menippo di Gadara, filosofo del III secolo a.C., mentre il termine satira venne introdotto per la
prima volta, a significare un genere determinato, dallo studioso romano Varrone, che chiamò le proprie satire Sature
menippee. Il termine satira ha a che fare con i satiri, cioè quelle figure mitologiche appartenenti a un mondo più basso di
quello delle divinità e aventi la funzione di provocare il riso attraverso il rovesciamento di luoghi comuni. Quindi il
legame tra la satira e Socrate è per lo studioso questo: il rovesciamento del luogo comune e dell’opinione o idea diffusa.
Ricordiamo, tra le altre satire del mondo antico, il Satyricon di Petronio, considerato uno dei primi romanzi del mondo
romano (anche se di esso sono rimasti pochi frammenti), l’Asino d’oro di Apuleio, altro romanzo famoso che ha riflessi
sulla letteratura europea rinascimentale. C’è quindi questo legame, tuttavia la satira menippea è secondo lo studioso
russo molto più audace del dialogo socratico perché con essa sono create tante e tante situazioni eccezionali per
“sperimentare la parola filosofica e la verità, che di solito è personificata nella figura di un saggio che la cerca” .
Dunque nella satira menippea è solito trovare un personaggio che sale in cielo o scende negli inferi per a cercare la verità,
visita la luna, vaga attraverso paesi fantastici, si trova in situazioni di vita eccezionali (per esempio nel romanzo di
Apuleio il protagonista viene trasformato in un asino a causa di una magia compiuta su di lui da una strega), le quali
corrispondono a un disorientamento e a una perdita della visione naturale che si ha della realtà, perché acquista una
visione appunto eccezionale. È per questo che Bachtin dice che nella satira menippea la fantasia ha un ruolo molto più
forte che nel dialogo socratico: il secondo infatti è un dibattito di idee, mentre il primo ha degli elementi che lo portano a
confinare continuamente con il fantastico. Vedremo infatti che il fantastico e il comico, poiché rappresentazione
alternativa a quella umana, ne I Promessi Sposi non esiste eccetto in un paio di situazioni (ess. scena famosa della rivolta
della popolazione che svuota i forni per rubare la farina; la troviamo durante la peste, perché il mondo a cui
appartengono coloro che sono coinvolti nella malattia è un mondo irreale, perché le convenzioni sono rovesciate: possono

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entrare nelle case e rubare, possono portare le persone a morire nel lazzaretto e i cadaveri nelle fosse comuni; l’unico che
viene a contatto con questo mondo è Renzo). Il fantastico lo troviamo perlopiù nella storia di Collodi, Pinocchio (es.
trasformazione del personaggio in asino, che deriva dalla lettura dell’Asino d’oro di Apuleio); qui troviamo personaggi
non umani (il protagonista stesso e la fatina dai capelli turchini), un forte rapporto con il mondo della natura (Pinocchio
è infatti stato creato da un pezzo di legno, quindi dal tronco di un albero) e un forte rapporto di metamorfosi attraverso
l’incontro con figure sovraumane, quindi orchi, oppure animalesche quali squali, serpenti e balene. Pinocchio è quindi
l’opera che appartiene al genere serio-comico perché più risponde ai criteri enunciati da Bachtin (con essa infatti si
assiste a un ribaltamento del sistema di quelle convinzioni che Collodi critica aspramente). Possiamo però anche
guardare al Dialogo della Natura e dell’Islandese: ci rendiamo conto che Leopardi ha creato un dialogo che ha due
caratteristiche fondamentali della letteratura serio-comica: innanzitutto contiene il tema del viaggio fuori dalla norma
(l’islandese in questo caso viaggia verso l’Africa) che da origine a quello che è il dialogo sulla soglia perché termina con la
morte dell’islandese. È un dialogo intorno a quelle verità ultime e inaccessibili, perché l’islandese chiede alla Natura il
motivo per cui è nato. Possiamo quindi pensare che la tradizione del serio-comico, del dialogo socratico e della satira
menippea entrino in forme differenti nelle opere di Leopardi e Manzoni, anche se il primo le usa in un modo, e il secondo
in un altro: nel secondo caso abbiamo la codificazione del romanzo, e nel primo invece abbiamo il tentativo di creare un
genere letterario alternativo al romanzo. Lo studioso russo dice che queste forme letterarie che hanno a che fare con il
riso, sono sì comiche, ma con il passare del tempo “il riso s’indebolisce”, si attenua, è cioè:

Il fenomeno del riso indebolito che troviamo in tutta la letteratura mondiale. È un riso che non risuona più con
la medesima forza iniziale ma la sua traccia resta nelle strutture dell’immaginazione e della parola.

Questo riso pur avendo perso la sua vitalità rimane legato alle origini antiche e lontane del carnevalesco. Inoltre nella
tradizione occidentale il riso indebolito prende il nome di ‘ironia’, da intendersi non nel senso propriamente moderno
come quella battuta che vuole nascondere un significato, ma che vuole rinviare a un significato più ampio e su cui la
letteratura romantica tedesca si sofferma maggiormente. Possiamo a tal proposito fare accenno anche allo Zibaldone di
Leopardi, che dice:

Ah, com’era bello il riso che si trova negli autori antichi e come invece è brutto e poco efficace il riso che si trova
negli autori moderni. C’è poi una differenza grandissima tra il ridicolo degli antichi comici greci e latini come
Luciano e quello dei moderni, massimamente francesi. Questa differenza si percepisce immediatamente, eppure
è difficile analizzarla: il comico e riso degli antichi consisteva principalmente nelle cose, e il moderno nelle
parole. Il ridicolo degli antichi era veramente sostanzioso: esprimeva sempre e metteva sotto gli occhi un corpo
di ridicolo, e i moderni mettono un’ombra, uno spirito, un vento, un soffio, un fumo, un sorriso. Quello è pieno
di riso, questo appena lo fa gustare e sorridere.

Emerge quindi una perfetta sintonia tra il pensiero dello studioso russo, che scrive a distanza di un secolo da Leopardi, e
il nostro autore romantico. C’è secondo Leopardi una sostanziale differenza tra gli antichi comici, greci e latini, come
Luciano, e i moderni. Il riso degli antichi consisteva in un qualcosa di concreto, quello dei moderni invece consiste solo
nei giochi di parole. Nei moderni il ridicolo si è smaterializzato e spiritualizzato, mentre nella satira menippea originaria
c’era sempre una preponderanza di elementi materiali e grossolani: molte volte le avventure avvengono nei bordelli, nelle
taverne, nelle prigioni, nelle piazze dei mercati (tutti luoghi infimi), si trovavano riferimenti agli organi sessuali, agli
escrementi e a tutto ciò che invece normalmente viene censurato. In questa satira menippea dunque pur di far ridere e
provocare qualcosa di eversivo, gli autori non si fanno problemi. Se infatti leggiamo Luciano troviamo molti di questi
elementi. Emerge quindi una contrapposizione tra il riso che riempie e ciò che Leopardi chiama invece vento, soffio,
fumo, sorriso, corrispondente a quello che lo studioso russo chiama ‘riso indebolito’. Questo riso nel passare dei secoli si
è indebolito perché, così come lo descrive Bachtin, è un fenomeno osceno (laddove con ‘ osceno’ s’intende tutto ciò che
non si deve vedere e che per questo si colloca fuori dalla scena); in culture legate a radici folcloriche e popolaresche
l’osceno non nuoce e non dà fastidio, mentre in quelle culture che cominciano a raffinare le proprie idee, esso sempre più
deve essere messo ai margini (piuttosto faccio uso di allusioni per provocare un riso indebolito, ma non posso più usare il
corpo e l’organo sessuale con la stessa forza che aveva all’origine). Infatti Leopardi si rende conto che in Luciano il riso

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era qualcosa di concreto e sostanzioso, ma ora si è smaterializzato ed è diventato un semplice ‘sorriso’. Inoltre il riso
antico si è indebolito perché pericoloso: è sovversivo, in grado di mettere in crisi i valori della società e per questo
relegato a periodi limitati (corrispondenti al nostro Carnevale). Infatti le basi del carnevalesco sopravvivono solo e
soltanto nella nostra festa, se pensiamo ai travestimenti (es. travestimento di una donna in un uomo e viceversa) o alle
maschere che esibiscono per esempio l’organo sessuale maschile o femminile. Poi Bachtin dice:

Come il dialogo socratico, anche la menippea è il genere delle questioni ultime: quel genere dove si vanno a
cercare delle verità decisive per l’uomo, solo che le si va a cercare non attraverso un ragionamento serio o logico,
ma attraverso quella continua provocazione che il genere satirico ricerca. 3 La menippea esagera la presenza del
dialogo sull’estrema soglia, per esempio quando personaggi storici come gli imperatori o figure socialmente
importanti vengono improvvisamente trasportati nell’aldilà e vengono derisi dagli Dei. Questo è un esempio di
come agisce la menippea fino a quando si arriverà al vero e proprio genere largamente diffuso nella letteratura
europea dal Rinascimento del 1700, che è il dialogo dei morti.4 Tutto questo lo ritroviamo in un altro elemento
che appare proprio in questo genere, che non si trovava né nell’etica, né nella tragedia, e che consiste
nell’osservazione da un punto di vista inconsueto, ad esempio dall’alto, in cui le proporzioni dei fenomeni della
vita osservati mutano bruscamente. Ad esempio l’Icaromenippo di Luciano di Samosata, che è la storia di un
uomo che vola sulla luna. Questa linea di sperimentazione [serio-comico] continua in tutta la letteratura dal
‘500 al ‘700, in Rablés, Swift e Voltaire. 5 Oppure troviamo la sperimentazione psicologica di stati psichico-
morali inconsueti, anormali: la follia, lo sdoppiamento di personalità, la sfrenata fantasticheria, i sogni strani, le
passioni confinanti con la follia, il suicidio e così via. 6 Le visioni oniriche, le fantasticherie, le follie rompono
l’integrità etica e tragica dell’uomo e del suo destino. Nell’uomo si scoprono le possibilità di un altro uomo e di
un’altra vita; egli perde la sua definitezza e univocità; cessa di coincidere con sé stesso. 7 Molte volte in queste
opere troviamo un uomo che dialoga con sé stesso, un uomo che si sdoppia, un uomo che vive due vite
contemporaneamente, oppure troviamo scandali, comportamenti eccentrici, discorsi inopportuni: cioè ogni
specie di violazioni del corso generalmente accettato e consueto degli avvenimenti. 8 Per esempio le opere antiche
in cui si parla dell’adunanza degli Dei sull’Olimpo (es. Luciano, Seneca e Petronio), sono tutte opere in cui si
sottolinea questo elemento eccentrico e scandaloso in cui risuona una parola inopportuna. 9

3 Qui fa riferimento a un’opera di Luciano intitolata La vendita delle vite, in cui c’è un mercato in cui si vendono le anime
di varie tipologie di esseri umani.
4 Il dialogo dei morti serve ancora una volta a provocare il riso nel mondo dei vivi; è il dialogo oltre l’estrema soglia dato
che siamo ormai nel mondo dei morti (ma la funzione è la stessa).
5 Cioè autori che sia Manzoni che Leopardi conoscevano bene. In particolar modo conoscevano Voltaire, che scrive un
racconto famoso (Leopardi lo riprende) intitolato Micromegas, dove ci sono dei giganti che giungono sulla terra e non si
rendono conto della presenza degli uomini perché sono talmente piccoli da non essere visibili ai loro occhi.
6 Follia, fantasticheria e sogno in modo particolare sono situazioni che appartengono abbondantemente alla letteratura
ottocentesca e novecentesca (soprattutto del primo Novecento), il che vuol dire che Bachtin ha ragione quando dice che il
serio-comico non è solo un fenomeno della letteratura antica, ma che al contrario ha posto le basi di tutta la letteratura
occidentale. Noi potremmo leggere il romanzo di Svevo come una satira menippea rivolta contro quella scienza alla base
del romanzo: la psicoanalisi (contemporaneamente oggetto e bersaglio del racconto): la premessa della Coscienza di
Zeno è guarda caso scritta dal dottore, che dice di voler pubblicare le memorie del suo paziente per vendicarsi del suo
comportamento. Non a caso è poi un romanzo fondato su situazioni di anomalia della personalità. Possiamo guardare
anche a Palazzeschi, Pirandello e addirittura notare tracce dell’osservazione da un punto di vista in consueto e, insieme,
la raffigurazione di stati psichici inconsueti anche nell’opera di Calvino.
7 Quella che era l’idea dell’uomo uniforme, compiuto e al centro dell’universo che abbiamo acquisito con Umanesimo e
Rinascimento viene spazzata via dagli effetti della satira menippea. Nel Novecento l’uomo scopre all’interno di sé stesso
un’altra possibilità di uomo, perdendo la propria definitezza e univocità. In altre parole, potremmo dire che non c’è più
un’idea antropocentrica: l’uomo non è più al centro, non riesce più a dominare ciò che lo circonda. Questa idea
antropocentrica è una delle idee contro cui Leopardi combatte nelle Operette Morali.
8 Compare cioè per la prima volta quel che potremmo definire ‘eccentrico’, cioè che sta fuori dal centro (scandaloso).
9 In questo punto emerge una tangenza con la filosofia cinica, che non si esplicita nella scrittura di opere ma attraverso il
comportamento. I cinici erano i seguaci dei cani, chiamati così perché vivevano nella strada, rifiutavano qualsiasi forma
di ricchezza e di possesso, per cui possedevano solo un mantello con cui coprirsi (a volte giravano nudi per creare
scandalo e addirittura si masturbavano in pubblico), nel tentativo di creare scandalo e generare provocazione in coloro
che li osservavano. Quindi secondo Bachtin questa parola inopportuna tipica della filosofia cinica è uno dei risultati a cui
arriva il carnevalesco.

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Introduciamo un altro particolare prima di analizzare una nuova operetta: Leopardi aveva impostato alcuni elenchi di
Operette possibili da poter scrivere e contenuti in foglietti molto piccoli che si trovano conservati nella Biblioteca
Nazionale di Napoli. Uno di questi elenchi contiene diciassette appunti e inizia con questa frase: “salto di Leucade”.
Nell’antichità questo salto era un rituale a cui si sottoponevano gli innamorati infelici, che si buttavano in mare dalla rupe
di Leucade per liberarsi della loro condizione di infelicità. Questo salto nelle Operette è citato in modo esplicito il che fa
pensare che, leggendo questi autori antichi, Leopardi prendeva degli appunti che li sarebbero potuti servire come basi per
sviluppare alcuni temi delle sue Operette. Per esempio l’appunto numero undici contiene le parole “Tasso” e “Genio”, che
è l’argomento dell’operetta Dialogo del Tasso e del suo Genio Familiare. Nel secondo di questi appunti guarda caso
ritorna anche il nome di Don Chisciotte. Tutti questi esempi ci fanno comprendere che quando Leopardi comincia a
pensare alle Operette, rilegge autori antichi e mette insieme alcune delle suggestioni e dei pensieri che aveva già nella
mente negli anni precedenti.

Dialogo di Ercole e Atlante.

Per spiegare i concetti legati al carnevalesco facciamo riferimento a questa operetta che potremmo definire ‘lucianéa’,
perché appartiene al genere del Dialogo tra gli Dei anche se quelli che parlano non sono propriamente degli Dei: Atlante è
uno dei Titani che si ribellarono a Giove e per questo condannato dal Dio a portare sulle sue spalle il peso del Mondo 10 e
l’altro è Ercole, eroe figlio di Giove. Il dialogo si basa sul fatto che Ercole si reca da Atlante comunicandogli di essere stato
mandato da Giove e dicendogli:

In caso che tu fossi stracco di cotesto peso, che io me lo addossi per qualche ora, come feci non mi ricordo quanti
secoli sono, tanto che tu pigli fiato e ti riposi un poco.

Già l’inizio dell’operetta ci immerge in una situazione carnevalesca perché le due figure vengono ricondotte a una
dimensione umana, come se Atlante fosse un vecchio stanco ed Ercole un uomo qualunque che desidera aiutarlo a
reggere il globo terrestre. L’idea più profondamente serio-comica è però che la Terra viene presentata come una sfera, un
globo che Ercole e Atlante si possono scambiare. L’idea di fondo è quindi la piccolezza della Terra, che viene fuori dalla
prima battuta di Atlante:

Ti ringrazio, caro Ercolino, e mi chiamo anche obbligato alla maestà di Giove. Ma il mondo è fatto così leggero,
che questo mantello che porto per custodirmi dalla neve, mi pesa più; e se non fosse che la volontà di Giove mi
sforza di stare qui fermo, e tenere questa pallottola sulla schiena, io me la porrei sotto l'ascella o in tasca, o me
l'attaccherei ciondolone a un pelo della barba, e me n'andrei per le mie faccende.

Atlante chiama Ercole ‘Ercolino’, con un diminutivo che mai potremmo trovare in un testo antico (al contrario Ercole
chiama Atlante ‘padre’). Da questa battuta viene fuori il riso indebolito: dire che la Terra non è pesante, vuol dire che essa
ha perso valore, è addirittura più leggera del mantello ed è chiamata addirittura in modo dispregiativo una ‘pallottola’ da
poter mettere in tasca o sotto l’ascella. Gli uomini insomma sono diventati privi di peso e degli esseri vuoti, che non
possono più godere della centralità che invece avevano nel mondo antico. Si mette in atto il processo di scoronamento
duplice: riguarda sia le figure che parlano, che soprattutto la Terra, e quindi si realizza la satira contro un luogo comune.

È un dialogo ispirato a Luciano e alla sua tecnica del serio-comico (non tutti i Dialoghi sono ispirati a lui). La struttura
dell’opera prevede una specie di gradazione del comico, che parte dal comico più vicino al mondo antico e che culmina
nell’umorismo vero e proprio. Il termine ‘comico’ ha varie declinazioni e sfumature. Sottolineiamo che questa presenza di
aspetti comici non è totalmente assente in Manzoni, anzi anche il suo romanzo contiene al suo interno effetti specifici di
comicità; il problema è capire come funzionano all’interno dell’intero organismo, dunque nel suo insieme. Per analizzare
l’operetta, riprendiamo il concetto di scoronamento. Bachtin dice che esso ha un ruolo di fondo, poiché è proprio la base
di tutta l’azione carnevalesca: il carnevale cioè avrebbe come caratteristica la distruzione di un’idea del tempo vecchia,

10 Infatti Atlante è spesso raffigurato come un vecchio con la schiera ricurva e la sfera terrestre sulle spalle. Leopardi in
una nota dice: “anche se in molti autori antichi si legge che Atlante sosteneva il cielo, come nell’Odissea, ci sono
testimonianze in cui sosteneva che egli sostenesse, invece, la terra”.

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che si sta consumando progressivamente, e l’instaurazione di una nuova idea del tempo. Dobbiamo sempre ragionare in
una logica lontana dalla nostra e più vicina a un pensiero mitologico: anche il tempo è sottoposto a variazioni continue e
si identifica rispettivamente in greco e latino come chronos e saturno (le feste carnevalesche erano chiamate a Roma
“saturnali”, perché il dio Saturno aveva un ruolo fondamentale; in questo momento era come se si concludesse una
temporalità ormai logorata e si creassero le condizioni per una nuova temporalità). Secondo lo studioso russo noi
ragioniamo in modo astratto ma nel mondo antico il tutto era molto concreto. Si trattava di un insieme di atti connessi a
situazione festiva e che costituivano una vera e propria ritualità: l’avvicendamento tra morte e risurrezione, tra fine e
inizio (che poi lo studioso russo collega alla mentalità contadina e al fatto che in essa si assiste all’alternanza tra un
periodo di morte e uno di rinascita, dato dal seme che produce, durante il periodo di morte, qualche cosa che porta alla
rinascita). L’idea della contrapposizione vita-morte non è assoluta ma relativa: dentro la morte ci sono già le condizioni di
ripresa della vita; questo ciclo naturale vede il fenomeno del riso come un fenomeno che porta a uno scatenamento di
tutte quelle forze rimaste ferme, in una condizione di blocco vero e proprio, e che riprendono grazie al passaggio da una
temporalità all’altra. Non a caso lo studioso russo dice che il carnevale è per eccellenza il “momento
dell’avvicendamento”: cioè tutto può essere sostituito con tutto (il re con il servo, il saggio con il buffone, il nobile con il
poveraccio); il tutto attraverso il processo di scoronamento-coronamento. A detta di Bachtin esisteva addirittura una
figura che incarnava questo procedimento, ovvero il re del Carnevale, che veniva svestito dei propri indumenti regali e lo
si picchiava: veniva cioè sottomesso a un processo che degradava la sua posizione e comportava la perdita totale di
potere. Questa tecnica carnevalesca basata sull’avvicendamento e sulla ritualità che periodicamente si rinnova, noi
potremmo considerarla non propriamente ‘l’origine’, piuttosto la giustificazione di alcune delle prime operette morali, e
anche di quella dedicata al dialogo tra Ercole e Atlante: infatti il fatto che Ercole si presenti da Atlante con un mandato si
Giove che gli consenta per qualche ora di riposarsi dal trasportare il mondo sulle proprie spalle, ha anche a che fare con
questo processo di scoronamento: avviene una pausa dalla normalità perché Atlante si libera del suo ruolo e che passa,
solo per poco, ad Ercole. Questi protagonisti sono rappresentanti di due mondi diversi: Atlante del mondo dei Titani
(collocato prima della mitologia e dell’Olimpo), Ercole appartiene a un mondo nuovo (cultura classica). L’idea di fondo è
quella dello scoronamento e del mondo rovesciato (il mondo dominato dallo spirito carnevalesco, in cui non esistono più
divisioni e tutto si guarda da un altro punto di vista). Il tema di questa operetta è proprio lo sguardo della terra, che non è
più interno alla terra dato che non sono due uomini a parlare della terra e del mondo (e come vedremo Leopardi non usa
mai attori umani: non esiste uno sguardo umano alle cose, ma c’è uno sguardo non antropocentrico). In questo caso
l’effetto di parodia nasce dal fatto che le due divinità, contrapposte agli uomini, parlano tra di loro con un linguaggio che
sembra estrapolato dal quotidiano e che produce un effetto di scoronamento (questo perché Leopardi fa un’operazione di
stilizzazione: Atlante chiama il compagno: “Ercolino”, cioè usa in alcuni punti un diminutivo tipico del linguaggio parlato
e che in un certo senso umanizza Atlante; così come Ercole, solo in alcuni punti, usa le formule utilizzate dagli Dei):
innanzitutto perché le divinità parlano in un modo non stabilito dai codici letterari, e poi perché l’incontro immaginato
da Leopardi (è immaginato perché non ci sono fonti che testimoniano un dialogo tra i due, ma è un processo parodico che
Leopardi mette in atto) vuole introdurre un tema (che non utilizzerà più nelle Operette) e poi adopera una tecnica nuova
che serve a giungere a una consapevolezza ben precisa: la perdita di valore e centralità della terra. Essa non è più al
centro di un sistema cosmologico, ma è diventata una pallottola, cioè Leopardi si prende beffa di quella che dovrebbe
essere, invece, una realtà rispettata e onorata (poiché luogo di vita dell’uomo): non ha senso che Atlante ceda la terra ad
Ercole perché, anche se è stato Giove a comandarlo, non c’è giovamento. Poi Ercole continua:

Come può stare che sia tanto alleggerita? Mi accorgo bene che ha mutato figura, e che è diventata a uso delle
pagnotte, e non è più tonda, come era al tempo che io studiai la cosmografia per fare quella grandissima
navigazione cogli Argonauti: ma con tutto questo non trovo come abbia a pesare meno di prima.

Ercole, stupito, chiede come sia possibile che sia tanto “alleggerita”. In questo termine c’è un duplice significato: la terra è
alleggerita perché è leggera, ma ha perso anche il peso simbolico e morale che aveva in passato (perché non è più al
centro dell’universo). Seguono una serie di immagini scoronanti (servono a togliere valore alla terra stessa). Infatti Ercole
dice di accorgersi che la terra ha mutato la propria conformazione, è diventata come una pagnotta di pane, non è più

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nemmeno tonda come all’epoca in cui, impegnato nell’impresa degli Argonauti, la studiò (anche in questo verbo bisogna
intravedere una carica parodica, perché Ercole non è uno studioso, ma è colui che agisce perché dotato di forza e potenza
fisica – infatti sconfigge i mostri dell’oltretomba e uccide creature favolose). C’è un rimando all’impresa degli Argonauti,
ovvero a coloro che per primi costruirono una nave e raggiunsero il Mar Nero alla ricerca del vello d’oro; erano capeggiati
da Giasone, e tra loro c’era anche Ercole. Tuttavia egli non si spiega come la Terra possa essere meno pesante di prima.
Leopardi in una stesura precedente in questo punto aveva aggiunto una frase che aumentava la carica parodica perché
paragonava la Terra a una focaccia messa nel forno: il sole scaldando in modo eccessivo l’atmosfera avrebbe fatto seccare
la Terra come se fosse una focaccia messa nel forno. Poi questa frase è stata tolta forse perché forse ridondante in quanto
portatrice di un’informazione già data. Infatti il punto è: perché la Terra pesa così poco? Pesa poco perché, secondo
Leopardi, l’umanità è ormai irreversibilmente cambiata: non essendoci più gli ideali (fantasmi) che spingevano l’uomo a
reagire, egli ha perso dignità. Quindi il dialogo vuole per arrivare a questo focus (che è uno dei punti centrali della
polemica contro l’umanità del presente, alla base delle Operette Morali): gli uomini non hanno più dignità né valori. Per
questo la terra ha perso il proprio peso. Infatti Atlante dice:

Della causa non so. Ma della leggerezza ch'io dico te ne puoi certificare adesso, solo che tu voglia torre questa
sulla mano per un momento, e provare il peso.

La motivazione non la conosce, tuttavia Ercole potrebbe prendere la Terra in mano e rendersene conto da solo. Egli poi
nota un’altra cosa:

Ercole: L'altra volta che io la portai, mi batteva forte sul dosso, come fa il cuore degli animali; e metteva un certo
rombo continuo, che pareva un vespaio. Ma ora quanto al battere, si rassomiglia a un oriuolo che abbia rotta la
molla; e quanto al ronzare, io non vi odo un zitto.

Atlante. Anche di questo non ti so dire altro, se non ch'egli è già gran tempo, che il mondo finì di fare ogni moto
e ogni romore sensibile: e io per me stetti con grandissimo sospetto che fosse morto, aspettandomi di giorno in
giorno che m'infettasse col puzzo; e pensava come e in che luogo lo potessi seppellire, e l'epitaffio che gli dovessi
porre. Ma poi veduto che non marciva, mi risolsi che di animale che prima era, si fosse convertito in pianta,
come Dafne e tanti altri; e che da questo nascesse che non si muoveva e non fiatava: e ancora dubito che fra poco
non mi gitti le radici per le spalle, e non vi si abbarbichi.

Ercole si rende conto che prima la Terra, se presa in mano, recava sia il senso di vita, sia un qualche cosa di vitale; ora
invece percepisce solo ‘silenzio’ (non ha più energia vitale). Ma anche in questo caso Atlante non sa spiegare la ragione a
Ercole. Nella risposta di Atlante, Leopardi riprende delle teorie sparse nel pensiero cosmogonico antico: il mondo non è
più un essere vivente (le culture antiche, fin dal ‘500, credevano che il cosmo fosse dotato di vita propria), tant’è vero che
Atlante dice aver pensato di seppellirlo e di aver pensato addirittura all’epitaffio (che rimarca l’idea di un qualcosa che è
morto, ha perso valore). Segue il momento estremo dello scoronamento: visto che la terra non marcisce e continua a
sopravvivere, da animale forse si è trasformata in una pianta come avveniva nelle metamorfosi antiche (ecco perché non
si muove, né fa rumore). La successiva battuta di Ercole riprende delle tradizioni filosofiche antiche, derivate dalla
tradizione delle scuole post platoniche (stoicismo) e che vuole arrivare a un’idea strana:

Ercole: Io piuttosto credo che dorma, e che questo sonno sia della qualità di quello di Epimenide, che durò un
mezzo secolo e più: o come si dice di Ermotimo, che l'anima gli usciva dal corpo ogni volta che voleva, e stava
fuori molti anni, andando a diporto per diversi paesi, e poi tornava, finché gli amici per finire questa canzona,
abbruciarono il corpo; e così lo spirito ritornato per entrare, trovò che la casa gli era disfatta, e che se voleva
alloggiare al coperto, gliene conveniva pigliare un'altra a pigione, o andare all'osteria. Ma per fare che il mondo
non dorma in eterno, e che qualche amico 30 o benefattore, pensando che egli sia morto, non gli dia fuoco, io
voglio che noi proviamo qualche modo di risvegliarlo.

Atlante. Bene, ma che modo?

Ercole. Io gli farei toccare una buona picchiata di questa clava: ma dubito che lo finirei di schiacciare, e che io
non ne facessi una cialda; o che la crosta, atteso che riesce così leggero, non gli sia tanto assottigliata, che egli mi
scricchioli sotto il colpo come un uovo. E anche non mi assicuro che gli uomini, che al tempo mio combattevano
a corpo a corpo coi leoni e adesso colle pulci, non tramortiscano dalla percossa tutti in un tratto.

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[…]

Atlante. Appunto; acciocché tuo padre, veduto il nostro giuoco e venutogli voglia di entrare in terzo, colla sua
palla infocata ci precipiti tutti e due non so dove, come Fetonte nel Po.

Ercole. Vero, se io fossi, come era Fetonte, figliuolo di un poeta, e non suo figliuolo proprio; e non fossi anche
tale, che se i poeti popolarono le città col suono della lira, a me basta l'animo di spopolare il cielo e la terra a
suono di clava. E la sua palla, con un calcio che le tirassi, io la farei schizzare di qui fino all'ultima soffitta del
cielo empireo. […]Oltre che la nostra intenzione con questo giuoco è di far bene al mondo, e non come quella di
Fetonte, che fu di mostrarsi leggero della persona alle Ore, che gli tennero il montatoio quando salì sul carro, e
di acquistare opinione di buon cocchiere con Andromeda e Callisto e colle altre belle costellazioni, alle quali è
voce che nel passare venisse gittando mazzolini di raggi e pallottoline di luce confettate; e di fare una bella
mostra di se tra gli Dei del cielo nel passeggio di quel giorno, che era di festa. In somma, della collera di mio
padre non te ne dare altro pensiero, che io m'obbligo, in ogni caso, a rifarti i danni; e senza più cavati il cappotto
e manda la palla.

[…]

Atlante. In verità non saria mal fatto che ne la gonfiassimo, che veggo che ella non balza d'in sul pugno più che
un popone.

Ercole. Cotesto è difetto nuovo, che anticamente ella balzava e saltava come un capriolo.

Atlante. Corri presto in là; presto ti dico; guarda per Dio, ch'ella cade: mal abbia il momento che tu ci sei venuto.

Ercole. Così falsa e terra terra me l'hai rimessa, che io non poteva essere a tempo se m'avessi voluto fiaccare il
collo. Oimè, poverina, come stai? ti senti male a nessuna parte? Non s'ode un fiato e non si vede muovere
un'anima, e mostra che tutti dormano come prima.

Atlante. Lasciamela per tutte le corna dello Stige, che io me la raccomodi sulle spalle; e tu ripiglia la clava, e
torna subito in cielo a scusarmi con Giove di questo caso, ch'è seguito per tua cagione.

Ercole. Così farò. È molti secoli che sta in casa di mio padre un certo poeta, di nome Orazio, ammessoci come
poeta di corte ad instanza di Augusto, che era stato deificato da Giove per considerazioni che si dovettero avere
alla potenza dei Romani. Questo poeta va canticchiando certe sue canzonette, e fra l'altre una dove dice che
l'uomo giusto non si muove se ben cade il mondo. Crederò che oggi tutti gli uomini sieno giusti, perché il mondo
è caduto, e niuno s'è mosso.

Atlante. Chi dubita della giustizia degli uomini? Ma tu non istare a perder più tempo, e corri su presto a
scolparmi con tuo padre, ché io m'aspetto di momento in momento un fulmine che mi trasformi di Atlante in
Etna.

Se la terra si è addormentata, potremmo fare qualcosa per svegliarla (potremmo rimetterla in moto e in vita). Siccome
Ercole ha con sé la clava, questo bastone che caratterizza la sua forza, potrebbe dare alla terra una botta per ridarle vita.
Secondo Ercole infatti gli uomini non sono morti ma si sono addormentati, né la vita stessa è morta. Prende l’esempio di
Epiménide, che dormì per anni interi in una grotta, oppure di Ermòtimo, filosofo stoico. Nel secondo caso Leopardi
estrapola un aneddoto da un dialogo di Luciano 11 e lo trasforma in un aneddoto ancor più ridicolo: non solo l’anima di
Ermotimo se ne va in giro, ma gli amici per interrompere questo girovagare addirittura bruciano il suo corpo, tanto che
l’anima ritorna e, non trovando più la propria casa, ne deve cercare un’altra, oppure andare all’osteria.

Quello di Leopardi è un processo parodico e carnevalesco di tipo scoronante, perché rende parodiche e comiche
addirittura le fonti antiche e gli esempi che legge. Non gli basta citare Luciano ma ha bisogno di aggiungere qualcosa di
proprio e di accentuare l’effetto parodico già insito in queste fonti. Quindi Ercole per risvegliarlo vorrebbe dargli un
colpo, tuttavia teme di schiacciarlo o che addirittura la sua crosta, data la sua fragilità, possa rompersi come il guscio di
un uovo. E mentre gli uomini un tempo erano così coraggiosi al punto da combattere corpo a corpo con le bestie feroci,
adesso combattono solo con le pulci; teme per questo che gli uomini possano addirittura morire a causa del colpo della
clava. L’idea finale a cui si giunge è quella di giocare a palla con la terra. È in atto quindi un processo di comicità. Tuttavia

11 Si tratta de l’Elogio della mosca, in cui Luciano si dice che Ermotimo aveva un’anima che spesso lo lasciava e se ne
andava per fatti suoi, e poi ritornava e rientrava nel corpo.

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Atlante si rende conto che, se Giove dovesse beccarli, preso dalla rabbia, con il suo fulmine potrebbe farli bruciare
entrambi come ha fatto con Fetonte nel Po’. Segue un riferimento classico-mitologico: viene ripreso il mito di Fetonte,
che volle volare in alto, avendo preso in mano le redini del carro di Apollo, tanto da avvicinarsi troppo al sole, bruciarsi, e
cadere nel fiume Po’. Il tema della fragilità del corpo degli uomini non è un tema nuovo ma si trova già nelle Operette di
Luciano.12 Atlante ed Ercole devono tuttavia decidere cosa fare: Ercole continua a scherzare e a proporre di giocare con la
terra come se fosse una palla, rappresentando quindi una divinità infantile. La sua figura viene comicizzata attraverso le
sue parole, colme di istintività e prive di pensiero: addirittura vorrebbe lanciare la palla di fuoco di Giove con un calcio
solo fino all’ultima soffitta del cielo empireo, come se il cielo dove abitano gli Dei fosse una casa vero e propria dottata di
soffitta e rappresentante quindi l’ultimo piano. Invece Atlante vorrebbe farlo stare fermo e calmarlo. Ercole poi dice che
lui e Atlante non sono come Fetonte, che guidando il carro di Apollo voleva farsi vedere dalle Ore (le divinità
rappresentanti le ore del giorno, e che sono personificate da fanciulle giovani e avvenenti) mostrando loro la propria
bellezza (queste per di più mantennero il carro quando lui vi salì sopra); o voleva mostrarsi un ottimo cocchiere e farsi
vedere dagli Dei mentre si innalzava verso il cielo. Quindi poiché l’obiettivo di Ercole e Atlante è diverso, non c’è motivo
di temere la collera di Giove. Atlante inoltre è dubbioso perché teme che le terra possa cadere a terra e danneggiarsi.
Ercole però lo rassicura, quindi i due cominciano a lanciarsela, tuttavia si rendono conto che la terra non rimbalza: non è
adatta per giocarci. Tant’è vero che a un tratto, sbattuta da un colpo di vento, cade. Atlante preoccupato decide di
interrompere il gioco: riporta la terra sulle proprie spalle e invita Ercole a tornare a casa, raccomandandosi di portare le
proprie scuse al padre Giove. Allora Ercole obbedisce e prima di andar via nomina Orazio (Carmina), che in punto di
morte è stato deificato da Giove per la sua abilità e bravura. Anche qui emerge la parodia nei confronti di Orazio: non è
un poeta che compone Carmina ma va in giro canticchiando certe sue canzonette (termine usato per indicare i Carmina,
ovvero ‘canti’): è un termine parodico perché non indica più il canto in sé ma un qualcosa collocato a un livello più
infimo. Riprende specialmente il carme III, in cui Orazio dice che quando un uomo è forte e giusto, niente lo scuote dalla
sua fermezza, né il volto minaccioso di un tiranno, né un vento tempestoso, né la grande mano fulminante di Giove. Non
può mai cadere insomma, perché non è scosso da niente. Quindi se è vero ciò che dice Orazio, allora vuol dire che tutti gli
uomini sono giusti: perché anche se la terra è caduta, nessuno si è mosso. L’operetta termina con un riferimento esplicito
alla poesia antica e a un’idea connessa ad essa. Orazio si esprime sull’uomo giusto, e Atlante ed Ercole si prendono gioco
degli uomini attraverso questo riferimento: è improbabile che tutti gli uomini siano diventati giusti: è successo piuttosto
qualcosa, ma non si sa che cosa. Quest’idea della terra diventata piccola come una pallottola, che in questa operetta ha
una precisa intenzione comica-parodica, la ritroviamo spesso in Leopardi.

Nella canzone Ad Angelo Mai, Leopardi dice “una volta che si conosce il mondo, il mondo non cresce ma diventa più
piccolo”; anche nello Zibaldone fa considerazioni sul fatto che, se l’uomo osserva le cose, le vede più piccole rispetto a
come le immaginava. La novità in questo caso sta nel fatto che Leopardi usa questa tematica del mondo diventato piccolo
cine base per creare una forma dialogica comica. Questo dialogo può dunque essere considerato il primo di una serie di
dialoghi ispirati a Luciano e in cui si attuano tutti i principi del carnevalesco bachtiniano.

Nell’opera dedicata alla cultura rinascimentale e a Rables, intitolata L’opera di Rables e la cultura popolare. Riso
carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Bachtin si ferma sull’immagine grottesca del corpo, con la
quale intendiamo il fatto che nella cultura popolare, il corpo, e tutto ciò che è connesso ad esso, non ha assolutamente le
caratteristiche che ha nella nostra cultura, filtrata attraverso processo di spiritualizzazione della corporeità. Nella cultura
medievale e rinascimentale invece, prevale questa immagine grottesca del corpo. Con ‘grottesco’ s’intendono gli elementi
con cui il corpo viene presentato senza alcun tipo di censura. Fra le caratteristiche del corpo grottesco lo studioso russo
individua la concezione del corpo non visto in una dimensione normale ma in una dimensione fuori dalla norma, come

12 Si tratta del Dialogo tra Mercurio e Caronte, in cui Mercurio chiede a Caronte se ricorda gli omaccioni che erano gli
uomini antichi, tutti colmi di ferite perché morivano in guerra per azioni nobili. Ora invece si muore avvelenati dal
proprio figlio o dalla moglie, per esempio. Insomma gli uomini moderni sono in tutto e per tutto contrapposti agli uomini
di un tempo, dotati, al contrario dei primi, di doti fisiche e morali.

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quella gigantesca: i giganti e la cultura legata ad essi, che troviamo in tante forme (si pensi ai Titani nel mondo classico,
all’Odissea con Polifemo, all’inferno dantesco; al poema cavalleresco). In questa operetta abbiamo a che fare con due
figure appartenenti al mondo dell’esagerazione corporea: Atlante ed Ercole, la cui corporeità esagerata contrasta la
piccolezza e debolezza della terra.

Ma questi elementi carnevaleschi possono ritrovarsi anche in Manzoni?

Manzoni e i Promessi Sposi potrebbero stare dalla parte del novel, cioè narrazione verisimile che esclude tutto ciò che
non ha a che fare con questo principio; invece le Operette Morali dalla parte del romance, cioè narrazione fantastica mai
censurata. Questa divisione è alla base di due ipotesi letterarie e stilistiche opposte; in parte può essere vera ma non è
detto che sia vera fino in fondo. In Manzoni il carnevalesco c’è, ma non è chiaramente così esplicito come Leopardi.

Analizziamo una scena del capitolo III de I Promessi Sposi. Dopo che Renzo è venuto a sapere che Don Abbondio vuole
bloccare il matrimonio a causa di Don Rodrigo che lo ha intimato, attraverso i bravi, di non sposare Lucia, Renzo vuole
vendicarsi di don Rodrigo, recandosi a casa sua per di farlo fuori (ma secondo Padre Cristoforo non ci riuscirebbe e non
sarebbe la via più giusta di vendicarsi perché fondata sulla violenza: secondo lui infatti a un atto di violenza non si può
rispondere con ulteriore violenza). La seconda ipotesi è quella della giustizia: Agnese infatti spiega a Renzo che potrebbe,
anche se povero e misero, rivolgersi a qualcuno che rappresenti la giustizia, cioè l’avvocato Azzeccagarbugli. Di qui la
scena di Renzo che prende i quattro capponi per pagare l’avvocato del servizio che dovrebbe ricevere in cambio. Primo
Levi sostiene che i quattro capponi siano uno degli errori di verisimiglianza del romanzo perché se si considera il peso
che ha normalmente un cappone ben pasciuto, è impossibile per Renzo tenerne in mano addirittura quattro, poiché il
troppo peso gli avrebbe impedito di camminare velocemente. Mentre Renzo cammina inoltre Manzoni fa una
considerazione:

[Voi lettori] pensate come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie, così legate e tenute per le zampe, a
capo all'in giù, nella mano d'un uomo il quale, agitato da tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che
gli passavan a tumulto per la mente. Ora stendeva il braccio per collera, ora l'alzava per disperazione, ora lo
dibatteva in aria, come per minaccia, e, in tutti i modi, dava loro di fiere scosse, e faceva balzare quelle quattro
teste spenzolate; le quali intanto s'ingegnavano a beccarsi l'una con l'altra, come accade troppo sovente tra
compagni di sventura.

Si tratta di un’esagerazione descrittiva. È un fenomeno molto interessante soprattutto perché Manzoni, sempre ligio alla
verisimiglianza, per dare una connotazione particolare al suo personaggio crea l’inverosimile (quattro capponi in mano e
il braccio che si alza di continuo a causa dei pensieri che lo tormentano mentre si reca dall’avvocato).Quando Renzo
giunge dall’avvocato succede un equivoco: l’avvocato pensa che Renzo abbia compiuto un torto e sia andato da lui per
farsi difendere. Comincia dunque a elencargli alcune leggi (grida) che potrebbero servire a difenderlo. Quindi
Azzeccagarbugli pensa che Renzo sia un bravo, tanto che addirittura dice vi siete anche fatti tagliare il ciuffo per non
farvi riconoscere (perché i bravi avevano il ciuffo di capelli per coprirsi la faccia in certi momenti, quando compivano
certe azioni), e qui Manzoni riporta una grida in cui si dice che non si possono portare i capelli sciolti con il ciuffo sulla
fronte, perché si sarebbe incorsi in una multa. Manzoni commenta:

Il ciuffo era dunque quasi una parte dell'armatura, e un distintivo de' bravacci e degli scapestrati; i quali poi da
ciò vennero comunemente chiamati ciuffi. Questo termine è rimasto e vive tuttavia, con significazione più
mitigata, nel dialetto: e non ci sarà forse nessuno de' nostri lettori milanesi, che non si rammenti d'aver sentito,
nella sua fanciullezza, o i parenti, o il maestro, o qualche amico di casa, o qualche persona di servizio, dir di lui: è
un ciuffo, è un ciuffetto.

Quando l’avvocato comprende che Renzo è lì non perché ha fatto un torto ma perché lo ha subìto (per altro da un uomo
potente come Don Rodrigo), lo caccia via di casa perché non vuole avere a che fare con lui dato che anch’ egli è colluso
con Don Rodrigo. Questa scena prevede quindi un rovesciamento della funzione della giustizia, in cui si evince una
parodia (ma non ha la stessa forza parodica che abbiamo trovato nel dialogo di Leopardi).

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Analizziamo un’altra scena comica (da commedia) estrapolata dal capitolo VIII. Il capitolo si apre con Don Abbondio
occupato a leggere. Egli aveva infatti l’abitudine di leggere ogni giorno qualcosa. Erano sempre libri che gli venivano
prestati da un altro prete abitante vicino a lui. Quello su cui meditava Don Abbondio era un trattato di elogio in onore di
San Carlo, paragonato ad Archimede, questo grande filosofo-scienziato dell’antichità e artefice di vari stratagemmi.
Quindi Manzoni inserisce nella lettura di Don Abbondio un riferimento esplicito al mondo antico. Di fronte al nome di
Archimede, don Abbondio aveva potuto capire di chi si parlava e andare avanti, ma di fronte al nome di Carneade, il
lettore era rimasto arenato. 13 Proprio in quel momento entrò Perpetua ad annunziare la visita di Tonio. Manzoni sceglie
di iniziare il capitolo con questo riferimento a Carneade innanzitutto per sottolineare il fatto che Don Abbondio non è un
uomo colto, ma anzi è semplice eppure molto furbo: è il più furbo di tutti, se la cava sempre. Tonio giunge a far visita a
Don Abbondio perché Renzo vuole attuare un colpo: presentarsi improvvisamente davanti al prete e pronunciare la
formula matrimoniale, che sancirebbe automaticamente il matrimonio. I due però lo devono fare di nascosto perché
hanno capito che Don Abbondio si è chiuso in casa fingendosi malato perché non vuole celebrare il matrimonio. Agnese
ha il compito di distrarre Perpetua, portandola un po’ più lontano dall’uscio di casa e intrattenendola con chiacchiere di
paese. Mentre son lì che parlano, Perpetua invita Tonio a salire. Questo permette anche a Renzo e Lucia di intrufolarsi in
casa di Don Abbondio. Manzoni vuole sottolineare la particolarità di questo momento: è chiaro che i protagonisti stanno
compiendo un atto illegale perché si stanno intrufolando in una casa non propria per ingannare il prete. Dunque Tonio
raggiunge Don Abbondio insieme a suo fratello (lo accompagna perché servono due testimoni per il matrimonio) e dietro
di loro, nascosti, ci sono Renzo e Lucia. Apertasi la porta, una striscia di luce fa riscuotere Lucia, come se fosse scoperta.
I due rimangono immobili dietro la porta e si sente martellare il cuore di Lucia (dato anomalo perché nessuno può sentire
il battito del cuore di Lucia, se non lei stessa). Segue la descrizione di Don Abbondio: seduto su una vecchia seggiola,
ravvolto in un vecchio mantello con in capo una vecchia papalina: tutti elementi che rimandano a un qualcosa di vecchio
e logoro, e che nobilitano la figura del prete. La nobilitazione più alta avviene con la frase seguente: prima l’attenzione del
narratore si sofferma su elementi esterni (vecchia seggiola, vecchio mantello, vecchia papalina), poi sugli elementi del
volto (folti sopraccigli, folti baffi, folto pizzo); poi tutto questo volto viene paragonato a cespugli coperti di neve,
sporgenti da un dirupo al chiaro di luna. Avviene un rovesciamento perché il volto del prete attraverso questo paragone
acquista un qualcosa di inaspettato perché diventa una specie di paesaggio lirico e notturno, che non ha a che fare con il
romanzesco, ma piuttosto attribuisce a ciò che si sta raccontando una tonalità specifica. Comunque sia Don Abbondio è
concentrato a compilare la ricevuta che Tonio gli ha dato (Tonio si è recato dal prete con una scusa: restituirgli il denaro
che gli è stato prestato in cambio di un gioiello che lui ha ceduto al prete in segno di cauzione). Quindi mentre il prete è
impegnato a scrivere, lentamente Renzo e Lucia in punta di piedi si fanno largo nella stanza, nascondendosi dietro la
sagoma dei due fratelli. C’è quindi un gioco astuto tra onestà e imbroglio: il prete deve scrivere la ricevuta affinché Tonio
non si senta imbrogliato, ma lui e suo fratello stanno imbrogliando il prete).Quando don Abbondio cede a Tonio la
ricevuta, i due fratelli si allontanano e compaiono Renzo e Lucia. Don Abbondio si spaventa e si infuria. Capisce cioè ciò
che sta succedendo quindi pensa in fretta di agire. Infatti dopo che Renzo ha proferito la metà della formula
matrimoniale, ed è giunto il turno di Lucia, avviene una cosa comica:

Le sue labbra non erano ancora tornate al posto, che don Abbondio, lasciando cader la carta, aveva già afferrata
e alzata, con la mancina, la lucerna, ghermito, con la diritta, il tappeto del tavolino, e tiratolo a sé, con furia,
buttando in terra libro, carta, calamaio e polverino; e, balzando tra la seggiola e il tavolino, s'era avvicinato a
Lucia. La poveretta, con quella sua voce soave, e allora tutta tremante, aveva appena potuto proferire: – e
questo... – che don Abbondio le aveva buttato sgarbatamente il tappeto sulla testa e sul viso, per impedirle di
pronunziare intera la formola. E subito, lasciata cader la lucerna che teneva nell'altra mano, s'aiutò anche con
quella a imbacuccarla col tappeto, che quasi la soffocava; e intanto gridava quanto n'aveva in canna:
– Perpetua! Perpetua! tradimento! aiuto!

Quindi Don Abbondio astutamente butta addosso a Lucia questo tappetino, impedendole di parlare e completare la
formula (bastava che lei dicesse: e questo è mio marito, che il matrimonio si sarebbe compiuto). Quindi la situazione è

13 Altro filosofo famoso contraddistintosi per la sua capacità oratoria.

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comica (e confusionaria) perché: l’uomo che prima stava interrogandosi sulla figura di Carneade, tutt’un tratto diventa
rapidissimo ragionatore che interrompe l’imbroglio; Lucia non riesce più a parlare, Renzo vuole scappar fuori; e Tonio si
è messo in ginocchio per ritrovare la carta su cui Don Abbondio ha scritto la ricevuta. Poi Manzoni interrompe per un
momento solo l’azione comica e fa un’amara riflessione di tipo morale:

Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s'era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso
assediato in una stanza, ha tutta l'apparenza d'un oppressore; eppure, alla fin de' fatti, era l'oppresso. Don
Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a’ fatti suoi, parrebbe la
vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo... voglio dire, così andava nel
secolo decimo settimo.

Renzo e Lucia, in realtà vittime e soppressi, sembrano gli oppressori; invece Don Abbondio che ha compiuto il torto,
interrompendo il matrimonio, sembra l’oppresso. Dunque il comico presente in Manzoni ha una funzione morale.

Dialogo della Moda e della Morte.

L’operetta viene letta da molti pensatori novecenteschi, tra cui Walter Benjamin. È un’operetta fondamentale perché
Leopardi ferma l’attenzione su un elemento tipico della cultura settecentesca: la moda. L’elemento nuovo dell’operetta è
proprio la presenza della moda, dunque a differenza delle precedenti non ha più dei personaggi veri e propri: nella prima
operetta c’erano figure legate alla mitologia, poi l’umanità in generale; nella seconda due personaggi ricavati dalla
tradizione antica; ora sono protagoniste due allegorie, cioè due figure non reali che personificano dei concetti astratti.
L’aspetto comico di questa operetta consiste nell’avvicinamento di Moda e Morte, che personificate diventano due figure
femminili. Moda è un termine di origine latina che vuole indicare un momento specifico della storia: il presente. La moda
consiste quindi in un’attenzione specifica rivolta al presente. Si tratta di una forma di interesse tipica della cultura
moderna: l’idea di modernità, quindi l’idea di uno sviluppo del tempo che muta a partire dalla rivoluzione scientifica,
quando la temporalità prende ritmi un tempo inimmaginabili: il tempo accentua la propria velocità. Leopardi ha un’idea
interessante: Moda e Morte sono imparentate: sono sorelle. Egli immagina che queste due donne si stiano rincorrendo:
stiano cioè correndo l’una dietro l’altra. C’è l’allusione a un’idea di movimento rapido, dato dalla sequenza delle battute,
quindi dal modo in cui il dialogo inizia e procede, appunto attraverso questo ritmo rapido e di movimento.

Moda. Madama Morte, madama Morte.


Morte. Aspetta che sia l'ora, e verrò senza che tu mi chiami.
Moda. Madama Morte.
Morte. Vattene col diavolo. Verrò quando tu non vorrai.
Moda. Come se io non fossi immortale.
Morte. Immortale? Passato è già più che 'l millesimo anno che sono finiti i tempi degl'immortali.
Moda. Anche Madama petrarcheggia come fosse un lirico italiano del cinque o dell'ottocento?
Morte. Ho care le rime del Petrarca, perché vi trovo il mio Trionfo, e perché parlano di me quasi da per tutto. Ma
in somma levamiti d'attorno.

La prima battuta della Moda è rivolta alla Morte, che viene chiamata Madama morte, alla francese. Questo perché
Leopardi collega la moda alla Francia, quindi usa un linguaggio che già di per sé è alla moda (non dice Signora Morte). È
un’espressione stilisticamente non prosastica, ma poetica, perché fondata sulla ripetizione delle stesse sillabe (ma-ma-
mo), come se il suono mettesse in correlazione i due termini. Invece nella versione precedente Leopardi aveva usato in il
termine lirico e petrarchesco “madonna”, più vicino all’italiano e quello che ci aspetteremmo da Leopardi. Questo
appellativo con il quale la Moda chiama la Morte genera il primo dei tanti giochi di parole sui quali Leopardi costruisce le
battute dell’operetta. La morte, senza riconoscere la Moda, risponde aspetta che sia la tua ora e io arriverò. È inutile
che tu mi chiami. In realtà la Moda non ha bisogno di aspettare la Morte, perché la prima spiega alla seconda in che cosa
le due sono vicine e imparentate. Alla seconda battuta della Moda, la Morte risponde: Vattene col diavolo. Sono io a
decidere quando venire. Il punto di partenza è quindi comico perché le due interlocutrici non appaiono assolutamente in
sintonia l’una con l’altra: quella che chiama viene rifiutata da quella chiamata, senza che vi sa una spiegazione della
ragione né della chiamata, né del rifiuto. La terza battuta della Moda dice: Come se non fossi immortale. La Moda spiega
alla Morte di essere immortale perché il concetto che sta alla base della moda, cioè l’attenzione a ora (presente), significa

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che ogni momento è il momento della moda. La moda non ha in sé una scadenza o deperibilità: è immortale. La morte si
meraviglia di questa informazione e usa un verso petrarchesco per rispondere: è passato più di un secolo da quando sono
finiti i tempi degli immortali. Vuole dire dunque che non è più tempo dell’immortalità. La Morte risponde con un verso
petrarchesco, fa quindi quello che farebbe un poeta settecentesco, ovvero riprendere Petrarca, e dunque dimostrandosi
alla moda. Quindi anche la Morte sottostà alla trappola della moda. Ma allora è più forte la Moda o la Morte? C’è
differenza tra le due? Se sì, come possiamo quantificarla? I due interlocutori non sono incompatibili tra di loro, ma
appaiono opposti o complementari. Leopardi li fa parlare secondo ragionamenti opposti ma in realtà entrambi derivano
da uno stesso principio: la morte distrugge, la Moda crea sulla distruzione di qualcosa. Segue un riferimento al Trionfo
della morte di Petrarca. Inoltre tutti parlano della Morte. Poi il dialogo continua:

Moda. Via, per l'amore che tu porti ai sette vizi capitali, fermati tanto o quanto, e guardami.
Morte. Ti guardo.
Moda. Non mi conosci?
Morte. Dovresti sapere che ho mala vista, e che non posso usare occhiali, perché gl'Inglesi non ne fanno che mi
valgano, e quando ne facessero, io non avrei dove me gl'incavalcassi.
Moda. Io sono la Moda, tua sorella.
Morte. Mia sorella?
Moda. Sì: non ti ricordi che tutte e due siamo nate dalla Caducità?
Morte. Che m'ho a ricordare io che sono nemica capitale della memoria.
Moda. Ma io me ne ricordo bene; e so che l'una e l'altra tiriamo parimente a disfare e a rimutare di continuo le
cose di quaggiù, benché tu vadi a questo effetto per una strada e io per un'altra.
Morte. In caso che tu non parli col tuo pensiero o con persona che tu abbi dentro alla strozza, alza più la voce e
scolpisci meglio le parole; che se mi vai borbottando tra' denti con quella vocina da ragnatelo, io t'intenderò
domani, perché l'udito, se non sai, non mi serve meglio che la vista.
Moda. Benché sia contrario alla costumatezza, e in Francia non si usi di parlare per essere uditi, pure perché
siamo sorelle, e tra noi possiamo fare senza troppi rispetti, parlerò come tu vuoi.

La Moda intima alla Morte di fermarsi un attimo e chiede di guardarla. Tuttavia la Morte, rappresentata di solito da un
teschio, non ha gli occhi, quindi ha mala vista; e non può neanche usare gli occhiali perché il teschio non ha un naso su
cui poter appoggiare gli occhiali. C’è il riferimento agli inglesi perché costoro in quel momento storico sono abili nel
lavorare alle lenti da vista: questi non hanno ancora creato un paio di occhiali adatti alla Morte. Poi la Moda si rivela e
dice di essere sua sorella. Entrambe sono figlie della caducità. La caducità è quel concetto che spiega la fine di ogni cosa,
vivente e non: ogni aspetto del mondo e della realtà è sottoposto a essa. Ma se la Morte è nemica della memoria, la Moda
no. Entrambe sono accomunate dal fatto che disfano e cambiano le cose del mondo; entrambe collaborano
all’inarrestabile trasformazione e mutazione delle cose. A questo punto la Morte invita la Moda ad alzare la voce perché la
sua vocina così sottile le impedisce di capire le sue parole (perché l’udito, come la vista, non l’accompagna). Si tratta di
una battuta satirica: la Moda parla con un tono basso di voce perché come lei stessa dice, le buone maniere e i buoni
costumi impongono una voce bassa, e impongono che si parli piano; anche in Francia si usa parlare per non essere uditi.
Però dal momento che sono sorelle, e tra di loro possono comportarsi senza troppa formalità, la Moda parlerà come vuole
la Morte. Segue un lungo discorso della Moda. Infatti notiamo che c’è un forte squilibrio dialogico nell’operetta: la Moda
pronuncia i dialoghi più lunghi e ha un ruolo principale perché essa è il vero nuovo e interessante oggetto dell’operetta,
mentre la Morte no, è un concetto quasi scontato: è quasi inutile ricordare che la vita umana sia sottoposta alla morte. La
moda dovrebbe essere la creatrice, nel nostro immaginario: rinnova, cioè porta alla luce il nuovo. Invece Leopardi la
ribalta e la rende falsa creatrice che nasconde l’aspetto della distruzione: ciò che viene disfatto e mutato, ha a che fare
con loro due. Questo discorso nella logica delle Operette Morali s’insinua in maniera simmetrica a quello che abbiamo
visto nel dialogo di Ercole e Atlante: dialogo sulla definitiva trasformazione dell’umanità, infatti la terra è diventata una
pallottola priva di peso. Com’è diventata una pallottola? Perché gli uomini hanno perso importanza? Perché il mondo non
è più al centro dell’universo? Il dialogo tra la Moda e la Morte risponde alle domande:

Moda: Dico che la nostra natura e usanza comune è di rinnovare continuamente il mondo, ma tu fino da
principio ti gittasti alle persone e al sangue; io mi contento per lo più delle barbe, dei capelli, degli abiti, delle
masserizie, dei palazzi e di cose tali. Ben è vero che io non sono però mancata e non manco di fare parecchi

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giuochi da paragonare ai tuoi, come verbigrazia sforacchiare quando orecchi, quando labbra e nasi, e stracciarli
colle bazzecole che io v'appicco per li fori; abbruciacchiare le carni degli uomini con istampe roventi che io fo che
essi v'improntino per bellezza; sformare le teste dei bambini con fasciature e altri ingegni, mettendo per costume
che tutti gli uomini del paese abbiano a portare il capo di una figura, come ho fatto in America e in Asia;
storpiare la gente colle calzature snelle; chiuderle il fiato e fare che gli occhi le scoppino dalla strettura dei
bustini; e cento altre cose di questo andare. Anzi generalmente parlando, io persuado e costringo tutti gli uomini
gentili a sopportare ogni giorno mille fatiche e mille disagi, e spesso dolori e strazi, e qualcuno a morire
gloriosamente, per l'amore che mi portano. Io non vo' dire nulla dei mali di capo, delle infreddature, delle
flussioni di ogni sorta, delle febbri quotidiane, terzane, quartane, che gli uomini si guadagnano per ubbidirmi,
consentendo di tremare dal freddo o affogare dal caldo secondo che io voglio, difendersi le spalle coi panni lani e
il petto con quei di tela, e fare di ogni cosa a mio modo ancorché sia con loro danno.

La Moda espone una teoria, secondo cui entrambe rinnovano il mondo ma con modalità diverse perché se da un lato la
Morta lo rinnova facendo fuori le persone e occupandosi della corporeità (del sangue), dall’altro la moda si occupa di cose
più leggere, come le masserizie, barbe e abiti; però tutte e due, nella loro operazione di rinnovamento, in modo inevitabile
uccidono qualcosa affinché nasca qualcosa di nuovo. La moda tuttavia ammette di aver fatto giochi simili a quelli della
Morte: se la morte distrugge i corpi, la Moda li rimodella attraverso usanze che trasformano il corpo: lo sforacchiano,
bruciano e stringono per abbellirlo con molteplici oggetti; si tratta di usanze che servono a convincere gli uomini a
sopportare ogni giorno mille fatiche e strazi. Quindi questa descrizione della Moda è parodica: svela il suo lato nascosto.
Questo dialogo piaceva a Benjamin proprio perché lui stesso si era soffermato a lungo sul tema della Moda, analizzando
addirittura un poeta come Baudelaire (che aveva scritto alcuni testi che si riferivano alle usanze delle donne di adornarsi:
gioielli, profumi, vestiti particolari ecc.). Baudelaire e Leopardi sono lontani per poco più di un decennio.

Osserviamo la considerazione sulle Operette Morali dello studioso Cesare Galimberti e risalente agli anni ’80. Il suo
commento ha a che fare con l’azione simultanea di Moda e Morte di rinnovamento del mondo. Infatti abbiamo visto che
entrambe provocano dei continui cambiamenti (la Morte nei corpi: tu ti gittasti alle persone e al sangue; la Moda in cose
meno importanti che hanno a che fare con l’aspetto). Si tratta di un’idea profonda che ha a che fare con l’idea del bello
assoluto e del bello relativo, che Leopardi enuncia nella prima parte dello Zibaldone: la cosiddetta lotta contro
l’innatismo, cioè la concezione filosofica secondo la quale ognuno di noi nasce con delle concezioni e idee innate, che poi
orientano il nostro modo di pensare e il nostro comportamento. Avere delle idee innate vuol dire che c’è una divinità che
in noi produce queste idee. Per i cristiani naturalmente è Dio che produce queste idee innate e assolute. È come se
avessimo una struttura innata. Assolute perché se siamo fedeli a una dottrina, ci sono chiaramente delle idee di base che
sono immutabili. Leopardi però è contro l’innatismo (al contrario della sua famiglia: il padre e lo zio nutrivano profonde
convinzioni religiose, e speravano di fare di Leopardi un grande studioso in ambito filologico o un uomo di chiesa): non
pensa che ci siano idee innate e lo dimostra attraverso l’idea del bello. Leopardi si chiede: come facciamo a dire cos’è il
bello? Se siamo in Europa pensiamo che il corpo di una donna sia ‘bello’ se fatto in un certo modo, se in Africa invece ci
rendiamo conto del fatto che il ‘bello’ ha altre caratteristiche. Quindi per Leopardi l’idea del bello non è innata e assoluta
ma è relativa perché dipende da una serie di aspetti: tempo, spazio, clima, comportamento ecc. La Moda spiega questa
legge attraverso degli esempi che Leopardi ricava da alcune cronache di viaggio. Grazie a questi testi infatti lui può
facilmente discutere della California, dell’Asia e di tutti quei paesi che non può visitare, e descriverne le usanze. Leopardi
le descrive velocemente (quasi le accenna soltanto) e senza un ordine proprio. Infatti abbiamo detto che la Moda si
occupa del rinnovamento del mondo e del corpo umano (guarda ai verbi: sforacchiare, bruciare, sformare, chiudere
ecc). Queste usanze attutate dalla Moda in vari paesi modificano il corpo (es. fasciare le dita dei piedi delle bambine
giapponesi affinché crescano troppo e creino mostruosità vere e proprie; sformare le teste dei bambini per farle uscire
tutte di una medesima misura) e sono tutte esempi di un corpo comicizzato, reso grottesco. Quando parliamo di corpo
grottesco ci riferiamo ad alcune delle idee che Bachtin esprime nel libro sull’opera di Rablés. Egli lo definisce quel corpo
che non ha confini delineati secondo le regole della nostra estetica: bocca più grande del solito, orecchie e occhi enormi,
deretano (che di solito ha dimensioni innaturali), organi sessuali tra cui il fallo maschile, tipico elemento del corpo
grottesco ed esibito durante il Carnevale (la tradizione di esibirlo risale alla tradizione dionisiaca, e che viene fuori anche
in Manzoni e Leopardi). Dunque a detta di Bachtin, mentre il corpo normale ha limiti e confini, e ha una ‘forma’ ben

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precisa (essa risponde a un canone, che risale al Settecento ed è rimasto inalterato sino ad oggi: la forma femminile deve
avere il seno di una certa dimensione, non esagerata, né piccola; il corpo maschile deve avere le spalle in un certo modo),
il corpo grottesco è un corpo in divenire:

Non è mai definito e dato una volta per tutte ma: si costruisce e si crea continuamente, ed è esso stesso che
costruisce e crea un altro corpo. Inoltre questo corpo inghiotta il mondo ed è inghiottito da quest’ultimo. È per
questo motivo che il ruolo più importante del corpo grottesco è affidato a quelle sue parti e luoghi dove esso va
oltre sé stesso, esce dai limiti prestabiliti, comincia la costruzione di un nuovo corpo: il ventre e il fallo. A essi è
affidato un ruolo di primo piano nell’immagine grottesca del corpo.

La caratteristica del corpo grottesco dunque è quella di essere in perenne cambiamento e produrre altri corpi. È un corpo
in divenire: non conosce una fine ma è un continuo ciclo di morte e rinascita, di inizio e fine, che sono legati in modo
indissolubile. Infatti le azioni che lo studioso enumera (mangiare, bere, accoppiamento, gravidanza, crescita, malattia,
morte, spezzettamento – cioè smembramento del corpo –), sono tutte azioni in cui un corpo dà vita a un altro corpo. Per
esempio il corpo di una donna incinta è un chiaro esempio di corpo grottesco. Per queste ragioni nella commedia antica si
trovano uomini travestiti da donne con pance esagerate, che trasmettono l’idea della procreazione e deformazione del
corpo e che danno l’idea che qualcosa sta per cambiare: sono corpi aperti all’esterno. In questo contesto la Moda ha a che
fare con il corpo grottesco perché essa agisce sul corpo degli uomini e lo trasforma sia in modo limitato (es: capelli,
orecchini, barba), che in modo più visibile (es: usanze dei paesi che costringono a storpiare la gente, come l’uso dei
bustini nelle donne nel tentativo di stringere loro i fianchi, e che poteva anche portare addirittura alla morte perché
capitava che le donne a un certo punto non riuscissero a respirare più).
Nonostante l’idea che il corpo grottesco garantisca di continuo la vita, Leopardi mette la Moda in comunicazione con la
Morte: è la Moda che vuole fare della Morte la sua sorella e vuole convincerla di questo legame. Egli piega la tradizione
del corpo grottesco (e comico) verso una direzione che non è più quella del flusso di vitalità: è una direzione che non
prevede la rinascita. Legare la Moda alla Morte significa vedere tutto dalla prospettiva della morte.

Morte. Sia con buon'ora. Dunque poiché tu sei nata dal corpo di mia madre, sarebbe conveniente che tu mi
giovassi in qualche modo a fare le mie faccende.

Moda. Io l'ho fatto già per l'addietro più che non pensi. Primieramente io che annullo o stravolgo per lo continuo
tutte le altre usanze, non ho mai lasciato smettere in nessun luogo la pratica di morire, e per questo vedi che ella
dura universalmente insino a oggi dal principio del mondo.

Morte. Gran miracolo, che tu non abbi fatto quello che non hai potuto!

Moda. Come non ho potuto? Tu mostri di non conoscere la potenza della moda.

Morte. Ben bene: di cotesto saremo a tempo a discorrere quando sarà venuta l'usanza che non si muoia. Ma in
questo mezzo io vorrei che tu da buona sorella, m'aiutassi a ottenere il contrario più facilmente e più presto che
non ho fatto finora.

Nelle battute successive la Morte dice: se è vero che sei mia sorella, allora perché non mi aiuti in qualche modo a fare le
mie faccende? E La Moda risponde con una battuta ironica perché dice di averlo fatto sempre: ha fatto più di ciò che la
sorella può pensare. Ella ha annullato tutto ma non la pratica della morte, che invece universalmente dura dal principio
del mondo sino ad oggi. Secondo la Morte, nessuno potrebbe mai interrompere l’usanza della morte, tuttavia secondo la
Moda, la Morte sta sottovalutando le proprie capacità. La Morte interrompe il discorso perché preferisce rinviarlo a
quando sarà arrivata la moda di non morire, mentre vorrebbe essere aiutata dalla Moda a far morire di più la gente. Si
tratta di un gioco (quello del morire/non morire) paradossale perché è impossibile interrompere la Morte! Il tema di una
vita oltre la morte per Leopardi è importante, anche se egli è materialista (crede infatti che con la materia tutto finisca);
tuttavia la materia non è detto che si annulli del tutto, anzi: può trasformarsi. Una delle Operette più famose è il Dialogo
delle Mummie col Dottor Federico Ruysh: quest’ultimo aveva inventato un liquido che, iniettato nei cavalli, li garantiva
un aspetto simile a quello della vita per alcuni tempi. Qui questo tema si annuncia perché c’è l’idea che la Moda possa
vincere la morte, anche se si accenna soltanto e si mette subito da parte; infatti la Morte preferisce rinviare il problema a
un secondo momento. Segue un’altra lunga battuta della Moda, che veicola il discorso verso un altro tema. Questo

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spiazzamento del discorso è tipico della letteratura serio-comica (come abbiamo letto in Bachtin). Essa infatti non segue
un ordine preciso come quello imposto dalla letteratura seria, ma: è una letteratura fatta di continue digressioni. Con
digressione intendiamo una struttura grazie alla quale il filo logico del discorso viene continuamente spostato verso altri
terreni di discussione. Dunque leggiamo:

Moda: io per favorirti ho mandato in disuso e in dimenticanza le fatiche e gli esercizi che giovano al ben essere
corporale, e introdottone o recato in pregio innumerabili che abbattono il corpo in mille modi e scorciano la
vita. Oltre di questo ho messo nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa, così per rispetto del corpo
come dell'animo, è più morta che viva; tanto che questo secolo si può dire con verità che sia proprio il secolo
della morte. E quando che anticamente tu non avevi altri poderi che fosse e caverne, dove tu seminavi ossami e
polverumi al buio, che sono semenze che non fruttano; adesso hai terreni al sole; e genti che si muovono e che
vanno attorno co' loro piedi, sono roba, si può dire, di tua ragione libera, ancorché tu non le abbi mietute, anzi
subito che elle nascono. Di più, dove per l'addietro solevi essere odiata e vituperata, oggi per opera mia le cose
sono ridotte in termine che chiunque ha intelletto ti pregia e loda, anteponendoti alla vita, e ti vuol tanto bene
che sempre ti chiama e ti volge gli occhi come alla sua maggiore speranza.

La Moda parla delle sue opere, tra le quali l’indebolimento del corpo.14 La mancanza di vigore del corpo ha scorciato la
vita: il vigore del corpo negli antichi corrispondeva al vigore dell’animo; oggi i moderni avendo meno vigore del corpo
hanno anche meno vigore d’animo. 15 La seconda battuta è ancor più indicativa: la Moda dice di aver messo in opera
abitudini per le quali la vita oggi è più morta che viva, tanto che questo secolo si può dire che sia il secolo della morte.
L’espressione il secolo della morte è da intendersi in senso parodico: secondo Leopardi in questo periodo è avvenuto un
indebolimento psico-fisico dell’essere umano, tuttavia per lui bisognerebbe trovare una soluzione in modo tale da poter
arginare questa difficoltà.16 Leopardi osserva dalla prospettiva della Morte quella Moda che in teoria dovrebbe garantire
un continuo rinnovamento. Segue un’allegoria tipica seicentesca consistente nell’abitudine di creare immagini dotate di
una tale forza allusiva e persuasiva: una volta c’erano fosse e tombe, mentre ora tutto ciò che si muove, sin da quando
nasce, è nelle mani e sotto la giurisdizione della Morte, anche se non ha mietuto queste vite. Quando dice ‘…chiunque ha
intelletto ti pregia e loda, anteponendoti alla vita, e ti vuol tanto bene che sempre ti chiama…’ Leopardi sta parlando e
ironizzando su sé stesso, quindi nell’Operetta il processo parodico diventa anche un processo di auto-parodia: lui è come
gli altri perché ha invocato la morte (infatti ha già scritto le Canzoni e i Canti in cui invoca la morte e vede questa come
l’inevitabile soluzione del dolore universale). Poi la Moda continua:

Finalmente perché io vedeva che molti si erano vantati di volersi fare immortali, cioè non morire interi, perché
una buona parte di se non ti sarebbe capitata sotto le mani, io quantunque sapessi che queste erano ciance, e che
quando costoro o altri vivessero nella memoria degli uomini, vivevano, come dire, da burla, e non godevano
della loro fama più che si patissero dell'umidità della sepoltura; a ogni modo intendendo che questo negozio
degl'immortali ti scottava, perché pareva che ti scemasse l'onore e la riputazione, ho levata via quest'usanza di

14 Tra le tematiche centrali dell’opera leopardiana c’è l’esaltazione della forza del corpo, tipica degli antichi. Per lui gli
antichi erano i portatori di un corpo forte; i moderni invece sono indeboliti rispetto agli antichi. Tuttavia avendo un corpo
debole, sviluppano altre energie e qualità. Per esempio nei moderni l’immaginazione è più forte perché deve sopperire
alla debolezza del corpo; ma essendo più forte è anche portatrice di maggior sofferenza. Se l’immaginazione degli antichi,
accompagnata alla forza del corpo, riusciva a portare piacere, l’immaginazione dei moderni no. Leopardi divide i
moderni tra moderni del Nord (tedeschi e inglesi) e moderni del Sud (spagnoli e italiani). Questi ultimi sono ancora più
infelici perché hanno più immaginazione ma non la riescono a realizzare in quanto la loro debolezza fisica li rende meno
capaci di investire questa qualità nella realtà.
15 Per leopardi l’unità corpo-animo negli antichi funzionava ma nei moderni non più. C’è un pensiero nello Zibaldone in
cui Leopardi dice che gli uomini di ingegno (del ‘600 e ‘700: nomina Cartesio, Voltaire, Pascal) oggi sono gli uomini più
sfortunati perché c’è una continua azione logoratrice dell’anima sopra il corpo, come della lama sopra il fodero. Questa
è una caratteristica del presente: nel presente l’anima logora il corpo, come la lama si logora se infilata e sfilata più volte
nel fodero; invece anticamente il genio e la grandezza erano più naturali e spontanei, e con meno ostacoli.
16 Come vedremo le Operette stesse dovrebbero essere uno strumento utile per far fronte a questa situazione. Leopardi
sa però che non si può tornare indietro: quando esalta gli antichi sa bene che i moderni non potranno mai essere come
quelli, perché i nostri pensatori sono più deboli, le nostre usanze, comportamenti, idee di virtù e qualità sono inferiori. La
Storia del genere umano lo dimostra: in questa ciclicità di fasi della storia del genere umano si va sempre perdendo
qualcosa. Anche se Giove cerca di consolare gli uomini, questa fortuna è valida per pochissimi momenti e esseri umani.

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cercare l'immortalità, ed anche di concederla in caso che pure alcuno la meritasse. Di modo che al presente,
chiunque si muoia, sta sicura che non ne resta un briciolo che non sia morto, e che gli conviene andare subito
sotterra tutto quanto, come un pesciolino che sia trangugiato in un boccone con tutta la testa e le lische. Queste
cose, che non sono poche né piccole, io mi trovo aver fatte finora per amor tuo, volendo accrescere il tuo stato
nella terra, com'è seguito. E per quest'effetto sono disposta a far ogni giorno altrettanto e più; colla quale
intenzione ti sono andata cercando; e mi pare a proposito che noi per l'avanti non ci partiamo dal fianco l'una
dell'altra, perché stando sempre in compagnia, potremo consultare insieme secondo i casi, e prendere migliori
partiti che altrimenti, come anche mandarli meglio ad esecuzione.

Morte. Tu dici il vero, e così voglio che facciamo.

Il messaggio è che non è più possibile pensare all’immortalità, infatti un poeta non può più pensare di lasciare traccia di
sé: la letteratura non dà più garanzia di durata e di immortalità. 17 Questa idea è centrale nelle Operette: Leopardi ce la fa
presente di continuo, e sarà quella conduttrice soprattutto dell’ultima parte dell’opera, in cui arriverà a pensare: a che
serve scrivere un libro se non dura? Il patto tra le due sorelle è ormai indissolubile: la Moda con i suoi lunghi discorsi
convince la Morte che la loro è realmente una condizione di sorellanza. Nell’ultima battuta la Morte è convinta delle
parole di sua sorella. Allegoricamente le maschere delle due sorelle approfondiscono un tema approfondito già in quella
di Ercole e Atlante.

Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo

Si tratta del terzo dialogo di ispirazione satirica di Luciano ed è prodotto delle seguenti idee: cambiamento irreversibile
dell’umanità e il predominio di qualche cosa che l’uomo non riesce più a dominare ma da cui è dominato. Folletto e
gnomo sono due creature appartenenti a una tradizione mitologica non classica ma folcloristica, anche se in realtà il
primo termine usato da Leopardi rimanda al mondo delle divinità dionisiache. Queste creature sono personificazioni di
due forme di vita alternative a quelle dell’uomo: il folletto è l’essere che vive nell’aria, proveniente da un mondo
immaginario; lo gnomo è la creatura che vive nella terra o sottoterra. Entrambi si incontrano nella condizione che lo
studioso russo chiama del passaggio estremo tra due mondi. Questo dialogo avviene perché entrambi, l’uno venendo dal
cielo, l’altro da sottoterra, devono verificare come mai non si avverte più la presenza degli uomini sulla terra. L’idea è che
sia successo qualcosa di irreversibile (come nel Dialogo di Ercole e Atlante) che ha modificato quel che per secoli e secoli
è stato una continuità. Se gli uomini non ci sono più, potrebbe essere che qualche cosa li abbia fatti scomparire.

Folletto. Voi gli aspettate invano: son tutti morti, diceva la chiusa di una tragedia dove morivano tutti i
personaggi.
Gnomo. Che vuoi tu inferire?
Folletto. Voglio inferire che gli uomini son tutti morti, e la razza è perduta.

Gnomo. Oh cotesto è caso da gazzette.18 Ma pure fin qui non s'è veduto che ne ragionino.

Folletto. Sciocco, non pensi che, morti gli uomini, non si stampano più gazzette?

Gnomo. Tu dici il vero. Or come faremo a sapere le nuove del mondo?

Folletto. Che nuove? che il sole si è levato o coricato, che fa caldo o freddo, che qua o là è piovuto o nevicato o ha
tirato vento? Perché, mancati gli uomini, la fortuna si ha cavato via la benda, e messosi gli occhiali e appiccato la
ruota a un arpione, se ne sta colle braccia in croce a sedere, guardando le cose del mondo senza più mettervi le
mani; non si trova più regni né imperi che vadano gonfiando e scoppiando come le bolle, perché sono tutti
sfumati; non si fanno guerre, e tutti gli anni si assomigliano l'uno all'altro come uovo a uovo.

17 Invece nel finale dell’operetta precedente si evoca Orazio che nelle Odi scrive non omnis moria: non morirò mai del
tutto perché rimarrà sempre una traccia di me nella storia umana, e questo grazie alla sua opera scritta e immortale.

18 Giornali del Settecento, quindi strumenti attraverso cui si diffondevano notizie. Non avevano però la struttura del
giornale che abbiamo noi. Strumenti di informazione e sempre al centro della polemica di Leopardi perché portatori
dell’informazione accessoria e inutile e simboli dei tempi privi di sostanza e fondamento.

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L’umanità quindi non c’è più (si tratta di un motivo che Leopardi aveva già immaginato precedentemente): parlare sono
creature non umane, che discutono tra loro della scomparsa dell’umanità. Finiti gli uomini, perché dovrebbero essere
pubblicate le gazzette, cioè strumenti che parlano della vita degli uomini? L’espressione finiti gli uomini non solo vuol
significare che la razza si è estinta, ma anche che non ci sono più i principi grazie ai quali gli uomini estendevano una
forma di pensiero antropocentrico su tutto il mondo. Le notizie che si stampano cosa dovrebbero riguardare? L’unica vita
rimasta è quella della natura (sole che si è levato o coricato, se fa caldo o freddo), che segue cicli standard legati
unicamente al clima. Quindi che notizia dovrebbe provenire da questa vita rimasta? L’immagine data è implicitamente
parodica: viene parodiata la fortuna che con la benda, cieca, si muove sopra una ruota che gira: qui la fortuna addirittura
si è cavata la benda e si è messa gli occhiali per vedere meglio, ha attaccato la ruota a un arpione e se ne sta seduta con le
braccia incrociate a guardare le cose del mondo. L’idea di sorte, destino e cambiamento infatti non esiste più. Non c’è più
l’idea di regno come forma di organizzazione del potere, e soprattutto tutti gli anni si assomigliano l’uno all’altro come
uovo a uovo. C’è qui un gioco particolare perché si fa riferimento a una misura temporale umana ( tutti gli anni), che
viene neutralizzata perché questi anni sono tutti uguali: non c’è più differenziazione cronologica, né storia. L’idea da cui
Leopardi parte è comica e carnevalesca, che conduce a una dimensione uniforme di assoluto (che avevamo già visto nel
Dialogo di Ercole e Atlante): non c’è più cambiamento, idea di movimento della storia ecc. è chiaro che questo tipo di
meditazione non può conciliarsi con l’idea del racconto perché il racconto in modo inevitabile ha a che fare con l’idea di
cambiamento e sviluppo (deve esserci una trama). Leopardi parte da un’idea di uniformità che va contro la storia (tema
problematico perché tutti i grandi critici leopardisti erano di formazione marxista come Luporini). Per un pensiero
marxista non è concepibile l’idea che non ci sia sviluppo. Leopardi non ha mai negato la storia, semmai l’ha resa inferiore
rispetto a un altro tipo di sviluppo, che sono quelle del mondo naturale nel suo complesso. Leopardi ha fortemente
limitato le capacità del pensiero umano di comprendere le trasformazioni e farne oggetto di una storia umana, in cui
l’uomo è sempre protagonista. Negare che la presenza dell’uomo sulla terra fosse indispensabile alla vita sulla terra,
negare che ci fosse uno sviluppo e una storia, dichiarando che tutto è uguale, vuol dire negare il pensiero dominante
nell’Ottocento (pensiero hegeliano), e vuol dire negare il pensiero cattolico perché nell’ottica dei cattolici, che Leopardi
conosceva bene dato che la sua famiglia era religiosa, non si può negare la storia, dal momento che Dio ha creato l’uomo
per farlo agire nella storia fino a che questa sarà fermata dal Giudizio Universale (quello di Leopardi è infatti un pensiero
inaccettabile per i preti). I termini usati sono comici: i protagonisti dell’operetta scherzano sull’umanità scomparsa. La
scomparsa dell’uomo non è una tragedia. Gli uomini vengono infatti definiti monelli, parola priva di carica aggressiva, ma
che implica quasi una loro innocenza. Il fatto che gli uomini siano scomparsi non implica nulla di straordinario: altre
razze sono scomparse, come quella dei Dinosauri. L’uomo è rievocato solo attraverso una serie di termini che mettono in
correlazione l’umanità con la sua condizione di inferiorità: gli uomini sono monelli e ciurmaglia. Abbiamo chiaramente
l’utilizzo dello straniamento, per condurre una satira molto forte contro la centralità dell’uomo sulla terra. Nella seconda
parte dell’operetta Folletto e Gnomo ricadono nella prospettiva antropocentrica (=l’uomo al centro del cosmo e l’artefice
del movimento del tempo e della storia).

È stato all’interno di alcune opere degli umanisti italiani che hanno rielaborato la filosofia di Platone tra la seconda metà
del Quattrocento e il Cinquecento, che si è formata l’idea del microcosmo, secondo cui l’uomo è una riproduzione di tutto
ciò che si trova nel cosmo. Quindi il corpo umano sarebbe la sintesi di ciò che nell’universo è disperso e privo di unità.
Bachtin sostiene che, prima che si arrivasse a questa concezione, l’universo (secondo le idee di Aristotele) era
caratterizzato da quattro elementi: terra, acqua, aria e fuoco. Ognuno di questi ha un ruolo fondamentale nell’assetto del
cosmo e si ritrovano anche nel corpo umano. L’ipotesi fatta dai medici di scuole aristoteliche è che quando c’è armonia
tra questi quattro elementi si raggiunge una condizione di salute, ma quando uno di questi prende il sopravvento sugli
altri si giunge a una condizione di patologia. È opportuno ristabilire l’equilibrio originario a questo punto mediante il
ricorso a medicine nel tentativo di espellere ciò che è dannoso. Questa medicina secondo le teorie aristoteliche mette il
corpo in corrispondenza con il cosmo. Lo studioso russo nota che nella cultura medievale questo sistema è subordinato a
due dimensioni: l’alto e il basso. Queste due dimensioni hanno un valore sia spaziale, che qualitativo. Quando parliamo di

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valore spaziale intendiamo che la terra ha un centro ben preciso; ogni elemento si considera a seconda della sua vicinanza
o distanza da questo centro (o punto zero). Esempi: il fuoco è un elemento che porta lontano da questo centro perché è
vero che si sviluppa sulla terra, tuttavia va verso l’alto, allontanandosi dal centro; l’acqua invece sta a metà tra terra e
fuoco19. Se guardiamo al valore qualitativo invece: quanto più un elemento va verso l’alto (il centro del cosmo), tanto più è
vicino a quella che è l’origine del cosmo, cioè Dio; mentre quanto più un elemento va verso il basso, tanto più si allontana
da Dio.20 Nel Rinascimento tutto cambia rispetto al Medioevo: questa concezione non riconosce più la gradazione tra alto
e basso, ma pone tutti gli elementi su uno stesso livello e ferma piuttosto l’attenzione su un movimento in avanti e un
movimento all’indietro. Questi movimenti hanno come punto centrale il corpo dell’uomo, non più un ente trascendente
(come nel caso di alto e basso). Ciò vuol dire che il tempo e la visione del cosmo si misurano su una linea orizzontale: si va
da ciò che c’è prima e ci lasciamo alle spalle, a ciò che c’è dopo e che chiamiamo futuro. Soprattutto non c’è più la
gerarchia cosmica che portava a vedere un trascendimento dell’uomo verso l’altro. Possiamo prendere in considerazione
un testo di Giovanni Pico della Mirandola intitolato Oratio de omini dignitate. È un discorso sulla dignità dell’uomo ed è
importante perché per la prima volta viene fuori l’idea secondo cui l’uomo è il centro di tutto, anche delle creature celesti.
Egli si sottrae a ogni gerarchia dal momento che è sulla base dell’uomo che si misura il divenire, mentre tutte le altre
creature (animali, piante ecc.) evolvono fisicamente ma non dal punto di vista morale o intellettuale, ma rimangono
uguali. È come se l’uomo ricevesse, nel momento in cui nasce, delle potenzialità con le quali può diventare tante cose
diverse. Egli infatti può cambiare e assumere tutte le forme della natura, così come può assumere tutte le forme delle
creature che sono al di fuori della natura (es. gli angeli, cioè creature divine). Questo riferimento ci dà l’idea di come
l’esistenza dell’uomo diventi la misura di tutte le altre esistenze, e anche l’idea che l’uomo non sia un essere compiuto una
volta per tutte, ma incompiuto e in continuo divenire verso ciò che ancora non c’è ma che potrebbe esserci. Questa idea
secondo Bachtin sta alla base di una visione materialistica e non spiritualistica del cosmo: il corpo è la forma di
organizzazione più perfetta della materia, ed è quindi la chiave di accesso a tutta la materia. Il movimento di progressione
dal dietro all’avanti, dal passato al futuro, è garantito proprio dal fatto che il corpo dell’uomo produce altri corpi e quindi
produce la vita (fenomeno grazie al quale l’uomo può andare avanti verso forme di organizzazione diverse dalle originarie
e prodotte in precedenza). Il Dialogo di Leopardi è rivoluzionario perché annulla la visione di un alto-basso, di un avanti-
indietro nel tempo, e di una progressione. Infatti lo Gnomo e il Folletto si dicono reciprocamente che, quando tutto ciò
che fino alla presenza dell’uomo sulla terra era un segno della misura, con cui l’uomo si metteva in rapporto alla terra
stessa, è stato eliminato (calendari, distinzione del tempo in giorni, mesi e anni ecc.), inizialmente non succede niente,
perché le cose procedono come prima, con la differenza che, mentre gli uomini attraverso i loro strumenti creavano delle
distinzioni, per cui un anno era diverso dall’altro, ora non c’è più niente che si distingua: tutto è uguale, gli anni sono tutti
uguali (uovo uguale a uovo). Qui Leopardi però innesta un’altra idea per cui Folletto e Gnomo riprendono gli
atteggiamenti assunti già dagli uomini, facendosene portatori. Il Folletto infatti sostiene che il mondo non è fatto per gli
uomini ma per i folletti; lo Gnomo sostiene che il mondo non è fatto né per gli uomini, né per i folletti, bensì per gli
gnomi. Entrambi dunque cadono nell’errore dell’antropocentrismo: mettono la loro prospettiva al centro della visione del
mondo. Anche le lucertole e i moscerini credono che il mondo sia fatto per la loro specie. Da questa prospettiva quindi
non si può uscire: ognuno rimane fermo al suo parere. Leopardi fa quindi un passo in avanti: critica le forme di vita che si
trovano sulla terra. La presunzione degli uomini è quella di credere che tutto ciò che fa parte della terra è creato e
prodotto per loro. Essi hanno avocato a sé ogni cosa che si trova sulla terra, facendo di sé il centro di ogni cosa che si
trova sulla terra:

19 Da questa logica si sottraggono i cosiddetti cieli di Dante. Dante infatti quando arriva in Paradiso deve passare da un
cielo all’altro, perché mentre nell’Inferno si scende gradualmente, e nel Purgatorio, essendo una montagna, si sale verso
l’alto, nel Paradiso invece, che è un insieme non reale di cerchi, si deve passare da un cielo all’altro. Così facendo Dante si
sposta verso il centro del cielo, cioè Dio stesso.
20 Per questo Dante mette l’Inferno scavato nella terra: più lui scende più si allontana dal livello dell’umano e giunge a
livelli sempre più disumani.

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Gnomo: s'inabissavano le mille braccia sotterra e ci rapivano per forza la roba nostra, dicendo che ella si
apparteneva al genere umano, e che la natura gliel'aveva nascosta e sepolta laggiù per modo di burla, volendo
provare se la troverebbero e la potrebbero cavar fuori.

L’elemento scoronante consiste nel fatto che Leopardi ipotizza la morte degli uomini, la quale deve essere raccontata
dagli uomini stessi. Ciò che non c’è più è possibile raccontarlo solo attraverso l’uso del linguaggio. Queste creature,
Gnomo e Folletto, che raccontano la morte degli uomini, però, usando il linguaggio cadranno nello stesso errore
dell’uomo: crederanno reciprocamente la loro superiorità. Il dialogo finisce con la constatazione che, anche se gli uomini
si sono fatti valere scoprendo molte cose (es. cannocchiale), la loro scomparsa non ha prodotto cambiamenti nel cosmo.
Questo ci rimanda al Dialogo di Ercole e di Atlante, dove si parla del sonno dell’umanità: pur giocando a palla, i due non
riescono a svegliarla. Ora invece si ipotizza proprio la scomparsa dell’uomo.

La tradizione faustiana in rapporto a Leopardi e Manzoni

IL MITO DI FAUST. Il mito di Faust è cultura europea. Faust lo conosciamo soprattutto grazie Goethe, tuttavia il viaggio
di Faust comincia già nel Cinquecento nel corso della cultura rinascimentale. Potremmo definirlo quasi un’Odissea della
modernità, non tanto per la guerra, quanto soprattutto per la tematica del viaggio, dato che i personaggi del Faust
viaggiano di continuo. Dobbiamo subito porci una domanda quando analizziamo il Faust: che vuol dire parlare di Faust
mito e Faust tema? Abbiamo due visioni opposte. Da un lato la visione tematologica: si preferisce parlare di tema poiché
si considera il mito come preletterario, arcaico e religioso; dunque il mito letteralizzato, quello che nasce nella modernità
e privo di aspetto religioso, è essenzialmente tema. Dall’altro lato abbiamo una visione mitocritica: si preferisce parlare di
mito in quanto il mito letterario è due volte mito, cioè si fonda su un mito antecedente (nel caso di Faust il mito che funge
da scenario è il mito di Prometeo). Paolo Orvieto è lo studioso che più si è occupato del Faust: parla di tema-mito,
utilizzando dunque una definizione che media tra le due. Le invarianti del mito di Faust sono anzitutto il personaggio di
Faust. È un dotto a cavallo tra scienza e magia, dotato di vasta cultura accademica e teologica, e sempre insoddisfatto di
questa cultura, e per questo sempre propenso a concedersi a ciò c’è al di fuori della scienza normativa, come la magia
oscura, l’alchimia o la partecipazione diabolica. Il secondo aspetto invariante è il patto col diavolo: non vi è infatti mito di
Faust senza Mefistofele, cioè il diavolo con cui Faust scende sempre a patti e al quale concede l’anima in cambio di altro.
Il terzo elemento invariante è dato dai viaggi di Faust e Mefistofele, poiché quasi ogni racconto si caratterizza per le
avventure dei personaggi in giro per il mondo. Il quarto tema invariante è la dannazione: Faust è sempre un dannato, la
sua anima va sempre da Mefistofele. Il nucleo del mito di Faust ha alla base il conflitto tra uomo e Dio, quindi tra una
visione antropocentrica e teocentrica. C’è il conflitto tra ragione individuale e l’autorità, tra scienza e fede. Il tema è lo
stesso, tuttavia il giudizio tra l’una e l’altra parte cambia con il tempo. Un altro tema strutturante del mito è il tema del
doppio: non c’è Faust senza Mefistofele: a strutturare il mito vi è un vero e proprio dualismo. Mefistofele rappresenta ciò
che si colloca al di fuori dell’accettato e accettabile, rappresenta il rimosso, il non accettato, in altre parole: l’ombra.
Faust e Mefistofele devono sempre integrarsi: l’uomo deve cioè integrare dentro di sé la parte rimossa, al fine di poter
tornare dai propri viaggi nella società e diventarne un membro funzionale e funzionante. Il mito si staglia sul precedente
mito di Prometeo, ma non solo: all’interno della società occidentale il tema del patto col diavolo è presente soprattutto
nella cultura cristiana. Predecessori del Faust sono infatti Adamo ed Eva, tentati dal serpente che offre loro la mela, il
frutto della conoscenza; ma poi ci sono varie leggende medievali, quali: Santa Giustina, Teofilo, San Basilio, che hanno
come protagonisti personaggi biblici che verranno tentati sempre dal punto di vista fisico. Anche la tentazione faustiana
nasce da un bisogno sessuale di soddisfare i propri bisogni corporei e diventa poi tentativo di soddisfare i bisogni della
mente. Il mito di Faust prima ancor d’esser mito è leggenda. Ricordiamo infatti che Faust è un personaggio storico,
realmente esistito di nome Georg Faust, nato nel 1480 in Germania, laureatosi all’università di Wittenberg agli inizi del
‘500, dove ha assunto il titolo di dottore in teologia. Secondo i racconti egli era solito visitare la città presentandosi ora
come medico, ora come astrologo e come tutto ciò che serviva a rafforzare la sua fama di uomo al di sopra sia della
scienza, che della magia, e in contrasto sempre con la fede ufficiale (quindi con preti e protestanti – il protestantesimo in
quegli anni si stava infatti diffondendo in Germania –). C’è chi racconta i suoi miracoli, chi lo descrive invece come

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ciarlatano e truffatore. Si racconta che quando Faust muore, il suo corpo viene fatto a brandelli dal diavolo con cui aveva
stretto un patto. Ma la prima testimonianza scritta e completa su Faust risale al 1587 (dopo la sua morte), scritta da
Johann Spies e intitolata Historia. Questo racconto serve a condannare la scelta di Spies affinché nessun altro imbocchi
la sua stessa strada, cioè quella del demonio. Nel racconto infatti Faust è un dotto insoddisfatto che non sa più che
farsene del suo sapere teorico e vuole gettarsi nella vita. Per queste ragioni fa un patto con il diavolo: il diavolo
(Mefistofele) gli avrebbe dato per ventiquattro anni tutto ciò che desiderava, in cambio della sua anima allo scadere dei
ventiquattro anni. Verso la fine del suo viaggio infatti Faust si pente del patto fatto col diavolo, il quale però prende la sua
anima e la porta con sé all’inferno. Un critico che ha tradotto il Faust agli inizi del ‘900 è Vincenzo Errante, che definisce
il personaggio ciarlatano e giramondo, non ancora un sapiente che vuole sapere, ma un sapiente insoddisfatto che
desidera il piacere del corpo. Poco dopo arriva la prima versione artistica del Faust, scritta dall’inglese Christopher
Marlowe nel 1589-1592, e presentata nel 1594 per la prima volta. È basata sulla versione di Spies, ma accentua la
presenza di elementi filosofici accanto agli elementi carnevaleschi. Già in Spies Faust si prende gioco delle persone che
sfida con i suoi poteri magici, poi nel racconto di Marlowe sono rappresentati gli elementi comici e ridicoli di Faust, che si
prende in giro l’autorità che Faust sfida. L’elemento comico viene accentuato se badiamo al fatto che la tragedia inglese
del periodo vittoriano è strutturata diversamente da quella moderna: gli atti erano cinque, tuttavia tra un atto e l’altro vi
era un intermezzo comico, volto a intrattenere gli spettatori e spezzare il tono anche pesante della tragedia. I personaggi
che compaiono prendono in giro sono solo Faust ma anche le cose contro cui lo stesso Faust si scaglia: rappresentano un
supplemento alla critica alle norme fatta già da Faust. Nel finale Faust viene condannato e portato all’Inferno, ma cambia
il modo con egli cui accetta il suo destino: nella versione di Marlowe infatti non si pente delle sue azioni perché sa che la
scelta fatta, e che lo avrebbe condotto a un destino oscuro e di perdizione, è quella corretta. Difende dunque
l’antropocentrismo e si pone contro il teocentrismo: sceglie il diavolo fino all’ultimo momento, accentandone le
conseguenze. Il Seicento non vede studi e versioni artistiche sul Faust, mentre gli illuministi tedeschi (e studiosi dello
Sturm und Drang) verso la fine del Settecento torneranno a confrontarsi con questa materia, tuttavia il racconto sarà
ormai conosciuto da tutti. Due personaggi completano il riscatto di Faust: il titano Prometeo (su cui si fonda il
personaggio di Faust)21, Lucifero di John Milton22 (su cui si fonda il personaggio di Mefistofele). A partire dalla fine del
Settecento v’è l’esplosione del cosiddetto preromanticismo tedesco. Due studiosi, quali Friedrich Muller e Lessing verso
la fine dell’Ottocento scrivono frammenti e abbozzi faustiani che non diventeranno mai un’opera vera e propria. Vincenzo
Errante spiega perché Lessing non è riuscito a completare il Faust: per lui il diritto dell’uomo faustiano di affermarsi sul
mondo e predominare in modo assoluto è visto da un punto di vista razionale e critico, come un diritto quasi scontato
dell’uomo, che non prevede possibilità di sfociare in un racconto drammatico. Il loro Faust si caratterizza per la vicinanza
tra Prometeo e Lucifero di Milton, ed entrambi introducono un nuovo elemento: Faust come mito germanico. È un
elemento non da poco, dato che nel Novecento Faust diventerà il mito del nazifascismo: verrà ripreso dalla propaganda
hitleriana come simbolo del superuomo nazista che ottiene ciò che vuole.
GOETHE. Un passo in avanti si compie con Goethe (nato nel 1749), che impiegherà tutta la sua vita a rendere Faust
un’opera unitaria. Tra il 1772 e il 1775 scrive la prima versione di Faust, mai stata pubblicata e scritta durante lo Sturm
und Drang, quando giovani studiosi si riunivano presso l’abitazione di Goethe a Francoforte, passando il tempo a leggere
opere, poesie e drammi, e a discutere su tematiche particolari. Tra le opere lette vi è proprio questo primo tentativo di
Goethe, che però non si conclude mai, né viene pubblicato. Agli inizi del Novecento questo manoscritto ricompare nella
biblioteca privata di una nobildonna mediante carte scritte da Goethe stesso, e in parte trascrizioni fatte da una dama
della casa che aveva ascoltato le letture di Goethe e le aveva ritenute interessanti. Nel 1790 Goethe pubblica Faust, un
frammento, una versione non ancora finita e completa. Decide di abbandonare di nuovo il progetto finché, spinto
dall’amico Schiller, lo riprende e nel 1808 pubblica finalmente Faust. Una tragedia. Parte I. Non si tratta propriamente

21 Leopardi riprende il mito di Prometeo in La scommessa di Prometeo, cioè un’operetta sia narrativa, che dialogica.
Ricordiamo quindi questo rapporto tra faustismo e prometeismo.
22 Egli ha scritto nel Seicento Paradise lost, all’interno del quale racconta la caduta di Lucifero dal Paradiso, e fa di
questo un personaggio superomistico, il vero e proprio eroe dell’opera.

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della prima metà perché contiene solo un terzo di tutta l’opera. Bisogna attendere il 1827 in cui Goethe pubblica l’Elena,
cioè un estratto della seconda parte, e poi il 1832, anno della morte, in cui pubblica Faust. Una tragedia. Parte II. Goethe
la definisce un’opera barbarica perché caratterizzata da un profondo caos intellettuale e materiale, che viene raffigurato
continuamente nell’opera: in essa infatti confluiscono tutti i pensieri e le letture dell’autore (ricorda per questo lo
Zibaldone). S’intravede inoltre già nell’opera un accenno di una struttura romanzesca.

TRAMA. Faust parte I comincia con un avantesto costituito da una dedica e due prologhi, uno dei quali avviene in cielo e
vede un dialogo tra Dio e Mefistofele. In esso si parla della perfezione e creazione dell’uomo. Dio sostiene che l’uomo sia
perfetto e perfettamente capace di scegliere il bene. Egli è distante e disinteressato nei confronti della sorte umana.
Invece Mefistofele, poiché diavolo, sostiene il contrario: l’uomo se indotto dalla tentazione, cade in essa. Questa
opposizione di pareri porta i due a stipulare un patto: il diavolo dovrebbe cercare di traviare un uomo qualunque, cioè
Faust. A questo punto comincia l’opera, che si configura come tentativo di Mefistofele di vincere la scommessa con Dio.
La prima scena è denominata Notte ed è costituita da un lungo monologo di Faust, che rinnega la cultura accademica
perché nonostante ammette di aver studiato teologia, giurisprudenza, medicina e tanto altro, si sente tanto lontano dallo
scoprire cosa leghi insieme l’universo e tutto quanto. Per queste ragioni ricorre alla magia. Egli evoca lo spirito della
terra, una forza che dovrebbe essere capace di rivelargli questo segreto. Tuttavia quando questa forza gli si presenta
dinnanzi agli occhi, Faust si rende conto di essere piccolo e insignificante di fronte a lei, la quale tra l’altro si prende gioco
del personaggio, dicendogli: “Ma come, saresti tu l’Übermensch (superuomo)?” Faust accetta la sconfitta, lo spirito va via
e lui si dispera, tanto che tenta il suicidio e viene salvato solo grazie alle campane della chiesa vicina, il cui suono, che
annuncia la Pasqua, lo riporta alla vita. Faust incontra poi Mefistofele, con cui intrattiene un dialogo. Il diavolo sostiene
che l’uomo cade dinnanzi alla tentazione, e Faust ammette che si lascerebbe andare ai piaceri perché a lui della
dannazione non importa proprio niente. A questo punto i due fanno una scommessa nella scommessa: Faust è disposto a
cedere l’anima a Mefistofele in cambio di servigi; e semmai egli un giorno dovesse ritenersi soddisfatto e dire: “Fermati
attimo, quanto sei bello!”, Mefistofele potrà prendere la sua anima. Si tratta di un’ipotesi impossibile per Faust perché è
convinto che nulla può soddisfare il suo bisogno inappagabile di perfezione, che nessun desiderio materiale potrà mai
colmare. Mefistofele tenta Faust con ogni tipo di tentazione fisica e carnale, lo fa diventare giovane 23, lo porta in giro per
il mondo a ubriacarsi con gli studenti, tenta di soddisfarlo con l’amore perché gli fa incontrare una giovane popolana di
nome Margherita, della quale Faust s’innamorerà e con la quale vivrà una storia tragica. Faust infatti per poter vivere una
notte d’amore con la donna, che vive con la madre, farà bere alla madre un sonnifero per addormentarla durante la notte,
tuttavia Margherita gliene somministrerà troppo, uccidendola. Durante la notte d’amore la donna rimarrà incinta e lui la
abbandonerà. Nel frattempo Faust continuerà a vagare per la città con il diavolo, recandosi nella Notte di Valpurga: una
notte tra il 31 aprile e il 1 maggio (in cui si festeggiava Santa Valpurga) in cui streghe e affiliati del demonio festeggiano
per elidere Santa Valpurga. Faust verrà condotto a questo festeggiamento satanico: addirittura a un certo punto sverrà e
avrà un sogno meta-teatrale (perché compaiono protagonisti del Sogno di mezza estate di Shakespeare). Tornerà tempo
dopo e scoprirà la tragedia consumata: Margherita ha compiuto un infanticidio ed è in prigione. Lui cercherà di aiutarla e
liberarla, tuttavia Margherita, poiché donna pia e religiosa, desidererà solo il perdono divino, quindi non accetterà l’aiuto
faustiano, soprattutto perché riconoscerà nel suo compagno il diavolo. Ella lo ripudierà e caccerà, preferendo la morte.
Intravediamo qui una differenza tra il Faust definitivo e la prima versione. La prima versione si conclude con Faust e
Mefistofele che lasciano la prigione, e Mefistofele che dice: è condannata. Il Faust definitivo aggiunge un’altra frase
pronunciata dall’alto: è salvata. Avviene cioè un deus ex machina, che salva Margherita dalla condanna terrena e la porta
verso la salvezza nel cielo.

23 Emerge un elemento leopardiano in Faust: nella cucina della strega i due gatti giocano con una palla e intonano una
canzoncina che richiama la fragilità della sfera terrestre, esattamente come Ercole e Atlante. È possibile che Leopardi
leggendo questo passo abbia tratto l’ispirazione per il suo Dialogo.

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Faust parte II vede un Faust più attivo del precedente, che conduce Mefistofele (non sa più che fare per convincere
Faust) verso il grande mondo: vuole visitare le corti degli imperatori e conoscere i potenti. Questa seconda parte è
strutturata in cinque atti: 1) Faust e Mefistofele sono alla corte dell’imperatore, da cui guadagnano dei favori e inventano
la carta moneta, rivoluzionando l’economia da feudale, a capitalistica. 2) Faust vuole andare in Grecia: i due viaggiano
quasi indietro nel tempo e giungono nell’inferno greco, dove incontrano i personaggi della mitologia greca e partecipano
alla notte di Valpurga: avvengono dialoghi filosofici con i fondatori della filosofia greca, una dissertazione sulle origini del
mondo ecc. 3) Faust vorrebbe concludere un matrimonio: fondere il mondo moderno tedesco con quello greco, per cui
evoca il fantasma di Elena di Troia. Faust si sposa con lei e ha un figlio di nome Euforione, il quale ha una vita
estremamente veloce perché muore poco dopo (ha una vita per così dire moderna: la vita dell’uomo moderno infatti è
caratterizzata dalla velocità, accelerazione e dal non fermarsi di fronte a niente sino all’inevitabile caduta). 4) Faust, dopo
la morte del figlio, torna al mondo tedesco e si unisce all’imperatore, con il quale vince una guerra grazie anche agli aiuti
magici di Mefistofele e diventa feudatario. 5) Ottiene un ampio spazio di terra, tenta di proiettare il suo bisogno di
controllo sulla natura, crea anche una diga. In sostanza crea l’Olanda. C’è tuttavia ancora qualcosa che si oppone al suo
dominio assoluto: la piccola capanna di Filemone e Bauci, che si configura come una piccola oasi di antichità, si oppone
alla realizzazione definitiva del mondo moderno. Bruciando la campana con i due anziani dentro il personaggio compie il
suo dominio sul mondo e, osservando i possedimenti ormai totalmente propri e controllati dalle forze del proprio
pensiero, dice: “Quando la mia opera sarà completa, potrò dire: fermati attimo, sei così bello. Per Mefistofele Faust è
soddisfatto, quindi lo uccide e prende la sua anima, portandosela nell’Inferno. Crede di aver vinto la sua scommessa ma
durante il viaggio verso l’Inferno viene bloccato da una schiera angelica condotta dall’angelo di Margherita, che ormai è
in Paradiso, che si appropria dell’anima di Faust, salvandola e portandola con sé in Paradiso (si tratta di un’apparizione
salvifica che ricorda deus ex machina).

LEOPARDI: DIALOGO DI MALAMBRUNO E FARFANELLO. Il finale del Faust è fondamentale perché succede il
contrario di ciò che accade nelle versioni precedenti, in cui Faust è condannato anche da un punto di vista morale. Qui
viene salvato. Questo finale potremmo leggerlo come allegoria del destino dell’uomo moderno, perché se Faust
rappresenta l’umanità moderna, allora questo finale rappresenta quello che è il destino dell’uomo stesso: può esserci un
riscatto per l’uomo. Dobbiamo capire come questo racconto si innesta nel Dialogo di Malambrumo e Farfarello (1824).
Partiamo dal presupposto che il dialogo procede in modo accelerato, costituito da battute molto rapide di poche righe.
Malambrumo è un personaggio di stampo faustiano innanzitutto perché chiede al diavolo il piacere, e perché è un dotto
che si diletta nelle arti magiche. La prima cosa che lui fa è evocare il diavolo Farfanello (vi comando per la virtù dell’arte
mia, che può sgangherare la luna 24). Il nome Malambruno ha per altro a che fare con un aspetto negativo dato che mala
è termine di origine latina che rimanda al male. 25 Malambruno è un uomo di sapere e un mago, che può combinarne di
ogni con i suoi incantesimi; Farfarello invece è il diavolo evocato in una sorta di sortilegio. Quando appare Farfarello, egli
si qualifica come un diavoletto e porge i suoi servigi al mago. Comincia il dialogo serrato: Farfarello fa varie proposte a
Malambruno, grazie alle quali può soddisfare i propri piaceri. Offre la nobiltà, le ricchezze, un impero, una donna, onori e
buona fortuna. Ci prova in tutti i modi ma Malambruno risponde sempre seccamente, in modo negativo e irrisorio. Ci
sono anche elementi comici nelle frasi di Farfarello: Recare alle tue voglie una donna più selvatica di Penelope. Penelope
non è una donna selvaggia, si tratta piuttosto di un’allusione al fatto che questa donna non ha mai dato retta ai
corteggiamenti dei proci. Il gioco di Leopardi è quello di far parlare Farfarello con un codice ironico. Malambruno vuole
soddisfare non un suo bisogno pratico e specifico (come potere, ricchezza, donna) ma astratto: la felicità per un solo
momento di tempo. Ma Farfarello non prova neanche a pensare alla richiesta: non può offrire una simile cosa all’uomo.

24 Il concetto di sgangherare la luna rimanda a un tema che si trova nei versi leopardiani, dove si assiste allo
sgangheramento della luna; il verbo vuol dire far uscire la luna dai suoi gangheri, dalla posizione in cui si trova (dunque
‘spostarla’).
25 È un nome di un gigante che si trova nel Don Chisciotte di De Cervantes: potrebbe essere che l’autore, rileggendo
Leopardi forse ha ricavato questo nome.

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La richiesta di Malambruno, quindi il tema della felicità per un solo e unico momento di tempo, è ciò che Leopardi
preleva dall’opera di Goethe: Faust riteneva impossibile da raggiungere la felicità.
Quest’affermazione contiene la teoria del piacere dello Zibaldone. Facciamo riferimento al pensiero numero 4168-69 di
Leopardi, che risale al soggiorno bolognese del 1826.

[4168] L’uomo tende ad un fine principale e unico. Ogni suo atto volontario o di pensiero o d’opera è indirizzato
a questo fine. Questo fine è dunque il sommo bene. E questo sommo bene che è? Certamente la felicità. Sin qui
tutti i filosofi sono d’accordo, antichi e moderni. Ma che è, ed in cosa consiste, e di che natura è la felicità
conveniente e propria alla natura dell’uomo, desiderata sommamente e supremamente, anzi per verità
unicamente dall’uomo, cercata e procacciata continuamente dall’uomo? Che cosa è per conseguenza il sommo
bene dell’uomo, il fine dell’uomo? Qui non c’è setta, non v’è filosofo, né tra gli antichi né tra i moderni, che non
discordi dagli altri. Alcuni si meravigliano di tanta discordia dei filosofi in questo punto, dopo tanta loro
concordia nel rimanente. Ma che meraviglia? Come trovare, come determinare, quello che non esiste, che non
ha natura né essenza alcuna, ch’è un ente di ragione? Il fine dell’uomo, il suo sommo bene, la sua felicità, non
esistono. Ed egli cerca e cercherà sempre sommamente ed unicamente queste cose, ma le cerca senza sapere di
che natura siano, in che consistano, né mai lo saprà perché queste cose non esistono, benché per natura
dell’uomo siano il necessario fine dell’uomo. Ecco spiegate le famose controversie intorno al sommo bene. Il
sommo bene è voluto, desiderato, cercato di necessità, e ciò sempre e sommamente anzi unicamente dall’uomo;
ma egli nel volerlo, cercarlo, desiderarlo, non ha mai saputo né mai saprà che cosa esso sia; e ciò perché il suo
sommo bene non esiste. Il fine della natura dell’uomo esisterà forse in natura. Ma bisogna distinguerlo dal fine
cercato.

[4169] L’uomo (e così gli animali) non nasce per godere della vita, ma solo per perpetuare la vita, per
comunicarla ad altri che gli succedano, per conservarla. Né esso, né la vita, né oggetto alcuno di questo mondo è
propriamente per lui, ma al contrario esso è tutto per la vita. Spaventevole, ma vera proposizione di tutta la
metafisica. L’esistenza non è per l0esistente, non ha per suo fine l’esistente, né il bene dell’esistente; se anche
egli vi prova alcun bene, ciò è un puro caso: l’esistente è per l’esistenza, tutto per l’esistenza, questa è il suo puro
fine reale. Gli esistenti esistono perché si esista, l’individuo esistente nasce ed esiste perché si continui ad
esistere e l’esistenza si conservi in cui e dopo di lui. Tutto ciò è manifesto dal vedere che il vero e solo fine della
natura è la conservazione delle specie, e non la conservazione né la felicità degli individui, la qual felicità non
esiste neppur punto al mondo, né per gli individui né per la specie. Da ciò necessariamente si deve venire in
ultimo grado alla generale, sommaria, suprema e terribile conclusione detta sopra.

Ammesso che il fine di ogni essere vivente sia la felicità, non c’è filosofo né tra gli antichi, né tra i moderni che non abbia
sostenuto questo. Ma come si fa a determinare ciò che non esiste, che non ha natura alcuna ed è solo prodotto della
nostra ragione? Il sommo bene e la somma felicità per Leopardi non esistono. L’uomo cercherà e desidererà sempre
queste cose, ma mai potrà conoscere la loro natura, perché non esistono. Leopardi è molto categorico nella
consapevolezza della condizione dell’uomo, che cerca per sua natura la felicità, qualcosa che non esiste. Il suo pensiero
contenuto nello Zibaldone risale a due anni dopo che ha scritto l’operetta. Dunque sarebbe anche inutile studiare questa
operetta dato che una risposta ce la da già nello Zibaldone.
C’è un paradosso nel pensiero leopardiano, perché se da un lato è inutile cercare la felicità, dato che non esiste, al tempo
stesso non si può fare a meno di cercarla. Si tratta di un paradosso vincente perché grazie ad esso Leopardi arriva a dire
che l’essere umano esiste solo in quanto carenza e mancanza, non esiste mai in quanto pienezza. Quindi per un
momento di tempo vuol dire che la possibilità di raggiungere la pienezza è limitata a un momento minuscolo.

Leopardi molto spesso non legge integralmente le opere ma solo frammenti di queste, ricavandone ciò che crede di poter
assumere all’interno della sua opera. Non ha mai letto interamente Rousseau e Pascal, per esempio.
Riprendiamo i pensieri 646-650 e altri a seguire, che contengono un riferimento al filosofo Pascal:

Dunque ogni vivente per ciò stesso che vive (e quindi si ama e quindi desidera assolutamente la felicità, vale a
dire una felicità senza limiti e questa impossibile e quindi il desiderio suo non può essere soddisfatto), per ciò
stesso dico che vive non può essere attualmente felice. E la felicità e il piacere è sempre futuro, cioè non
esistendo, né potendo esistere realmente, esiste solo nel desiderio del vivente e nella speranza o aspettativa che
ne segue. Il presente non è mai il nostro fine, il passato e il presente sono i nostri mezzi, il solo avvenire è il
nostro oggetto. Per questo noi non viviamo mai, ma speriamo di vivere.

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In ciò che è attuale non può esserci felicità, quindi Farfarello non può far felice Malambruno in quell’attimo, tuttavia può
esserci una felicità che consiste nel futuro non ancora esistente, e che dà l’illusione di un desiderio che arriverà. Noi non
viviamo nel presente, né nel passato, l’avvenire è il nostro oggetto. La massima pascaliana è che noi non viviamo, ma
speriamo di vivere, siamo cioè sempre proiettati verso una vita che deve venire. Poi Leopardi aggiunge: segue che il più
felice possibile è il più distratto dall’intenzione della mente alla felicità. Per essere veramente felici non bisogna pensare
alla felicità, se invece mi concentro sulla realizzazione della felicità, non la otterrò mai, ma devo distrarmi. Poi aggiunge:
Tali sono gli animali, tale era l’uomo in natura. Questo perché l’uomo in natura era occupato, agiva di continuo, non
aveva dunque tempo per pensare. Occuparsi di qualcosa non serve a raggiungere la felicità, perché essa è irraggiungibile,
ma piuttosto serve a dimenticare il fatto che siamo infelici. Leopardi aggiunge all’occupazione altri quattro strumenti o
mezzi:

Oltre l’attività, altri mezzi meno universali o durevoli, ma pur mezzi, sono gli altri da me notati nella teoria del
piacere, p.e., lo stupore 1. Di carattere e d’indole: gli uomini così fatti sono i più felici: gli uomini incapaci di
questa qualità sono i più infelici: sii grande e sii infelice, detto di D’Alambert, Eleoges de l’Académie Francoise,
dice la natura agli uomini grandi, agli uomini sensibili, passionati ecc.: il senso vivo del desiderio di felicità che li
tormenta: questo desiderio bisogna sentirlo il meno possibile, quantunque innato, e continuo necessariamente.
2. derivato dal languore o torpore ecc. artefatto, come per via dell’oppio, o proveniente da lassezza. 3. derivato
da impressioni straordinarie, dalla meraviglia di qualunque sorte, da avvenimenti, da cose vedute, udite ecc.
insomma da sensazioni straordinarie di qualsivoglia genere. 4. dall’immaginazione, dall’estasi che deriva dalla
fantasia, da un sentimento indefinito, dalla bella natura ecc. e v. la teoria del piacere.

[…] effettivamente l’attività è il mezzo di distrazione il più facile, più sicuro e forte, più durevole, frequente e
generale e realizzabile nella vita.

Il primo è lo stupore, la capacità di meravigliarsi e provare stupore; gli uomini che provano stupore e meraviglia sono i
più felici. Leopardi cita un passaggio di D’Alembert, che poi riprenderà nell’operetta della Natura e dell’Anima: Sii
grande e felice, dice la natura agli uomini grandi. Il senso vivo del desiderio di felicità li tormenta. Questo desiderio
bisogna sentirlo il meno possibile. Il secondo è il torpore, (come il sonno di cui parlava prima), che non deve essere però
tormentato dai sogni. Quando parla dell’oppio dobbiamo pensare che Leopardi forse ha fatto questo tipo di esperienza,
che sarà fondamentale nella generazione decadente (uso di sostanze per togliere il senso del presente); parlerà anche del
vino, strumento che serve ad attenuare il senso del presente. Il terzo è la meraviglia. Il quarto è l’immaginazione, che
provoca però l’opposto: se l’immaginazione intensifica un pensiero proiettato in avanti, alla fine produce la delusione: più
immagino, più so che la mia immaginazione non si realizzerà. Ciò che quindi potrebbe essere causa di piacere, può
diventare causa di infelicità. Pensandoci bene, poi Leopardi sostiene che l’attività è il mezzo di distrazione più frequente,
durevole, forte e realizzabile nella vita. L’attività letteraria non può non avere a che fare con l’immaginazione e le
impressioni di tipo straordinario (anche se non vissute in prima persona). Ricordiamo che tutto ciò che è meraviglioso e
straordinario, a un certo punto la letteratura lo mette ai margini perché lo considera nocivo dal punto di vista del modo in
cui agisce sull’uomo (Don Chisciotte).

Facciamo a tal proposito riferimento all’idea di potenza (idea derivata dalla filosofia di Spinoza). Con essa s’intende
l’energia di cui ogni corpo vivente è dotato, che può trasformarsi in sonno, meraviglia, immaginazione e in ogni altra
passione che conosciamo (amore, odio, gioia, dispiacere). La potenza, data dall’insieme dei rapporti e elementi di cui
siamo fatti, ci rende un insieme vivente. Questa potenza che ci fa vivere è l’amor proprio, in quanto l’amore per sé stessi
spinge a vivere. Infatti secondo Leopardi si arriva alla necessità di togliersi la vita quando questa forza è troppo bassa e
l’amor proprio non ci consente più di tenerci aggrappati all’esistenza. Il massimo del piacere è il momento in cui questa
energia arriva al suo culmine, a un livello tale che abbiamo più la necessità di proiettarci nel futuro, perché siamo felici
già nel presente. Infatti in questo momento Mefistofele sceglie di appropriarsi dell’anima di Faust. In Leopardi avviene
un qualcosa di simile: Farfarello vede che l’uomo è disposto a morire, e sceglie quindi di portarlo con sé. Il concetto di
potenza e passaggio da una forma di potenza a un’altra (a seconda del livello di amor proprio, che può intensificarsi o
perdere intensità: nel secondo caso cado in uno stato di depressione e malinconia, mentre nel primo caso la mia mente è
proiettata verso l’esterno, nel tentativo di produrre immagini che possono garantire felicità. Esempio: se noto un ragazzo

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per strada e mi piace, poi la mia mente viaggerà e mi porterà a desiderare un incontro. Leopardi però direbbe che, una
volta conosciuto questo ragazzo, desidereremo conoscerne un altro).

Guardiamo ora alla seconda parte del dialogo, nella quale i due personaggi hanno un incontro dialogico sul perché l’uomo
non può essere felice. Malambruno rimane stupito della risposta di Farfarello, e chiede: nemmeno per un momento solo?
Forse già in partenza sa di essere sconfitto (infatti sin dall’inizio specifica per un solo momento). Non conta però la
durata di questa felicità, Farfarello dice che conta solo il fatto che sia impossibile. Malambruno allora dice che se non può
farlo felice, vuole almeno essere liberato dall’infelicità. L’uomo però non può raggiunge la felicità, perché l’amore
supremo per sé stesso gli impedisce di essere felice pienamente. È questa la ragione per cui l’uomo non può essere felice:
niente può eguagliare l’amore che l’uomo prova per sé stesso.
Riprendiamo quindi il pensiero numero 646 contenuto Zibaldone (dall’altro pensiero passano quattromila pagine)

[646] La somma della teoria del piacere, e si può dir anche, della natura dell’animo nostro e di qualunque
vivente, è questa. Il vivente si ama senza limite nessuno, e non cessa mai di amarsi. Dunque non cessa mai di
desiderarsi il bene, e si desidera il bene senza limiti. Questo bene in sostanza non ‘è altro che il piacere.
Qualunque piacere grande, reale, ha limiti. Dunque nessun piacere possibile è proporzionato ed uguale alla
misura dell’amore che il vivente porta a sé stesso.

Il vivente (parla in generale, non solo l’uomo) ama sé stesso senza limiti e senza l’amor proprio non può esserci vita.
L’amore senza limiti dunque è il contrario del piacere puntuale, relativo a un attimo. L’uomo vive sempre al limite tra una
condizione estrema (il desiderio senza fine) e il suo esatto opposto: nessun piacere può soddisfare questo desiderio senza
fine, e non è possibile scendere a compromessi. Cosa sono piacere e desiderio di piacere senza limiti che l’uomo desidera?
Questi concetti hanno a che fare con quelli di infinito e indefinito. Infatti continua:

[647] Se non lo può soddisfare, nessun piacere, ancorché reale astrattamente e assolutamente, è reale
relativamente a chi lo prova. Perché questi desidera sempre di più, giacché per essenza si ama, e quindi senza
limiti. Ottenuto anche di più, quel di più similmente non gli basta. Dunque nell’atto del piacere, o nella felicità,
non sentendosi soddisfatto, non sentendo pago il desiderio, il vivente non può provar pieno piacere; dunque non
vero piacere, perché inferiore al desiderio, e perché il desiderio soprabbonda. Ed eccoti la tendenza naturale e
necessaria dell’animale all’indefinito, a un piacere senza limiti. Quindi il piacere che deriva dall’indefinito,
piacere sommo possibile, ma non pieno, perché l’indefinito non si possiede, anzi non è. E bisognerebbe
possederlo pienamente e al tempo stesso indefinitamente, perché l’animale fosse pago, cioè felice, cioè l’amor
proprio suo che non ha limiti, fosse definitivamente soddisfatto.

[648] Dunque la felicità è impossibile a chi la desidera, perché il desiderio, sì come è desiderio assoluto di
felicità, e non di una tal felicità, è senza limiti necessariamente, perché la felicità assoluta è indefinita, e non ha
limiti. Dunque questo desiderio stesso è cagione a sé medesimo di non poter essere soddisfatto.
Ma com’è possibile che il piacere possa essere momentaneo? Se siamo in una condizione di piacere assoluto, questa è
sottoposta a interruzioni: immaginiamo di essere in una stanza al buio e appagati, la nostra mente non ha bisogno di
nient’altro se non di godere di questa situazione di pace e tranquillità data dal buio. Improvvisamente qualcuno apre la
porta della nostra stanza e ci chiama: è chiaro che in quel momento la condizione di piacere s’interrompe. Se la
condizione di piacere è interrotta viene fuori un problema successivo: che ne è della durata dell’esistenza? Essa non è
fatta di singoli elementi di piacere ma di singoli elementi che si collegano tra di loro, quindi è fatta di durata. Farfarello
chiede a Malambruno se riesce a non amare sé stesso, ottenendo la seguente risposta: solo quando sarò morto riuscirò a
non amare me stesso.

Farfarello. Dunque, amandoti necessariamente del maggiore amore che tu sei capace, necessariamente desideri
il più che puoi la felicità propria; e non potendo mai di gran lunga essere soddisfatto di questo tuo desiderio, che
è sommo, resta che tu non possi fuggire per nessun verso di non essere infelice.

In questa battuta Leopardi sintetizza il centro della teoria del piacere. L’amore di sé dunque è fondamentale ed è la causa
dell’impedimento alla felicità: la proposizione è costruita attraverso una serie di negazioni tu non puoi fuggire per nessun
verso di non essere infelice. Malambruno presto si rende conto della verità delle parole di Farfanello:

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Malambruno. E però, non uguagliando il desiderio naturale della felicità che mi sta fisso nell'animo, non sarà
vero diletto. E in quel tempo medesimo che esso è per durare, io non lascerò di essere infelice.

Egli comprende che se ha un desiderio di felicità, irraggiungibile perché immenso quanto l’amor proprio, non potrà mai
raggiungerlo. Farfarello a questo punto propone una via di fuga:

Farfarello. Non lascerai: perché negli uomini e negli altri viventi la privazione della felicità, quantunque senza
dolore e senza sciagura alcuna, e anche nel tempo di quelli che voi chiamate piaceri, importa infelicità espressa.

Malambruno. Tanto che dalla nascita insino alla morte, l'infelicità nostra non può cessare per spazio, non che
altro, di un solo istante.

Si giunge alla conclusione che i pochi piaceri che l’uomo può avere, e che non sono mai assoluti, hanno sempre in sé un
gradiente di infelicità. Dunque Malambruno giunge alla consapevolezza della verità: l’infelicità è la costante assoluta
dell’esistenza, perché dalla nascita alla morte regna l’amor di sé. Nemmeno il sogno è un modo per fuggire dall’infelicità,
lo sarebbe soltanto il sonno senza sogni, cioè la morte, quindi l’unico modo per annullare il tutto è la morte. L’ultima
battuta di Farfarello ribalta l’intero dialogo: è iniziato con Malambruno che è il mago che comanda, mentre alla fine si
arrende e domina Farfarello.

Se nell’opera di Goethe è Faust a portare avanti l’idea che l’uomo non possa essere felice, nel Dialogo invece è il diavolo a
convincere l’uomo. Se Mefistofele crede che l’uomo sia abbastanza debole da essere soddisfatto dai piaceri che gli può
offrire, Farfarello no. Ma ciò che accomuna i due personaggi è il fatto di essere due spiriti della negazione: Farfarello
compare in scena esclamando: “non posso”; mentre Mefistofele, dice di sé di essere lo spirito della negazione, colui che
dice sempre no e invoca sempre il male, poiché nell’opposizione assoluta tra il bene e il male, il bene costruisce e crea
(Dio creatore), mentre Mefistofele e il diavolo hanno sempre il compito di disfare e distruggere ciò che creano sia Dio, che
l’uomo, perché Faust è colui che ricrea a partire da ciò che c’è nella natura.