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Ines Adornetti - Il linguaggio: origine ed evoluzione

CAPITOLO UNO: IN ORIGINE ERA IL SUONO

Secondo la tradizione di pensiero cartesiana, ciò che distingue gli esseri umani dal resto del mondo animale è il
linguaggio in quanto facoltà di parola; tale posizione implica l’idea che comunicazione umana e verbalizzazione
umana coincidano, identificando lo studio dellinguaggio con quello della produzione-comprensione verbale
(insieme dei meccanismi anatomici e neurali che permettono all’Homo sapiens di generare e interpretare
espressioni linguistiche).

Premesso che il linguaggio è il prodotto congiunto sia dei processi alla base della produzione espressiva sia
della sua interpretazione, bisogna innanzitutto analizzare i meccanismi responsabili della produzione sonora. Alla
base di tale indagine vi è l’idea che i precursori del linguaggio umano vadano rintracciati nelle vocalizzazioni di
animali non umani anche molto distanti dall’Homo sapiens nella scala evolutiva.

Il canto degli uccelli

Già dall’antichità, come testimoniano gli scritti di Aristotele, era nota la differenza fra l’emissione di voci
articolate e non articolate nel mondo animale, cosi come il fatto che uccelli cresciuti lontani dai genitori
producevano canti simili a quelli a cui sono stati esposti nell’ambiente di allevamento e non a quelli propri della
loro specie di appartenenza. Anche Darwin, svariati secoli più tardi, ne “L’origine dell’uomo e la selezione
sessuale”, sottolineerà le analogie fra linguaggio vocale e canto degli uccelli.

Tali intuizioni verranno confermate dalle scoperte neuroscientifiche, genetiche e biolinguistiche, le quali
evidenzieranno parallelismi fra il modo in cui i bambini apprendono il parlare e gli uccello canori imparano
a cinguettare, infatti tale apprendimento risulta essere il prodotto dell’iterazione fra predisposizioni biologiche
innate ed esperienze specifiche. Così come gli uccelli, se esposti simultaneamente al canto tipico della propria
specie e ad uno di un'altra specie, tendono a imitare quello dei conspecifici pur potendo riprodurre altrettanto
bene l’altro, allo stesso modo i bambini tendono ad imitare la lingua dei genitori qualora vengano esposti
contemporaneamente ad un’altra lingua oltre a questa.

Nel caso degli uccelli cresciuti in allevamento, pur non essendo esposti al canto di conspecifici, si possono notare
componenti tipiche nel canto della specie di appartenenza; se invece tale canto isolato viene introdotto nella
specie originaria, gli esemplari, pur imitandolo, tendono a correggerne le anomalie e tale “canto migliorato”
viene trasmesso alle generazioni successive, le quali tendono a riportarlo progressivamente a quello originario.
Tale processo secondo alcuni studiosi è assimilabile alla creolizzazione delle lingue umane, fenomeno che si
verifica quando due o più comunità parlanti lingue diverse entrano in contatto fra loro e inventano ex-novo un
codice di comunicazione composto da un lessico mutuato in maniera mista dalle lingue di partenza e privo di una
struttura grammaticale, dando origine al pidgin. Se un pidgin viene appreso dai bambini di una comunità come
lingua nativa, tenderà ad evolversi nel corso di pochissime generazioni nel creolo, un codice comunicativo più
complicato da punto di vista sintattico-lessicale che col tempo assumerà i connotati di una lingua vera e propria.
Dunque il punto in comune è costituito dal fatto che in entrambi i casi viene probabilmente fatto ricorso a un
“bioprogramma” contenente le caratteristiche essenziali del proprio sistema comunicativo per far evolvere
tali “basi di linguaggio” in “linguaggio corretto” vero e proprio.

Un altro punto in comune è costituito dal periodo cosiddetto “critico” all’interno del quale avviene
l’apprendimento sonoro-uditivo: infatti cosi come per gli uomini dopo la prima adolescenza risulta difficile
apprendere i suoni di una nuova lingua con la competenza e l’accento propri di un madrelingua, avviene
pressochè lo stesso fenomeno per gli uccelli, i quali dopo un certo periodo dopo la nascita non riescono più ad
assimilare nuove melodie. Questo fa dunque desumere che la capacità di apprendimento acustico
sembradecrescere con l’età.

Ulteriori analogie possono essere osservate nel campo della sintassi, termine con cui intendiamo l’insieme delle
regole che permettono di organizzare gerarchicamente gli elementi espressivi (suoni o parole) al fine di produrre
una sequenza ordinata (stringa): pare infatti che anche gli uccelli abbiano la capacità di combinare e discriminare
le eventuali sequenze uditive sulla base di regole grammaticali, dimostrando talvolta che strutture sintattiche
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particolarmente complesse. È stato possibile in alcune specie identificare delle sillabe, identificate come suoni
specifici preceduti e seguiti da una pausa, le quali possono essere ordinate in sequenze (i cosiddetti “motivi”), a
loro volta ordinabili per formare i “periodi” di un canto. Tali regole sono paragonabili ai principi grammaticali
delle lingue umane e il loro utilizzo coinvolge anche la dimensione della comprensione.

In un articolo degli studiosi Abe e Watanabe viene dimostrata la capacità di tali uccelli di discriminare
sequenze di sillabe sulla base di principi sintattici; infatti all’ascolto di stringhe a-grammaticali gli uccelli hanno
smesso di muoversi e di cantare mentre ascoltano quelle corrette il loro comportamento restava normale. Tale
esperimento ha dunque rivelato la capacità in alcune specie canore di analizzare il contenuto sintattico
dell’informazione uditiva, scardinando l’idea che tale capacità potesse essere esclusivamente umana.

Omologie, analogie, similarità genetiche

Queste similitudini comportamentali sono state spiegate in riferimento ad omologie (sono uguali) e analogie
(sono simili) fra cervello dei volatili e quello umano in alcune aree neurali responsabili dell’apprendimento
uditivo-vocale e senso-motorio; tali corrispondenze comportamentali si configurano quindi come il risultato del
funzionamento di due sistemi neuroanatomici simili.

Nel caso delle omologie, queste sono il risultato di un’eredità di un antenato comune fra uccelli e mammiferi;
nel caso delle analogie invece le similarità funzionali si sono evolute indipendentemente nelle due categorie
(dette taxa). In quest’ultimo caso, le affinità tra l’apprendimento uditivo-vocale e lo sviluppo sensomotorio negli
umani e nei volatili sono il prodotto di una evoluzione dettata dalle stesse pressioni selettive legate alla
risoluzione di analoghi problemi adattativi.

Nell’ambito prettamente genetico, si è scoperto nel DNA dei volatili è presente il gene FOXP2 che negli esseri
umani è implicato nel controllo oro-motorio. Tale gene appartiene alla famiglia delle proteine forkhead (FOX)
che codificano i fattori di trascrizione coinvolti nel programma genetico delle cellule, cioè accendono e spengono
gli altri geni regolatori. La mutazione di FOXP2 negli umani è legata a un disturbo della parola chiamato
disprassia verbale i cui soggetti affetti hanno problemi nell’articolazione verbale e disturbi nel dominio della
grammatica; gioca quindi un ruolo fondamentale nello sviluppo del linguaggio articolato.

Varianti di questo gene sono presenti nel corredo genetico di animali filogeneticamente imparentati con gli esseri
umani, come oranghi e scimpanzè, ma anche di animali molto distanti come topi e uccelli. Il funzionamento
scorretto del gene negli uccelli è associato a un ridotto apprendimento vocale, dimostrando di contribuire
all’apprendimento canoro degli stessi.

Secondo Schaff e Petri FOXP2 farebbe parte di un kit di strumenti molecolari he ha effetti su aree cerebrali e
cruciali per lo sviluppo sensomotorio sia negli umani che negli uccelli. Dunque il gene costituisce un esempio di
“omologia profonda”, un tratto condiviso da taxa filogeneticamente distanti tra loro, implicato sia
nell’apprendimento del linguaggio articolato umano sia nell’apprendimento del canto degli uccelli.

La comunicazione vocale nei primati non umani

Le similitudini fra linguaggio umano e comunicazione animale si fanno sempre più stringenti quando prendiamo
in analisi i primati, che secondo alcuni studiosi possono essere considerati precursori ancestrali della
verbalizzazione umana grazie ai loro sistemi comunicativi vocali particolarmente complessi.

La comunicazione vocale dei mammiferi è caratterizzata da unità funzionali discrete, i cosiddetti “richiami” o
“segnali”, e in riferimento ad essi è possibile determinare la complessità vocale del sistema comunicativo in base
al numero di vocalizzazioni discrete presenti nel repertorio di una certa specie.

Il sistema comunicativo si definisce come complesso se è caratterizzato da un ampio


numero di elementi funzionalmente e strutturalmente (cioè acusticamente) distinti
in grado di comunicare una gran quantità di informazioni.

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La diretta proporzionalità tra la complessità del sistema sociale di una data specie e la complessità della
comunicazione vocale è sicuramente uno dei risultati più importanti emersi dallo studio comparativo dei sistemi
di comunicazione dei primati. Nei sistemi sociali complessi gli individui interagiscono frequentemente e in contesti
differenti con numerosi altri individui del gruppo: le femmine di babbuino ad esempio passano tutta la loro vita
nel gruppo di nascita, in cui mantengono stretti rapporti con le parenti materne, specie mediante il grooming, lo
spulciamento reciproco, che rafforza il legame sociale fra animali. Al contrario, nei sistemi sociali semplici, gli
animali interagiscono raramente fra loro e quando lo fanno mettono in atto relazioni legate ad un unico contesto
e un unico individuo.

Secondo l’ipotesi della complessità sociale per la comunicazione quindi l’organizzazione di gruppi sociali
complessi richiede la presenza di sistemi comunicativi complessi, quindi determina la pressione selettiva a
favore dello sviluppo della comunicazione stessa, come proposto già da Darwin nel 1872.

Segni funzionalmente referenziali

Il caso di comunicazione vocale nelle scimmie più famoso è stato studiato dall’etologo Struhausaker e
riguarda la capacità dei cercopitechi verdi di usare richiami d’allarme acusticamente distinti per segnalare la
presenza di predatori diversi, il che presuppone che ad ogni richiamo sia associata una specifica risposta
appropriata da parte sia dell’emittente che degli eventuali riceventi.

Anche la primatologa Gouzules ha condotto ricerche sulle vocalizzazioni delle scimmie reso, evidenziando 5
tipi di segnali diversi che tali scimmie emettono in situazioni agonistiche, ognuna legata ad una particolare
informazione:

- Noisyscreams, quando l’aggressore ha un rango superiore rispetto all’emittente oppure quando è


implicato il contatto fisico
- Archedscreams, quando l’aggressore è di rango inferiore all’emittente oppure in situazioni che non
implicano contatto fisico
- Tonalscreams e Pulsedscreams, quando gli aggressori e l’emittente sono imparentati
- Undulatedscreams, esclusivamente quando l’oppositore è di rango superiore e non vi è contatto fisico
nello scontro

Tali vocalizzazioni funzionano quindi da indicatori, ma sono anche funzionali al reclutamento di alleati, per cui
gli individui del gruppo utilizzano l’informazione acustica per valutare la natura dell’incontro agonistico e la
eventuale necessità di intervenire.

Una possibile obiezione all’idea che tali espressioni abbiano un carattere referenziale (cioè un significato) è che il
comportamento delle scimmie possa dipendere più dallo stimolo visivoche dal contenuto delle vocalizzazioni;
per escludere tale possibilità si sono sottoposti gli animali all’ascolto dei segnali senza corrispondente scena visiva
e si è visto come i loro comportamenti erano gli stessi del primo esperimento, confermando quindi l’idea della
referenzialità delle vocalizzazioni.

Anche i primatologi Crockford e Boesh hanno attestato l’uso di richiami contesto-specifici anche negli
scimpanzè, distinti in contesti di caccia e in presenza di serpenti. È inoltre emersa la capacità di combinare
queste vocalizzazioni con altri tipi di richiami e accompagnarle battendo le mani e i piedi contro i tronchi
d’albero aumentando la specificità del segnale.

Analogamente, Slocombe e Zuberbuler hanno documentato all’interno di una comunità di scimpanzè in


cattività la capacità di produrre suoni distinti in risposta a due differenti tipi di cibo, il pane e le mele,
dimostrando anche di rispondere diversamente ai due tipi di richiamo andando a cercare il cibo segnalato nei
posti dove veniva solitamente riposto.

Tali fenomeni si pensa potrebbero costituire i precursori delle parole del linguaggio umano in quanto
condividono con le parole il carattere referenziale, cioè la capacità di riferirsi a oggetti ed eventi del mondo
esterno. Infatti è stata definita “comunicazione funzionalmente referenziale” la capacità degli animali non

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umani di produrre segnali in grado di comunicare ad altri individui “messaggi” relativi a oggetti o eventi della
realtà esterna; se accogliamo questa tesi si possono considerare referenziali i segnali prodotti in risposta a
determinati stimoli contestuali in grado di causare nei riceventi, che non hanno ancora avuto esperienza diretta di
tale stimolo, comportamenti adattativi; ne consegue che:

l’uso dei segnali vocali per ottenere informazioni sugli eventi esterni si sia
probabilmente evoluto prima che gli esseri umani si separassero dai primati.

Limiti del riferimento funzionale animale

Sebbene a livello superficiale i comportamenti delle scimmie e degli umani possano sembrare simili, non è invece
chiaro se i meccanismi psicologici alla base della comunicazione nei due casi siano gli stessi. Si ritiene infatti che
l’uso delle vocalizzazioni da parte degli animali sarebbe finalizzato non tanto a comunicare messaggi specifici
quanto a suscitare una risposta emotiva nei riceventi alterando i loro comportamenti, dunque l’espressione
“comunicazione funzionalmente referenziale” denota il modo in cui vengono usati i segnali e vengono
generate le rispostecomportamentali, ma non i meccanismi cognitivi coinvolti.

Un’altra importante differenza la troviamo nelle flessibilità delle associazioni segnale-significato, infatti a
differenza degli umani che sono in grado si produrre sempre corrispondenze nuove tra segnali (parole) e referenti
esterni (significati), i primati hanno un repertorio vocale estremamente povero, poiché le loro vocalizzazioni
sono per la maggior parte determinate geneticamente e non apprese e aperte all’esperienza come per gli umani.

Ogni specie possiede un repertorio relativamente limitato di segnali le cui caratteristiche acustiche sono fissate in
prevalenza alla nascita e mostrano minime modificazioni durante lo sviluppo, infatti alcune specie fin dai primi
giorni di vita possono produrre vocalizzazioni acusticamente simili a quelle degli adulti, così come se i piccoli
vengono allevati da madri di specie diverse non riescono ad apprendere i richiami del nuovo gruppo e conservano
i richiami della specie di appartenenza, pur non avendone mai ascoltati.

Deacon tuttavia ha evidenziato un ulteriore problema costituito dall’errato uso del termine “riferimento”, in
quanto nell’ambito animale è un’associazione meccanicamente determinata tra l’espressione proferita e
l’entità designata, cosa che non può dirsi nel linguaggio umano. Infatti in questo caso ad attribuire alle parole la
capacità di riferirsi alle cose è il processo interpretativo che avviene nella mente degli individui, ma soprattutto la
parole possono riferirsi al mondo in virtù del loro carattere sistemico, grazie a una relazione referenziale tra le
parole (cioè le parole possono sistematicamente indicare altre parole). Quindi secondo Deacon,

le parole sono entità combinatorie il cui potere referenziale dipende dalla posizione
occupata in un sistema organizzato di altri simboli, che in questo caso è la lingua
parlata in una determinata comunità,

e ne consegue che solo gli umani sono capaci di riferimento in senso proprio. Così, la posizione dello studioso si
configura come discontinuista e pone come il riferimento simbolico come barriera invalicabile per gli animali
non umani.

Messaggi olistici e manipolativi

Sono state comunque proposte altre teorie in linea con una visione più continuista e gradualista, in merito a cui
citiamo quella della linguista Wray, la quale sostiene che i segnali d’allarme delle scimmie non debbano essere
paragonati alle parole vere e proprie ma debbano essere considerati messaggi completi di per sè, quindi dotati
di una natura “olistica”.Infatti sono privi di una struttura interna e non vengono mai combinati con altri
segnali per creare messaggi a più componenti (a differenza delle parole, che hanno spiccatamente carattere
analitico quindi possono essere combinate secondo una grammatica). Secondo Wray le vocalizzazioni animali
dovrebbero essere considerate “manipolative” anziché referenziali: non tentano di informare i compagni ma di
influenzare il loro comportamento. Partendo da queste considerazioni si può ipotizzare che dai segnali delle
scimmie si sia sviluppato un protolinguaggio olistico, cioè un sistema di comunicazione costituito da
messaggi e non da parole, che ha in qualche modo costituito il precursore del linguaggio moderno.
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BOX NECESSARIO SULLA SUCCESSIONE CRONOLOGICA DEGLI OMININI

Homo erectus (†)


Homo ergaster (†)
Homo floresiensis (†)
Homo habilis (†)
Homo heidelbergensis (†)
Homo neanderthalensis (†)
Homo sapiens

N.B. Perché OMININI e non OMINIDI?

Famiglia: Hominidae (comprende l’uomo moderno, i gorilla e gli oranghi)


Sottofamiglia: Homininae (comprende gorilla, scimpanzè e umani)
Tribù: Hominini (umani e progenitori estinti. Quelli che nella vecchia classificazione erano Hominidae)

Il termine hominini si riferisce dunque al nome della tribù comparsa nella nuova classificazione.
Ma continuare chiamarli “ominidi” è dunque sbagliato? No, perchè tutti gli ominini sono comunque anche
ominidi.

Comunicazione verbale negli uomini

Il principale ostacolo per la prospettiva continuista e gradualista su impronta darwiniana è costituita dal fatto che
il divario fra noi e gli altri primati ci appare molto ampio, specie dato che tutti gli ominini antecedenti all’homo
Sapiens sono estinti.

Mithen, unendo dati paleoantropologici e primatologici, sostiene che la comunicazione degli ominini abbia
ereditato dalla comunicazione delle scimmie il carattere olistico e la natura manipolativa in primis, ma anche la
multimodalità e musicalità. La multimodalità deriva dalle grandi scimmie e consiste nell’utilizzo
contemporaneo a fini comunicativi di suoni e gesti, mentre la musicalità deriva da specie di scimmia comune e
gibbone, le quali producono vocalizzazioni contraddistinte da ritmo e melodia e includono sincronizzazione
e turnazione. Mentre nei primati non umani queste caratteristiche sono presenti singolarmente, nei primi ominini
si integrano fra loro in un sistema di comunicazione definibile con l’acronimo HMMMM (Holistic,
MultiModale, Manipolativo, Musicale).

Di base pero la prima differenza fra scimmie e ominini sta nell’ampliamento del repertorio delle vocalizzazioni,
favorito da alcune differenze anatomichee dall’acquisizione della postura eretta. La diminuzione delle
dimensioni di denti e mascelle, con conseguente aumento della mobilità di lingua e labbra, ha creato la possibilità
di produrre “gesti articolatori” grazie a specifiche posizioni dei muscoli di lingua, labbra, mascelle e palato molle.
Ogni produzione sonora implica una particolare configurazione del tratto vocale e il controllo del flusso
dell’aria in modo da produrre uno specifico pattern sonoro. Ogni parola è quindi caratterizzata da un
gesto articolatorio.

Secondo lo psicologo Studdert-Kennedy i gesti articolatori sono le unità fondamentali sia del linguaggio
articolato moderno quanto delle vocalizzazioni di scimmie e ominini. Quindi non essendo
specificatamentelinguistici, costituiscono un elemento di continuità fra umani e moderni e ominini estinti.
Infatti i movimenti articolatori, in quanto azioni motorie, derivano da movimenti oro-facciali basilari dei
mammiferi come succhiare, leccare, ingoiare e masticare. Nel corso dell’evoluzione umana si sarebbe
evidenziata la differenziazione neuroanatomica della lingua che ne avrebbe poi permesso un utilizzo più
preciso e mirato che avrebbe dato origine poi a suoni specifici. Tale differenziazione parrebbe collocarsi fra Homo
ergaster e Homo erectus, determinata dalla necessità di far fronte a esigenze comunicative più complesse
dovute a un aumento delle dimensioni dei gruppi e quindi della complessità delle relazioni sociali fra individui.

Mithen ritiene quindi possibile ipotizzare che la diminuzione delle dimensioni di denti e mascelle nelle prime
specie Homo abbia reso possibile una gamma differente e più diversificata di gesti articolatori rispetto a quella
usata dagli Australopitechus. Le vocalizzazioni olistiche degli Homo dovevano essere costituite da sillabe
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derivanti da peculiari movimenti della bocca, sillabe che nel tempo avrebbero potuto essere riconosciute come
unità discrete potenzialmente utilizzabili in un linguaggio composizionale.

BOX L’EVOLUZIONE UMANA

Per ominini intendiamo tutte le specie appartenute alla stessa traiettoria evolutiva avvenuta dopo la separazione dalle
grandi scimmie, tra i 7 e i 6 milioni di anni fa nel continente africano. La prima grande novità derivata da tale scissione è il
bipedismo, cioè il progressivo sviluppo di strutture anatomiche funzionali alla locomozione su due piedi. Ad oggi siamo a
conoscenza di circa 20 specie di ominini estinti, raggruppati in 7 generi; il terzo, quello degli australopiteci, he hanno popolato
l’Africa fra 4,2 e 2,5 milioni di anni fa, è quello da cui si sono probabilmente sviluppate le specie del genere dei parantropi e i
primi esemplari del genere Homo, che fanno la loro comparsa circa 2,5 milioni di anni fa e si distinguono per le dimensioni del
cervello.

A partire da 1,8 milioni di anni fa gli ominini iniziano a migrare dall’Africa; l’Homo heidelbergensis, vissuto fra 700mila e
300mila anni fa sarà l’ultimo antenato in comune fra tra l’H. neanderthalensis (unico a essersi originato in Europa) e H. sapiens
(nato in Africa e diffuso nel resto del mondo a partire da 60mila anni fa).

L’evoluzione del tratto vocale

L’anatomia del tratto vocale sopralaringeo (TVS) umano è caratterizzata negli esseri umani adulti dalla laringe in
posizione più bassa rispetto alle grandi scimmie e da una cavità orale più allungata (nei primati la laringe
sbocca nella cavità orale mentre negli umani termina nella faringe). Nello specifico, il TVS umano è diviso in una
porzione orizzontale con lingua e orofaringe e una verticale con gola, faringe posizionata dietro la lingua
e sopra la laringe. Negli esseri umani queste due porzioni formano un angolo retto e hanno circa la stessa
lunghezza, motivo per cui il TVS umano è definito “a due canne”. Negli scimpanzè invece la laringe non è
sovrastata dalla faringe e quindi è più in alto nella gola, in corrispondenza o prossimità della mandibola, e la
lingua è lunga e limitata alla cavità orale, quindi il TVS, definito in questo caso “a canna unica” è
sproporzionato nella forma. Tale conformazione permette di respirare e ingoiare alle scimmie e ai neonati umani
di succhiare il latte con la bocca e respirare col naso contemporaneamente. Nell’ontogenesi (sviluppo biologico
da embrione a adulto, figlio dell’iterazione fra genoma e ambiente) umana, dai 3 mesi di vita avviene la discesa
della laringe verso la gola fino a raggiungere verso i 3-4 anni di età la posizione definitiva.

Gli studi condotti da Liebermann, Klatt e Wilson , hanno messo in luce il significato “acustico” della
configurazione del TVS umano, mostrano che la posizione ribassata della laringe permette di ampliare
enormemente il repertorio fonetico; infatti essa è il principale organo della fonazione in quanto le vibrazioni
necessarie per creare i suoni sono prodotte con le corde vocali, i due lembi che circondano la laringe. I suoni
vocalici dipendono dal modo in cui è filtrata l’aria attraverso il tratto vocale e in tale filtraggio vengono prodotte
alte frequenze sotto forma di armoniche: la loro ampiezza è maggiore di altre e le frequenze di picco sono dette
formanti. Modificando la forma del tratto vocale, cambiando ad esempio la posizione di lingua e labbra, è possibile
alterare le formanti per produrre la gamma completa di suoni vocalici.

Le proprietà acustiche delle vocali /a/, /i/ e /u/, vocali dette cardinali, sono date dalla diversa forma e
lunghezza assunte dal TVS durante la loro articolazione e i primati non umani non riescono a produrre le ultime
due. Tali vocali sono distintive e cruciali per una efficiente produzione del linguaggio articolato.

Ricostruire la posizione della laringe

L’apparato fonatorio è costituito prevalentemente da tessuto molle che non lascia tracce nel record fossile, tuttavia
alcuni elementi dello scheletro degli ominini indirettamente consentono di ricostruire la conformazione del loro
TVS. Secondo l’antropologa Aiello la conformazione del TVS umano è stata una conseguenza degli
adattamenti anatomici necessari per l’andatura bipede. Cruciale è in questo senso la posizione del foro
occipitale, l’apertura alla base del cranio attraverso la colonna vertebrale si innesta nella testa, che nei quadrupedi
è nella parte posteriore mentre negli esseri umani moderni è collocata in basso e in avanti, col risultato di una
mandibola più piccola, un allungamento del TVS e l’abbassamento della laringe. Tali cambiamenti sono stati
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graduali man mano che si affinava il bipedismo e si sono conclusi con l’Homo ergaster e l’Homo erectus: per
quanto questi non fossero in possesso di un apparato fonatorio simile a quello degli umani moderni è probabile
che l’acquisizione della posizione eretta abbia avuto l’accidentale effetto di allungare il TVS e accrescere la
varietà dei suoni che essi erano in grado di produrre. In tale scenario l’abbassamento della laringe sarebbe un
pennacchio, cioè una conseguenza biomeccanica e fisiologica di un’alterazione strutturale. Tale alterazione
ha favorito la vocalità, pur essendosi prodotta in maniera indipendente dalla vocalizzazione.

Gli studi di Lieberman e Crelin hanno inoltre messo in evidenza che il basicranio di un H. neanderthaensis
era in base alla sua curvatura più simile a quello di uno scimpanzè o di un neonato umano che di un umano
adulto, sostenendo che la laringe doveva trovarsi in posizione analoga a quella di una scimmia e che la cavità orale
doveva essere più profonda rispetto agli umani moderni, mentre la faringe più corta. Su tali basi si è convenuto
pensare che le capacità fonetiche del neanderthelensis dovessero essere molto limitate in quanto incapace di
produrre le frequenze formanti delle vocali. Ne consegue che mentre molti aspetti della capacità linguistica hanno
un passato evolutivo, la capacità di produrre linguaggio articolato non è apparsa prima di 50mila anni fa.

In realtà al giorno d’oggi l’idea di paragonare il TVS dei neanderthalensis a quello dei moderni scimpanzè è stata
accantonata in seguito all’analisi dell’osso ioide, fissato alla cartilagine della laringe, di un esemplare di
Neanderthal rinvenuto a Kebara. Esso fornisce indizio diretto della posizione della laringe nella gola e appare
sostanzialmente identico nella forma a quello di un umano moderno, portando a ipotizzare che anche la
laringe fosse in basso nella gola e quindi potesse avere un apparato vocale simile a quello dell’H. sapiens.

Due ulteriori reperti di H. heidelbergensis, ultimo antenato comune tra neanderthelensis e sapiens, hanno
dimostrato che anche qui l’osso ioide da evidenza di confermare la tesi appena citata. Inoltre costituisce un
indizio per spiegare un altro potenziale elemento cruciale dell’evoluzione del TVS, cioè la perdita delle sacche
d’aria della laringe, ampie cavità gonfiabili situate al di sopra delle corde vocali presenti in tutte le grandi
scimmie ma assenti negli esseri umani moderni. Il suono da esse prodotto influenza quello generato dalle
corde vocali dando loro maggiore risonanza ed energia, effetti molto vantaggiosi per le grandi scimmie, ma
controproducenti per gli effetti percettivi dei gesti articolatori nel momento in cui sono agganciate al
tratto vocale e usate per la comunicazione complessa. È dunque credibile pensare che la perdita delle sacche
d’aria sia legata nella filogenesi umana all’evoluzione della comunicazione vocale complessa.

In realtà la presenza o assenza delle sacche è determinata dalla presenza o assenza di una piccola estensione
dell’osso ioide detta bolla ioide, in cui si estendono le sacche d’aria delle grandi scimmie. La bolla ioide è
assente in esemplari di H.heidelbergensis e neanderthealensis, quindi è avvenuta anch’essa in un periodo
intermedio dell’evoluzione del genere homo, sostenendo l’ipotesi che specie diverse dal sapiens potessero aver
sviluppato una forma di linguaggio articolato.

Fitch e Reby invece hanno evidenziato che l’abbassamento della laringe non è una caratteristica propria
del Sapiens ma è presente temporaneamente anche in altri mammiferi ed è correlata alla produzioni di
vocalizzazioni che permettono all’animale farsi percepire come più grande. Infatti la laringe bassa ha l’effetto
di allungare il tratto vocale rendendo più profondi i suoni emessi, cosa possibile anche in un TVS diverso
da quello umano. In realtà ciò non mette in discussione l’importanza dell’abbassamento della laringe per lo
sviluppo della parola, ma suggerisce che sia avvenuto potenzialmente molto prima della comparsa degli
ominini e solo dopo abbia interessato la linea di discendenza umana. Quindi potrebbe non essere stato un
adattamento per il linguaggio articolato ma essere stato frutto dell’intenzione di farci sembrare più grandi
e spaventare eventuali predatori.

In uno scenario del genere l’utilizzo del TVS a fini comunicativi è detto exaptation: è un adattamento nato per
una funzione ma poi affinato per un’altra.

Ricostruire le basi neurali del controllo vocale

La produzione del linguaggio articolato comporta un controllo motorio sofisticato sugli articolatori vocali: i
movimenti fini e rapidi del corpo della lingua che modificano le frequenze delle formanti devono essere
strettamente sincronizzati con quegli articolatori. Per ricostruire le strutture neurali alla base del controllo

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motorio vocale si sono prese in analisi le aree corticali legate al linguaggio utilizzando i calchi endocranici dei
nostri antenati, in base alle cui dimensioni si possono determinare eventuali proporzioni delle varie parti della
corteccia cerebrale. Grazie a questa metodologia gli studiosi sono stati indotti a credere che le aree neuronali
legate alla produzione (area di Broca) e comprensione (area di Wernike) del linguaggio siano state già
presenti nell’H. habilis e persino Australopitechus, ma purtroppo non è stata considerata abbastanza
affidabile.

Richard Kay e il suo team invece hanno condotto analisi sulle dimensioni del canale dell’ipoglosso
ipotizzando che potesse dare indicazioni sul controllo motorio della lingua, in quanto attraversato dai nervi che
la collegano al cervello. Negli esseri umani tale canale è più largo rispetto a quello dei primati evidenziando che
un maggior controllo richiede maggior innervazione. Le dimensioni di questa struttura negli
Australopitechusafricanus e negli H. habilis sono simili a quelli delle scimmie mentre negli neanderthalensis è
equivalente a quella degli umani moderni, quindi potrebbero aver avuto capacità vocali simili ai sapiens.

Tuttavia studi successivi hanno evidenziato che le dimensioni del canale dell’ipoglosso negli esseri umani
moderni sono altamente variabili e tendono a sovrapporsi con quelle riscontrate nelle grandi scimmie,
dimostrando che quindi questo non è un parametro valido su cui basare le possibili abilità linguistiche degli
ominini estinti.

Un indicatore fossile più affidabile potrebbe essere il canale delle vertebre toraciche attraverso il quale passano i
nervi che controllano il diaframma e quindi la respirazione, il cui aumento delle dimensioni si è ipotizzato
possa costituire un adattamento per il controllo fine delle vocalizzazioni e della parola.

MacLarnon e Hewitt hanno evidenziato dimensioni simili fra scimmie e H. ergaster, ma altrettanto simili
fra neanderthalensis e sapiens, rendendo quindi plausibile tale ipotesi.

CONCLUSIONI

Le evidenze etologiche e paleontologiche hanno mostrato che la produzione vocale richiede varie abilità,
condivise in vario grado anche con animali non umani, ciascuna delle quali è frutto di una storia evolutiva
differenziale, non avvenuta in modo progressivo e uniforme ma spesso frastagliato. Per quanto riguarda gli
uccelli, la capacità di imitazione è commutabile a un meccanismo in comune nei 2 taxa, elemento non
condiviso dalle scimmie, in quanto i loro richiami sono invece geneticamente determinati. Nonostante ciò,
sanno utilizzare le vocalizzazioni a fini comunicativi e/o manipolativi, pur non essendo in possesso di strutture
anatomiche e neurali per produzioni più complesse. Tali strutture si sono affinate nel corso della filogenesi umana,
non sempre essendo state selezionate inizialmente per finalità comunicative. Il processo di ottimizzazione
dell’apparato vocale pare essere iniziato probabilmente nell’Homo heidelbergensis, circa 600mila anni fa,
suggerendo un’origine relativamente tarda della parola, dato che il genere Homo fa la sua comparsa attorno ai
2,5 mln di anni fa. Risulta tuttavia difficile credere che ominini come l’ergaster o l’erectus, che costruivano
strumenti in pietra e avevano un’organizzazione sociale molto più articolata rispetto alle scimmie, non avessero
sviluppato sistemi comunicativi complessi. Ciò induce a pensare che probabilmente l’emergere della parola sia
stato preceduto da forme di comunicazione basate su modalità espressive diverse dal suono.

CAPITOLO DUE: IN ORIGINE ERA IL GESTO

Oltre alla parola, anche i gesti, azioni visibili che i riceventi percepiscono come governati da un intento
comunicativo chiaro e riconosciuto, giocano un ruolo fondamentale nei processi interazionali umani.

- I bambini cominciano a comunicare in maniera intenzionale dal 9 mesi di vita prevalentemente attraverso i
gesti, sia di natura deittica (dare, mostrare, richiedere, indicare) sia rappresentativa (mimare).
- Dai 15-17 mesi gesti e parole vengono utilizzati indifferentemente in modo simbolico (equipotenziali) e il
numero di gesti e di combinazioni gesto-parola predice il numero di parole prodotte a 20 mesi.
- Dai 23 mesi avviene il passaggio dalla comunicazione simbolico-rappresentazionale gestuale a quella
vocale: le parole prendono il sopravvento sui gesti.

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- La modalità gestuale però non scompare: resta parte integrante della comunicazione fra adulti e concorre
col linguaggio parlato.

In particolare, è stato osservato che l’uso parallelo di gesti e parole permette di acquisire informazioni
semantiche complementari o aggiuntive non presenti nel solo formato verbale. Quindi data la sincronia fra i
due sistemi il linguaggio si può definire come un sistema integrato gesto-parola.

Secondo alcuni studiosi le osservazioni sulla commistione di gesto e parola nell’ontogenesi (sviluppo
biologico dall’embrione all’adulto, frutto del genoma e l’ambiente)costituiscono un indizio utile per ricostruire la
filogenesi (ramificazione delle linee di discendenza evolutive della specie) della comunicazione umana, ma vi sono
in realtà due prospettive teoriche:

- Gesture-first, per cui l’evoluzione del linguaggio sarebbe stata caratterizzata da una prima fase in cui i nostri
antenati comunicavano utilizzando prevalentemente il medium visivo: secondo questa visione la gestualità
avrebbe costituito il precursore del linguaggio parlato.
- L’altra prospettiva invece pone gestualità e parlato in evoluzione sincronica considerandoli
“equiprimordiali”.

Le teorie gesture-first

L’idea che il linguaggio abbia avuto origine gestuale viene fatta risalire alle speculazioni del filosofo francese del
18esimo secolo Condillac, il quale per evitare di entrare in contrasto con la Chiesa, la espresse mediante una
fiaba: immagina due bambini, maschio e femmina, che senza aver ancora imparato a parlare vagano nel deserto
dopo il diluvio universale e descrive l’invenzione del linguaggio attraverso la comunicazione spontanea mediante
gesti e vocalizzazioni inarticolate fra i due bambini. Da espressioni private del pensiero, questi gesti e
vocalizzazioni diventano segni comunicativi codificati fino a trasformarsi in linguaggio in senso proprio.
Tale trasformazione è secondo l’autore il prodotto della combinazione di grida naturali con segni gestuali: i
bambini articolano nuovi suoni e ripetendoli diverse volte e accompagnandoli con gesti, abituano sè stessi a dare
nomi alle cose.

Le idee di Condillac ebbero grande influenza e furono d’ispirazione per Diderot, Rousseau e Smith ,
finché nella seconda metà del ‘800 le riflessioni sull’origine dell’argomento non subirono una brusca frenata in
seguito al famoso divieto della Società di Linguistica di Parigi che impedì ogni forma di comunicazione in merito.
Tale proibizione cessò dieci anni dopo, ma trasformò il tema dell’origine del linguaggio in tabù per tutto il
‘900, fino agli anni ’70, che furono segnati dalla rinascita delle teorie gestuali a partire dall’opera dell’antropologo
Gordon Hewes che costituirà una pietra miliare negli studi sull’evoluzione del linguaggio. Spinto dai dati
relativi al fallimento dei tentativi di insegnare agli scimpanzè una lingua vocale e dai successi con la lingua dei
segni, delineò un quadro in cui fece convergere dati provenienti dalla primatologia, paleoantropologia e dalle
neuroscienze, e introdusse il termine “protolinguaggio” ad indicare i primi stadi filogenetici della
comunicazione degli ominidi.

La ripresa degli studi delle teorie gestuali è frutto anche del lavoro di Strokoe sulle lingue dei segni utilizzate
nelle comunità sorde, che ha mostrato come esse posseggano tutte le sofisticazioni grammaticali, semantiche e
pragmatiche di quelle parlate e quindi sono strumenti comunicativi al pari dei sistemi vocali.

Evidenze neuroscientifiche: vocalizzazioni vincolate

Uno dei principali punti a favore di questa teoria è fornito dalla primatologia, nel confronto tra sistemi
comunicativi vocali e gestuali delle grandi scimmie, da cui emerge che le grandi scimmie sono in grado di
utilizzare i gesti in maniera molto più flessibile e comunicativamente più efficace rispetto alle
vocalizzazioni.

Queste ultime sappiamo essere determinate geneticamente e non sottoposte a forme di apprendimento, quindi
limitate; inoltre sappiamo che il loro TVS in ogni caso non ha la conformazione anatomica per emettere una più
ampia varietà di vocalizzazioni. Tuttavia le limitazioni vocali dei primati non umani dipendono anche dalla

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impossibilità di esercitare un completo controllo volontario dei segnali emessi, in quanto evidenze
neuropsicologiche dimostrano che essi sono legati prevalentemente agli stati emotivi.

Ploog ha mostrato l’esistenza di 2 percorsi neurali che regolano l’apparato vocale:

- Uno subcorticale, filogeneticamente antico, che comprende sia nei primati che negli umani le regioni
limbiche (che regolano le emozioni); se vengono danneggiate, entrambi perdono la capacità di produrre
suoni e diventano muti.
- Uno neocorticale, che fa parte del tratto piramidale emerso nei primati non umani e successivamente si è
sviluppato in scimmie e umani ed è indispensabile per la produzione vocale per gli umani in quanto consente
di esercitare un eccezionale controllo volontario sui suoni prodotti dalla laringe e un eventuale danno
causa deficit nella verbalizzazione, mentre nelle scimmie si osserva una paralisi dei muscoli orali e
facciali che rende incapace di mangiare, inducendo a pensare che tale area controlli i movimenti della
bocca, lingua e labbra nella preparazione e consumo del cibo; nonostante ciò tuttavia riescono comunque
a esprimere richiami non troppo difformi dalla norma.

Tali evidenze suggeriscono basi neurali delle vocalizzazioni differenti per umani e primati: solo negli umani il
sistema neocorticale si è sviluppato per il controllo volontario dei muscoli di corde vocali, lingua, labbra,
mandibola e laringe; ergo,

l’ultimo antenato comune fra ominini e grandi scimmie non possedeva


preadattamenti tali da garantire lo sviluppo di un sistema comunicativo basato sul
medium sonoro, che si è sviluppato solo a partire dal distacco nella linea evolutiva.

La comunicazione gestuale nelle grandi scimmie

A differenza delle vocalizzazioni, che sono involontarie espressioni di emozioni,

i gesti manuali nei primati possono essere prodotti deliberatamente e utilizzati in


modi molto più flessibili rispetto alle vocalizzazioni, motivo per cui sono considerati
la più probabile piattaforma naturale per l’evoluzione del linguaggio.

L’intenzionalità di tali gesti è riferita alla volontà di influenzare il comportamento di uno specifico
destinatario ed è definita attraverso diversi criteri:

- Sensibilità allo stato attentivo del destinatario


- Attesa di una risposta dopo la produzione dei gesti
- Evidenza che l’animale che crea il gesto stia perseguendo uno specifico obiettivo
- Flessibilità nell’uso di un gesto
- Perseveranza nel raggiungimento dell’obiettivo.

Il criterio della perseveranza comunicativa è considerato uno degli indicatori più evidenti del carattere
intenzionale della produzione gestuale delle grandi scimmie e si ha nel momento in cui l’animale che produce il
gesto cerca di far fronte a un fallimento comunicativo deducibile dal comportamento del destinatario, che
mostra come lo scopo comunicativo non sia stato raggiunto o raggiunto solo parzialmente. Per superare l’enpasse
comunicativa viene atto ricorso quindi alla ripetizione o all’elaborazione, cioè alla sostituzione del segnale
prodotto all’inizio con un altro equivalente.

Un’altra importante caratteristica della comunicazione fra primati è la flessibilità, cioè la dissociazione fra
significato di un gesto e realizzazione fisica: gesti con differenti significati vengono usati per il raggiungimento
di uno stesso fine e obiettivi diversi sono associati a diversi tipi di gesto. In pratica, uno stesso gesto può avere
significati diversi a seconda del contesto sociale dove viene prodotto.

La produzione dei gesti, d’altronde, tiene conto dello stato attentivo del ricevente, infatti gli animali scelgono il
gesto da produrre in base allo stato in cui si trovano gli interlocutori a cui si sta rivolgendo: seguendo questa
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logica, vengono utilizzati gesti visivi (quindi senza suono) se il ricevente sta prestando attenzione al segnalatore,
oppure tattili e uditivi se vi è bisogno di attirarne l’attenzione.

In uno studio di Leavens, Hopkins e Bard è stato inoltre evidenziato come scimpanzè e altre scimmie
allevate in cattività abbiano imparato, volontariamente e senza addestramento esplicito, ad additare qualcosa
agli umani per indicare loro ciò che desiderano ma non possono raggiungere da soli (additamento
referenziale); nello specifico orientavano il corpo verso il cibo desiderato protendendo verso di esso le dita e le
mani attraverso le sbarre.

Tale abilità è stata in realtà osservata anche in stato di natura da Pika e Mitami, in una situazione di
grooming tra scimpanzè: uno dei soggetti infatti segnalava all’altro la zona specifica che voleva gli venisse
spulciata e questo reagiva in modo appropriato. Tale comprensione mostra dunque l’esistenza di una forma
primordiale di comunicazione referenziale. Nonostante alcuni gesti abbiano una componente genetica, la
maggior parte è frutto di apprendimento, in quanto svariati studi hanno dimostrato la capacità nelle grandi
scimmie di inventare e acquisire nuovi gesti che poi vengono integrati nel repertorio gestuale del gruppo.

Secondo Tomasello e Call,

l’incorporazione di gesti idiosincratici (dei neologismi praticamente) nel sistema di comunicazione condiviso
avviene mediante una ritualizzazione ontogenetica, cioè un processo per cui un segnale creato da due
individui diventa comunicativo nel corso del tempo. La forma generale di tale processo può essere descritta in
4 fasi:

- L’individuo A mette in atto un comportamento X


- L’individuo B reagisce ripetutamente con il comportamento Y
- B anticipa A prima che questo completi il comportamento X, mettendo in atto Y avendo osservato solo un
frammento iniziale di X che chiamiamo X’
- A anticipa B e produce il frammento iniziale in una forma ritualizzata che chiamiamo X* al fine di indurre B a
produrre Y

QUINDI LE VOCALIZZAZIONI:

- Sono determinate geneticamente


- In genere non hanno uno specifico ricevente
- Sono legate alle emozioni
- Non sono soggette ad apprendimento o modifica

INVECE I GESTI:

- Quasi tutti sono frutto di apprendimento individuale


- Sono rivolte a uno specifico individuo
- Sono utilizzate in maniera intenzionale e flessibile

Dunque:

nonostante la comunicazione vocale fra primati e umani abbia in comune il canale


vocale-uditivo, la comunicazione gestuale condivide aspetti fondamentali delle
modalità di funzionamento linguistico umano, quali intenzionalità e flessibilità. Di
conseguenza si può ipotizzare che l’antenato comune, vissuto fra 7 e 6 milioni di
anni fa, sia stato predisposto allo sviluppo di un sistema di comunicazione
volontaria basato su gesti visibili piuttosto che su suoni.

La comunicazione gestuale negli ominini

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Partendo dal presupposto che gli ominini estinti utilizzassero sistemi comunicativi di tipo gestuale, possiamo dire
che il linguaggio umano si è sviluppato prevalentemente tramite i gesti manuali e facciali a partire da circa 2
milioni anni fa cioè con la comparsa dei primi Homo e che lacomunicazione intenzionale sia sorta sfruttando
i sistemi di comprensione delle azioni e raffinatisi durante l'evoluzione umana. Tale teoria si basa sugli studi
condotti negli anni '90 dai ricercatori dell'università di Parma i quali hanno evidenziato la presenza dei cosiddetti
neuroni specchio nel cervello dei macachi: sono associati con l’azione di afferrare e sono stati definiti
“specchio” poiché permettono un rispecchiamento tra percezione e azione , in quanto si attivano sia nel
momento in cui avviene un movimento intenzionale, sia quando tale movimento viene osservato.

Questo meccanismo è presente anche nel cervello umano e costituisce una prova evidente a sostegno
dell'origine gestuale del linguaggio in virtù del ruolo che svolgono questi neuroni, la cui primaria funzione è
legata alla comprensione delle azioni poiché permettono al soggetto di proiettarle su opzioni che lui
stesso si rende conto di poter compiere.

Per comprensione non si intende necessariamente la consapevolezza esplicita da parte dell'osservatore


dell'identità o somiglianza tra l'azione vista ed eseguita,

ma un’immediata capacità di riconoscere negli “eventi motori” osservati un


determinato tipo di azione caratterizzato da una specifica modalità di interazione
con gli oggetti, di differenziare questo tipo da altri ed eventualmente di utilizzare
una simile informazione per rispondere nella maniera più appropriata.

Il meccanismo di funzionamento dei neuroni specchio si basa sull’idea che,

quando un individuo osserva un un'azione eseguita da un altro, nella sua corteccia


premotoria si attivano i neuroni che permettono di simulare internamente e quindi
di rappresentare l’azione osservata. Eseguendo internamente lo schema motorio
dell'azione si acquisisce la conoscenza dell'obiettivo per il quale l'azione stessa è
stata eseguita che quindi in tal modo l'informazione visiva viene trasformata in
conoscenza dal sistema specchio.

In particolare sono stati scoperte nell’aria F5 della corteccia premotoria ventrale dei macachi delle
somiglianze evidenti rispetto all'area di Broca gli umani, la quale nasce originariamente come area deputata
alla comprensione delle azioni manuali legate al grasping. A partire da questo tipo di considerazioni si è
potuto sostenere che il

sistema specchio abbia costituito una piattaforma naturale per l'origine e


l'evoluzione del linguaggio favorendo lo sviluppo di un sistema comunicativo
fondato inizialmente sulla gestualità a cui gradualmente si sia affiancata in una
seconda fase la vocalità.

Secondo Corballis, il sistema specchio per il grasping è stato particolarmente importante per lo sviluppo
della “mimesi” cioè della capacità di mimare azioni ed eventi del mondo esterno, capacità che si sarebbe
evoluta a partire da 2 milioni anni fa con l’H. ergasterederectus. Il bipedismo ha permesso di liberare le mani
per un ulteriore sviluppo della comunicazione manuale mediante il movimento in quattro dimensioni(tre
nello spazio e una nel tempo), consentendo così di mimare l'attività nel mondo esterno.

In realtà, mentre nei macachi il sistema specchio per il grasping risponde solo a quelle situazioni in cui l’animale
cerca di raggiungere un oggetto effettivamente presente (atti transitivi), negli umani si attiva anche in risposta
agli atti intransitivi, cioè in situazioni in cui non è presente il soggetto per su cui il movimento è diretto: si tratta
di un cambiamento chiave nella evoluzione del linguaggio.

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La mimesi infatti è intrinsecamente comunicativa in quanto è messa in atto per
indurre l'osservatore a pensare azioni, eventi o oggetti specifici distanti dal qui e
ora della situazione attuale.

Detto ciò, il come si è passati dalla mimesi, la cui natura è prevalentemente iconica, al linguaggio umano, la cui
natura è prevalentemente arbitraria, resta effettivamente una questione aperta. Secondo Corballis

i gesti che mimano azioni ed eventi sono diventati con il tempo sempre più astratti
ed arbitrari(simbolici)e hanno perso il legame iconico(di somiglianza) originario con
l'oggetto/evento che rappresentano attraverso un processo che prende il nome di
“convenzionalizzazione”.

Una volta che il segno diventa convenzionalizzato, il ricevente non può più fare affidamento per
comprenderlo sulla somiglianza che il segno a o aveva con oggetti o eventi esterni. Utilizziamo il verbo al
passato in quanto i segni arbitrari spesso finiscono col discostarsi da quelli originari e quindi allontanarsi
dal legame più intuitivo e diretto con l'oggetto a cui si riferiscono al fine di essere più brevi e funzionali .
Una volta compiuto questo processo, il linguaggio perde il suo aspetto mimetico e non è più necessariamente
limitato alla modalità visiva.

È possibile ipotizzare quindi che la descrizione gestuale di oggetti ed eventi sia stata accompagnata
gradualmente dalle vocalizzazioni; una volta acquisito il gesto brachiomanuale iconico è possibile
progressivamente modularlo/simbolizzarlo associando adesso una vocalizzazione. Appresa la vocalizzazione, il
gesto manuale di supporto al suono viene meno lasciando spazio al simbolo orale, il quale non necessita più della
relazione iconica originaria con il suo referente. A questo punto, le vocalizzazioni sostituiscono gli atti manuali
come mezzo principale per la comunicazione.

Dalla mano alla bocca

Date le analogie tra l'area F5 e l'area di Broca, è possibile ipotizzare che nel corso della filogenesi umana le
vocalizzazioni siano state gradualmente incorporate all’interno del sistema specchio. In una prima fase si è
verificato il processo di incorporazione nel sistema specchio dei gesti facciali, solo successivamente quello di
incorporazione delle vocalizzazioni. Nelle scimmie i gesti manuali e gesti facciali sono fortemente legati
tra loro, infatti sono stati individuati neuroni motori della bocca nell’area F5 della scimmia i quali si attivano
quando l’animale osserva un altro individuo che compie con la bocca azioni legate sia funzioni ingestive sia gesti
oro-facciali comunicativi.

Di conseguenza possiamo dire che l'area deputata alla produzione verbale negli umani rappresenta
l'evoluzione di un sistema originariamente adibito al controllo fine delle azioni oro facciali delle scimmie.
Sono inoltre stati attestati legami tra i movimenti oro-facciali e movimenti della mano anche negli esseri
umani i quali hanno portato alla conclusione che i primi gesti comunicativi nei nostri antenati abbiano
coinvolto sia i gesti facciali che quelli manuali.

La prima fase nel passaggio dai gesti alle parole preferibilmente coincide con un aumento del coinvolgimento
della faccia nella comunicazione; nella seconda fase invece è avvenuto il processo dalla mano alla bocca che
ha portato all’incorporazione delle vocalizzazioni nel sistema specchio.

Corballis per spiegare questo processo ha fatto riferimento alla teoria motoria della percezione del
parlato(MTSP) la cui idea alla base è che percepire suoni è percepire gesti, laddove si intendono per gesti anche
i movimenti non visibili dell’apparato articolatorio attraverso l'azione di labbra, vello, laringe e dorso, corpo e
punta della lingua. Da questo punto di vista, i suoni verbali vengono compresi in riferimento alla maniera in
cui sono articolati e non alla percezione acustica degli stessi.

Una conseguenza di questa teoria è che

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l'attivazione del sistema motorio risulta essenziale per la percezione del parlato in
quanto la percezione del linguaggio articolato può essere considerata una funzione
naturale del sistema specchio.

Ciò è stato confermato dal coinvolgimento del sistema motorio deputato al riconoscimento delle azioni sia
nella generale percezione dei suoni che in quella del parlato.

Per quanto riguarda la percezione dei suoni è stata rilevata l'esistenza nelle scimmie di neuroni specchio definiti
“audiomotori” i quali si attivano non solo in vista di un’azione, ma anche in risposta a un suono
caratteristico che accompagna l'azione in questione.

Per la percezione del parlato, studi condotti con la stimolazione magnetica transcranica hanno attestato negli
umani l'attivazione durante la percezione di suoni linguistici delle aree neurali che controllano i muscoli
implicati nell’articolazione vocale. Ricerche condotte con la tecnica della risonanza magnetica funzionale
hanno mostrato una sovrapposizione tra le aree corticali motorie attive durante la produzione del parlato e
quelle attive durante l’ascolto di suoni linguistici. Sulla base di tali risultati è possibile sostenere una
continuità tra linguaggio manuale e vocale.

Nel corso della filogenesi umana si potrebbe dire che è il passaggio dalla mano alla bocca può essere concepito
come una transizione all’interno della stessa modalità gestuale con i gesti manuali che sono stati
gradualmente soppiantati da quelli articolatori. Il linguaggio si sarebbe evoluto come un sistema gestuale
basato sui movimenti delle mani, delle braccia e del volto, compresi i movimenti delle labbra, della bocca
e della lingua. Come abbiamo già visto gli adattamenti anatomici e neurali necessari a produrre vocalizzazioni
articolate si collocano a partire da 600.000 anni fa, pertanto è possibile ipotizzare che a partire da questo
momento grazie all’incorporazione delle vocalizzazioni nel sistema specchio, la modalità vocale abbia iniziato
gradualmente a prendere il sopravvento su quella gestuale.

L'origine multimodale del linguaggio

Il riconoscimento del ruolo della gestualità nella comunicazione è stato sviluppato in maniera alternativa a partire
dalle teoria proposte da McNeil, il quale critica le teorie gesture-first, che a suo avviso poggiano su una analisi
non adeguata dei processi di evoluzione del linguaggio, in quanto in generale tutti i modelli interpretativi che
assumono che all'origine del linguaggio incorrono nella difficoltà di spiegare il carattere multimodale,
cioè caratterizzato da gestualità e parlato, del sistema di comunicazione umano moderno.

Idea di questo studioso è infatti che se il linguaggio avesse avuto una origine gestuale, il protolinguaggio dei
nostri antenati avrebbe dovuto dar luogo a un sistema di comunicazione simile alle lingue moderne dei
segni e non a un linguaggio sonoro. Inoltre nella sua opinione i modelli dell'origine gestuale riscontrano il
problema della pantomima, sebbene abbiamo visto come Corballis e Arbib abbiano delineato proprio la
mimesi come una fase importante del processo che ha condotto dalla mano alla bocca.

McNeil sostiene che ipotizzare che la pantomima abbia invece rappresentato un precursore del linguaggio parlato
costituisce un grave errore concettuale poiché la pantomima ripudia la parola. Al contrario della gesticolazione,
incompleta senza il parlato, nella pantomima le parole non contribuiscono al significato dell'atto
comunicativo, quindi l'unica relazione che essa ha con il linguaggio vocale è di riempire i vuoti , cioè di
apparire quando non vi è la parola. In pratica, è solo ammettendo un'evoluzione simultanea di gestualità e
vocalità che si può spiegare il linguaggio umano come un sistema multimodale integrato di gesto e
parola.

Il circuito di Mead

La co-occorrenza di gesto e parlato nella comunicazione chiama in causa simultaneamente un processo


interpretativo di tipo immaginativo, attuato mediante la gestualità, e uno di tipo linguistico, mediante la
parola.

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Tali processi sono antitetici da un punto di vista semiotico poiché il gesto ha un carattere globale, a differenza
del carattere combinatoriodel codice linguistico. Si definisce globale in quanto il significato delle sue
componenti è determinato dal contesto di gesticolazione generale in cui esso occorre, quindi le parti di un
gesto non possono essere considerate isolabili, motivo per cui la determinazione del significato di un gesto
procede dall’intero alle parti cioè mediante un sistema top-down.

Il codice linguistico invece è

scomponibile in unità minime dotate di significato dette morfemi virgola che


devono essere combinate tra loro per creare il messaggio globale;

l'elaborazione linguistica quindi procede in senso contrario cioè bottom-up: il punto di partenza sono le unità
minime la cui combinazione permette di risalire al significato globale.

Sulla base di queste osservazioni McNeil sostiene che sia plausibile pensare che nelle fasi iniziali della
comunicazione queste due modalità immaginativa e linguistica, fossero compresenti. L'ipotesi è che nelle
prima fasi del protolinguaggio vi fossero elementi ricorrenti basati sul codice, quindi potenzialmente
scomponibili e riutilizzabili in altre situazioni, ed elementi determinati dal contesto quindi globali, olistici e
basati sull’immaginazione mentale.

Per spiegare la compresenza di linguaggio e immaginazione lo studioso chiama in causa il circuito di Mead.
Secondo Mead

i gesti diventano simboli dotati di significato nel momento in cui suscitano in modo
implicito nell’individuo che li produce la stessa risposta che in modo esplicito
producono nei riceventi.

Dunque l'ipotesi è che sia stato questo circuito ad aver dato origine a un nuovo adattamento negli umani: nello
specifico possa avere selezionato la capacità non presente nel cervello degli altri primati, dei neuroni
specchio di rispondere ai propri gesti come se questi venissero eseguiti da qualcun altro.

Tale capacità nasce da una sorta di inversione funzionale dei neuroni specchio che permette al soggetto non
solo di rispondere alle azioni altrui simulando le in prima persona ma anche alle proprie simulando che
siano eseguite da altri. I risultati che ne conseguono sono innanzitutto la trasformazione di gesti individuali in
oggetti sociali e pubblici, ma anche il fatto che questa funzione renda disponibili il gesto e la sua immagine
nell’area di Broca, deputata all'organizzazione delle azioni sequenziali complesse orientate a uno scopo. In
tal modo i movimenti in vocali presenti nell'area di Broca possono essere gestiti in nuovi modi sfruttando
l'immagine testuale: infatti il parlato e la gestualità convergono con l'immagine testuale che costituisce
l'elemento di integrazione tra le due e li sincronizza al punto tale da diventare coespressivi dell'immagine
gestuale e del suo significato.

Riassumendo, il protolinguaggio dei nostri antenati era costituito da elementi globali e unità discrete; ad un
certo punto, probabilmente con l'avvento di Homo habilis e successivamente ergaster ed erectus, hanno avuto
inizio l'inversione funzionale dei neuroni specchio e la riconfigurazione dell’area di Broca grazie a cui i gesti
hanno acquistato il potere di orchestrare azioni sia manuali che vocali attribuendo ad esse un nuovo significato.
Tale processo implica una compresenza di gesto e parlato che a partire da questo momento si sono evoluti
sincronicamente dando origine al linguaggio odierno.

Multimodalità nella comunicazione delle scimmie

Le evidenze primatologiche hanno in effetti dimostrato che:

1. La produzione vocale delle scimmie, per quanto limitata, non è così automatica e involontaria come
si è sostenuto precedentemente
2. le grandi scimmia utilizzano un sistema di comunicazione multimodale dove i gesti sono spesso
accompagnati da vocalizzazioni
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3. negli scimpanzè la combinazione tra gesti e suoni comunicativi attiva aree cerebrali omologhe all'area
di Broca

Ricerche condotte negli ultimi anni hanno infatti dimostrato che le vocalizzazioni dei primati possono essere
utilizzate in maniera intenzionale al pari dei gesti e tale teoria è stata dimostrata osservando come la
produzione vocale delle scimmie sia sensibile al cosiddetto “effetto audience”, subendo quindi l'influenza del
tipo di partner sociale a cui è rivolta.

Nel particolare caso dei richiami d'allarme si è visto come questi non siano stati guidati solo dalla percezione del
pericolo incombente, ma anche da una valutazione della conoscenza dei membri dell'altro gruppo: risultato
particolarmente importante poiché implica che gli scimpanzé tengono traccia delle informazioni di cui sono in
possesso i riceventi e intenzionalmente informano chi non ha non ha determinate conoscenze, dimostrando di
esercitare un certo controllo sull’emissione delle proprie vocalizzazioni .In particolare è stata rilevata una
attitudine ad avvertire i conspecifici in caso di pericolo in maniera particolare se questi erano individui
socialmente rilevanti o con i quali il segnalatore aveva un rapporto di amicizia.

Mostrando che i primati non umani questo controllo vocale è stato fortemente indebolito l’assunto fondamentale
dei modelli gesture-first, mettendo in discussione in particolare l'idea secondo cui il sistema vocale dei
primi ominini non fosse adeguato a garantire lo sviluppo di un sistema comunicativo intenzionale. In tal
modo viene aperta la strada all’ipotesi che il linguaggio umano si sia

sviluppato da un sistema multimodale caratterizzato dalla compresenza di gesti e


suoni e a sostegno di tale ipotesi è stata attestata l'esistenza nei primati di un
sistema comunicativo multimodale in cui i gesti sono accompagnati anche da
movimenti oro-facciali e da vocalizzi.

Nel caso dei bonobo si è osservato come si producano vocalizzazioni acusticamente complesse definite “ contest
hoots”, che vengono combinate con gesti altri segnali corporei e sono indirizzate verso un particolare
individuo in contesto specifico. Abilità simili sono state rilevate anche in altri tipi di primati anche cresciuti in
cattività, i quali hanno dimostrato la caratteristica multimodale del proprio sistema comunicativo anche in
relazione agli umani stessi come riceventi.

Le evidenze comportamentali sull'integrazione crossmodale di gesto e suono trovano conferme anche sul piano
neurale:è emerso infatti che la produzione congiunta di vocalizzazioni da richiamo dell'attenzione e gesti
manuali comunicativi attiva nel cervello degli scimpanzé è deputata a un'area omologa a quella di Broca
negli esseri umani.

Questi dati suggeriscono che l'area di Broca possa essere stata implicata nella produzione di segnali oro-
facciali/ vocali nell’ultimo antenato comune tra umani e scimpanzé mettendo quindi in discussione sia
l'ipotesi di un'origine esclusivamente vocale, sia prevalentemente gestuale; sembrano suggerire nel complesso uno
scenario multimodale secondo cui i gesti manuali e comunicativi e i segnali vocali, sottoposti al controllo di una
stessa area cerebrale, sono andati incontroa una coevoluzione nel corso della filogenesi umana,che ha dato vita al
linguaggio odierno.

Conclusioni

L'idea alla base dei modelli che pongono i gesti all'origine del linguaggio suono supportate prevalentemente da
evidenze primatologiche e neuroscientifiche:

- le prime chiamano in causa la maggiore flessibilità con cui le scimmie utilizzano i gesti per fini
comunicativi rispetto alle vocalizzazioni.
- le seconde riguardano la scoperta che alcune aree del cervello degli esseri umani moderni coinvolte
nell’elaborazione del linguaggio sono omologhe nei primati ad aree deputate alla produzione e
riconoscimento di azioni manuali, incluse quelle comunicative.

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Secondo questa teoria il linguaggio vocale si sarebbe innestato su aree cerebrali che inizialmente avrebbero
garantito lo sviluppo di un sistema comunicativo basato sul mezzo visivo e solo successivamente su quello
sonoro.

I modelli dell'origine multimodale invece partono dal riconoscimento del fatto che il linguaggio umano è un
sistema integrato tra gesti e parole, i quali rappresentano due facce non separabili dello stesso processo
comunicativo; dal punto di vista evoluzionistico si traduce nell’ipotesi che gestualità e vocalità siano
equiprimordiali, cioè abbiano avuto uno sviluppo sincronico nel corso della filogenesi e a sostegno di questa
ipotesi studi primatologici mostrano che le grandi scimmie utilizzano un sistema comunicativo multimodale
caratterizzato dalla produzione congiunta di vocalizzazioni e gesti manuali comunicativi. Tuttavia bisognerebbe
chiedersi se questo tipo di analisi sia sufficiente per dar conto dell’evoluzione della comunicazione umana: ci sono
buone ragioni per ritenere che i modelli teorici che spiegano l'evoluzione del linguaggio in riferimento
all’evoluzione del mezzo espressivo raccontino solo una parte sulla storia dell'origine della comunicazione
umana. Infatti il linguaggio dell'uomo sapiens è contraddistinto da alcune proprietà che contribuiscono a
renderlo specifico rispetto alla comunicazione animale che non possono essere spiegate esclusivamente con il
funzionamento del mezzo espressivo.

L’esigenza di dar conto di tale proprietà alla base del passaggio della comunicazione animale a quella umana
giustifica la necessità di spostare l'attenzione dall'analisi del mezzo espressivo a quella del contenuto trasmesso
negli scambi comunicativi. Infatti suoni e gesti acquistano funzione comunicativa solo nel momento in cui
vengono sottoposti a un processo interpretativo cioè solo nel momento in cui viene attribuito loro un
certo contenuto:

queste due dimensioni del linguaggio, del significante e del significato, non sono
naturalmente separabili in maniera netta, cosa che avviene anche nel caso del
sistema specchio, il quale è responsabile sia della produzione dei gesti manuali
comunicativi che della comprensione di quegli stessi gesti.

Detto ciò, un sistema di questo tipo è comunque troppo debole per giustificare i complessi processi interpretativi
che caratterizzano il funzionamento del linguaggio e che lo distinguono in modo specifico dalla comunicazione
animale.

CAPITOLO TRE: ORIGINE DEL LINGUAGGIO ED EVOLUZIONE DELLA MENTE

Dopo aver analizzato il medium espressivo utilizzato negli scambi comunicativi, sposteremo la nostra attenzione
sulle capacità cognitive che permettono di spiegare il passaggio dalla comunicazione animale al linguaggio
umano. Infatti ogni modello interpretativo proposto finora deve dar conto anche e soprattutto dei processi
cognitivi attraverso i quali i segnali acquistano significato. Ovviamente non si può fare affidamento su prove
dirette, ma si può ricostruire l'evoluzione cognitiva degli ominini estinti grazie alla primatologia e l’etologia
cognitiva.

Analizzare il tema dell’origine del linguaggio all’interno di una prospettiva cognitiva equivale a verificare se e fino
a che punto la comunicazione delle grandi scimmie è basata su dispositivi cognitivi simili a quelli che presiedono
al funzionamento della comunicazione umana. Quindi partiamo dallo studio dei sistemi di elaborazione alla
base della produzione e comprensione del linguaggio umano.

Il modello del codice

Secondo una idea intuitiva

la comunicazione consiste in un processo di trasmissione delle informazioni: in tal


modo si ha comunicazione quando una informazione viene codificata da un
emittente, inviata lungo un canale ed è decodificata da un ricevente.

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Se i meccanismi di codifica e decodifica sono ben calibrati tra loro, ciò che viene codificato all'inizio è identico a
ciò che viene decodificato alla fine quindi l'informazione è perfettamente trasferita dall’emittente al ricevente.

Questo modo di concepire la comunicazione è tradizionalmente chiamato “modello del codice” e combina tra
loro:

- la metafora del canale, cioè la concezione per cui i segnali sono dei messaggi che vengono
impacchettati, inviati a ricevente attraverso un canale di trasmissione e alla fine spacchettati dal
ricevente al fine di comprendere il messaggio
- la teoria matematica della comunicazione, secondo cui i segnali sono stringhe di informazioni
trasmesse attraverso un canale lungo il quale si possono verificare interferenze.

Applicato ai processi comunicativi umani, questo modello consiste nel codificare i pensieri in una successione di
suoni in modo tale che chi ascolta possa decodificarli e condividere i pensieri di chi parla.

Da questo punto di vista la comprensione è possibile grazie alla condivisione del codice (la lingua verbale) che
permette all’ascoltatore di decodificare il messaggio ricevuto associando la rappresentazione fonologica
della frase(il suono)con la rispettiva rappresentazione semantica(il significato).

La comunicazione è quindi un processo totalmente esplicito basato su meccanismi esclusivamente


linguistici e tutto ciò che si vuole comunicare è codificato nell’enunciato proferito. A fondamento di questo
modello ci sono due importanti assunti teorici:

 L'idea che tutti gli enunciati hanno un significato che dipende dai significati delle parole che lo
compongono e dalle regole sintattiche in accordo a cui questi elementi sono combinati
 L'idea che il significato di un enunciato è dipendente da ciò che il parlante intende significare
attraverso l'uso di quell’enunciato.

Quindi l'analisi della struttura in costituenti dell’enunciato è condizione necessaria e sufficiente per
comprendere le espressioni linguistiche: ogni informazione “esterna”all’enunciato è considerata irrilevante ai
fini della comprensione.

Tuttavia per comprendere se questo modello fondato sul significato letterale sia effettivamente riscontrabile nella
realtà dei processi di comprensione linguistica bisogna liberarla da tutte le impurità dovute al contesto di
enunciazione in modo tale da cogliere gli aspetti essenziali del linguaggio umano; infatti ci sono ottimi motivi per
ritenere che tale tentativo non regga alla prova dei fatti.

Sebbene parlante e ascoltatore condividono un codice, questo permette solo l'estrazione delle pure proprietà
linguistiche dell'enunciato proferito, attraverso le quali si arriva alla rappresentazione semantica della frase; la
grammatica lascia non specificato molti aspetti dell'interpretazione di un enunciato, motivo per cui spesso
gli enunciati possono non essere interpretati in modo univoco.

Di conseguenza non è possibile sostenere che il significato letterale di una frase corrisponda strettamente ai
pensieri comunicati dall'enunciato che la esprime: c'è un gap tra la rappresentazione semantica di una frase e
l'interpretazione dell'enunciato.

Intenzioni e inferenze

La teoria della pertinenza viene invece proposta da Sperber e Wilson a partire dagli anni '80 del ‘900 ed è
un modello pragmatico della comunicazione umana fortemente legato allo studio delle capacità cognitive
che permettono agli esseri umani di produrre e comprendere le espressioni linguistiche; le loro ipotesi sulla
natura della comunicazione sono state soggette a conferma, confutazione o riformulazione alla luce dei lavori
sperimentali in merito alla natura della cognizione.

Vengono infatti adottati i metodi della psicologia cognitiva: oltre ad argomenti prettamente filosofici o
linguistici, il richiamo alla plausibilità cognitiva vincola gli autori a costruire modelli dei processi comunicativi in

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linea con le evidenze sperimentali prodotte dagli studi sui deficit comunicativi e cognitivi o dalle ipotesi
interpretative della psicologia evoluzionistica.

Viene dunque proposto un modello della comunicazione umana in linea con alcune intuizioni del filosofo Paul
Grace alla base del cui modello vi è l'idea che la caratteristica essenziale della maggior parte della
comunicazione umana sia costituita dall'espressione e dal riconoscimento di intenzioni per cui è centrale la
distinzione tra il significato dell'espressione(il significato letterale)e il significato del parlante(il significato
con cui il parlante utilizza l'espressione). Il primo corrisponde al significato codificato linguisticamente, mentre
il secondo a quello che il parlante vuole in realtà dire, a ciò che intende comunicare al proprio interlocutore in
seguito al quale si aspetta un comportamento appropriato .Tale comportamento si basa sulla capacità di
riconoscere da parte del ricevente intenzione comunicativa dell’emittente.

Assumendo la centralità della distinzione tra significato dell'espressione e del parlante, Sperber Wilson
concepiscono la comunicazione umana come

un processo inferenziale di produzione e riconoscimento delle intenzioni


comunicative:

E propongono un

“modello ostensivo-inferenziale” della comunicazione in cui il parlante fornisce


all’ascoltatore solo un indizio (stimolo ostensivo), della sua intenzione di
comunicare un certo significato e l'ascoltatore comprende quel significato mediante
una serie di inferenze guidate dall’indizio prodotto dal parlante.

In uno scambio comunicativo di questo tipo vi sono due tipi di intenzione:

- l’intenzione informativa, attraverso cui chi parla informa i destinatari di qualcosa


- l’intenzione comunicativa, attraverso cui il parlante informa i destinatari della propria intenzione
informativa.

Come locutori la nostra intenzione è che i nostri ascoltatori riconoscano la nostra intenzione di informarli di un
certo stato di cose, come ascoltatori invece, cerchiamo di riconoscere ciò di cui il locatore ha intenzione di
informarci.

La comunicazione riesce non solo quando l'ascoltatore coglie l’intenzione


informativa del parlante, ma anche quando riconosce l’intenzione comunicativa di
quest'ultimo, cioè quando riconosce che il parlante ha esplicitamente usato un
indizio per comunicare la propria intenzione informativa; a tal fine, l'indizio deve
poter catturare l'attenzione dell'ascoltatore e dirigerla sulle intenzioni del parlante,
dunque la pertinenza di uno stimolo per l'individuo è la proprietà in grado di
determinare quale informazione particolare riceverà l'attenzione di quell’individuo
in un dato momento.

La pertinenza è quindi una proprietà potenziale di stimoli esterni o rappresentazioni


interne che costituisce l’input dei processi cognitivi: la pertinenza di un input per un
individuo in un dato momento è la funzione positiva dei benefici cognitivi derivanti
dall’elaborazione dell'input, e funzione negativa dello sforzo di elaborazione
necessario per ottenere tali benefici.

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La pertinenza si definisce attraverso due nozioni di effetto cognitivo, cioè una differenza significativa nella
rappresentazione del mondo dell'individuo, e di sforzo di elaborazione necessario per elaborare un dato
stimolo, dove a parità di condizioni

- maggiore è l'effetto cognitivo ottenuto dall’elaborazione di un’informazione, maggiore sarà la pertinenza


di quell’informazione in quel dato momento per l'individuo
- maggiore sarà lo sforzo di elaborazione richiesto minore sarà la pertinenza dell’informazione in quel dato
momento per l'individuo

Quindi il grado di pertinenza di un’informazione dipende dal rapporto inversamente proporzionale tra effetto
cognitivo e sforzo di elaborazione.

L'interpretazione di un indizio linguistico invece avviene in due fasi:

1. Una decodifica in cui i processi linguistici elaborano la rappresentazione semantica dell'enunciato;


2. Una inferenziale in cui processi pragmatici forniscono l'interpretazione in senso proprio
dell'espressione del locutore.

Mind-reading ricorsivo e comunicazione ostensiva

Secondo i teorici della pertinenza, la comunicazione ostensiva-inferenziale è resa possibile dalla teoria della
mente:

la capacità cognitiva che permette di rappresentare mentalmente gli stati mentali propri e
altrui

Infatti quando comunichiamo dobbiamo avere una qualche conoscenza delle menti dei nostri interlocutori per
riuscire a comprendere i significati che si intendono esprimere e per poterlo adattare agli altri i nostri
provvedimenti verbali.

Di conseguenza in ogni atto di comunicazione ostensiva è necessario un esercizio di mind-reading altrui che
implica non solo la rappresentazione mentale degli stati mentali altrui ma anche la rappresentazione mentale dei
propri stati mentali. È possibile definire mind-reading ricorsivo l'abilità di elaborare i livelli multipli di
rappresentazioni incassate (metarappresentazioni).

Nella prospettiva della teoria della pertinenza la comunicazione è espressione e il riconoscimento di


intenzioni comunicative le quali sono esse stesse stati mentali.

Rimanda ad esempio di pagina 84-85.

In altri termini senza il mind-reading ricorsivo non ci sarebbero né intenzioni informative né intenzioni
comunicative, dunque non ci sarebbe comunicazione ostensiva. Da questo punto di vista quindi il mind-
reading ricorsivo costituisce le fondamenta stesse della comunicazione.

Ontogenesi del mind-reading ricorsivo

Lo studio della capacità di lettura della mente costituisce un settore specifico di riflessione all’interno della scienza
cognitiva sviluppatosi attorno a un paradigma sperimentale noto come

“test della falsa credenza”, una prova empirica in grado di dar conto dello sviluppo
della capacità di mentalizzazione dei bambini piccoli.

Il test prevede l’uso di due bambole, Sally e Anne, le quali possiedono una biglia, una scatola e un cestino:

- Sally mette la biglia nel cestino


- In assenza di Sally, Anne sposta la biglia nella scatola
- Quando Sally torna cerca la biglia nel cestino dove la aveva lasciata.

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I risultati di tali studi sono stati replicati più volte nel corso degli anni e hanno dimostrato nel complesso che solo
a partire dai quattro anni di età i bambini sono in grado di rappresentare lo stato mentale di un'altra
persona, quindi sanno distinguere la situazione attuale da essi percepita da quella (falsa) degli altri. Tali
risultati tuttavia sono in contrasto con il fatto che i bambini più piccoli di questa età esibiscono sofisticate doti
comunicative che sembrano richiedere una valutazione della mente altrui.

Bambini di 12 mesi sono stati posti in varie situazioni in cui osservano un adulto che cerca un oggetto caduto da
una mensola e in tali situazioni indicavano tramite gesti il punto in cui si trova l'oggetto desiderato solo se l’adulto
non aveva precedentemente visto l'oggetto cadere. Dunque in realtà sembravano già essere in grado di
comprendere se gli altri avessero o meno determinate conoscenze sulla base di ciò capaci di stabilire se
fornire o meno informazioni utili.

Recentemente è stato mostrato che i bambini 18 mesi sono in grado di comprendere anche gli atti
comunicativi ostensivi:gli autori hanno osservato una situazione di gioco in cui i bambini avevano bisogno di un
certo giocattolo (una chiave) per continuare (aprire un contenitore).

Le condizioni al cui interno i bambini venivano posti erano 3:

1. lo sperimentatore, dopo aver chiamato il bambino li mostrava le chiavi, guardava le chiavi prima e poi il
bambino e poi nuovamente le chiavi (condizione ostensiva)
2. dopo aver chiamato il bambino, accidentalmente e senza guardarlo, lo sperimentatore spingeva le chiavi
nella sua direzione (condizione accidentale)
3. dopo aver chiamato il bambino lasciava cadere le chiavi ed esclamava “ops”, quindi le raccoglieva e la
portava la vista del bambino senza però guardarlo (condizione intenzionale)

I risultati dell'esperimento hanno mostrato che i bambini prendevano le chiavi solo nella condizione ostensiva,
mostrando di comprendere direttamente tale atto di ostensione come una richiesta indiretta da parte del
comunicatore di raccogliere le chiavi e continuare il gioco, dunque di comprendere in modo inferenziale
l’intenzione comunicativa dell’adulto. Il problema sembra ammettere i due possibili soluzioni: o si sostiene che
la comunicazione estensiva non richieda un mind-reading ricorsivo oppure si accetta il fatto che anche i
bambini molto piccoli esibiscono sofisticata abilità di mentalizzazione.

A far pendere l'ago della bilancia la seconda interpretazione è il nuovo approccio implicito al test della falsa
credenza. Il comportamento degli infanti viene utilizzato per dedurre che cosa essi hanno compreso delle credenze
delle altre persone: i bambini venivano incoraggiati ad aiutare lo sperimentatore Sally a trovare la biglia, basandosi
sull’ipotesi che i bambini avrebbero corretto lo sperimentatore se avesse cercato la biglia nel posto sbagliato.

Le evidenze hanno suggerito che il mind-reading ricorsivo, oltre a essere una


capacità a cui gli esseri umani fin da piccoli abitualmente fanno ricorso per dar il
senso al mondo che li circonda, rappresenta una capacità cruciale per lo sviluppo
genetico della comunicazione ostensiva inferenziale.

Mind-reading e origine del linguaggio

Il passaggio dalla comunicazione animale ai caratteri di flessibilità e creatività tipici


del linguaggio umano è rintracciabile nei dispositivi di mentalizzazione che rendono
possibile dedurre le intenzioni comunicative del parlante.

Di questa opinione è Tomasello, che considera il lettore della mente come unico adattamento biologico
fondamentale di cui devono disporre gli esseri umani per poter dar vita al linguaggio.

Il riferimento alla mentalizzazione alla base dei normali processi d'uso del linguaggio permette di abbandonare il
vecchio modello del codice e di raccontare una nuova storia sull’avvento delle capacità comunicative umane.

Sperber sostiene che


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la comunicazione umana sia infatti un effetto collaterale delle capacità
metarappresentazionali umane,perché la capacità di eseguire sofisticate inferenze
circa gli stati mentali degli uni con gli altri si è evoluta nei nostri antenati come
mezzo per comprendere e predire il comportamento degli uni con gli altri, cosa che
a sua volta ha fatto emergere la possibilità di agire in modo palese al fine di rivelare
i propri pensieri agli altri.

La conseguenza di ciò è la creazione delle condizioni per l'evoluzione del linguaggio, che ha reso la
comunicazione inferenziale immensamente più efficace.

Origgi e Sperber hanno ipotizzato il caso in cui due nostri parenti ancestrali fossero stati dispersi nel deserto
e dotati di un sistema primitivo di comunicazione: se la comprensione delle loro espressioni fosse stata affidata
solo un sistema funzionante secondo il modello del codice, la comunicazione messa in atto dei due non si sarebbe
mai evoluta in un linguaggio vero e proprio; se al contrario, invece di utilizzare un codice così rudimentale, fossero
stati dotati anche di capacità inferenziali, l'attivazione nella loro mente attraverso la decodifica di un singolo
concetto avrebbe potuto facilmente produrre tutta l'evidenza necessaria per ricostruire in maniera
completa il significato proposizionale del parlante.

Sullo sfondo di una comprensione inferenziale è possibile capire perché le mutazioni di linguaggio che portano
alla specificazione sempre più fine e articolata delle intenzioni comunicative del parlante diventano
adattativamente vantaggiose.

Usando questo schema interpretativo è possibile spiegare il passaggio da forme semplici di comunicazione a un
linguaggio vero e proprio; quindi l'esistenza della lettura della mente nei nostri antenati è una precondizione
per l'emergenza del linguaggio.

Poichè sostenere che la capacità di mentalizzazioneè afondamento del linguaggio


comporta sostenere che il mind-reading preceda logicamente e temporalmente
linguaggio, la prima mossa da fare per dare credibilità empirica questa ipotesi è
chiedersi se attribuire stati mentali agli altri sia una capacità di cui dispongono
anche gli animali non umani hanno strettamente imparentati.

Teoria della mente dei primati non umani

L'espressione “teoria della mente” è stata coniata nell’articolo di Premack e Woodruff nel quale i due
autori sostengono che gli scimpanzé siano in grado di interpretare il comportamento degli umani
attribuendo loro stati mentali.

Per valutare le capacità di mentalizzazione dei primati elaborarono un esperimento nel quale lo scimpanzé Sarah,
dopo aver visto un video che mostrava un essere umano intanto a recuperare un oggetto inaccessibile, doveva
scegliere tra due fotografie per completare la sequenza di azioni necessarie alla risoluzione del problema.Una
ritraeva l'individuo con una sedia e l'altra con un lungo bastone: lascimmia sceglieva la seconda, quindi doveva
aver compreso che l'individuo nel filmato voleva afferrare la banana ma non ci riusciva, scegliendo dunque lo
strumento più appropriato per soddisfare questo desiderio. Secondo gli studiosi quindi Sarah era in grado di
risolvere il compito poiché sapeva attribuire stati mentali all’essere umano, il che proverebbe la presenza
di una teoria della mente nei primati.

L'articolo aveva dato avvio a un serrato dibattito tuttora controverso e Premack stesso successivamente aveva
condotto un nuovo studio basato su un paradigma sperimentale diverso rispetto a quello utilizzato nelle ricerche
originaria del ‘78. Nel nuovo studio gli sperimentatori non montarono sul muro di fronte alla gabbia di Sarah un
piccolo armadietto che lo scimpanzè riusciva perfettamente a vedere, diviso in una metà destra e una sinistra
rispettivamente dipinte di bianco e di nero e riempite rispettivamente una esclusivamente di cose buone e l'altra
solo di cose cattive. Le cose buone erano i pasticcini che Sarah e la sua addetta preferita Bonnie condividevano
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durante il momento del tè quotidiano, mentre le cose cattive erano un serpente di gomma marcia e una tazza di
escrementi verso i quali Bonnie aveva manifestato il proprio disgusto con gesti plateali. Dopo la stabilizzazione
dell’intervallo temporale tra l'apertura dello sportello da parte di Sarah e l'ingresso della sua addetta nella stanza
attorno ai 7 secondi,viene introdotta una variazione sperimentale, costituita da una persona mascherata e
camuffata con una tuta la quale provava a forzare l'armadietto, metteva tutto il materiale davanti a Sarah e poi
riposizionava tutto all'interno degli armadietti invertendo l'ordine originario. All'arrivo della addetta il
comportamento di Sara non manifestò nessun cambiamento.

Per rispondere in maniera appropriata al nuovo test, Sarah avrebbe dovuto avere due distinti tipi di
rappresentazioni, una relativa a quello che ella sa, e una relativa a ciò che sa un'altra persona. Un requisito
del genere non era però richiesto nel testo originario, nel quale Sarah non era obbligata a rappresentarsi la propria
conoscenza da una parte e quella dello sperimentatore dall'altra: infatti quando l'esperimento originario vennero
formulate in maniera tale che lo scimpanzè per risolvere il compito dovesse rappresentare separatamente la
propria conoscenza e quella degli altri, l'animale non passò il test.

Dati di questo tipo suggeriscono che ci sono solo prove indirette dell'esistenza di
una teoria della mente negli scimpanzè e che, semmai le scimmie attribuiscono stati
mentali, questi sono certamente un piccolo sottoinsieme di quelli che vengono
attribuiti dagli esseri umani.

Negli ultimi 15 anni la situazione si è spostata su posizioni meno pessimistiche più articolate; in effetti quando ci si
chiede se le grandi scimmie abbiano la capacità di attribuire stati mentali agli altri non ci si sta domandando se si
hanno la stessa capacità degli umani, ma si cerca piuttosto di capire se la teoria della mente possa rappresentare
uno sbarramento di tipo qualitativo che separa bruscamente il pensiero animale da quello umano o se sia invece
possibile distinguere gradi diversi di capacità di mentalizzazione.

Negli ultimi anni si è attestata l'idea che il mind-reading non sia una capacità “tutto o nulla” e che pertanto sia
possibile rintracciare alcuni precursori della mentalizzazione anche in specie animali appunto valutando la
capacità di mentalizzazione delle grandi scimmie in situazioni di competizione piuttosto che di
cooperazione, arrivando a considerazioni meno rigide.

Si è infatti osservato che quando gli scimpanzé lottano tra loro per il cibo prendono in considerazione del fatto
che il loro concorrente veda o meno il cibo conteso. Le grandi scimmie in particolare sfruttano la capacità di
comprendere di che cosa gli altri hanno o non hanno esperienza anche a fini manipolatori. Altre ricerche
hanno mostrato che gli scimpanzé sono sensibili anche alle intenzioni alla base delle azioni altrui
dimostrandosi eventualmente anche più pazienti, nel caso in cui ad esempio qualcuno falliva nell’intenzione di
condividere cibo con loro.

Sembra dunque possibile sostenere che la capacità di valutare gli stati psicologici altrui non si è evoluta
interamente da zero dopo la separazione tra la linea di discendenza umana e quella delle grandi scimmie.
Sebbene a un grado diverso rispetto a quello degli esseri umani, anche gli scimpanzé sono in grado di valutare
i comportamenti altrui sulla base dell’attribuzione di stati psicologici.

Nello specifico, secondo Call e Tomasello, i scimpanzé sembrano possedere una teoria della mente in senso
ampio, cosa che non è invece possibile attribuire a loro nel senso più stretto. Anche se non comprendono la
falsa credenza, chiaramente non percepiscono solo gli aspetti di superficie del comportamento altrui,
quindi si può dire che abbiano una teoria della mente. Probabilmente non comprendono gli altri utilizzando
un sistema di credenze e desideri simile a quello umano, ma hanno rappresentazioni mentali del mondo che
guidano le loro azioni anche quando queste non corrispondono alla realtà.

Quindi, assumendo una definizione più stretta di teoria della mente intesa come comprensione di false credenze,
la risposta la alla domanda dovrebbe essere: no, non ne hanno una. Sostenere che ogni dispositivo cognitivo come
lettura della mente è presente anche negli animali non umani a noi più prossimi costituisce una prova a favore
dell’ipotesi secondo cui tale dispositivo ha svolto un ruolo cruciale nell’avvento della comunicazione umana;
quindi
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il sistema la base della mentalizzazione, nato originariamente per interpretare i
comportamenti, sarebbe stato poi cooptato per finalità comunicative tramite un
processo di exaptation.

Quindi un sistema come il mind-reading, che in origine non aveva nulla a che fare con il linguaggio, ha assunto nel
corso della filogenesi un ruolo cruciale per la comunicazione umana, dando vita a un nuovo adattamento per le
capacità linguistiche. Probabilmente la capacità metarappresentazionale si sviluppa nelle specie ancestrali
per ragioni legate alla competizione, allo sfruttamento e alla cooperazione, ma non per la comunicazione
in quanto tale.

Questa capacità rende possibile una forma di comunicazione inferenziale


inizialmente come effetto secondario, il cui carattere positivo crea un ambiente
favorevole per l'evoluzione di un nuovo adattamento, una capacità linguistica, che
tende ad evolversi, e dunque è facile immaginare un mutuo incremento coevolutivo
di entrambe le capacità.

Origini della comunicazione intenzionale

Una delle caratteristiche fondamentali della comunicazione gestuale delle scimmie è l’intenzionalità: i gesti
prodotti da questi animali sono segnali creati volontariamente per influenzare il comportamento di uno specifico
destinatario. Emerge dunque con maggiore evidenza il fatto che per poter influenzare il comportamento di un
destinatario è cruciale tenere conto e valutare i comportamenti altrui sulla base dell’attribuzione di stati
psicologici.

A seconda della loro funzione comunicativa è possibile individuare i movimenti di intenzione e i richiami
all'attenzione.

I primi i movimenti di intenzione, riguardano il caso in cui un individuo esegue solo il primo passo di una
sequenza comportamentale e ciò è sufficiente a suscitare una risposta dalla ricevente. Nelle grandi scimmie i
gesti correlati ai movimenti di intenzione derivano dall'intenzione sociale di comunicare al ricevente la
richiesta di fare qualcosa, quindil’individuo che produce il gesto si aspetta che se il ricevente vede il suo gesto
allora farà la cosa desiderata perché ciò che ha sempre fatto in passato, processo che rappresenta la base della
ritualizzazione. Il ricevente, da parte sua, sa che il comunicatore vuole che lui faccia qualcosa in particolare,
basandosi sulla capacità di lettura delle intenzioni e sulla sua esperienza pregressa in situazioni analoghe.

Al contrario, i gesti di richiamo dell'attenzione derivano dall'intenzione sociale del comunicatore che il ricevente
veda qualcosa; il comunicatore in questo caso si aspetta, sulla base della comprensione intenzionale, che il vedere
qualcosa indurrà il ricevente a fare quello che lui vuole che faccia.

Ciò crea una struttura intenzionale a due livelli che include l’intenzione sociale del comunicatore come fine
fondamentale e la sua intenzione referenziale come mezzo rivolto a quel fine.

Poiché i movimenti di intenzione sono abbreviazioni ritualizzate dei passi iniziali delle azioni intenzionali,
il loro significato è adesso intrinseco, mentre la struttura intenzionale a due livelli dei richiami
dell’attenzione crea una distanza tra il mezzo di comunicazione esplicito (l’atto di riferimento) e il fine
comunicativo implicito (l’intenzione sociale); il ricevente è potenzialmente in grado di inferire da quello che vede
ciò che il comunicatore desidera.

L'uso dei segnali comunicativi in modo intenzionale da parte delle grandi scimmie non è limitato al dominio
gestuale, ma è stato dimostrato che anche le vocalizzazioni possono essere utilizzate intenzionalmente
osservando il cosiddetto “effetto audience”, il quale si basa sulla presunta capacità da parte degli scimpanzé di
produrre vocalizzazioni per informare i conspecifici di qualcosa del quale non sono a conoscenza.

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È importante sottolineare che i primati sono in grado di mettere in atto un comportamento del genere perché
grazie al sistema di lettura della mente riescono a valutare ciò che gli altri sanno e sulla base di ciò stabilire se
l'acquisizione di una nuova conoscenza può essere loro utile. Sono stati classificati come intenzionali anche alcuni
segnali vocali detti “travel hoots”, prodotti da scimpanzé allo stato di natura in contesti di spostamento. La
produzione di tali segnali è infatti conforme a tre dei principali criteri comportamentali richiesti per classificare un
segnale come intenzionale: il controllo dell’audience, l'attesa della risposta e la persistenza del segnale.

Nelle osservazioni sul campo è emerso che tali segnali sono stati utilizzati per dare avvio agli spostamenti nella
loro produzione era finalizzata al reclutamento di alleati, cioè individui impegnati fino a quel momento in altre
attività che in seguito all’ascolto del segnale si univano al comunicatore per dare avvio ho uno spostamento di
gruppo. In situazioni di questo tipo, i ricercatori hanno osservato nel segnalatore anche comportamenti di attesa
e di monitoraggio. Generalmente i comportamenti di attesa erano una conseguenza di un reclutamento non
andato a buon fine caso in cui lo scimpanzè ripeteva più volte il segnale; il punto rilevante è anche qui che è la
produzione dei segnali comunicativi è subordinata a una qualche valutazione degli stati psicologici degli
altri individui resa possibile dal sistema della lettura della mente.

Le ricerche presentate quindi da quando nel complesso a favore dell’idea che una proprietà importante del
linguaggio umano, l’intenzionalità, sia rintracciabile anche nei sistemi comunicativi gestuali e vocali delle
grandi scimmie. L’utilizzo di gesti e vocalizzazioni per i primati non dipende da caratteristiche del codice
espressivo in sé ma dai piani cognitivi, nello specifico il mind-reading ,che permettono di utilizzare il codice
espressivo in modo flessibilmente intenzionale e che garantiscono un piano di continuità tra
comunicazione animale e linguaggio umano.

Origini della comunicazione ostensiva

Pur riconoscendo l’intenzionalità e la flessibilità alla comunicazione delle grandi scimmie, questa è comunque
interpretabile nei termini del modello del codice, vale a dire in termini associazionistici. Infattila
comunicazione delle grandi scimmie può essere considerata un sistema reso possibile da meccanismi di
associazione, e reso espressivamente più potente dalle abilità metapsicologiche, le quali permettono al
codice naturale di essere utilizzato in maniera flessibile. Nel linguaggio umano avviene esattamente
l'opposto, in quanto esso è reso possibile da meccanismi metapsicologici e potenziato da meccanismi
associazionistici.

Il motivo per cui Scott-Phillips (che sostiene questa teoria) assume una posizione discontinuista dipende dal
fatto che la comunicazione delle grandi scimmie a suo avviso sia intenzionale ma non ostensiva . La
comunicazione umana si definisce ostensiva in quanto caratterizzabile nei termini dell'espressione e del
riconoscimento di intenzioni comunicative, quindi si definisce tale in quanto comunicazione intenzionalmente
manifesta. Sulla base di tale definizione si sostiene che solo la comunicazione umana possa essere caratterizzata
in termini ostensivi, in quanto ciò richiede un mind-reading ricorsivo epistemico che le grandi scimmie non
possiedono. Inoltre viene sottolineato che al momento non esistono studi sperimentali che provino in modo
conclusivo che le grandi scimmie sono in grado di maneggiare i quattro aspetti della comunicazione
ostensiva(espressione e riconoscimento dell’intenzione informativa, espressione e riconoscimento
dell’intenzione comunicativa).

La prospettiva di Scott-Philips è stata messa in discussione da Moore,il quale sostiene a che non ci sono ragioni
per dubitare del fatto che la comunicazione di gestuale delle grandi scimmie sia ostensiva in quanto i
criteri minimali generalmente utilizzati per attestare nei bambini molto piccoli tale presenza sono
rintracciabili anche nella comunicazione delle grandi scimmie, e uno fra questi è la presenza di contatto
visivo con un interlocutore sia prima che durante la produzione del segnale.

Uno studio condotto nel 2001 ha mostrato che scimpanzé in cattività producevano gesti comunicativi ed
espressioni facciali prevalentemente quando lo sperimentatore era rivolto verso di loro piuttosto che quando gli
dava le spalle. In maniera analoga una ricerca del 2003 ha evidenziato che gli scimpanzè modificavano la posizione
di produzione dei loro gesti in base all’orientamento assunto dall’interlocutore badando a compierli in punti in cui
potevo essere visibili agli altri; ciò sembra dimostrare che

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le scimmie comprendono che un gesto funziona se viene prodotto lungo la linea di
direzione dello sguardo del destinatario e poiché l'atto di muoversi
intenzionalmente lungo tale direzione può essere considerato una forma di
sollecitazione dell’attenzione, è possibile che gli scimpanzè rivolgano loro gesti agli
interlocutori in modi che sembrano giustificare l'attribuzione di un intenzione
comunicativa.

Nonostante non sia effettiva una difficoltà per il modello, la possibilità di interpretare la comunicazione dei
primati non umani attraverso lo strumentario concettuale della teoria della pertinenza rende la teoria
ostensivo-inferenziale estremamente plausibile da un punto di vista evoluzionistico ed è proprio tale
plausibilità a costituire un presupposto irrinunciabile per tutti i ricercatori tutt’ora impegnati a studiare il
linguaggio all’interno di una prospettiva naturalistica.

Conclusioni

Nei primi due capitoli abbiamo circoscritto in analisi alla discussione del dibattito relativo all’evoluzione del
mezzo espressivo utilizzato negli scambi comunicativi: tale dibattito si è concentrato da un lato nell’ipotesi che
identifica il linguaggio con la verbalizzazione e ricostruisce l'evoluzione delle facoltà linguistiche a partire dalla
capacità articolatoria responsabile della produzione dei suoni, dall'altro è stato proposto un modello che assume
una concezione più ampia del linguaggio rintracciando l'origine delle capacità linguistiche nella gestualità. Ad
oggi è necessaria l'integrazione di queste due opzioni interpretative all’interno di un modello multimodale
il quale restituisce un’idea del linguaggio come fenomeno complesso e sfaccettato reso possibile da un mosaico di
capacità ognuna delle quali è frutto di una storia evolutiva differenziale.

In questo ultimo capitolo è stato invece affrontato il dibattito sul sistema cognitivo alla base dell'espressività
del linguaggio, il quale si basa sull'attribuzione di un significato senza il quale le parole e i gesti sarebbero
destinati a rimanere puri suoni e movimenti. Aderendo al modello pragmatico della teoria della pertinenza,
abbiamo mostrato il ruolo di primo piano nell’elaborazione linguistica giocato dal sistema di lettura della
mente, sistema presente in vario grado anche nelle moderne grandi scimmie e fondamentale per dar conto del
passaggio della comunicazione animale al linguaggio umano.

Fondare l'avvento del linguaggio nelle capacità cognitive e comunicative degli animali a noi più prossimi e degli
uomini istinti a un doppio vantaggio: da una parte apre la strada a un modello interpretativo in grado di tenere
insieme sia gli elementi di continuità quanto i caratteri di specificità del linguaggio umano , dall’altra
permette di spiegare l'origine e l'evoluzione del linguaggio nel pieno rispetto dei principi darwiniani del
gradualismo e del continuismo, dando corpo a una concezione naturalisticamente fondata del linguaggio
umano.

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