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Laura D’Odorico
Introduzione
Sebbene sembri facile stabilire quando comincia lo sviluppo del linguaggio, non è affatto così: rispondere a
questa domanda significa infatti dare una risposta ad alcune delle questioni fondamentali degli ultimi 40 anni
nell’ambito dello sviluppo linguistico.
Golinkoff e Gordon, nel 1983, hanno tracciato una serie di “passi” nello studio dello sviluppo linguistico
facendo riferimento alla metafora dei 7 giorni della Creazione. In ogni “giorno” si ha un cambiamento del focus
teorico, cui si accompagna un cambiamento nell’unità linguistica di analisi.
• Giorni I e II (anni ’50): i protagonisti sono Chomsky e la sua opera Syntactic Structures (1958), che
influenzano profondamente tutti i successivi studi sul linguaggio. C., infatti, sostiene l’esistenza di un modello
di linguaggio universale che si basa su una dotazione biologica specie-specifica.
• Giorno III (anni ’60): le implicazioni del modello di Chomsky vengono applicate allo studio del
linguaggio infantile. Acquisizione del linguaggio = acquisizione della sintassi: l’unità minima di analisi sono
quindi le combinazioni di due parole.
• Giorno IV (primi anni ’70): alcuni autori cominciano a studiare non solo la struttura delle prime
combinazioni di parole, ma anche il loro contenuto. X questo si analizzano anche le espressioni di una sola
parola che, in combinazione con gli elementi del contesto, permettono al bambino di esprimere significati.
• Giorno V (1975): continua lo spostamento verso età sempre + precoci, in cui vengono manifestati
comportamenti ritenuti parte del processo di acquisizione del linguaggio. Si studiano quindi anche i segnali
pre-verbali utilizzati x la comunicazione intenzionale.
• Giorno VI (fine anni ’70): c’è un rinnovato interesse x la posizione innatista e x l’acquisizione della
sintassi, ma gli studi sulla comunicazione pre-verbale e sulle espressioni di una sola parola si sviluppano come
filoni paralleli.
In questo volume, l’inizio del processo di acquisizione linguistica si fa risalire al momento in cui il neonato (o
addirittura il feto) comincia a percepire il suono della voce umana, x trovare una continuità fra le varie fasi di
sviluppo del linguaggio. Questo compito è facilitato dal fatto che, mentre negli anni ’80 le informazioni
descrittive sulle prime fasi di acquisizione riguardavano soprattutto l’inglese, oggi disponiamo di tantissime
conoscenze sui fatti relativi all’acquisizione del linguaggio che ci consentono di ipotizzare meccanismi di
transizione fra le varie fasi.
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anziché quella di un’altra donna. Questa preferenza x la voce della madre viene spiegata con l’esperienza che i
neonati fanno di questa voce durante la loro vita intrauterina, ma non spiega su quali caratteristiche della voce
si basa il bambino x riconoscerla. A questo proposito Mehler ha condotto uno studio in cui dimostra che
neonati di un mese preferiscono la voce della madre alle altre anche quando questa viene alterata in modo da
permettere solo il passaggio delle informazioni prosodiche (intonazione, accentazione etc.): è possibile
quindi che siano queste le prime informazioni su cui il bambino si basa x il riconoscimento, anche xkè
l’ambiente fetale consente proprio il passaggio delle informazioni a bassa frequenza.
Tuttavia, la straordinaria capacità di discriminazione percettiva dei neonati è nota già prima della scoperta
dell’esperienza uditiva prenatale, che risale alla fine degli anni ’70. Già nel 1971, infatti, Eimas dimostra
che i neonati di un mese distinguono suoni che differiscono x una sola caratteristica fonetica. I suoni vengono
prodotti con la vibrazione dell’aria espulsa dai polmoni negli organi dell’apparato fonatorio. Se questo flusso
d’aria non incontra ostacoli si producono le vocali; in caso contrario si producono le consonanti, che si
classificano in base agli organi implicati nell’occlusione e alla totalità o parzialità di questa occlusione (es.
ostruzione totale = occlusive come [p] e [b]; ostruzione parziale = fricative come [f] ed [s]). Un altro criterio
di distinzione delle consonanti è detto tempo di comparsa della sonorità o Voice Onset Time (VOT), cioè
l’intervallo dopo il quale le corde vocali cominciano a vibrare una volta terminata l’occlusione (ad es. [p] e [b]
differiscono solo x il VOT). Il VOT varia in modo continuo, ma gli adulti umani percepiscono variazioni
categoriali. Eimas dimostra che la percezione delle differenze dei suoni dei neonati è analoga a quella adulta.
La precocità di queste competenze testimonia senza dubbio che esse sono innate. Ma si può anche affermare
che indichino la presenza di una predisposizione specifica x l’elaborazione e l’acquisizione del linguaggio nei
neonati umani? In realtà, questa ipotesi è stata messa in discussione da un esperimento di Kuhl e Miller, che
dimostra che anche i cincillà hanno queste capacità di discriminazione. Inoltre, queste abilità sono presenti
nell’uomo anche x stimoli non linguistici. Quindi, bisogna considerare l’ipotesi che il linguaggio umano si sia
evoluto basandosi su alcune proprietà del sistema uditivo che gli umani condividono coi mammiferi.
Secondo studi successivi, i neonati di pochi giorni discriminano quasi tutti i contrasti fonetici presenti nelle
lingue umane: questa capacità, xò, non è legata alla lingua cui il neonato è stato esposto, xkè fino a 6 mesi i
bambini percepiscono differenze fonetiche non presenti nella lingua madre, come dimostrato da un
esperimento di Werker e Tees. Questa capacità, xò, diminuisce progressivamente fino a scomparire alla fine
del 1° anno di vita: gli autori concludono che l’iniziale sensibilità alle discriminazioni fonetiche si indirizza verso
la fonologia della lingua madre quando i bambini cominciano a produrre le prime forme di linguaggio.
I bambini, xò, sono in grado di riconoscere altre caratteristiche che differenziano la loro lingua dalle altre anche
prima della fine del 1° anno. Mehler, ad es., ha dimostrato come dei neonati francesi siano in grado di
distinguere, anche in presenza delle sole informazioni prosodiche, fra una frase in francese ed una in russo, ma
non fra una italiana ed una inglese. In seguito, questa capacità è stata dimostrata anche a soli 2 giorni di vita,
il che avvalora l’ipotesi dell’esperienza prenatale.
2. La capacità di segmentazione in parole
La capacità di distinguere ciò che è familiare da ciò che non lo è sicuramente è un importante punto di
partenza, ma non basta x ottenere le informazioni necessarie x cominciare a parlare. La peculiarità del sistema
di comunicazione umano, infatti, consiste nel fatto che esso sia comprensibile ed utilizzabile solo all’interno
della propria comunità linguistica: mentre gli animali riconoscono i segnali di qualsiasi membro della loro
specie, i piccoli dell’uomo devono capire come funziona la loro lingua sulla base i meccanismi che permettono,
in generale, l’acquisizione di tutte le lingue del mondo. X questo, anche ipotizzando una dotazione genetica,
bisogna scoprire in che modo questa dotazione viene utilizzata x scoprire le caratteristiche della propria lingua
madre.
Chiaramente, il primo passo consiste nel segmentare il flusso continuo del linguaggio nelle unità che lo
compongono (parole, frasi etc.): se il bambino fosse esposto ad un linguaggio composto da parole singole,
queste farebbero ovviamente da punto di partenza x l’apprendimento, e questo è in effetti il meccanismo alla
base dell’apprendimento di una lingua straniera. Le madri, xò, usano raramente parole isolate quando parlano
ai loro bambini, sia nelle conversazioni spontanee sia quando insegnano nuove parole. A complicare il
riconoscimento delle parole nel flusso del discorso, si aggiunge il fatto che queste non sono caratterizzate da
eventi acustici stabili e distinti, ma tali eventi possono variare a seconda dei suoni che seguono o precedono:
questo fenomeno è detto co-articolazione, x cui i suoni x articolare un determinato segmento fonico iniziano
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prima che sia terminata l’articolazione del segmento precedente. Le parole, quindi, non sono sempre separate
da pause nella fonazione. Possiamo avere un’idea della difficoltà di questo compito se pensiamo di udire una
persona che parla in una lingua sconosciuta: inizialmente sentiamo una serie di suoni incomprensibili. Dopo
qualche esposizione, xò, cominciamo a cogliere le proprietà distribuzionali della lingua, ovvero le regolarità
nella frequenza con cui si presentano alcuni insiemi di suoni.
Questi potenti meccanismi di detezione delle regolarità, secondo alcuni, aiutano i bambini nell’acquisizione del
linguaggio e in particolare delle regole fonotattiche, ovvero dei modi in cui i suoni possono combinarsi nella
lingua madre. Ogni parlante adulto ha una conoscenza implicita delle combinazioni di suoni possibili nella sua
lingua: un italiano riconoscerà ad es. nestro come parola italiana possibile ma non esistente, mentre non potrà
mai riconoscere ptagi. Secondo Saffran, questi meccanismi sono presenti già a 8 mesi: a quest’età i bambini
sono infatti in grado di riconoscere quali sillabe di una serie si presentano insieme con + frequenza dopo
appena 2 minuti di ascolto della serie. Sembra xò che queste informazioni non siano utilizzabili x riconoscere la
lingua madre fino ai 9 mesi: a quest’età, infatti, un gruppo di bambini americani è in grado di distinguere fra
una lista di parole americane ed una di parole olandesi, ciascuna composta di parole che violano le regole
fonotattiche dell’altra lingua, mentre a 6 mesi no.
Questi dati portano a concludere che la conoscenza delle strutture fonotattiche aiuta il bambino a distinguere le
parole nel discorso attraverso la regola: il confine di parole si colloca dove c’è una violazione di una
regola fonotattica. Ad es., in italiano:
Il riconoscimento delle caratteristiche prosodiche sembra essere + precoce di quello delle strutture
fonotattiche e può avvenire, come già detto, a partire dell’ultimo trimestre di gravidanza. È ovvio quindi che
bambini di 6 mesi siano già in grado di distinguere fra una lista di parole nella loro lingua ed una di parole in
una lingua straniera che differiscano x le proprietà prosodiche. Tali proprietà forniscono indizi importanti sui
confini di parola: ad es., in inglese il modello prosodico dominante prevede l’alternanza fra sillabe deboli (non
accentate) e sillabe forti (accentate) in cui il confine di parola si colloca solitamente prima di una sillaba
forte. Questa è un’altra regola importante x estrarre le singole parole dal discorso.
Ma queste regole vengono davvero usate? Jusczyc e Aslin hanno effettivamente dimostrato che i bambini
sono capaci di utilizzare i meccanismi percettivi di cui sopra x estrapolare parole singole dal flusso del discorso
attraverso uno studio in cui si presuppone che il bambino preferisca ascoltare suoni familiari piuttosto che
sconosciuti, e che tale preferenza sia rilevabile con l’orientamento del capo verso i suoni preferiti. Gli autori
hanno reso familiari a bambini di 7 mesi una serie di parole isolate, quindi hanno controllato la loro reazione
all’ascolto di frasi che potevano contenere o meno le parole già udite: i risultati dimostrano una tendenza dei
bambini a rivolgere il capo + spesso (o x + tempo) verso i suoni familiari.
Sembra quindi che i bambini di oltre 6 mesi siano capaci di riconoscere le parole ascoltate in isolamento anche
se queste vengono presentate all’interno di frasi, cioè nonostante la variabilità acustica dovuta a diversi
contesti. In un esperimento successivo, l’ordine delle prove è stato invertito: la familiarizzazione avviene su
frasi complete, e in seguito vengono presentate parole isolate. Anche in questo caso è stato dimostrato che i
bambini di + di 6 mesi possono riconoscere parole udite precedentemente all’interno di frasi.
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indici acustici: tali abilità sono infatti presenti anche quando si tratta di individuare “frasi musicali”. Si può
quindi ipotizzare che esista un meccanismo generale che facilita la percezione dei confini degli eventi acustici
complessi, meccanismo che nella specie umana si è evoluto x rendersi primariamente al servizio della
comprensione della struttura del linguaggio.
L’importanza della capacità di elaborare le informazioni prosodiche è data anche dal fatto che il bambino
sembra riuscire ad analizzare meglio le informazioni linguistiche quando queste sono provviste
dell’informazione prosodica. A giungere a questa conclusione è stato Mandel, che ha presentato ad un gruppo
di bambini di 2 mesi una frase prosodicamente ben formata, The rat chased white mice, e ad un altro gruppo le
stesse parole della frase, ma organizzate prosodicamente come una lista: rat, chased, white, mice, the. M. ha
poi testato entrambi i gruppi sulle loro capacità di discriminazione fonetica presentando una frase uguale alla
prima tranne che x un solo fonema, The cat chased white mice, ed ha visto che solo i bambini del primo
gruppo, che avevano ricevuto lo stimolo ben organizzato prosodicamente, si accorgevano della differenza. In
un secondo esperimento, M. pone a confronto gli effetti di 2 frasi con diversa organizzazione prosodica, anche
se le parole-chiave sono uguali. Un gruppo ascolta il brano Brigid really knows what cats like. Park benches
are their favourite thing to climb on; mentre l’altro ascolta Lisa doesn’t know anything about animals. Cats
like park benches. Testando i bambini con la frase Cats like dark benches, M. ha visto che solo i bambini del
2° gruppo percepivano la differenza.
In conclusione, possiamo dire che il bambino, nel 1° anno di vita, è in grado di raccogliere tantissime
informazioni sul linguaggio: sa molto di + di quanto possa esprimere.
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di produrre sillabe con le stesse caratteristiche di quelle presenti nelle lingue naturali: questa acquisizione è
importantissima, in quanto è proprio la sillaba a veicolare la maggior parte delle informazioni prosodiche.
La struttura sillabica è comune a tutte le lingue ed è composta da una vocale, da una o + consonanti e da una
transizione fra questi elementi. Nelle prime forme di lallazione abbiamo sillabe estremamente semplici
composte da consonante (solitamente occlusiva come /p/ o nasale come /m/) + vocale, che ben presto
vengono organizzate in sequenze ripetitive come /bababa/ . Compaiono anche sequenze in cui le consonanti
vengono variate, come /batada/, sempre + frequenti verso la fine del 1° anno.
Negli ultimi 30 anni, ci sono stati diversi cambiamenti x quanto riguarda la considerazione del ruolo della
lallazione nell’acquisizione del linguaggio. X molto tempo ha prevalso Jakobson, che sostiene una totale
discontinuità fra lallazione e sviluppo del linguaggio ipotizzando che nelle lallazioni si presentino tutti i suoni
possibili nelle lingue umane e che la loro comparsa sia dovuta solo a leggi fonologiche universali. Studi
successivi, xò, hanno sollevato molti dubbi sulla posizione di J. ed hanno riscontrato una continuità fra
produzione prelinguistica e linguaggio che riguarda principalmente 4 aspetti:
1) Acustica: le lallazioni e le prime parole hanno le stesse proprietà sia come tipo di suoni che come forma
delle sillabe.
2) Fonetica: prima di tutto, alcuni studi longitudinali hanno evidenziato che le differenze presenti nella
lallazione si riscontrano anche nelle prime parole. In secondo luogo, esistono nell’ambiente linguistico
caratteristiche melodiche che si ritrovano anche nelle lallazioni: questa scoperta si deve a de Boysson-
Bardiès, che ha fatto sentire a dei “giudici” non esperti in fonetica dei campioni di produzioni prelinguistiche di
bambini cresciuti in comunità diverse (francese, araba, cantonese) dimostrando che i giudici erano in grado di
distinguerli e, quindi, che l’organizzazione prosodica e ritmica è diversa x bambini esposti a lingue diverse già
nel periodo prelinguistico.
3) Differenze individuali nello sviluppo: la rilevazione delle differenze individuali nella produzione
prelinguistica viene messa in relazione con differenze nello sviluppo successivo. In quest’ambito, la scelta della
misura ottimale x caratterizzare le differenze individuali è un problema metodologico rilevante. Una misura
molto semplice, ma molto efficace, è data dalla quantità di vocalizzazioni prodotte in un dato intervallo di
tempo: Kagan, ad es., ha dimostrato che la quantità di vocalizzazioni prodotte a 4 mesi correla con l’ampiezza
del vocabolario a 27 mesi, anche se questa relazione è evidente solo nelle femmine. Questi primi risultati sono
stati confermati in ricerche successive, ad es. lo studio longitudinale condotto da Camp su 141 bambini, che ha
evidenziato ancora una volta come la quantità di vocalizzazioni prodotte fra i 4 e i 6 mesi sia il miglior
predittore di diverse misure dello sviluppo linguistico alla fine del 1° anno di vita.
Un secondo metodo di misura si basa sull’ipotesi di una successione ordinata di stadi di sviluppo linguistico:
l’ingresso precoce o tardivo in un dato stadio prelinguistico dovrebbe predire la velocità nell’acquisizione del
vocabolario. Ad es. Stoel-Gammon ha dimostrato che la complessità delle lallazioni rilevate a 9 mesi è
inversamente proporzionale all’età di comparsa delle prime parole.
Infine, si può ricorrere alla compilazione degli inventari fonetici di diversi bambini di età o ampiezza di
vocabolario equivalente. In questo caso, la quantità e il tipo delle consonanti prodotte, oltre alla complessità
della struttura sillabica, sono efficaci predittori del livello di sviluppo linguistico nei mesi successivi.
Esistono quindi dati incontrovertibili sulla continuità fra fase prelinguistica e sviluppo del linguaggio a livello
delle differenze individuali. L’individuazione dei processi e dei meccanismi che spiegano tale continuità è +
controversa. A questo riguardo si fa riferimento principalmente a 3 ipotesi:
• Importanza della pratica e del feedback: senza un adeguato esercizio nella produzione dei suoni in fase
prelinguistica, non si potrebbero sviluppare le capacità necessarie alla produzione delle parole. Questa ipotesi è
rafforzata dagli studi sui bambini sordi che, in mancanza di feedback acustico, possono presentare ritardi e
differenze nella produzione delle sillabe canoniche.
• Ipotesi maturazionista: le differenze individuali osservabili a livello prelinguistico sono la manifestazione
di uno sviluppo ± veloce di alcune aree del cervello deputate alle funzioni linguistiche; x cui la precocità
o il ritardo rimangono constanti nei vari momenti dello sviluppo. Questa ipotesi ovviamente ha bisogno della
dimostrazione che queste aree esistano e governino il comportamento linguistico: esiste solo uno studio che
fornisce questa dimostrazione, basato su alcune ricerche condotte su soggetti adulti nelle quali un’asimmetria a
dx nell’apertura della bocca durante i compiti linguistici è considerata una misura della specializzazione
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dell’emisfero sx. Gli autori hanno osservato la configurazione facciale di 10 bambini che producevano lallazioni
o altri suoni, trovando che l’asimmetria a dx nell’apertura della bocca è + frequente nella produzione di
lallazioni: questo dimostrerebbe l’attivazione dell’emisfero sx già nella produzione prelinguistica.
• Interazione fra produzione di suoni e risposta dell’ambiente sociale: la risposta dell’ambiente
sociale ai suoni del bambino può modificare i suoni da lui prodotti, come dimostrato da Bloom nei suoi
esperimenti con bambini di 3 mesi. In questi studi, un gruppo di bambini riceveva una risposta verbale
contingente a ogni suono prodotto; un altro gruppo riceveva risposte prodotte a caso: nel primo gruppo tali
risposte hanno portato ad un cambiamento nella qualità (non nella quantità) delle vocalizzazioni, che in breve
divengono + complesse, + articolate e vengono percepite come + simili a un linguaggio. I bambini che
producono queste vocalizzazioni, inoltre, sono percepiti dagli adulti come + socievoli e simpatici, il che ha delle
conseguenze importanti sulla lunghezza e sulla qualità delle interazioni sociali adulto-bambino.
4) Funzioni comunicative: si riscontra una continuità fra l’uso a scopo comunicativo dei suoni prelinguistici
e del linguaggio vero e proprio (prossimo capitolo).
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artificialmente il comportamento interattivo dell’adulto (paradigma della still face). Davanti ad un adulto non
responsivo, infatti, i bambini da 2 a 6 mesi modificano il grado di attivazione e distoglimento dell’attenzione e
manifestano emozioni negative. Sebbene replicati + volte, xò, questi risultati devono essere presi con cautela x
quanto riguarda l’ipotesi di una capacità precoce dei bambini di impegnarsi attivamente nelle interazioni sociali.
Alcune ricerche, infatti, mettono in dubbio che questa capacità sia presente fin dai primi mesi di vita: ad es.
Frye ha dimostrato che un osservatore, ignaro della situazione in cui il bambino è stato videoregistrato, può
stabilire se egli è solo o se interagisce con una persona o con un oggetto solo a partire dai 10 mesi di età del
bambino, xkè nei primi mesi i suoi comportamenti non sono abbastanza differenziati. È quindi possibile che la
sincronia interattiva fra madre e bambino sia frutto solo dell’opportuno inserimento dell’adulto nei cicli
comportamentali del bambino.
In molte delle ricerche sulle interazioni madre-bambino si usa il termine dialogo x indicare il tipo di scambio
all’interno della diade: attraverso questo termine si può individuare la relazione con il successivo sviluppo del
linguaggio. Infatti la struttura delle prime interazioni (trasmettere e ricevere segnali; alternare i turni etc.) è
analoga a quella delle conversazioni fra adulti. Quando il bambino inizia a parlare, xò, non si limita allo scambio
di segnali comportamentali: egli ha intenzione di comunicare qualcosa su un certo contenuto, ovvero un
referente esterno diverso dal mezzo usato x comunicare, e lo fa attraverso un codice convenzionale.
Nelle prime interazioni, come ad es. l’allattamento, non c’è intenzione comunicativa: x questo, x presupporre
una continuità fra comunicazione prelinguistica e linguaggio, bisogna capire come il bambino impara, nelle
prime interazioni, a comunicare intenzionalmente su qualcosa di esterno alla diade utilizzando un codice
convenzionale.
Da questa definizione si può capire che non tutte le comunicazioni hanno carattere intenzionale: un es. è dato
dal pianto, un comportamento comunicativo molto efficace x il bambino, ma che non è intenzionale. L’efficacia
comunicativa, infatti, non corrisponde alla competenza comunicativa, che richiede prima di tutto
l’intenzionalità. Non è semplice collocare definitivamente la nascita di questo costrutto: Reddy ritiene che
esistano principalmente 3 posizioni teoriche che hanno proposto una spiegazione del suo sviluppo.
1) Approccio cognitivista: deriva dalla posizione di Piaget e definisce l’intenzionalità come un
comportamento consapevole indirizzato ad un fine. X questo, ovviamente, richiede la rappresentazione
mentale del fine separata da quella dei mezzi x raggiungerlo. Inoltre, tutte le intenzioni (comprese quelle
comunicative) sono individuali e mentali: non si distingue fra azione intenzionale e comunicazione
intenzionale. Tuttavia, gli studi sulle prime interazioni madre-bambino provano che le capacità di interagire
col mondo sociale sono + precoci delle capacità di interazione col mondo fisico: è possibile quindi che lo
sviluppo dell’intenzionalità comunicativa segua un percorso almeno parzialmente indipendente da quello dello
sviluppo cognitivo. All’interno di questa prospettiva si colloca il lavoro di Bates, Camaioni e Volterra, un
classico fra le ricerche che postulano una continuità fra comunicazione prelinguistica e linguaggio: tale
continuità viene individuata nel fatto che il bambino è in grado, già nel periodo prelinguistico, di perseguire con
le vocalizzazioni e con i gesti gli stessi scopi comunicativi che perseguirà poi con il linguaggio. In particolare,
attraverso lo studio longitudinale di bambini di 2, 6 e 12 mesi in situazioni naturali, gli autori hanno rilevato la
comparsa della capacità di utilizzare l’adulto come mezzo x ottenere l’oggetto desiderato (intenzione
comunicativa richiestiva) e quella di utilizzare l’oggetto come mezzo x ottenere l’attenzione dell’adulto
(intenzione comunicativa dichiarativa). Successivamente, Camaioni abbandona l’idea che alla base delle
intenzioni comunicative strumentale e dichiarativa vi sia un’unica capacità cognitiva, ovvero la differenziazione
mezzi-fini: l’intenzione dichiarativa, infatti, richiede lo sviluppo della capacità di rappresentarsi gli stati mentali
altrui e della possibilità di influenzarli. X questo, il legame con lo sviluppo del linguaggio sarebbe una specificità
dell’intenzione dichiarativa, + che di quella strumentale.
2) Approccio basato sull’intersoggettività: Trevarthen propone un approccio opposto al precedente,
secondo cui il bambino è dotato dalla nascita della capacità di agire sulla base di intenzioni, una delle quali è
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quella di comunicare con altri esseri umani. Queste intenzioni innate, al contrario delle intenzioni vere e
proprie, non comprendono la rappresentazione mentale dello scopo da raggiungere e sono dette x questo
motivazioni. La motivazione ad avere interazioni con le persone dà luogo a quella che T. definisce
intersoggettività primaria: il bambino e l’adulto interagiscono attraverso un controllo reciproco e condiviso
dell’interazione sociale stessa. Quando questa motivazione si integra con un’altra motivazione innata, quella ad
interagire con gli oggetti, compare l’intersoggettività secondaria, cioè la capacità di condividere con le
persone l’attenzione e l’interesse x gli oggetti. Tale capacità segna il passaggio dalla motivazione all’intenzione
vera e propria.
3) Approccio interazionista: la comunicazione intenzionale emerge da un processo interattivo in cui anche
agli atti non intenzionali viene dato un valore intenzionale tramite un processo di attribuzione e costruzione di
significati, come sostenuto da Bates. Quindi, non è possibile distinguere nettamente fra comunicazione
intenzionale e comunicazione non intenzionale, ma lo sviluppo è progressivo e si svolge in uno scenario
interpersonale in cui diventa sempre + chiara la responsabilità del bambino nella specificazione degli scopi
che si vogliono ottenere con l’atto comunicativo.
Nonostante questi diversi pdv, gli studiosi sono comunque d’accordo sugli indici comportamentali che
identificano un determinato comportamento come intenzionale. Foster li ha elencati:
• Reiterazione del comportamento comunicativo vocale o gestuale che non riceve una risposta adeguata da
parte dell’adulto.
• Dimostrazione di disappunto o sconforto che cessa al momento della risposta dell’adulto.
• Gesti di prensione verso un oggetto non raggiungibile senza l’aiutodell’adulto.
• Uso sistematico e “ritualizzato” di espressioni facciali, gesti o vocalizzazioni in specifiche situazioni.
• Combinazione dello sguardo verso l’interlocutore con altri comportamenti comunicativi gestuali o vocali.
Gli studiosi sono concordi nel definire l’ultimo indice come il + affidabile.
3. La condivisione dell’attenzione
Una delle tappe + importanti dello sviluppo sta nell’imparare a coordinare la propria attenzione con quella dei
partner sociali, x condividere l’interesse verso un referente comune. Tale capacità, che si sviluppa alla fine del
1° anno, è alla base dell’intersoggettività secondaria e, secondo alcuni, anche dell’attività referenziale,
fondamentale x la comparsa del linguaggio vero e proprio.
Secondo Butterworth, la capacità di condividere l’attenzione con la madre è dovuta a 3 meccanismi:
• Meccanismo ecologico: consente al bambino, già a 6 mesi, di voltare lo sguardo verso la porzione di
spazio che la madre sta guardando e di soffermarsi sull’oggetto del suo interesse, purché questo sia unico e si
trovi all’interno del campo visivo del bambino.
• Meccanismo geometrico: permette, verso i 12 mesi, l’identificazione dell’oggetto preciso guardato dalla
madre fra + oggetti, con l’estrapolazione di una linea immaginaria fra la madre e l’oggetto del suo sguardo.
• Meccanismo spaziale rappresentazionale: a partire dai 18 mesi, i bambini sono in grado di voltarsi a
cercare l’oggetto dell’attenzione materna quando si trova alle loro spalle, ma solo se il campo visivo è vuoto.
La presenza di una vera e propria condivisione dell’attenzione, xò, implica la consapevolezza da parte dl
bambino che l’altro guarda la stessa cosa che guarda lui: tale consapevolezza è resa visibile, ad es.,
dall’alternanza sistematica dello sguardo verso l’adulto e verso l’oggetto, che compare solo verso la fine del 1°
anno ed è solitamente accompagnata da altri indicatori.
Accanto agli studi sulla comprensione della direzione dello sguardo, se ne sono sviluppati altri che riguardano la
capacità di comprendere il gesto di indicazione, definito come l’estensione del braccio e del dito indice x
segnalare un oggetto nel campo visivo. Questo gesto è specie-specifico x gli esseri umani, ma la sua
comprensione richiede comunque un periodo di sviluppo: a 6 mesi, infatti, il bambino tende a guardare la
mano della madre piuttosto che la porzione di spazio indicata, mentre a 12 mesi egli risponde correttamente
nella quasi totalità dei casi (sempre purché l’oggetto sia nel campo visivo). Il gesto di indicazione è + efficace
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del semplice sguardo prima di tutto xkè offre un indizio geometrico migliore; in secondo luogo xkè il bambino
potrebbe aver appreso precocemente che questo gesto è una sollecitazione intenzionale che richiede e dirige
l’attenzione di un’altra persona.
La capacità di produrre il gesto di indicazione sembra seguire uno sviluppo almeno parzialmente indipendente
da quello della capacità di comprenderlo. Tale gesto è infatti preceduto da altri gesti con una chiara funzione
comunicativa, ad es. quello di prensione x ottenere un oggetto non direttamente raggiungibile, il dare ed il
mostrare, che possono essere considerati la prima forma di condivisione dell’attenzione con l’adulto.
Secondo Vygotskij, il gesto di indicazione potrebbe avere un’origine strumentale, cioè derivare da
un’abbreviazione del gesto di prensione. Un’interpretazione alternativa invece vede la sua origine nell’attività di
esplorazione degli oggetti e lo considera una tappa dello sviluppo simbolico.
Sebbene l’estensione dell’indice si possa osservare già in bambini di 2 mesi, il gesto di indicazione nella forma
convenzionale si presenta solo alla fine del primo anno con funzione inizialmente richiestiva (ottenere un
oggetto) e, poco dopo, anche dichiarativa (condividere l’attenzione). In particolare, l’uso del gesto con
funzione dichiarativa indicherebbe lo sviluppo della capacità di attribuire stati mentali a sé stessi e agli altri.
La coordinazione del gesto di indicare con lo sguardo all’adulto attraversa un processo di sviluppo graduale,
durante il quale cambia anche la relazione temporale fra sguardo e gesto: a 12 mesi il controllo visivo avviene
dopo il gesto, mentre a partire dai 16 mesi avviene immediatamente prima.
4. Le vocalizzazioni prelinguistiche
Freedle e Lewis sostengono che i comportamenti di vocalizzazione costituiscono un sottosistema del sistema
comunicativo primitivo fra madre e bambino, e che tale sottosistema è + importante degli altri comportamenti
para-vocali. Questo pdv ha influenzato, a partire dagli anni ’70, diverse ricerche in cui il comportamento vocale
viene analizzato, oltre che nelle sue componenti fonoarticolatorie, anche nel significato che assume
nell’interazione madre-bambino. La conclusione + importante è che si può individuare un legame molto
precoce fra il comportamento vocale del bambino e le specifiche caratteristiche contestuali della situazione
interattiva. F. e L., ad es., hanno osservato che i comportamenti di vocalizzazione si verificano con maggiore
frequenza in alcune situazioni, che presentano caratteristiche specifiche come la distanza fra i membri della
diade, la possibilità di stabilire un contatto visivo etc. Inoltre, è + probabile che si presenti un comportamento
di vocalizzazione se la madre vocalizza al bambino; così come è + probabile che se il bambino vocalizza la
madre gli risponda con una vocalizzazione piuttosto che con un altro comportamento. Anche Delack e Fowlow
e D’Odorico hanno osservato le diverse frequenze dei suoni prodotti nei vari contesti interattivi, dimostrando
che i bambini fra gli 11 e i 18 mesi, prima della comparsa delle parole, producono delle forme foneticamente
stabili legate a specifiche situazioni ricorrenti. Ma il contributo + importante si deve sicuramente a Halliday,
che sostiene che il presupposto fondamentale x l’acquisizione del linguaggio sia la trasmissione culturale
delle funzioni che il linguaggio può assumere nelle interazioni fra esseri umani. Tale trasmissione avviene dal
momento in cui il bambino è immerso in un ambiente sociale. Secondo H., significati trasmessi con le varie
funzioni del linguaggio e la struttura che questo assume vengono acquisite più tardi rispetto alla capacità di
esprimere, anche con le sole vocalizzazioni, le funzioni comunicative essenziali x l’interazione. X
l’individuazione delle funzioni comunicative delle vocalizzazioni infantili, H. si basa su 2 requisiti fondamentali:
• Coerenza contestuale
• Stabilità della forma fonetica
In altre parole, in contesti simili il bambino deve produrre lo stesso tipo di suono xkè si possa dire che questo
suono ha una certa funzione comunicativa. Le diverse funzioni comunicative non compaiono tutte insieme: ad
es. la funzione regolatoria, x cui il bambino utilizza determinati suoni x influenzare l’adulto, è presente già a 3
mesi, mentre quella euristica, che mira ad ottenere informazioni sull’ambiente, è + tardiva.
D’Odorico e Franco hanno cercato di arrivare alle funzioni comunicative delle vocalizzazioni infantili “dal
basso”, cioè partendo dall’analisi dei contesti e non dalle funzioni comunicative del linguaggio adulto.
Attraverso uno studio quasi-longitudinale, che ha permesso di osservare 5 bambini nel periodo dai 4 ai 12 mesi
di vita, gli autori hanno confermato l’ipotesi dell’uso differenziato dei suoni a seconda dei contesti comunicativi.
La principale conclusione riguarda quindi la conferma dell’ipotesi che esista, da giovanissima età, una
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sistematicità delle relazioni fra suoni e contesti, che potrebbe essere alla base della corrispondenza suono-
significato necessaria x l’acquisizione delle parole.
Come accade x i gesti comunicativi, le vocalizzazioni prelinguistiche possono essere considerate realmente
intenzionali solo se coordinate con lo sguardo all’adulto. Tale coordinazione si realizza abbastanza
precocemente nelle interazioni faccia a faccia (circa 10 mesi), ma è + tardiva nei contesti interattivi triadici
(madre-bambino-oggetto).
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Down, che non sembra legata né all’età cronologica né allo sviluppo del vocabolario: ad es. sono stati osservati
bambini con vocabolario di meno di 30 parole che producevano + di 40 gesti di indicazione in 20 minuti, la
stessa quantità riscontrata in altri bambini con un vocabolario di oltre 300 parole. Nonostante un adeguato
sviluppo delle capacità comunicative prelinguistiche, i bambini con sindrome di Down presentano notevoli
ritardi nello sviluppo degli aspetti sintattici e morfologici del linguaggio, mentre nell’area lessicale non si
riscontrano particolari problemi. Il “salto” fra il numero di parole presenti nel vocabolario e il grado di abilità
sintattica è evidente nella produzione di enunciati di + parole: la capacità di combinare 2 o + parole si presenta
in questi bambini solo a circa 3 anni e ½ di età cronologica, e si riscontra in questa popolazione un maggior
numero di frasi telegrafiche.
6. Conclusione
Molte misure relative alla competenza prelinguistica in bambini con sviluppo nella norma si sono dimostrate
buoni predittori del ritmo di sviluppo del linguaggio. Ma questo non è sufficiente a sostenere che la competenza
prelinguistica sia essenziale x i processi sottostanti all’acquisizione del vocabolario e della sintassi: la relazione
fra comunicazione prelinguistica e ritmo di sviluppo si può infatti spiegare in vari modi:
1) È possibile che comunicazione prelinguistica e linguaggio abbiano basi cognitive comuni, x cui la
precocità o la rapidità nello sviluppo della prima testimonierebbero un migliore sviluppo di alcune capacità
cognitive essenziali anche x il secondo. Questa ipotesi è sostenuta da Delgado, secondo cui la capacità di
individuare l’oggetto dell’attenzione dell’adulto, se questo è posto alle spalle del bambino, richiede una serie di
competenze spaziali, rappresentazionali e cognitivo-sociali: x questo, un precoce sviluppo di queste
competenze ha effetti anche sul ritmo di sviluppo linguistico.
2) Un secondo approccio si basa sugli effetti dei comportamenti prelinguistici sull’ambiente sociale:
dato che tali comportamenti ricevono specifiche risposte dall’ambiente sociale, la loro precocità o la maggiore
frequenza aumentano la possibilità che il bambino venga esposto a informazioni utili x lo sviluppo del
linguaggio. A questo proposito, Masur ha dimostrato che nella quasi totalità dei casi la madre risponde al
gesto di indicazione del bambino fornendo il nome dell’oggetto indicato e che questo tipo di risposta è +
frequente intorno ai 14 mesi. Un bambino che produce precocemente molti gesti di indicazione rende + facile
alla madre capire qual è l’oggetto della sua attenzione, e le consente di fornire il nome dell’oggetto in una
situazione in cui è + probabile che il bambino capisca il legame parola-oggetto. Da questo pdv quindi il legame
fra comunicazione prelinguistica e linguaggio non è individuato solo nelle competenze del bambino, ma in tutto
ciò che accade nella situazione interattiva: questa spiegazione richiama la prospettiva di Bruner, secondo cui
le situazioni interattive in cui nasce e si sviluppa la comunicazione prelinguistica si svolgono secondo modalità
ricorrenti e prevedibili dette format, che consentono al bambino di determinare con maggiore facilità l’oggetto
dell’attenzione dell’adulto.
1. Tappe di sviluppo
Il passaggio dalla comunicazione prelinguistica a quella linguistica non avviene all’improvviso, ma è mediato
dalla produzione di varie forme foneticamente stabili ± somiglianti alle parole del linguaggio adulto.
Distinguere fra queste proto-parole e le parole vere e proprie non è semplice: x questo, Vihman e McCune
hanno proposto alcuni criteri distintivi, il primo dei quali si riferisce alle caratteristiche formali della produzione
mentre gli altri riguardano maggiormente l’uso che il bambino ne fa. La certezza che la produzione è
classificabile come parola è data dalla presenza simultanea di tutti i criteri, mentre la presenza di uno o due
lascia un margine di dubbio.
• Deve esserci una certa somiglianza fonetica con la forma adulta.
• La “parola” deve essere prodotta almeno una volta in un contesto in cui quella parola è la + appropriata.
• X contro, la “parola” non dovrebbe essere usata in un contesto inappropriato.
• La madre dovrebbe identificare l’espressione del bambino come una parola dotata di significato.
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• L’espressione, anche con minime variazioni, deve essere presente + volte nelle produzioni infantili.
Esiste una notevole somiglianza fra le diverse lingue riguardo le prime parole prodotte dai bambini: si tratta x
la maggior parte di onomatopee di versi di animali o suoni di veicoli; di termini che indicano le persone
emotivamente significative o i cibi; e di espressioni riferite a routine quotidiane, ad es. ciao, grazie etc.
Le prime parole dei bambini, inoltre, sono fortemente contestualizzate, cioè collegate a specifici contesti o
azioni. Questo ha portato gli studiosi a chiedersi se sia corretto classificare queste prime parole in base allo
status grammaticale che avrebbero nella lingua adulta (cioè come nomi, pronomi, verbi etc.). In realtà,
proprio x il loro legame col contesto e x l’assenza di un contesto frasale che testimoni la conoscenza della
grammatica da parte del bambino, è meglio categorizzarle in base al loro uso. Ad es., Vihman e McCune
distinguono fra:
• Nominali: parole usate in riferimento ad oggetti o persone.
• Parole evento: espressioni riferite a trasformazioni spaziali o temporali cui manca lo status di verbo (es.
ham ham x indicare sia il cibo, che l’atto del mangiare, che l’avere fame).
Quando i bambini cominciano a parlare, il loro ritmo di acquisizione è lento. Successivamente xò, come
testimoniato da molti studi, si assiste ad un improvviso e marcato incremento del ritmo di apprendimento di
nuove parole. Questo fenomeno è stato chiamato esplosione del vocabolario (vocabulary spurt) e i primi
studi l’hanno individuato nel 2° anno di vita, ipotizzando un suo legame con un vocabolario di almeno 50
parole. In seguito alla scoperta dell’esplosione del vocabolario, ci si è chiesti prima di tutto se essa fosse
manifestazione di processi cognitivi o linguistici necessari x l’acquisizione del linguaggio o semplicemente
espressione di particolari strategie di apprendimento del lessico. Nel primo caso tale fenomeno si osserverebbe
in tutti i bambini, mentre nel secondo sarebbe soggetto a differenze individuali. I risultati sperimentali finora
ottenuti non sono conclusivi e sembrano in parte contraddittori: ad es., Goldfield e Reznick non hanno
osservato nel loro campione (14-22 mesi) alcuna esplosione del vocabolario, mentre Mervis e Bertrand hanno
dimostrato che tale fenomeno può presentarsi anche tardivamente. Quest’ultimo dato sembra confermato da
una ricerca longitudinale di D’Odorico in cui tutti i bambini hanno manifestato l’esplosione del vocabolario,
anche se con grande variabilità rispetto sia all’età di comparsa che al numero di parole presenti nel
vocabolario.
Il fatto che l’esplosione del vocabolario sia la manifestazione di un reale cambiamento evolutivo sembra
confermato dal fatto che, nei mesi successivi, la crescita del vocabolario rimane molto rapida in confronto a
quella precedente il fenomeno (50 nuove parole/mese contro 7 nuove parole/mese). Possiamo anzi dire che, in
generale, l’andamento dello sviluppo quantitativo del vocabolario sembra molto influenzato dall’età di
comparsa dell’esplosione del vocabolario: in una ricerca longitudinale Fasolo e D’Odorico hanno osservato 23
bambini selezionati a 18 mesi x un’ampiezza di vocabolario particolarmente scarsa, dimostrando che in questi
bambini la comparsa dell’esplosione del vocabolario è + tardiva rispetto ai soggetti con sviluppo tipico, mentre
il numero di parole al momento della manifestazione del fenomeno è simile. Inoltre, i bambini che al momento
della conclusione della ricerca (30 mesi) non avevano ancora manifestato il fenomeno raggiungevano
un’ampiezza di vocabolario molto inferiore a quella dei bambini con sviluppo tipico di pari età, tanto da essere
considerati a rischio di Disturbi Specifici del Linguaggio.
Data quindi la grande importanza dell’esplosione del vocabolario, è necessario indagare sui processi evolutivi
che la rendono possibile. Ci sono varie ipotesi esplicative:
1) McShane: l’esplosione del vocabolario è dovuta all’improvvisa scoperta che i nomi sono simboli che si
riferiscono ad entità del mondo. Tale spiegazione, xò, non tiene conto che l’uso di sequenze di suoni a scopo
referenziale è evidente già nelle prime fasi di acquisizione del linguaggio.
2) Gopnik e Meltzoff: fanno riferimento ad uno sviluppo sottostante di natura concettuale, x cui il legame
suono-significato non sarebbe + soltanto associativo, ma si baserebbe su una comprensione + sofisticata. In
particolare, G. e M. sostengono che alla base dell’esplosione del vocabolario ci sia la comprensione del fatto
che gli oggetti non sono entità isolate, ma si possono raggruppare in categorie. Questa ipotesi si basa su una
loro ricerca longitudinale in cui i bambini manifestavano l’esplosione del vocabolario a poche settimane dal
momento in cui si dimostravano capaci di classificare gli oggetti.
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3) Golinkoff: fa riferimento all’operatività dei principi di acquisizione del vocabolario, sostenendo che
l’esplosione del vocabolario segni il passaggio da una prima serie di principi, che servono a costruire la base
lessicale, ad una seconda serie che porta ad una maggiore efficienza nell’acquisizione delle parole.
4) Plunkett: quando il bambino comincia a costruirsi un vocabolario, non ha ancora imparato completamente
a segmentare gli input linguistici in parole, come dimostrato dalla presenza, nelle produzioni dei bambini, di
espressioni + lunghe (formule) o + corte (forme sub-lessicali) delle parole. Dato che alla comparsa
dell’esplosione del vocabolario queste espressioni diminuiscono sensibilmente, secondo P. questo è il momento
in cui il bambino acquisisce del tutto l’abilità di segmentazione in parole. In realtà, xò, i bambini dimostrano,
già nel 1° anno di vita, notevoli capacità di segmentazione del parlato.
5) Nazzi e Bertoncini: ritornano all’ipotesi che l’esplosione del vocabolario sia legata allo sviluppo cognitivo
sostenendo che, mentre nelle prime parole il bambino è in grado di formare solo semplici legami schema
sonoro-oggetto specifico, con la maturazione l’acquisizione del vocabolario si basa su legami schema
sonoro-categoria di oggetti. Da questo pdv quindi, a circa 18 mesi si assiste all’integrazione fra la capacità
di categorizzare gli oggetti e quella di formare rappresentazioni degli schemi fonetici, che prima si erano
sviluppate in modo indipendente: tale integrazione dà origine ad una nuova competenza specificatamente
linguistica, che permette il rapido incremento del vocabolario.
Nella lingua coreana, ad es., non sono obbligatori né il soggetto né il complemento oggetto, mentre il verbo lo
è; molte distinzioni semantiche che in inglese si fanno con gli avverbi sono fatte coi verbi; infine la costruzione
della frase è di tipo soggetto-oggetto-verbo, il che conferisce ancora maggiore importanza al predicato. C. e G.
hanno infatti verificato che nel vocabolario dei bambini coreani i verbi sono presenti in misura molto maggiore
rispetto ai bambini inglesi. X quanto riguarda la lingua italiana la flessibilità nell’ordine delle parole, la
possibilità di omettere il soggetto, l’uso frequente di pronomi che permettono di costruire frasi del tipo
soggetto-oggetto-verbo (es. Lo prendi?) e la ricca morfologia dei verbi la rendono + simile al coreano che
all’inglese. Eppure, uno studio di Caselli ha evidenziato una netta prevalenza dei nomi rispetto ai verbi nel
vocabolario dei bambini italiani. Altri dati vengono da Fasolo e D’Odorico che hanno dimostrato che nella 1°
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fase di acquisizione del vocabolario (50 parole) prevalgono onomatopee, routine etc, ma già a 100 parole i
nomi sono la categoria + presente e lo rimangono a 200 e 500 parole. L’acquisizione dei verbi da parte dei
bambini italiani, xò, sebbene percentualmente inferiore a quella dei nomi, segue una traiettoria differente da
quella dei bambini inglesi. In inglese, infatti, all’aumentare dell’ampiezza del vocabolario l’incremento
percentuale di nomi e verbi rimane abbastanza simile, mentre in italiano, sempre all’aumentare dell’ampiezza
del vocabolario, la proporzione dei nomi aumenta solo leggermente mentre quella dei verbi triplica. Anche se la
categoria dei nomi rimane comunque la + ampia, quindi, i bambini italiani sembrano apprendere i verbi con +
facilità di quelli inglesi.
Il confronto fra le diverse ricerche in questo campo è complicato dall’influenza di vari fattori sull’analisi della
composizione del vocabolario:
• Ampiezza del vocabolario in relazione alla quale viene effettuata l’analisi: data l’estrema variabilità
nello sviluppo quantitativo del vocabolario nel 2° anno di vita, i risultati dell’analisi dei vocabolari di bambini
equiparati x età non sono attendibili.
• Estrapolazione di linee di sviluppo da ricerche trasversali e non longitudinali: non è ugualmente
attendibile, viste le grandi differenze individuali nelle prime fasi di acquisizione del linguaggio.
• Metodo impiegato x raccogliere i dati sulla composizione del vocabolario: l’uso di questionari
basati su liste di vocaboli prefissati fra i quali i genitori devono scegliere quelli prodotti dal bambino dà
ovviamente risultati diversi da quelli ottenuti con la compilazione di diari liberi o con la registrazione delle
produzioni spontanee.
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senza nome. Questo principio, che è di grande aiuto nelle prime fasi di acquisizione del vocabolario, ad un certo
momento dello sviluppo deve necessariamente essere inibito, altrimenti il bambino non riuscirebbe a capire che
lo stesso oggetto può essere chiamato con nomi diversi.
Merriman ha dimostrato che il principio della Mutua Esclusività può essere usato anche nell’apprendimento dei
verbi attraverso un esperimento in cui mostrava a bambini di 2 anni dei brevi filmati in cui appariva un uomo
che eseguiva delle semplici azioni, alcune delle quali familiari ai bambini ed altre no. M. chiedeva poi ai bambini
“in quale filmato c’è la persona che…(verbo inventato)?”: i bambini sceglievano con maggior frequenza il
filmato in cui appariva un’azione x cui non avevano ancora un’etichetta verbale.
Altri autori, invece, hanno proposto principi che fanno riferimento alla struttura della frase in cui la nuova
parola è inserita: ad es. quello x cui, sentendo una frase del tipo “questo è un…(parola nuova)”, ci si può
aspettare che il nuovo termine sia un nome. Questo principio assume che il bambino abbia una conoscenza
della struttura della lingua tale da riconoscere, ad es., che è impossibile che dopo un articolo indeterminativo ci
sia un verbo. In realtà, non è possibile che nelle prime fasi di acquisizione del vocabolario il bambino abbia già
acquisito questa conoscenza; il principio, xò, potrebbe diventare operativo in una fase successiva.
Golinkoff ha proposto un modello evolutivo secondo cui i principi che guidano il bambino nell’interpretazione
delle nuove parole non diventano tutti contemporaneamente operativi fin dalle prime fasi di sviluppo, ma sono
organizzati in 2 serie:
I 1° serie: i principi che ne fanno parte sono sufficienti a stabilire una prima base lessicale.
• Principio della Referenza: quando il bambino comincia ad apprendere le prime parole sa già che esse
rappresentano simbolicamente alcuni aspetti del mondo. Questo principio opera già nella prima metà del 2°
anno, quando il bambino ricerca attivamente indici di tipo sociale che gli permettano di capire a cosa si
riferisce la parola udita: ad es. Baldwin ha dimostrato che, quando adulto e bambino sono focalizzati su 2
oggetti diversi e l’adulto pronuncia un termine nuovo, il bambino apprende tale termine in riferimento a ciò su
cui è focalizzato l’adulto, e non all’oggetto della propria attenzione.
• Principio dell’Estensione: una stessa parola è usata x + referenti e non solo x l’esemplare in relazione al
quale è stata appresa. Molti esempi in letteratura dimostrano come le prime parole del bambino non seguano
questo principio, ma il processo di decontestualizzazione del significato delle parole è molto rapido. Questo,
xò, non significa che il tipo di esemplari cui il bambino estende l’uso di una data parola coincida con quello
dell’adulto: lo sviluppo nel significato delle parole prosegue fino all’età scolare e oltre.
• Principio dell’Oggetto: è simile alla Whole Object Assumption e stabilisce che il bambino tende ad
assegnare i termini nuovi ad oggetti interi e non a loro parti o attributi. L’esistenza di questo principio è stata
documentata sia nell’analisi delle produzioni spontanee che in compiti sperimentali, e la sua origine cognitiva
potrebbe trovarsi nella salienza percettiva che gli oggetti interi assumono x il bambino a partire dallo
sviluppo della permanenza dell’oggetto, nel 1° anno di vita.
II 2° serie: i principi che ne fanno parte diventano operativi in un secondo momento dello sviluppo.
• Principio dell’Ambito Categoriale: può essere considerato uno sviluppo del principio dell’Estensione, xkè
induce il bambino ad estendere sistematicamente i nuovi nomi ad altri esemplari appartenenti alla stessa
categoria dell’oggetto x cui il termine viene imparato.
• Principio N3C o Novel Name-Nameless Category: è simile al principio della Mutua Esclusività e prevede
che una parola nuova verrà preferibilmente usata x indicare un oggetto x cui il bambino non ha ancora un
nome. Questo principio non esclude che il bambino possa apprendere un nuovo termine in relazione a un
oggetto x cui ha già un nome, ma non spiega come questo possa accadere.
• Principio della Convenzionalità: il bambino si aspetta che i significati assumano forme convenzionali
all’interno di una data comunità linguistica, permettendogli quindi di correggersi facilmente in caso di errori.
I principi di G. sono molto diversi da quelli proposti da Chomsky x l’acquisizione della sintassi: sono infatti +
flessibili, + influenzabili dall’esperienza e + soggetti a differenze individuali. Da questo pdv la loro natura non è
solo specificatamente linguistica e biologicamente determinata, ma è il prodotto delle informazioni linguistiche,
delle caratteristiche dell’ambiente sociale e delle capacità cognitive.
La maggior parte degli studi che si sono occupati dei processi sottostanti all’acquisizione delle parole si è
limitata alla categoria dei nomi, dato che le prime ricerche sull’acquisizione del vocabolario sembravano
indicarla come predominante. Molti dei processi indicati in questi studi come importanti x l’acquisizione dei
nomi concreti, xò, non sembrano efficaci nella spiegazione di come il bambino possa imparare prima di tutto la
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differenza fra un nome e un verbo, e in secondo luogo il significato dei vari verbi. L’ipotesi generale che
l’apprendimento di un nome sia facilitato dalla continuità temporale fra la presentazione di una parola e la
visione del suo referente ovviamente non vale x i verbi, primo xkè di norma i genitori usano i verbi x anticipare
eventi o x controllare i comportamenti dei figli piuttosto che x descrivere un’azione; secondo xkè i verbi si
riferiscono ad azioni e cambiamenti di stato che hanno natura transitoria, e che quindi non sono
percettivamente a disposizione del bambino quando il verbo viene pronunciato.
L’ipotesi predominante nell’ambito dell’interpretazione dei verbi è quella del Syntactic Bootstrapping,
secondo cui il bambino si basa sulla struttura sintattica della frase in cui il verbo è inserito x arricchire le
informazioni provenienti dal contesto linguistico, che da sole non bastano x restringere il campo di significati
che il verbo può avere. Tale ipotesi si basa su un esperimento di Naigles e Kako in cui venivano mostrati, a
bambini di 2 anni, filmati in cui comparivano 2 eventi, uno di tipo causativo (un personaggio faceva qualcosa
ad un altro) e l’altro di tipo non causativo (i due personaggi compiono la stessa azione insieme). In seguito, i
bambini sentivano un verbo inventato all’interno di una struttura sintattica transitiva (es. “Il personaggio 1
sta…il personaggio 2”) o intransitiva (es. “I personaggi stanno…”): i bambini tendevano a guardare di + la
scena causativa quando sentivano la frase in forma transitiva e viceversa.
L’ipotesi del Syntactic Bootstrapping si basa ovviamente sull’assunto che il bambino conosca alcune distinzioni
sintattiche presenti nel linguaggio ancor prima di cominciare ad acquisirlo. In realtà, xò, nelle prime fasi di
acquisizione del linguaggio il bambino non dà prova di conoscere la struttura sintattica della lingua. X questo,
Tomasello ha proposto un’ipotesi alternativa secondo cui la comprensione, da parte dei bambini, degli atti di
referenza compiuti dagli adulti farebbe parte di una loro generale e precoce capacità di comprendere le
intenzioni dei partner sociali.
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significati a seconda degli autori che lo usano, e spesso alla dimensione descrittiva si sovrappone quella
esplicativa: in molti casi, infatti, le abilità linguistiche presenti ad un dato stadio vengono ricondotte a precisi
meccanismi di sviluppo operativi in quel dato momento. Questo risulta particolarmente evidente nell’analisi
delle prime fasi dello sviluppo linguistico, fra le quali è presente un periodo in cui il bambino comunica
attraverso enunciati di una sola parola.
Tali enunciati sono definiti olofrasi, parola che indica che il bambino, pur usando una sola parola, vuole
trasmettere un significato + complesso di quello trasmesso da quella parola. Questa fase dello sviluppo
linguistico viene caratterizzata in vari modi (es. come il momento in cui compaiono le olofrasi, come il periodo
in cui esse dominano sulle altre produzioni o come la fase caratterizzata da limitazioni che non permettono al
bambino di pronunciare + di una parola x volta), ma nessuna delle definizioni riesce a delimitarne i confini.
Infatti, le prime parole almeno simili a quelle del linguaggio adulto sono prodotte già a partire dagli 8-10 mesi,
mentre la piena produttività delle espressioni di + parole si colloca a circa 24 mesi. Ma se consideriamo il
criterio della dominanza, le olofrasi rimangono prevalenti anche quando la produzione di enunciati di + parole è
consolidata.
Comunque, all’uniformità formale e strutturale che caratterizza questo stadio, data dal fatto che i bambini
producono espressioni di una sola parola, potrebbe non corrispondere altrettanta uniformità nelle competenze
sottostanti. Infatti, durante questo lungo stadio potrebbero cambiare le intenzioni comunicative con cui le
olofrasi sono prodotte o i significati che veicolano.
L’unico modo x scoprire il significato delle espressioni di una sola parola è considerare il contesto interattivo
extralinguistico in cui l’espressione è prodotta. La necessità di usare informazioni non linguistiche nello studio
del linguaggio infantile può essere ricondotta a Bloom, che ha sottolineato come senza considerare questi
aspetti non è possibile individuare i legami semantici sottostanti alle prime combinazioni di parole. È evidente
dunque che le informazioni contestuali diventano ancora + importanti nel caso delle olofrasi: il primo lavoro
che utilizza queste informazioni x comprendere gli enunciati di una sola parola è quello di Greenfield e Smith,
in cui appunto viene seguita la comparsa di diverse funzioni semantiche identificate sulla base di
informazioni situazionali e dell’osservazione dell’uso concomitante di sguardi e gesti da parte del bambino. Il
concetto di funzione semantica, in questo caso, si basa sull’assunto che il bambino codifichi gli eventi del
mondo sulla base di relazioni semantiche (es. Agente di un’Azione su un Oggetto), ma che nelle prime fasi
dello sviluppo linguistico sia in grado di esprimere verbalmente solo uno degli elementi della relazione. Le
principali funzioni comunicative sono, secondo gli autori:
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• Presenta un’ipotesi su quale sia la funzione semantica che il bambino sceglie di codificare linguisticamente
in ogni atto comunicativo.
Secondo G. e S., infatti, il bambino sceglie di codificare linguisticamente gli elementi dell’evento +
informativi, cioè + incerti. Ad es., se il bambino è certo dell’identità dell’Oggetto xkè ce l’ha in mano, tenderà
ad esprimere l’Azione in cui esso è coinvolto, e viceversa. Questa ipotesi, xò, è molto difficile da verificare
empiricamente e presuppone che il bambino abbia delle capacità di valutazione dell’informatività
dell’espressione verbale rispetto al contesto extralinguistico di cui non è mai stata provata l’esistenza.
In alternativa, Griffiths propone un’analisi del periodo delle olofrasi basata sul concetto di atto illocutivo,
cioè sulla funzione comunicativa delle espressioni infantili. Gli atti comunicativi espressi con gli enunciati di una
sola parola x G. sono:
Tuttavia, anche questa interpretazione è talvolta eccessivamente restrittiva rispetto alla complessità dei
significati trasmessi dal bambino. Infatti, se la produzione di parole singole può essere riportata, in alcuni casi,
all’espressione di un singolo atto comunicativo, in altri sembra indicare linguisticamente un solo elemento di
una sorta di scenario comunicativo presente percettivamente o rappresentativamente x il bambino. Da
questo pdv, la comunicazione con l’adulto funziona xkè questi scenari comunicativi sono condivisi fra adulto e
bambino sulla base delle esperienze precedenti e ripetute, quindi possono costituire gli argomenti della
“conversazione”. In questo contesto il ruolo dell’adulto consiste nel fornire al bambino informazioni sul modo in
cui la struttura del linguaggio può codificare quella degli eventi, a partire dal singolo elemento su cui si
concentra l’attenzione del bambino.
Non è ancora chiara, a tutt’oggi, la natura delle limitazioni che impediscono ai bambini di usare gli item lessicali
acquisiti in combinazione anziché in modo isolato. Un possibile modo x ottenere informazioni è quello di
analizzare il passaggio dalle espressioni di una sola parola alle prime combinazioni di parole: in molti studi si
dimostra come questo passaggio sia mediato da particolari tipi di enunciati che esemplificano i processi che
portano alla formazione degli enunciati complessi.
2. Le forme di transizione
Nonostante l’enfasi data alla produzione delle olofrasi, ben presto gli studiosi si accorsero della presenza, nelle
produzioni infantili, di enunciati di lunghezza superiore alla parola singola, anche se privi di un legame
strutturale fra gli elementi. Queste espressioni sono state definite enunciati transizionali o forme di
transizione, e si è ipotizzato che facilitassero lo sviluppo delle capacità di combinare le parole fra loro.
La tipologia + semplice di enunciato transizionale è costituita dalle forme di transizione transmodali, in cui
si combinano appunto 2 modalità: gestuale (gesto) e verbale (parola). Esistono vari tipi di enunciati
transmodali:
• Combinazioni equivalenti: entrambi gli elementi veicolano lo stesso significato (es. fare CIAO con la
mano e dire “ciao”).
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• Combinazioni complementari: i due componenti si riferiscono allo stesso referente, ma uno di questi è
un elemento deittico (es. INDICARE un fiore e dire “fiore”).
• Combinazioni supplementari: uno dei due elementi aggiunge informazioni all’altro, sia riguardo lo stesso
referente (es. INDICARE un uccellino e dire “dorme”) che riguardo a 2 diversi referenti (es. INDICARE una
tazza e dire “mamma”).
Una forma + evoluta di enunciato transizionale è costituita dalle forme in cui entrambi i componenti sono
vocali. Una espressione linguistica può essere definita combinazione di parole solo se vengono prodotte, in
stretta successione temporale, + parole legate fra loro da relazioni semantiche x cui il significato della
combinazione è diverso da quello delle singole parole che la compongono, quindi l’atto illocutivo che i compie è
uno solo. Si può quindi capire che la produzione di combinazioni di parole implica:
1) Concatenamento temporale: capacità di produrre + elementi in sequenze temporalmente ravvicinate.
2) Relazionalità semantica: capacità di stabilire una relazione di significato fra + elementi.
3) Competenze prosodiche e grammaticali: capacità di imporre un legame strutturale unificante.
Gli enunciati composti da + parole, ma che non soddisfano questi 3 criteri, non sono combinazioni di parole. La
forma + nota di questo tipo di enunciati “incompleti” è quella delle parole concatenate o catene, in cui
manca la relazionalità semantica, cioè sono presenti + parole espresse in successione temporale stretta fra cui
però non c’è relazione di significato. I criteri che permettono l’identificazione di questo tipo di enunciati
transizionali non sono uniformi in tutti gli studi: ad es., Brannigan utilizza esclusivamente il criterio
temporale, classificando come catene le espressioni con una pausa fra le parole che va da 400 a 110 msec.,
senza considerare le relazioni semantiche. Moneglia e Cresti, invece, usano un criterio intonativo x cui la
presenza di 2 profili intonativi diversi dà luogo a 2 atti linguistici diversi. Sicuramente questi 2 criteri sono
importantissimi, xkè permettono di distinguere fra espressioni che, anche se formalmente simili o identiche,
appartengono a tipologie diverse. Ad es. l’enunciato No a casa può essere la risposta ad una domanda del tipo
Hai le caramelle?, quindi essere costituito da 2 atti linguistici, oppure essere l’espressione della volontà del
bambino di non andare a casa, e quindi costituire una vera e propria combinazione di parole. Secondo
D’Odorico e Carubbi, le parole concatenate si presentano nella produzione infantile in 3 tipologie diverse,
tutte caratterizzate da una pausa fra le parole inferiore ad un sec.
I Le due parole si riferiscono a due diversi aspetti dell’ambiente che hanno attirato l’attenzione del bambino
(es. cane, gatto indicando 2 figure in successione).
II La produzione è composta da un vocativo + una parola riferita a qualche elemento dell’ambiente su cui il
bambino vuole attirare l’attenzione dell’interlocutore (es. mamma, cane).
III Il bambino produce la risposta ad una domanda di tipo sì/no ed aggiunge un’informazione (es. Vuoi aprire
tu la scatola? No, mamma, nel senso di No, aprila tu, mamma). Ovviamente, in questa forma di transizione è
importante che il bambino sia capace di concepire due diversi atti comunicativi e di esprimerli linguisticamente
in stretta successione temporale.
La mancanza della relazionalità semantica si ritrova anche nella forma transizionale detta ripetizione
orizzontale, in cui la stessa parola viene ripetuta nello stesso turno conversazionale, e in quella detta finta
combinazione, in cui si ha un elemento significante unito a uno o + elementi non identificabili come parole.
L’identificazione delle finte combinazioni rappresenta un particolare problema metodologico xkè la forma
multisillabica non riconoscibile come parola potrebbe essere prodotta dal bambino come elemento privo di
significato che “allunga” semplicemente l’enunciato, e questo confermerebbe la natura transizionale
dell’espressione, oppure potrebbe essere un tentativo da parte del bambino di produrre una parola vera non
riconosciuto dall’osservatore, e in questo caso la classificazione dell’enunciato potrebbe essere un’altra.
Un problema analogo si ritrova anche x quanto riguarda le costruzioni verticali, in cui il bambino mette in
relazione 2 elementi significanti attraverso 2 turni conversazionali, con l’aiuto di un “ponte” fornito dalla madre.
Ad es.:
B: bimbo.
M: cosa dai al bimbo?
B: pappa.
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Il bambino, quindi, è in grado di mettere in relazione i due elementi lessicali, ma non riesce a farlo con
contiguità temporale né a imporre loro un legame unificante di tipo prosodico o sintattico. La valutazione del
ruolo di questo tipo di forma di transizione nello sviluppo linguistico non è facile da misurare, xkè dipende
strettamente dal tipo di conversazioni fra madre e bambino e, in assenza degli opportuni interventi materni,
non può proprio realizzarsi.
Abbiamo poi le formule o espressioni formulaiche, enunciati complessi che il bambino acquisisce dal parlato
adulto ed utilizza come un intero non analizzabile. Anche qui, l’identificazione non è semplice, ma esistono
alcuni criteri che riguardano:
1) Produttività degli elementi di una espressione: ad es., Che cos’è? si considera una formula se la
copula è non viene osservata in nessun’altra produzione del bambino.
2) Fluenza e precisione articolatoria con cui l’espressione è prodotta: solitamente, le formule sono
caratterizzate da buona fluenza e scarsa precisione nell’articolazione dei fonemi che le compongono.
3) Complessità grammaticale dell’enunciato: solitamente nelle formule il bambino utilizza forme verbali o
marcatori morfologici non presenti nella sua produzione abituale.
4) Comparsa frequente dell’enunciato nel parlato dei genitori o della comunità linguistica.
5) Uso frequente e ripetuto dell’espressione da parte del bambino.
Anche se è molto difficile individuare la presenza di tutti questi criteri quando si analizza la produzione
linguistica del bambino, è importante tener presente che le formule, insieme ad altre espressioni usate dal
bambino, possono non essere utilizzabili x descrivere correttamente la sua competenza linguistica. Infatti, se
come misura di tale competenza si utilizza ad es. la Lunghezza Media dell’Enunciato e si includono nel
calcolo anche le formule, ovviamente la competenza del bambino verrà sovrastimata.
L’ultima tipologia di enunciato transizionale ha una natura diversa dalle precedenti: non si tratta infatti di una
strategia di allungamento degli enunciati, ma sembra essere una forma di transizione verso la realizzazione
degli elementi morfologici liberi come gli articoli o le preposizioni. Consiste nel preporre alle parole di
contenuto un elemento indifferenziato di tipo vocalico, che fa da “segnaposto” x elementi ancora non realizzati
linguisticamente.
RICAPITOLANDO:
1) Forme transmodali.
2) Parole concatenate o catene.
3) Ripetizioni orizzontali.
4) Finte combinazioni.
5) Costruzioni verticali.
6) Formule o espressioni formulaiche.
7) Parole di contenuto + elemento vocalico.
Una serie di ricerche di D’Odorico e Carubbi su bambini italiani ha permesso di costruire un quadro
abbastanza chiaro delle forme di transizione nella lingua italiana. Prima di tutto, si può dire che la comparsa di
tali forme richiede un’ampiezza minima del vocabolario, quantificata dagli autori in circa 16 parole, e coincide
con la comparsa delle prime olofrasi. Nello specifico, D. e C. hanno suddiviso un gruppo di bambini di 16 mesi
in 2 sottogruppi sulla base dell’ampiezza di vocabolario (± di 16 parole) ed hanno riscontrato le forme
transizionali in tutti i bambini del 1° gruppo, ma solo in 1 bambino del 2°. Tali forme sono state inoltre
riscontrate anche in bambini di 12 mesi che avevano già raggiunto la soglia delle 16 parole.
Questa relazione fra ampiezza di vocabolario e produzione di enunciati transizionali si fa sempre + stretta col
tempo: Carubbi ha verificato che i bambini che a 16 mesi producevano almeno 3 esempi di forme di
transizione durante l’osservazione avevano un vocabolario molto + ampio rispetto ai bambini che ne
producevano meno di 3.
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In secondo luogo, le forme di transizione restano presenti nel repertorio del bambino x un periodo molto lungo,
e coesistono con la comparsa delle prime combinazioni di parole. Esiste inoltre una grande variabilità
individuale nella produzione di enunciati transizionali, sia riguardo la frequenza che il tipo di forma
prevalentemente utilizzata.
Gli studi sul ruolo specifico delle forme di transizione nello sviluppo del linguaggio sono ancora pochi, ma è
importante chiedersi se la presenza di queste forme rappresenti semplicemente lo sforzo, da parte del
bambino, di allungare i propri enunciati, oppure abbia un ruolo + incisivo. Questa seconda ipotesi viene
esplicitamente affermata in molti studi, ma solo sulla base del fatto che alle forme di transizione si
sostituiscono progressivamente gli enunciati a due parole. In realtà, xò, gli studi che si sono occupati di
verificare se esiste una relazione di facilitazione fra comparsa delle forme transizionali e il successivo sviluppo
di enunciati complessi non sono molti. Ad es., Butcher e Golden-Meadow, riguardo alle forme di transizione
transmodali, hanno trovato che solo le combinazioni supplementari sono significativamente predittive della
successiva emergenza di vere e proprie combinazioni di parole. Carubbi, invece, in riferimento agli enunciati
transizionali di tipo verbale, ha riscontrato una relazione significativa fra la produzione di questi enunciati a 16
mesi e la capacità di produrre combinazioni di parole a 20; relazione che invece non esiste fra la produzione di
parole a 12 mesi e la produzione di combinazioni a 20. Questi dati dimostrano che la produzione di enunciati
complessi non è influenzata in generale dalla maggiore o minore precocità nello sviluppo linguistico, ma nello
specifico dalle forme di transizione. Questo ruolo di facilitazione è stato confermato anche da una ricerca di
Zampini e D’Odorico sullo sviluppo del linguaggio nei bambini con sindrome di Down, in cui si è trovata una
correlazione positiva fra il totale di forme di transizione verbali prodotte nel corso dell’osservazione e il totale di
combinazioni prodotte 6 mesi + tardi. Si è osservato inoltre che la produzione di enunciati transizionali
transmodali precedeva e prediceva quella delle forme di transizione verbali.
Lo sviluppo morfosintattico
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sono presenti delle regolarità semantiche che la teoria di Braine ignora. Infine, questo modello non spiega il
passaggio dalle regole primitive alle regole grammaticali che governano il linguaggio adulto.
Un altro tentativo di classificazione viene da Bloom e si basa sulla Teoria Standard della Grammatica
Generativa Trasformazionale. In questo modello si ipotizza che i primi enunciati infantili esprimano delle
relazioni grammaticali simili a quelle del linguaggio adulto, e pertanto possano essere analizzati sulla base di
una struttura sintattica sottostante, che xò manca di alcuni elementi. La critica principale alla teoria di Bloom è
che viene attribuito al bambino un grado di conoscenza delle regole grammaticali che non corrisponde ai dati
ricavabili dall’osservazione dei primi enunciati prodotti.
Un modello esplicativo ancora diverso si basa sulle capacità del bambino di concepire relazioni semantiche
fra gli elementi della realtà e di esprimerne linguisticamente i componenti. In quest’ambito il contributo +
importante è quello di Brown, che individua 11 relazioni semantiche sottostanti alle prime combinazioni di
parole. Le prime 3 sono operazioni di referenza, cioè indicano alcune proprietà che possono essere attribuite
ad un determinato referente, mentre le altre sono vere e proprie relazioni semantiche:
• Nominazione: ecco cane.
• Ricorrenza: ancora pappa.
• Non esistenza: più cane.
• Agente + azione: bimbo mangia.
• Azione + oggetto: mangia pappa.
• Agente + oggetto: bimbo pappa.
• Azione + luogo: metto qui.
• Entità + luogo: bimbo casa.
• Entità + attributo: bimbo bello.
• Possessore + cosa posseduta: mamma calza.
• Dimostrativo + entità: questo libro.
Secondo Brown, queste relazioni rappresentano il tipo di conoscenza che il bambino ha acquisito nel periodo
sensomotorio e spiegano il 70% degli enunciati presenti nel campione da lui analizzato.
Tali studi hanno ispirato, negli anni successivi, una serie di ricerche che affrontano il problema delle prime
combinazioni di parole in due possibili modi:
I Ipotizzano che il bambino possegga una conoscenza innata delle principali categorie sintattiche che lo guida
nelle sue prime produzioni. Tale approccio ha portato alla creazione di varie liste di relazioni semantiche
diverse fra loro, che evidenziano differenze individuali nelle relazioni semantiche espresse da bambini diversi.
II Postulano una base semantica che aiuta il bambino nella scoperta delle regole sintattiche con cui vengono
espressi i significati. Gli studi condotti in quest’ambito si scontrano con la differenza fra le prime combinazioni
prodotte dal bambino alla fine del 2° anno di vita e le competenze che egli dovrebbe possedere.
Esiste un approccio che differisce da entrambi i precedenti e si fonda sull’apprendimento distribuzionale,
ovvero sulla possibilità che il bambino comprenda le varie categorie grammaticali sulla base delle regolarità che
sente negli input che riceve. In tale prospettiva si ipotizza che i primi enunciati di + parole vengano prodotti
sulla base di schemi (o frames), costruiti con un elemento fisso e uno o + slots che possono essere riempiti da
elementi variabili; ad es. ancora + elemento variabile o no + elemento variabile. Questi schemi non
presuppongono alcuna conoscenza grammaticale astratta e non sono tutti uguali. Solitamente i primi a
comparire sono quelli meno complessi, ad es. quelli in cui il termine fisso è un simbolo illocutivo, ovvero
esprime la forza illocutiva dell’enunciato (negazione, deissi, ricorrenza), mentre lo slot specifica l’elemento a
cui tale forza va applicata. Un altro es. di schema semplice, molto frequente nelle prime fasi di sviluppo del
linguaggio, è quello costituito da copula + elemento variabile.
Sono invece + complessi gli schemi costruiti sulla base di un elemento semanticamente pieno che si combina
con altri elementi ugualmente dotati di significato, ma variabili: parliamo ad es. degli schemi costruiti intorno
ad un particolare verbo. Nella lingua italiana, il 51% degli enunciati a + parole prodotti ad un’ampiezza di
vocabolario di 200 parole contengono un verbo, ma oltre l’85% dei verbi prodotti sono utilizzati in un’unica
forma flessa: questo conferma l’ipotesi che il bambino costruisca i suoi primi enunciati a + parole sulla base di
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schemi isolati in cui l’elemento variabile può cambiare, ma quello su cui lo schema è costruito rimane fisso (es.
Dove metto? Metto casa. Metto albero. Metto qui.). In alcuni casi, il verbo costituisce non l’elemento fisso, ma
quello variabile, quindi lo schema viene costruito sulla base di un altro item lessicale. La caratteristica
principale degli schemi costruiti con i verbi è la mancanza di generalizzazione: le proprietà morfosintattiche
acquisite x un verbo non si generalizzano a tutti gli altri, ma l’acquisizione avviene su basi isolate, almeno
finché il bambino non ha elaborato un certo numero di questi schemi.
La dimostrazione che questo sia un modello esplicativo adeguato del modo in cui il bambino costruisce le sue
prime combinazioni di parole è data dagli studi longitudinali che seguono l’evoluzione dei vari schemi in ogni
bambino: ad es., una ricerca di D’Odorico condotta su 7 bambini in 2 diversi momenti dello sviluppo (a
un’ampiezza di vocabolario di 200 e 500 parole) ha dimostrato che questi utilizzano la tipologia di schema che
prevale nella produzione di enunciati a 2 parole anche nella fase successiva, quando gli enunciati diventano +
complessi. È difficile spiegare questi dati sulla base della conoscenza di regole grammaticali astratte.
Diversi studi, sia sperimentali che osservativi, hanno indagato sul ruolo dell’input dell’adulto nell’aiutare il
bambino a produrre enunciati che esplicitino linguisticamente tutti gli aspetti dell’evento di cui il bambino vuole
parlare: si è potuto verificare che la produzione degli enunciati complessi è “aiutata” dagli interventi dell’adulto,
che forniscono al bambino dei modelli di realizzazione linguistica degli eventi presenti nello scenario
comunicativo.
Oltre allo sviluppo relativo alla lunghezza dell’enunciato in termini di numero di parole, nel 3° anno di vita si
assiste anche allo sviluppo della struttura sintattica sottostante agli enunciati prodotti: il verbo comincia ad
essere accompagnato dai suoi argomenti (soggetto e complementi) portando alla realizzazione della frase
nucleare completa. Dato che nella lingua italiana il soggetto può essere omesso xkè specificato dalla forma
flessa del verbo, gli studi in quest’ambito si focalizzano sulle differenze fra il processo di acquisizione dei
bambini italiani e quelli dei bambini che acquisiscono una lingua nella quale l’espressione del soggetto è
obbligatoria. Il primo dato evidente è che i bambini italiani producono meno il soggetto rispetto agli altri: ma
quali sono i fattori che determinano la decisione dei bambini italiani di esprimere o meno il soggetto?
In una ricerca di Caprin sull’argomento, l’espressione del soggetto risulta bassa nelle prime fasi di sviluppo
linguistico, mentre aumenta in quelle successive. Il soggetto, comunque, risulta espresso + in forma lessicale
che in forma pronominale e, quando è espresso in forma di pronome, prevalgono i pronomi di prima, terza e
seconda persona singolare.
Inoltre, il tipo di verbo con cui il soggetto viene espresso + frequentemente è la copula, seguita dai verbi
intransitivi: una possibile spiegazione di questa preferenza è che il soggetto sia omesso + spesso con i verbi
transitivi xkè questi richiedono obbligatoriamente il complemento oggetto, e l’espressione del soggetto
caricherebbe troppo la memoria di lavoro dei + piccoli.
Anche l’analisi della produzione infantile del complemento oggetto e degli altri complementi è interessante alla
luce dell’ipotesi di Valian x cui il bambino, nelle prime fasi di acquisizione del linguaggio, non può produrre
enunciati grammaticalmente scorretti xkè possiede un modello completo della grammatica adulta. Questa
ipotesi prevede una preferenza x i verbi intransitivi xkè questi hanno una struttura sintattica + semplice, dato
che non richiedono il complemento oggetto. I dati di D’Odorico, xò, smentiscono l’ipotesi: i verbi transitivi
sono prodotti + spesso di quelli intransitivi, e le frasi in cui sono inseriti contengono il complemento oggetto in
percentuale piuttosto bassa. In fasi successive di sviluppo aumenta l’uso del complemento oggetto, ma anche
di altri complementi: questo dimostra un generale aumento della capacità di esprimere linguisticamente +
componenti.
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• Temporale: gli eventi descritti sono in una relazione di dipendenza temporale che implica sequenza o
simultaneità.
• Causale: i 2 eventi sono in una relazione di dipendenza causale x cui in una frase viene descritta un’azione
in corso e nell’altra si esprime il motivo o il risultato di tale azione.
• Avversativa: la relazione fra gli eventi è di contrasto o limitazione.
• Specificazione dell’oggetto: la seconda frase descrive o esplicita la funzione di una persona o di un
oggetto nominato nella prima frase.
• Epistemica: la relazione di dipendenza fra i due enunciati implica una determinata certezza/incertezza da
parte del soggetto della prima frase rispetto allo stato delle cose espresso nella seconda frase.
• Richiamo di attenzione: nella prima frase si richiama l’attenzione su qualcosa espresso nella seconda.
• Altre forme di complementazione.
II Capacità di utilizzare appropriatamente i connettivi x esprimere sintatticamente le relazioni
semantiche: di solito, il primo connettivo che il bambino apprende è la congiunzione e, che inizialmente viene
utilizzata in modo molto generalizzato. Altri connettivi sono dopo, quando, ma, xké.
B. ha trovato una stretta relazione fra le strutture semantiche espresse e la loro realizzazione sintattica.
Infatti:
• La congiunzione viene usata nelle relazioni additive, temporali, causali e avversative.
• La complementazione (x cui una frase diventa complemento dell’altra, es. So chi ha bevuto il latte) viene
usata nelle relazioni epistemiche e nei richiami di attenzione.
• La relativizzazione compare + tardi e viene usata essenzialmente nella specificazione dell’oggetto.
Gli studi sulla produzione spontanea di enunciati complessi sono abbastanza rari e, solitamente, si basano su
compiti di comprensione o di imitazione. Attraverso questi studi si è scoperto, ad es., che x i bambini inglesi è
+ difficile comprendere e imitare frasi in cui il soggetto della frase complemento è lo stesso del verbo principale
rispetto a frasi in cui i soggetti sono diversi.
3. Lo sviluppo morfologico
Dal pdv morfologico la lingua italiana è particolare xkè alcune informazioni morfologiche, come la flessione del
verbo, forniscono anche informazioni sintattiche, ad es. il fatto che il soggetto sia singolare o plurale.
La prima linea di sviluppo in quest’ambito riguarda la morfologia legata, ovvero l’uso dei morfemi
grammaticali che non possono essere separati dalle parole (ad es., appunto, le flessioni dei verbi). Dato che
nella lingua italiana le parole si presentano sempre in forma flessa, da un lato si potrebbe pensare che x i
bambini italiani sia + facile dedurre le regole sottostanti all’uso dei vari morfemi. Dall’altro, xò, proprio la
grande variabilità delle forme con cui un item lessicale può presentarsi potrebbe rendere + difficile ricondurre
tutte le variazioni ad una radice unica. Oltretutto, non è facile inferire se un dato morfema sia stato realmente
acquisito basandosi solo sulla produzione spontanea del bambino: ad es., x quanto riguarda i verbi prodotti in
isolamento, non sempre il contesto dà informazioni sufficienti a capire se la forma prodotta è quella corretta.
Una soluzione proposta da Pizzuto e Caselli è quella di verificare con quanti differenti verbi il bambino è
capace di produrre una determinata flessione e in quante forme diverse si presenta uno stesso verbo nella sua
produzione. In base a questi criteri, si può dire che i bambini italiani acquisiscono prima la I, II, e III persona
singolare, esclusivamente all’indicativo presente ed all’imperativo presente (solo II persona singolare). Inoltre,
come risulta da uno studio di Fasolo su 25 bambini, ad un’ampiezza di vocabolario di 200 parole 9 di essi
utilizzavano i verbi prodotti in un’unica flessione, 8 in 2 forme diverse, 7 in 3 forme diverse e solo 1 in 4 forme
diverse. Oltre il 60% del campione presentava anche errori di vario tipo nella flessione del verbo. In fasi di
sviluppo successive, la quasi totalità dei bambini utilizza almeno un verbo in 2 forme diverse, ma gli errori nella
flessione compaiono ancora in + di metà del campione.
La seconda linea di sviluppo concerne la morfologia libera, ovvero l’uso di quelle particelle che si presentano
come parole indipendenti (articoli, pronomi, preposizioni etc.). Lo studio dell’acquisizione della morfologia
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libera presenta vari problemi metodologici di cui bisogna ovviamente tenere conto. Ad es., x verificare che un
bambino abbia acquisito un determinato morfema, deve essere possibile valutare se questo è prodotto in tutti i
contesti linguistici in cui, secondo le regole della lingua, la sua produzione è obbligatoria. Da questo
presupposto nascono il concetto di contesto d’uso obbligatorio, x cui è necessario che nella produzione del
bambino siano presenti enunciati in cui è necessaria la presenza del morfema x verificare l’eventuale presenza
di errori di omissione, e quello di soglia di produttività, un indice identificabile con il 75% o il 90% di utilizzo
corretto del morfema nei contesti d’uso obbligatori. Oltre a questo, è necessario stabilire anche un numero
minimo di comparsa dei contesti d’uso obbligatori (solitamente 5) x evitare di sovrastimare la competenza del
bambino. In base a questi criteri, gli studi hanno trovato che i bambini italiani non sviluppano la piena
padronanza del paradigma completo degli articoli fin quasi all’età scolare. In generale, le forme femminili
vengono acquisite prima di quelle maschili e le forme singolari prima di quelle plurali. Gli errori + frequenti
sono l’omissione e la sostituzione (ad es. usare la forma singolare al posto di quella plurale). Infine, una
ricerca longitudinale di Bononi su 7 bambini nel corso del 2° anno di vita ha evidenziato che esiste una grande
variabilità individuale anche nello sviluppo della capacità di produrre correttamente gli articoli, sia x quanto
riguarda la fase di sviluppo linguistico (in termini di ampiezza di vocabolario) in cui si raggiunge il 75% di
produzioni corrette, sia x quanto riguarda la posizione in cui il bambino preferisce produrre gli articoli (in
isolamento, iniziale, intermedia). B. ha anche notato che, anche dopo il raggiungimento di una certa
competenza, è possibile che il bambino ricada ad un livello + basso.
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Altre informazioni sul ruolo di specifici comportamenti interattivi dell’adulto nello sviluppo linguistico vengono
dagli studi sui gemelli, nei quali si rileva spesso un ritardo linguistico non determinato da complicazioni
perinatali. Si ipotizza che questo ritardo sia dovuto al fatto che i genitori di gemelli possono dedicare a ciascuno
di loro minor tempo e attenzione. In uno studio di Bornstein e Ruddy, sebbene non ci fossero differenze
cognitive a 4 mesi fra un gruppo di gemelli ed uno di singoli nati, si è visto che le madri dei gemelli
incoraggiavano i figli a prestare attenzione a vari aspetti dell’ambiente con frequenza molto minore rispetto alle
madri dei singoli, e questo ha portato, a 12 mesi, ad un’ampiezza di vocabolario significativamente minore nei
gemelli.
Nel corso del 1° anno di vita, è particolarmente importante x l’acquisizione del linguaggio lo stabilirsi di
interazioni triadiche in cui possano verificarsi episodi di attenzione condivisa. In diversi studi si è trovato
che lo stile comunicativo che le madri usano x stabilire episodi di attenzione congiunta ha un ruolo importante
nello sviluppo linguistico. A questo proposito, Tomasello ha proposto l’ipotesi della mappatura attenzionale,
secondo cui l’acquisizione lessicale è notevolmente facilitata dalla strategia in cui è l’adulto a seguire
l’attenzione del bambino piuttosto che dirigerla: ad es., l’acquisizione di nuove parole è + veloce se la parola
viene prodotta mentre il bambino è interessato all’oggetto cui essa si riferisce.
Anche Longobardi ha studiato il ruolo delle funzioni comunicative realizzate attraverso gli enunciati materni
nell’influenzare lo sviluppo linguistico, ed ha individuato 5 funzioni:
• Funzione tutoria: fornisce sostegno attraverso ripetizioni, espansioni e riformulazioni.
• Funzione didattica: trasmette conoscenze e ne verifica l’effettivo apprendimento con domande e
denominazioni.
• Funzione di conversazione: mantiene aperta la comunicazione (es. auto-risposte della madre alle proprie
domande).
• Funzione di controllo: ri-orienta l’attenzione o modifica l’azione in corso.
• Funzione asincronica: comportamenti intrusivi della madre; risposte mancate alle proposte comunicative.
Le differenze individuali nel grado in cui tali funzioni sono presenti negli input che la madre rivolge al bambino
sembrano collegate al successivo sviluppo linguistico.
La maggior parte degli studi che cercano di individuare la migliore strategia di interazione verbale x favorire la
scoperta del legame parola-referente nel bambino si concentrano sulle condizioni di acquisizione dei nomi,
mentre i dati sull’acquisizione di parole che si riferiscono ad azioni o ad attività sono ancora scarsi.
Tomasello e Kruger, ad es., hanno evidenziato come l’uso di verbi che si riferiscono ad azioni che stanno x
accadere produca l’acquisizione di un maggior numero di verbi nel vocabolario dei bambini di 18 mesi, rispetto
alla descrizione di azioni già in corso o completate.
È importante, xò, sottolineare che gli effetti delle particolari strategie interattive materne sull’acquisizione del
linguaggio si limitano ad un’influenza sull’acquisizione del vocabolario. Inoltre un lavoro recente, che analizza i
risultati degli studi in cui si è trovata una relazione positiva fra sviluppo linguistico e facilitazioni provenienti
dall’ambiente sociale sotto forma i strategie interattive, ha avanzato dei dubbi sulla validità di queste
conclusioni. Infatti, la maggior parte di questi studi è di tipo correlazionale, quindi i risultati potrebbero essere
dovuti alla presenza di altre variabili. Ad es., se la valutazione della competenza linguistica avviene attraverso
questionari compilati dalle madri, può accadere che le madri + sensibili e responsive siano anche quelle + abili
nel valutare le competenze linguistiche dei figli. Oppure, la responsività materna potrebbe semplicemente
incoraggiare ulteriori interazioni verbali in cui il bambino potrebbe trovare le informazioni utili all’acquisizione
del vocabolario. Quindi, il ruolo dell’adulto nello sviluppo linguistico non è importante xkè permette al bambino
di partecipare ad un’esperienza sociale fondamentale, ma xkè nel corso delle interazioni con l’adulto il bambino
riesce a reperire innumerevoli informazioni sul linguaggio.
In questa prospettiva, le interazioni sociali sono semplicemente il luogo in cui il bambino viene esposto ad una
serie di dati che deve elaborare: lo studioso di sviluppo linguistico deve allora scoprire come questi dati sono
effettivamente organizzati e presentati al bambino in fase di acquisizione del linguaggio.
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2. La natura e il ruolo dell’input linguistico
Nelle prime formulazioni della grammatica generativa, il ruolo dell’input cui il bambino veniva esposto era
considerato assolutamente secondario a causa del cosiddetto argomento della povertà dello stimolo,
secondo cui il bambino doveva possedere una dotazione innata specifica x l’acquisizione del linguaggio xkè le
competenze linguistiche che gli umani sviluppano in 3 anni di vita non si possono spiegare con la semplice
esperienza linguistica, imperfetta e finita.
In reazione a questa affermazione, negli anni ’70 si sono sviluppati una serie di studi che hanno dimostrato che
il linguaggio rivolto ai bambini è sostanzialmente diverso da quello utilizzato nelle conversazioni fra adulti, ed
anzi costituisce un vero e proprio registro linguistico a sé stante definito in vari modi (baby talk, motherese
etc.) ma oggi noto come CDS (Child Directed Speech, linguaggio rivolto ai bambini). Questi primi studi sul
CDS hanno evidenziato che la sua principale caratteristica consiste in una maggiore concretezza, ridondanza e
semplificazione sintattica: esso risulta infatti composto in prevalenza da enunciati brevi, con costruzioni lineari
e scarsa presenza di subordinate. Una volta esclusa l’ipotesi che tali caratteristiche fossero dovute ad un
intento esplicito degli adulti di insegnare il linguaggio al bambino, la spiegazione + probabile è diventata quella
x cui le peculiarità di questo linguaggio sono dovute alla necessità dell’adulto di conversare con un interlocutore
poco competente. Questa ipotesi è rafforzata dagli studi che ritrovano le stesse caratteristiche del CDS anche
nel linguaggio rivolto agli adulti con scarsa competenza linguistica o agli animali domestici. È stato inoltre
accertato che anche i bambini in età prescolare e scolare, dovendosi rivolgere a bambini + piccoli, semplificano
il loro linguaggio come fanno gli adulti.
Indipendentemente dalla funzione del CDS nell’interazione adulto-bambino, xò, bisogna indagarne il ruolo nel
processo di acquisizione del linguaggio. Un primo problema è dato dal fatto che, se il bambino non viene
esposto da subito alla complessità del linguaggio adulto, il compito di acquisizione del linguaggio potrebbe
risultare + difficile: cioè, la semplicità delle strutture è un vantaggio nelle primissime fasi, ma potrebbe essere
un problema se fosse vero che tutta la conoscenza sintattica che si riscontra nelle fasi + avanzate di sviluppo
provenga interamente dalle informazioni fornite dall’input. Gli studi che hanno cercato di verificare quest’ultima
ipotesi hanno ottenuto risultati contrastanti: ad es., secondo Newport non esiste relazione fra le differenze
individuali nella semplicità sintattica del linguaggio materno e la successiva maggiore o minore rapidità
nell’acquisizione di una serie di tappe dello sviluppo linguistico, mentre Furrow ha verificato che lo sviluppo del
linguaggio nei bambini del so campione era correlato a diversi indici del linguaggio materno. Tali correlazioni,
xò, erano presenti solo in determinati momenti dello sviluppo e non in altri, il che dimostra che l’utilità di
alcune caratteristiche del CDS potrebbe essere ristretta solo ad alcune specifiche fasi dello sviluppo: nei primi
stadi, quando il compito principale del bambino è quello di acquisire un vocabolario di base e di padroneggiare
le funzioni pragmatiche essenziali, un CDS semplificato potrebbe essere di grande aiuto, mentre in seguito
l’ampliamento del vocabolario e l’acquisizione della morfologia e della sintassi potrebbero richiedere un input +
articolato.
A prescindere dalla maggiore o minore complessità dell’input, molti studiosi ritengono che la semplice quantità
di linguaggio esplicito rivolto al bambino sia molto importante nel facilitare lo sviluppo linguistico. Questo
effetto si deve probabilmente a vari fattori: + linguaggio spesso significa + parole diverse, oppure esposizione
alle possibilità d’uso di uno stesso termine in + contesti diversi, e questo può aiutare il bambino nella scoperta
del significato delle parole.
Uno dei maggiori problemi metodologici di fondo delle ricerche che valutano l’influenza dell’input sullo sviluppo
del linguaggio si radica nella possibilità o meno di distinguere gli effetti che il linguaggio materno potrebbe
avere sul linguaggio del bambino dagli effetti che il linguaggio del bambino potrebbe produrre su quello della
madre. Solitamente, i ricercatori sono interessati a stabilire se una certa caratteristica del linguaggio materno
in un dato momento dello sviluppo (poniamo, 8 mesi di vita) sia collegata ad una data caratteristica del
linguaggio infantile in un periodo di sviluppo successivo (ad es. 20 mesi). Ma x determinare l’effettiva influenza
dell’input fornito dall’adulto bisogna innanzitutto escludere che la caratteristica del linguaggio materno in
esame sia influenzata dal linguaggio del bambino ad 8 mesi di vita e poi, d’altro canto, escludere che la
caratteristica del linguaggio infantile in esame sia influenzata dagli input linguistici che la madre gli rivolge a 20
mesi. Ad es., se a 1 anno un bambino dice molte parole, può darsi che la madre gli rivolga un linguaggio
diverso da quello che userebbe in presenza di semplici lallazioni. D’altra parte, una eventuale maggiore
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capacità del bambino di produrre enunciati complessi a 2 anni potrebbe essere dovuta non al linguaggio
materno, ma alla precocità già evidenziata ad 1 anno nell’acquisizione del vocabolario.
Di recente l’attenzione degli studiosi si è rivolta anche agli aspetti prosodici del CDS, il cui ruolo era stato
spesso trascurato in passato sebbene questi aspetti siano una delle caratteristiche che distingue maggiormente
questo linguaggio da quello adulto. I primi studi hanno evidenziato soprattutto il ruolo di comunicazione
affettiva del CDS; in seguito si è scoperto che i bambini esposti, nel primo semestre di vita, ad un parlato con
le caratteristiche melodiche del CDS erano + attenti e + interessati agli stimoli ambientali. Infine, si è
ipotizzato che la presenza di particolari caratteristiche prosodiche nel CDS permetta ai bambini di estrapolare +
facilmente informazioni sulla struttura del linguaggio. Si tratta dell’ipotesi del Prosodic Bootstrapping,
secondo cui le proprietà acustiche del linguaggio contengono informazioni rilevanti sull’organizzazione
sintattica. Le ricerche + recenti dimostrano che queste proprietà acustiche sono particolarmente evidenti nel
CDS, il che fornisce al bambino un aiuto notevole nel segmentare il parlato nelle sue unità di base. L’utilizzo di
una intonazione variegata e con una frequenza fondamentale + alta del normale facilita inoltre il bambino nella
comprensione delle parti rilevanti dell’enunciato: come dimostrato da Fernald e Mazzie e da Aslin, nel CDS le
parole “importanti” sono spesso sottolineate da un aumento della frequenza fondamentale. Allo stesso modo
l’allungamento della sillaba finale dell’enunciato, particolarmente accentuato nel CDS, può essere utile x
individuare la fine delle frasi.
Anche se le ricerche sono ancora scarse, lo studio dei rapporti fra caratteristiche prosodiche del CDS e sviluppo
linguistico è un campo di indagine promettente, anche alla luce degli ultimi dati sulle competenze percettive
precoci dei neonati. Ad es. uno studio di Jacob e D’Odorico ha messo a confronto l’input ricevuto a 20 mesi
da un gruppo di 9 bambini che avrebbero successivamente mostrato un ritardo nello sviluppo del vocabolario
con quello ricevuto da 9 bambini con sviluppo tipico.
I risultati hanno evidenziato delle differenze sia nella quantità totale di linguaggio prodotto e di nomi prodotti
che in alcune rilevanti caratteristiche prosodiche. Le madri dei bambini con ritardo, infatti, producevano
enunciati con un contorno melodico meno variegati ed utilizzavano meno l’enfasi prosodica nel sottolineare le
parti importanti della frase. Questi dati suggeriscono che, se il bambino ha particolari difficoltà nell’elaborare il
segnale linguistico, un input materno con caratteristiche non ottimali potrebbe avere un ruolo importante nel
determinare lo sviluppo successivo.
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sono altrettanto responsivi alle proposte comunicative dei loro figli dei genitori di bambini con sviluppo tipico e
producono un linguaggio simile sia relativamente alla varietà lessicale che relativamente alla lunghezza media
dell’enunciato. Inoltre gli enunciati appartenenti alla funzione asincronica, la cui eccessiva frequenza è un
indice di malfunzionamento degli scambi comunicativi, compaiono con frequenza molto bassa anche nei
genitori di bambini con sindrome di Down.
Il dibattito sullo sviluppo del linguaggio riunisce molte questioni diverse. X ragioni di brevità e semplicità,
l’insieme di tali questioni può essere ridotto a 3 punti fondamentali:
I Qual è la dotazione di partenza, cioè la competenza presente alla nascita, e qual è il suo ruolo
nell’acquisizione del linguaggio?
L’inizio del dibattito teorico sui modelli di spiegazione dell’acquisizione del linguaggio può essere fatto risalire
alla pubblicazione del volume Syntactic Structures di Chomsky, alla fine degli anni ’50. In + di 40 anni, in
tale dibattito sono stati raggiunti alcuni punti fermi:
• Esiste accordo generale sul fatto che apprendere il linguaggio significa giungere a formulare delle
generalizzazioni astratte di tipo linguistico, che hanno delle specifiche realizzazioni nella particolare lingua che il
bambino apprende.
• Nessuno ritiene che sia possibile raggiungere una competenza linguistica adeguata solo attraverso
meccanismi di tipo associativo (es. stimolo-risposta), né che alla nascita il bambino sia privo di qualsiasi
competenza.
• Gli studi sulle competenze neonatali hanno portato gli studiosi a comprendere che la dotazione biologica di
cui il bambino dispone alla nascita comprende meccanismi di percezione e analisi degli stimoli ambientali molto
potenti, che possono avere un ruolo fondamentale nel processo di acquisizione del linguaggio.
La controversia fra le varie posizioni teoriche riguarda l’ipotesi che in questa dotazione biologica esista una
capacità che si è evoluta specificamente x il trattamento delle informazioni grammaticali. Il punto cruciale del
dibattito diventa, quindi, l’individuazione dei meccanismi in base ai quali vengono elaborate le informazioni
tratte dall’ambiente e vengono estratte le regole che governano la produzione del linguaggio.
II Qual è la natura dei meccanismi cognitivi di cui il bambino dispone x sfruttare il contributo
fornito dall’ambiente sociale ai fini dell’acquisizione e dello sviluppo del linguaggio?
Semplificando, si può dire che la contrapposizione in questo campo si sviluppa fra 2 posizioni teoriche:
1) Innatisti: ritengono che questi meccanismi cognitivi, x quanto potenti, debbano comunque prevedere la
presenza di capacità innate, di natura specificamente linguistica, che li guidino. In questa prospettiva, quindi,
lo sviluppo del linguaggio può essere spiegato solo facendo riferimento a dei principi universali, comuni alle
varie lingue, che fanno parte del corredo genetico umano. Tali principi dispongono di un campo di variabilità
costituito dai parametri, il cui valore viene fissato durante lo sviluppo sulla base dell’esposizione ad una
particolare lingua. Uno dei principi universali postulati da questo approccio è la nozione di soggetto, che non
sarebbe ricavabile né dal ruolo semantico svolto dai nomi che rivestono questa funzione, né dalla posizione
all’interno della frase. Un altro esempio è dato dal fenomeno dell’interpretazione anaforica del pronome,
che sarebbe dovuta alla conoscenza implicita della regola: Un pronome definito non può riferirsi ad un
sintagma nominale nello stesso dominio. Tale regola, x la sua natura meramente linguistica, è difficile da
inferire utilizzando soltanto le capacità cognitive generali.
Una specificazione di questo approccio sostiene inoltre che il linguaggio sia una struttura di elaborazione
dell’informazione molto specializzata, un modulo associato a specifiche strutture neuronali che funziona in
modo incapsulato (non è possibile interferire col suo lavoro interno, che avviene fuori dalla coscienza) ed è
dominio-specifico (tratta solo informazioni linguistiche). Da qui discendono una serie di previsioni su come
dovrebbero manifestarsi le varie tappe dello sviluppo linguistico x cui, ad es., l’apprendimento non avviene
sulla base delle singole forma, ma del paradigma di funzionamento di una data classe grammaticale: le
strutture e gli elementi che sono manifestazioni interdipendenti dello stesso parametro si presentano
contemporaneamente nello sviluppo. O ancora, il bambino opera sulla base di una competenza linguistica
simile a quella dell’adulto, che si basa su principi astratti e categorie, e il fatto che inizialmente i suoi enunciati
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siano molto diversi da quelli di un parlante adulto è spiegabile con limitazioni relative a fattori esterni (ad es.,
le capacità di memoria). X comprendere meglio queste affermazioni astratte, si può far riferimento al caso
specifico dell’uso dei verbi transitivi e intransitivi nei primi enunciati infantili. Secondo l’approccio innatista,
anche se la produzione di enunciati lunghi e complessi è difficoltosa x il bambino a causa della limitazione
nell’esecuzione, il possesso di una competenza grammaticale completa dovrebbe impedirgli di produrre
enunciati grammaticalmente scorretti: cioè, nel caso specifico, nelle prime fasi di sviluppo il bambino dovrebbe
produrre + verbi intransitivi (che non richiedono il complemento oggetto) che verbi transitivi. Questa ipotesi è
confermata da uno studio di Valian in cui i bambini caratterizzati da una minore lunghezza media
dell’enunciato producevano una percentuale minore di verbi transitivi. Inoltre, le produzioni dei bambini
risultavano grammaticalmente corrette nella quasi totalità dei casi. Altre ricerche, xò, hanno ottenuto risultati
diversi, quando non completamente contrastanti.
2) Cognitivisti: secondo loro, la presenza di meccanismi cognitivi di tipo generale, da applicare ai dati
linguistici forniti dall’ambiente sociale, è + che sufficiente a spiegare il corso dello sviluppo del linguaggio. Una
posizione del tutto opposta a quella innatista è quella, ad es., di Tomasello, che propone una teoria
alternativa dello sviluppo del linguaggio all’interno della Linguistica Cognitivo-Funzionale. Secondo questo
approccio, il bambino non è così creativo e produttivo, nelle prime produzioni linguistiche, come ipotizzato dagli
innatisti: i dati concordano maggiormente con l’ipotesi che egli apprenda il linguaggio sulla base dell’uso che
sente fare di un item lessicale o di una struttura sintattica nel linguaggio parlato intorno a lui. Ovviamente, T.
non nega che xkè ci sia piena competenza linguistica il bambino debba essere capace di operare sulla base di
categorie astratte, ma ritiene che tale capacità non sia dimostrabile prima dei 3 anni e ½. Il modello proposto
da T. prevede anche una differente visione teorica del punto finale dello sviluppo: egli rifiuta infatti anche la
concezione del linguaggio come qualcosa di descrivibile attraverso modelli formali che spieghino gli aspetti
astratti e sistematici, mentre gli altri aspetti della competenza linguistica sono considerati aspetti periferici. T.,
invece, non fa differenza fra un nucleo centrale del linguaggio, astratto e formalizzato, ed un nucleo periferico
che contiene le informazioni relative all’uso di particolari costruzioni o item: tutta la conoscenza linguistica, per
quanto astratta, deriva dalla produzione e dalla comprensione di specifici enunciati in specifici contesti d’uso. In
questo modo, cade il problema di come spiegare il passaggio da una produzione iniziale chiaramente deficitaria
ad una competenza interna che si suppone già completa, questione che crea dei problemi negli approcci
innatisti. Un altro vantaggio di questo approccio è che evita il problema di spiegare come fa il bambino, anche
ammesso che possegga la nozione innata di soggetto, a capire come questo si realizza nella particolare lingua
che sta apprendendo, dato che esso non è identificabile univocamente da specifiche caratteristiche percettive.
Le soluzioni a questo problema proposte in campo innatista, infatti, non sono per niente soddisfacenti.
Un altro approccio, ugualmente contrario a quello innatista, è quello della teoria emergentista di Bates e
Goodman. Secondo questa prospettiva, alcuni esiti evolutivi emergono come la miglior soluzione possibile ai
problemi posti all’uomo dalle interazioni con gli altri esseri umani e con l’ambiente, e la forma assunta dalla
soluzione finale non è prevedibile a partire dai dati di partenza. In quest’ottica, la Grammatica sarebbe quindi
semplicemente la soluzione al problema di dover far corrispondere un ricco insieme di significati alle limitazioni
del sistema comunicativo: x questo le sue caratteristiche, che ne fanno un sistema di comunicazione unico, non
devono indurre le persone a considerarla diversa dagli altri prodotti del sistema cognitivo umano. La comparsa
del linguaggio nella specie umana non richiede la contemporanea comparsa di un organo per la grammatica,
xkè la competenza linguistica è resa possibile da adattamenti convergenti di una serie di meccanismi cognitivi,
che servono anche ad altri aspetti della vita e dell’interazione umana. Uno dei punti cruciali dell’approccio
emergentista è il tentativo di dimostrare che le capacità grammaticali possono emergere dall’acquisizione del
lessico e di confutare quindi l’ipotesi che le due acquisizioni siano frutto di due meccanismi diversi. I dati
utilizzati x raggiungere questo obiettivo riguardano prima di tutto le relazioni che sono state trovate fra
l’acquisizione del vocabolario e la comparsa delle prime combinazioni di parole. Fra questi, sono
particolarmente rilevanti quelli relativi ai bambini che mostrano uno sviluppo del vocabolario molto precoce o
molto rallentato: in entrambi i casi, lo sviluppo della morfosintassi si dimostra adeguato al livello di
acquisizione del vocabolario. Il modello emergentista si basa anche sulla teoria dei sistemi dinamici
complessi, secondo cui il comportamento globale del sistema può emergere in modo imprevedibile dalle
interazioni fra le singole unità del sistema e fra queste e l’ambiente. Questo implica la possibilità che il sistema
risponda in modo discontinuo alle variazioni continue in alcuni parametri dell’input, xkè la stabilità si mantiene
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soltanto finché questi assumono una certa gamma di valori: quando questi valori superano il punto critico,
emergono nuove modalità di coordinazione. Questi assunti possono essere verificati tramite la simulazione su
reti neurali, che consente anche di valutare sia il peso della dotazione interna del bambino (struttura della
rete e algoritmi di apprendimento) che il peso delle risorse fornite dall’esterno (parametri dell’input). I dati a
disposizione sulle simulazioni connessioniste in questo campo, xò, non sono ancora sufficienti a confermare la
piena validità di questo approccio teorico.
Anche Locke mette l’accento sull’importanza dello sviluppo lessicale nei confronti di quello morfosintattico,
sostenendo che non ci si deve chiedere come si sviluppa il linguaggio, ma come un bambino, nel corso dello
sviluppo, manifesta una crescente capacità linguistica. Parlare di acquisizione del linguaggio porta a credere
che questo sia un oggetto o una capacità che sta al di fuori del bambino, ma questo fuorviante, xkè il
linguaggio è un modo di agire implicito al sistema evolutivo umano. Secondo L., esistono dei meccanismi-
guida che avviano il bambino allo sviluppo del linguaggio. Tali meccanismi, governati dal genoma umano e
dalle esperienze percettive, sono utili allo sviluppo del linguaggio, ma non è detto che servano solo a questo.
L., anzi, sostiene in modo provocatorio che lo sviluppo del linguaggio sia una conseguenza secondaria del loro
funzionamento. I meccanismi-guida si organizzano in 2 sistemi, nessuno dei quali può funzionare appieno
senza il contributo dell’altro:
• Social cognition network: è responsabile dell’acquisizione del vocabolario.
• Sistema grammaticale: è responsabile dell’elaborazione e dell’analisi delle frasi.
Lo sviluppo del linguaggio consiste quindi, secondo L., in una serie di passaggi ognuno dei quali facilita quello
successivo. Tali fasi hanno una precisa scadenza temporale e si susseguono gradualmente in modo
sequenziale, quindi se ci sono dei problemi nel periodo in cui la prima componente dovrebbe essere attiva non
è possibile recuperare le difficoltà nel periodo immediatamente successivo, nel quale entra in gioco la seconda
componente. Questo modello è fortemente influenzato dagli studi di L. su bambini con disturbo del linguaggio,
in cui le difficoltà grammaticali sono sempre precedute da un ritardo fonologico o lessicale. Questo
significherebbe che in questi bambini i meccanismi neurali del sistema grammaticale non possono attivarsi in
modo ottimale xkè il materiale linguistico immagazzinato non è sufficiente. L. xò, pur affermando che esistono
sistemi neurali indipendenti che presiedono alle varie fasi dello sviluppo linguistico, colloca l’origine del ritardo
ad una + lenta maturazione delle aree neurali deputate allo scambio di significati affettivi nelle prime
interazioni, ovvero all’inizio del processo di sviluppo, e non in un difetto di maturazione del sistema + evoluto.
III Quale forma assume il contributo dell’ambiente sociale?
Le informazioni fornite dall’ambiente sociale sono oggi considerate + importanti x l’acquisizione del linguaggio
rispetto alla semplice esposizione ai dati primari ipotizzata da Chomsky. Tali informazioni, in effetti, sono +
estese e + linguisticamente rilevanti di quanto ipotizzato anche dall’approccio socio-interattivo allo
sviluppo del linguaggio. È un fatto che il tentativo di ripristinare il ruolo dell’ambiente sociale compiuto dai
sostenitori di questo approccio presenti una serie di debolezze teoriche, come la sovrapposizione fra l’ambito
della comunicazione e quello del linguaggio o l’eccessiva enfasi sull’acquisizione del vocabolario con
conseguente scarsa attenzione x l’emergere delle capacità grammaticali. È anche vero che l’ipotesi del
preadattamento sociale ha impedito di considerare adeguatamente i processi che consentono al bambino di
differenziare ed articolare la sua partecipazione all’interno dei format. Ma queste critiche sono in parte superate
dal riconoscimento del fatto che, all’interno dei primi scambi comunicativi, l’adulto fornisce anche dei dati
linguistici organizzati in modo da facilitare l’estrazione delle regole che presiedono alla formulazione di frasi
grammaticalmente e sintatticamente corrette. Le caratteristiche degli scambi interattivi, inoltre, non hanno
influenza solo sulla qualità della relazione madre-bambino, ma anche sulla maggiore o minore possibilità del
bambino di utilizzare tali dati. La natura e le caratteristiche dell’input linguistico, quindi, devono essere
incorporate all’interno di un modello interattivo + integrato.
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