Sei sulla pagina 1di 41

Lezione 1 13/02/2023

Se vogliamo insegnare in un futuro una lingua, è doveroso calarci nei panni di chi la sta imparando.

Ci sono degli aspetti che accomunano l’apprendimento e l’acquisizione della nostra lingua materna e
di una lingua straniera?
Ci sono punti di contatto. Contesti e modalità in cui si sono acquisite le lingue e l’età. Acquisizione della L1
e acquisizione della L2: facciamo riferimento a un processo spontaneo, non in un contesto formalizzato ma
naturale; acquisiamo la L1 perché siamo socializzati della nostra prima lingua. Se nell’insegnamento di una
lingua straniera, non teniamo conto dei meccanismi naturali della L1, il nostro insegnamento può risultare
poco efficace; dobbiamo sempre tenere sullo sfondo questi meccanismi di acquisizione. Sapere come
avviene questo processo spontaneo è importante se dobbiamo pianificare un intervento artificiale, guidato da
un docente e sapere quali sono gli step del processo di acquisizione è importante per ottenere un risultato
analogo. Ci interessa quindi andare a vedere come si acquisisce la L1 per poi proiettarci all’acquisizione
della L2. Molti degli studi della L2 si rifanno alla ricerca sull’acquisizione della L1.
Schemi e sequenze che sono analoghe indipendentemente dalla lingua che si sta acquisendo; lo schema di un
bambino italiano è uguale a quello di un bambino di altre nazionalità (chiaramente poi ci sono strutture
linguistiche e aspetti che variano da lingua a lingua e possono variare i tempi da uno schema all’altro ma gli
aspetti di riferimento sono analoghi; cambiano i tempi, tutti abbiamo dei tempi di acquisizione diversi).
Se non ci sono problematiche di tipo neurologico, cognitivo o linguistico, tendenzialmente un parlante
diventa linguisticamente competente intorno ai sei anni; parlante che formula la lingua in maniera corretta
dal punto di vista linguistico.
Dipendenza dal contesto e la dipendenza dall’interlocutore con il quale parliamo (es: scambio/interazione tra
la mamma e il bambino che sarebbe difficile per una persona esterna che non conosce il contesto – con la
parola “palla” riesce a comunicare molto di più ma solo per il fatto che è un dialogo con una persona che lo
conosce).
Un altro fenomeno tipico è quello di semplificare, trovare delle regolarità nelle formulazioni e provare a
capire il funzionamento di una regola. I bambini spesso usano formulazioni buffe che non esistono, come per
esempio nei passati e nei participi: “morito”, “bevere”. Un bambino sente la formulazione ma trova un’altra
soluzione più semplice. Formulazioni lessicali anche come: “scienziati telescopiati”, ovvero scienziati che
usano un telescopio.
Per quanto riguarda la competenza o la sensibilità metalinguistica, ragionare su una lingua; già a partire dai
due/tre anni, i bambini iniziano a verbalizzare e riflettere sul funzionamento della lingua come: “brutta
zucca” (bambino). Inizia senza avere una capacità di sapere di utilizzare il femminile, però allo stesso tempo
associa la finale in “a” per il femminile e quindi inizia a emergere quella che chiamiamo competenza
metalinguistica. Abbiamo poi anche una competenza comunicativa, pragmatica: capacità di essere adeguati a
seconda del contesto nel quale stiamo comunicando; utilizzare parole e atti comunicativi rispetto al contesto
di riferimento. Es: quando siamo piccoli e arriva la zia, la nonna o altri e il genitore dice: “Come si dice?”.
Tentativo di insegnare una regola non linguistica ma d’uso; se ricevi un regalo, devi ringraziare.
A partire dai due anni si comincia a sviluppare una competenza pragmatica, d’uso, di adeguatezza. Questo
avviene spontaneamente nel portare il bambino a riflettere; es: “mozzarella”, “vuoi la mozzarella?”,
“chiedilo bene allora”. Se vuoi qualcosa lo devi chiedere bene. Tutto quello che rientra nella sfera
pragmatica, regole d’uso per essere appropriati ed efficaci riguarda anche l’uso della competenza
interazionale. Non solo regole di buone maniere ma anche il fatto di intervenire e interagire in modo
appropriato; sapere quando ci si può inserire in una conversazione ma anche essere rilevanti: non parlare,
non cambiare argomento, non parlare a sproposito. Non solo imparare lo scambio del turno. Soprattutto in
una lingua straniera: quanto è complesso inserirsi in un turno di parola. La difficoltà più grande è imparare a
capire quando ci si può inserire in una conversazione. L’acquisizione della L1 inizia a intersecarsi con
l’apprendimento della L1, esplicitazione a regole e si affinano elementi linguistici e anche la conoscenza in
diversi ambiti: lessico, registri linguistici e riflessione metalinguistica (articoli e sostantivi che possono avere
generi) e soprattutto si inserisce la scrittura. Rispetto all’acquisizione di una lingua, ci sono spiegazioni
teoriche che ci riportano a tre ipotesi: prospettiva comportamentista, innatista e interazionista. Tentano di
spiegare il funzionamento dell’acquisizione della L1 ma che può essere riportato anche all’acquisizione della
L2.
1) Il bambino impara la lingua attraverso l’osservazione e l’imitazione del comportamento linguistico altrui,
dell’interlocutore. Un ruolo fondamentale: imitazione di ciò che ascoltiamo e si basa su quello schema che
Burrhus Skinner definisce “input” seguito dalla risposta (imitazione di ciò che abbiamo sentito) e rinforzo
(feedback che viene dato, riascoltare la proposta che segue l’ipotesi acquisizionale comportamentista i
bambini imitano selettivamente perché altrimenti non si spiegherebbero le formulazioni creative proposte dai
bambini).
2) Il linguaggio si sviluppa nel bambino come le altre funzioni biologiche perché l’essere umano avrebbe un
dispositivo definito: Language Acquisition Device; in modo innato acquisisce la lingua. Teoria del Monitor
(Krashen) basata su cinque punti:
 Ipotesi acquisizione che avviene in modo naturale verso l’apprendimento che è legato a un processo
formalizzato, guidato della lingua.
 La seconda ipotesi è quella dell’ordine naturale: regole della L2 apprese seguendo un certo ordine;
ognuno di noi avrebbe una sorta di sequenza interna per imparare prima delle strutture e poi
successivamente delle altre. Si impara prima ad usare il presente rispetto al passato remoto o al
congiuntivo.
 L’altra ipotesi è quella del monitor, ognuno di noi ha un fattore interno che serve per correggere e
controllare la nostra produzione linguistica e rappresenta una sorta di autoriflessione metalinguistica
rispetto a ciò che produciamo. Funziona solo se l’input che abbiamo ricevuto è chiaro e l’abbiamo
interiorizzato.
 Ipotesi dell’input: sottolinea che possiamo imparare e trasformare l’input che riceviamo in intake che
siamo poi in grado di utilizzare solo e soltanto se l’input che riceviamo è comprensibile, solo se è
leggermente più elevato rispetto al nostro livello di conoscenza e competenza (per questo +1).
 Ipotesi del filtro affettivo: davanti a una lingua dobbiamo cercare di abbassare questa sorta di muro,
resistenza di natura emotiva che a volte possiamo avere nei confronti di una lingua. Es: bambini
stranieri che vengono inseriti nelle classi e allontanati dal loro paese e mostrano delle resistenze.
3) La prospettiva (ipotesi) interazionista: fattori che sono interni ma ciò che svolge un ruolo fondamentale è
anche l’interazione con gli altri interlocutori e nella prospettiva interazionista assume un ruolo fondamentale
il contesto comunicativo nel quale stiamo agendo. Il bambino impara soprattutto quegli aspetti comunicativi
interagendo con i parlanti; impara le regole di cortesia, interagendo con altri parlanti. Rispetto alle altre
prospettive, qui il contesto comunicativo assume un ruolo centrale. L’interazione permette anche di
negoziare dei significati perché, se non ci capiscono, rimoduliamo e ripetiamo perché forse non è stato capito
bene o espresso bene e quindi, attraverso lo scambio, capiamo che l’interlocutore non ha capito.

Lezione 2 14/02/2023

Acquisizione della L1 per riportarci a schemi condivisi e comuni e ritrovabili anche nell’apprendimento della
L2. Se l’ipotesi innatista suggerisce che l’individuo possiede anche la capacità innata di sviluppare abilità
linguistiche, la teoria interazionista suggerisce, invece, che l’acquisizione della L1 e apprendimento di L2
avvengano con maggior successo se vi è interazione con parlanti poiché avvengono una serie di fenomeni
che permettono di apprendere altri elementi che sono tutti quelli comunicativi, pragmatici legati al contesto.
Quando parliamo di apprendimento delle L2, se pensiamo alle condizioni in cui si può apprendere una L2, ci
viene da pensare a contesti differenti. L’apprendente di L2 è una categoria che può essere molto differenziata
e diversificata. Ci troviamo in tutti i casi in condizioni diverse da quelle di un bambino piccolo che deve
imparare la lingua materna. Se prendiamo 5 casi di apprendimento di L2, un bambino piccolo che a casa ha
un’associazione di una lingua mentre a scuola in un’altra lingua (bambino che impara una seconda lingua);
un bambino che impara una seconda lingua con una figura esterna (tata, babysitter); adolescenti (ci viene
subito da pensare a una classe delle medie o superiori) è però semplicemente un’altra situazione, non è
l’unica. Oppure, possiamo pensare a un immigrato, adulto che per ragioni politiche, economiche si
trasferisce in un altro paese e ha la necessità di apprendere, acquisire una lingua. Oppure uno studente, un
lavoratore che vuole imparare una lingua straniera per ragioni accademiche, lavorative, occasione di lavoro
all’estero.
Immediatamente, ci dovrebbe venire in mente che caratteristiche hanno e in che contesti possono apprendere
la lingua. Le domande che ci dobbiamo porre davanti a un apprendente di L2: se conosce un’altra lingua e
quando/che cosa/che abilità linguistiche ha nell’altra lingua; dobbiamo chiederci se è già maturo dal punto di
vista cognitivo, se sa già ricollegare altri argomenti che ci possono essere d’aiuto nell’insegnamento di una
lingua (se riesce ad affrontare problemi di problem solving, se ha capacità di ricollegarsi anche a concetti di
tipo enciclopedico; quanto e se ha già sviluppato una conoscenza metalinguistica). Quanto sono inoltre
ampie le sue conoscenze enciclopediche, quanto incide il filtro affettivo (barriera che può innalzarsi e
portarmi ad avere resistenze verso la lingua obiettivo). Qual è poi l’ambiente nel quale mi sto muovendo;
quante occasioni d’uso ha a disposizione il mio apprendente e quali e quante sono le occasioni di avere
feedback. Inoltre, quante e quali occasioni di incontrare input spontaneo o modificato ha il nostro
apprendente. Se queste sono le domande che ci poniamo come docenti, si ricollegano alle differenze tra un
individuo che acquisisce la lingua materna e un apprendente che apprende spontaneamente o in maniera
formalizzata un L2, ma teniamo sempre la duplice prospettiva con domande che rispondono ad elementi che
caratterizzano l’apprendimento da parte dell’apprendente.
Abbiamo visto prima l’età: bambini piccoli, adolescenti di primo e secondo grado delle superiori. Quali sono
le caratteristiche individuali: emotive, psicologiche, personali. Qual è il contesto con il quale si apprende una
lingua, quali metodi vengono utilizzati.
Ci sono tre elementi sui quali è importante concentrarsi: cultura d’origine, lingua da apprendere e lingua
madre. La vicinanza tipologica è un vantaggio ma può essere anche uno svantaggio. Sfera di usi,
realizzazione di un atto, se è maggiormente incisivo, diretto: tutto ciò caratterizza la cultura. Concentrarsi
anche su quali possono essere gli ostacoli che può incontrare il mio apprendente nell’imparare la L2. Se
siamo italiani e devo insegnare spagnolo, io saprò quali sono gli elementi di vicinanza e distanza e su quello
posso inserire un intervento per aiutarlo a evitare errori.
Altra lingua straniera conosciuta: si possono trovare altri elementi di confronto e che quindi fungono da
ponte per la lingua che si vuole imparare. Pensiamo all’importanza del sapere altre lingue quando ci
troviamo in contesti scolastici dove abbiamo bambini che utilizzano lingue molto distanti ma che potrebbero
aver avuto esperienze di scolarizzazione in altri paesi. Es: bambino arabo che per due anni ha vissuto in
Francia. Noi o la nostra collega conosce il francese; sapere quali altre lingue conosce il nostro apprendente,
ci aiuta per avere punti di riferimento per trovare punti di contatto. Potremmo quindi usare una lingua ponte.
Stessa cosa se abbiamo un adulto che già conosce lo spagnolo e l’italiano e deve imparare il francese o
portoghese, possiamo usare un’altra lingua. Potrebbe essere utile avere alcuni riferimenti. Es: la lingua di
partenza del mio apprendente è una lingua in cui è presente numero, genere, ha soggetto verbo oggetto o no?
Pur non avendo una conoscenza specifica di quella lingua, possiamo ricavare informazioni di fondo. Il
dizionario di Malherbe è uno strumento molto utile ad esempio quando ci troviamo davanti ad una classe
eterogenea. Questi aspetti di lingua madre e lingue da apprendere, sono i punti centrali come alcuni elementi
citati oggi.

VOLANTINO DEL RISTORANTE CINESE:


“Pachi”: pagano
Alcune informazioni non sono chiare. Questo è un esempio di interlingua basica. Vengono presi degli
elementi senza utilizzare, nella varietà base, la grammatica ma c’è un tentativo di raggiungere un
interlocutore e di comunicare un messaggio: ci vuole comunicare che possiamo mangiare quelle cose
indicate grossomodo e lo stesso vale per il prezzo.

INTERLINGUA
Concetto che parte ed è stato sviluppato nella didattica delle lingue moderne e che vedremo che può essere
tranquillamente riportato anche all’educazione linguistica e insegnamento/apprendimento di una L1.
Acquisizione spontanea di una lingua straniera ma che può essere estesa in termini soprattutto valutativi per
orientare all’insegnamento della L2 e anche all’insegnamento della L1 perché può essere estesa anche alla
L1 se la consideriamo non come una lingua monolitica. In Italia, ci sono molte varietà della lingua, così
come nei paesi anglofoni, ispanofoni. In questi termini, l’interlingua c’è di sostegno perché possiamo
riportare alcuni degli aspetti dell’interlingua anche nell’insegnamento della L1. Ci sono delle tappe/sequenze
comuni in tutti gli apprendenti; ciò che varia sono i tempi che possono differenziarsi a seconda
dell’individuo. In base ai tempi richiesti per il superamento delle diverse fasi dell’interlingua, si possono
osservare risultati anche molto diversi. L’interlingua ci richiede di adottare come prospettiva il punto di vista
dell’apprendente, sistema linguistico che risponde alle ipotesi dell’apprendente davanti a una lingua
obiettivo. Cercare di capire il funzionamento di una lingua, capire se la lingua che stiamo parlando è vicina o
distante dalla lingua di partenza o arrivo. Quali irregolarità presenta la lingua di arrivo e su quelle formulare
ipotesi di funzionamento. Proviamo ad assumere quindi la prospettiva del nostro apprendente, chi sta
cercando le risposte alle proprie ipotesi. Interlingua: sistema linguistico proprio dell’apprendente; abbiamo
un’interlingua della seconda, terza, quarta lingua straniera, un sistema provvisorio che si sta costruendo
l’apprendente per migliorare, progredire la lingua che sta imparando. È caratterizzata dalla provvisorietà e
transitorietà; segue schemi e sequenze che sono più osservabili nella fase iniziale; si tende a un rallentamento
in fasi avanzate ma è un sistema che è provvisorio ma che tende all’infinito. Noi nella nostra L1 o lingue
straniere puntiamo a migliorarle sempre. È più veloce passare da un A1 a un A2 rispetto che da un B2 a un
C1.
La prospettiva dell’interlingua fu analizzata per la prima volta negli anni 70 da Selinker. È un sistema
individuale caratterizzato da una sistematicità. Presenta schemi, sequenze e regole. Non sono parole messe a
caso; il volantino non riportava parole buttate a caso ma ritrovavamo delle ipotesi che il ristoratore
probabilmente si stava ponendo. Quel “pachi” non era messo così casuale, ma rispondeva all’ipotesi che “ho
sentito da qualche parte questa parola”. Vedrò poi se la mia ipotesi è errata o giusta (in questo caso errata). Il
soggetto ha un mutamento anche abbastanza veloce. È una lingua imperfetta e si basa su diversi e successivi
tentativi di trovare logica e interiorità nella lingua obiettivo. L’interlingua risponde allo schema italiano,
inglese, spagnolo secondo ME. Es: in inglese, i passati si formano tutti con la ED? La mia ipotesi sarà
cercare di capire se c’è questa regolarità o no. Il percorso di acquisizione sarebbe più facile se a tutte le mie
ipotesi io trovassi una risposta affermativa ma spesso ci scontriamo con risposte negative con l’ipotesi che
risulta sbagliata. L’apprendente, in un contesto di acquisizione spontanea, si trova a confrontarsi direttamente
con la lingua e quindi l’affermazione delle ipotesi è diretta  devo cercare di capire se la mia ipotesi è giusta
o meno.
In un contesto di apprendimento formale e quindi guidato, cosa succede? La figura del docente, un libro
di testo, un manuale, una risorsa didattica, un esercizio che mediano; c’è un’intermediazione. Può succedere
che, da un lato, abbiamo un apprendente che cerca delle regolarità e ipotesi e, dall’altra, un docente che
tradizionalmente non è portato a calarsi nei panni della lingua secondo l’apprendente ma è portato a dire “no,
non si capisce” o “ci sono un sacco di errori”.
L’interlingua ci può fornire spunti, indicazioni formative che ci permettono di sapere esattamente a che
punto di sviluppo dell’interlingua si trova il nostro studente (cosa sta facendo, cosa sa già fare e su cosa
posso intervenire).
Spesso, abbiamo due prospettive che non vanno nella stessa direzione: da un lato abbiamo un apprendente
che formula delle ipotesi che dice di saper fare già certe cose; dall’altra abbiamo un insegnante che dice “non
sa ancora fare questo”  prospettiva più negativa rispetto a quella dell’apprendente.
Assumere la prospettiva dell’interlingua significa ribaltare la prospettiva tradizionale; iniziare a considerare
ciò che c’è già e non andare a osservare quello che manca ancora. Bisogna imparare a ribaltare la
prospettiva. Ciò è estremamente utile anche per noi. Se nella produzione del mio apprendente io vedo,
osservo che sta già usando l’articolo e che lo sta già usando in maniera regolare, è inutile che gli riproponga
una batteria di attività meccaniche su questo argomento, perché lo sa già fare.
L’interlingua è caratterizzata da fasi che sono ricorrenti, schemi e sequenze che ritroviamo in tutte le lingue.
Prima fase: fase del silenzio  tutti gli apprendenti di una L2 attraversano una fase iniziale in cui sono in
ascolto, cercano di capire quali sono i suoni, il funzionamento. Spesso, c’è una prima fase in cui
l’apprendente non produce lingua-obiettivo. Questo non significa che non ci sia comprensione o
apprendimento. Spesso, quando ci sono bambini che provengono da lingue e culture distanti, sentiamo dire
dall’insegnante: “sta in classe ma non capisce perché non parla”.
Questa è in realtà la fase del silenzio in cui sta ancora cercando di capire e non si sente ancora pronto a
produrre qualcosa ma c’è già comprensione e quindi possiamo già lavorare dal punto di vista didattico se c’è
davvero comprensione con metodi specifici senza forzare l’apprendente a produrre in lingua. Se forziamo
una persona che in quel momento ancora non si sente pronto a parlare o a produrre qualcosa in quella lingua,
può rischiare di creare ansia, resistenza, vergogna perché potrebbe sentire la sua voce diversa.
In questa fase che si chiama “varietà basica dell’interlingua” troviamo come elementi lessico e pragmatica
(uso, volontà di interagire e comunicare con i parlanti con l’intenzione di farsi capire). Elementi non verbali
quando l’obiettivo è farsi capire e utilizzare quindi parole ed elementi comunicativi che gli permettano di
dire “sono qui e sto cercando di farti questa richiesta”. Le prime parole che emergono nella varietà basica
sono: nomi propri, appellativi per richiamare l’attenzione oppure “guarda”, “maestra”, “prof”, “bimbi”,
“aspetta”, “andiamo”, “vai”, “piano”, “ciao”, “scusa”, “grazie”. Tra gli elementi lessicali, ci possono essere
elementi che forse non so ancora contestualizzare o attribuire loro il significato ma li utilizzo perché li ho
sentiti. Ci sono anche gli elementi descrittori come “bravo/a”, non c’è una corrispondenza però fra maschile
e femminile. Oppure, anche i dimostrativi “questo”, “quello”. Tutto questo perché dobbiamo farci capire.
Appaiono poi anche delle formule apprese dai bambini dette formule fisse.

Cosa succede quando mi mancano delle parole? Strategie comunicative che sono le stesse che utilizziamo
tutti quanti noi indipendentemente dal nostro livello di competenza della lingua straniera e le utilizziamo
anche nella nostra L1 se pensiamo alla lingua per lo studio, ai termini specialistici. Oppure si usano anche i
prestiti da una L1 a una L2. Infine facciamo anche creazioni creative (coniamo dei termini).

Lezione 3 15/02/2023
Trascrizione video
“Una bambino e e lui papà vado a lago prendi pesce
Loro anda- andiamo andar an andano andano casa.
Papà (vuomo) mangiar- mangiato pesce. Quello bambino.. loro loro va viado vanno vano la lago il lago. Il
lago meno, meno il pesce in lago”.
(tratto da "Imparare e insegnare l'italiano come L2": Pallotti e AIPI, 2005)

Abbiamo un apprendente cinese di italiano, ha superato la fase del silenzio. Le viene proposta questa attività
che spesso si utilizza con apprendenti iniziali e per raccogliere l’interlingua e poi osservarla non solo per
l’italiano ma vale per qualsiasi altra lingua. Si chiede una breve produzione orale, sollecitata attraverso un
racconto per immagini e si chiede all’apprendente di raccontare la storia senza però fornire altri elementi.

Quali sono le ipotesi che sta formulando sulla lingua target? Competenza comunicativa: la fluenza ancora
è molto limitata, ci sono molte esitazioni, pause, riprese, ripetizioni, autocorrezioni ma l’autocorrezione
presuppone un certo ragionamento. Efficacia comunicativa: ancora dal punto di vista comunicativo, capire
un testo, è fortemente dipendente dal contesto. Morfologia nome e aggettivo: è vero che usa solo cinque
sostantivi però comunque c’è una discreta varietà. L’indicazione che sta formulando è che ci segnala che sa
che “papà” è un sostantivo maschile e per segnalarlo usa anche “uomo”. Non tutti i sostantivi che terminano
con la “a” sono femminili ma ci sono delle eccezioni e “papà” è un esempio. L’uso degli articoli è ancora
semplice, ci sono molte incertezze e molti errori però c’è concordanza con il sostantivo e il fatto che ci sono
articoli determinativi e indeterminativi. Probabilmente, sta ragionando sul funzionamento degli articoli.
Coniugazione del verbo: rispetto al verbo, avevamo notato questo “anda”, “andar”, “andano”. Ha capito che
il sistema italiano è soggetto, verbo, oggetto e ha inoltre capito che i verbi vanno coniugati e a ogni persona
corrisponde una forma verbale differente e quindi cerca di coniugarlo in maniera adeguata. Non è “loro
andare casa” che spesso si sente in apprendenti iniziali ma c’è un tentativo di coniugazione. Ha capito che i
verbi italiani vanno coniugati. Quello che le manca è la coniugazione corretta.

Altro caso: apprendente di lingua inglese L2 di prima media


“The man and the child go to the lake and they take the fish↓ they go to the home and the man want to kill
and eat i- eat it the fish but the## child is sad and cry↓ they go again to the lake and# they free the fish↓ but
the fish bigger eat the fish and the story ends”.

Abbiamo, in questo caso, un’interlingua che è già avanzata e quindi interviene la grammatica. Se so cosa sa
già fare questa persona, capisco quale sarà il mio intervento didattico. La cosa che sa già ma non applica è la
“s” alla terza persona e non avrebbe quindi senso darle esercizi meccanici su quell’argomento. Non avrebbe
senso insistere su quell’argomento, non le serve ulteriore esercizio. Se torniamo alla nostra fase di sviluppo
dell’interlingua, dopo una fase di silenzio iniziale, una prima fase effettiva di produzione (varietà basica) vi è
una fase intermedia in cui inizia a sistematizzarsi anche la grammatica. Il primo punto per l’apprendente è
cercare di astrarre regolarità rispetto al funzionamento di una lingua; sente che ci sono elementi comuni e
cerca di ricostruire delle regole con elementi comuni. Le regole emergono gradualmente dall’osservazione
nell’input di una serie di fenomeni regolari, cioè ricorrenti e simili. Il nostro ruolo è provare ad
accompagnare un apprendente e cercare di fargli notare queste irregolarità. Non basta notarle queste
regolarità ma serve anche capirle, se capire se a quella forma corrisponde una funzione. Capire come
funziona una lingua è un sistema molto complesso, cerchiamo la regolarità nelle forme e nel rapporto tra
forma e funzioni; ci auguriamo che ci sia un rapporto univoco. Il problema è che la lingua non è un sistema
logico e razionale; è vero che preferiamo l’economia ma sappiamo che purtroppo non è sempre così. La
difficoltà nello sviluppo dell’interlingua è riuscire ad andare oltre a quella regolarità che non sempre
funziona. Una struttura linguistica la apprendiamo se è funzionale, ricorrente e se la riconosciamo e sentiamo
facilmente. Qualcosa che è facile da notare e riconoscere. Nell’apprendimento dell’inglese, il passato
irregolare di Be, Have, Go sono quasi più semplici di ED. Questo perché i primi si notano maggiormente e
sono elementi facili da individuare, con linearità forma-funzione. Il verbo in forma basica è utilizzato senza
essere coniugato, senza forma fissa “ieri io mangia”, “domani io mangia” ecc. Successivamente, emergono
alcuni elementi. “Lei è arrivato”: appare l’ausiliare, ancora possiamo lavorare sul fatto che il participio può
essere accordato. Dopo la varietà basica rispetto al genere e sintagma nominale, troviamo elementi legati al
genere, numero, accordo (con eventuale inserimento di aggettivi che possono essere accordati). Il primo
compito è assegnare il genere ai sostantivi che abbiamo. Quando troviamo delle produzioni in una varietà
intermedia, cominciamo a trovare delle indicazioni. Es: “la cinema”  la bambina conosce gli articoli e non
avrebbe senso farle fare, per esercitarsi, degli esercizi sugli articoli. Il rischio è quello di proporre un’altra
batteria di esercizi inutili per l’apprendente e la motivazione come apprendente crolla. I primi elementi che si
notano nella lingua inglese sono la “s” del plurale, il suffisso –ing e solo successivamente appare il verbo
essere. Per quanto riguarda la negazione, c’è una prima fase in cui l’espressione della negazione è fissa e
successivamente appare la formulazione con il “don’t” e solo in una fase più avanzata uso il “doesn’t” e
“didn’t”. Vedere l’interlingua dal punto di vista di chi insegna, non è vedere quello che manca ma portare in
luce quello che già c’è perché sono funzionali all’insegnante per impostare elementi didattici successivi. Gli
errori non sono tutti uguali, non si deve sottolineare la quantità degli errori ma si deve capire che tipo di
errori l’apprendente fa come: incapacità, inadeguatezze comunicative, improprietà, infelicità, errori sia
fonologici che lessicali che grammaticali. È importante capire di che tipo di errore si tratta. Capire se si tratta
di qualcosa che accade momentaneamente e che quindi fa parte di quel processo transitorio dell’interlingua
(e quindi è uno sbaglio, una disattenzione, un errore che commentiamo perché la nostra interlingua sta
evolvendo) oppure un errore sistematico (l’apprendente fa sempre lo stesso errore; la sua interlingua sta
evolvendo ma continua a cadere su quell’errore e questo diventa problematico). In generale, cerchiamo di
analizzare che tipo di ipotesi sta formulando il nostro apprendente. Spesso è un errore dovuto all’influenza
della L1 o anche altre lingue. Se ho studiato spagnolo e sto studiando portoghese, è facile che io non solo
commetta errori perché baso le mie ipotesi sull’italiano ma anche su un’altra lingua che sto studiando. Ci
sono regole di sovrageneralizzazione in contesti in cui non sono richieste o necessarie. È importante adottare
una nuova prospettiva dell’errore: considerare gli errori come degli indicatori utili perché costituiscono una
fonte di informazione per noi fondamentale perché ci dicono come sta procedendo il nostro apprendente e
dove è più utile che noi interveniamo.
Torniamo all’attenzione all’individualità. Se in una classe abbiamo un gruppo abbastanza omogeneo e siamo
in grado di capire chi ha bisogno di insistere su determinati aspetti e chi no, dovremmo andare più incontro
alle esigenze specifiche dei nostri apprendenti. Si parte prima dalla competenza comunicativa e poi la
competenza linguistica (cercando di isolare gli elementi così come avevamo fatto nella lingua vista prima).
Analizzare una produzione scritta e orale cercando di isolare singolarmente gli elementi in quella scritta.
L’altra nota è quella di rimarcare quello che c’è e poi quello che manca.
Punti di attenzione: l’interlingua è un sistema linguistico transitorio ma è soggetto a fossilizzazione (un
apprendente compie un errore che non è più momentaneo ma diventa sistematico. Quando lo abbiamo, il
rischio è quello di incorrere a una fossilizzazione; se quell’errore non viene sradicato, rimarrà per sempre.
Dobbiamo cercare se l’errore che sta commettendo passerà oppure se rischia di rimanere; se ci accorgiamo
che da transitorio sta diventando sistematico, allora dobbiamo intervenire. La fossilizzazione riguarda un
aspetto specifico, non è che se interviene la fossilizzazione è su molti aspetti, ma su un aspetto e tutto il resto
dell’apprendimento di una lingua prosegue. È un errore che continua a commettere ma sulla carta, sulla
teoria in realtà la persona sa.
Altro punto di attenzione: transfer linguistico (influenza di una L1 o di un’altra lingua straniera conosciuta).
Parliamo di transfer quando c’è l’influenza di un’altra lingua che condiziona la produzione nella lingua di
arrivo. Può essere positivo quando facciamo un’influenza rispetto alla L1 o altra lingua e troviamo un
riscontro anche nella lingua obiettivo, quando l’influenza mi aiuta nella produzione in lingua-obiettivo;
transfer negativo quando l’influenza della L1 non mi aiuta e diventa un ostacolo (es: tutti i falsi amici;
quando non sappiamo un termine proviamo a inventare questo termine ma il problema è quando questa
parola che diciamo ha un altro significato nell’altra lingua). I transfer sono: logico, lessicale, sintattico. Ci
può essere un transfer pragmatico? Cultura intesa anche come abitudini linguistiche: deissi sociale, atti
linguistici o modi di dire; anche ad esempio un’offerta: gli scambi, accettazione, rifiuto. Per alcune lingue e
alcune culture, prima rifiuto e poi ci si aspetta che ci sia un’altra offerta. Per altre culture, invece no. Dopo
un rifiuto non si chiede più nulla per non essere invadenti.

Lezione 4 20/02/2023

Parleremo delle condizioni per apprendere una lingua straniera.

È possibile apprendere una lingua straniera, acquisire una lingua straniera, una lingua diversa dalla
nostra lingua materna perché si risiede in un altro paese e molte persone che vanno a vivere in un altro
paese possono acquisire la lingua in modo naturale semplicemente comunicando, lavorando nel paese
della lingua target senza necessariamente andare a scuola?
Sappiamo che molte persone apprendono una lingua straniera frequentando un corso di lingua in un percorso
di apprendimento formale.

Quali sono gli elementi senza i quali non c’è la possibilità di apprendere e che accomunano queste due
situazioni?
È interessante l’elemento del parlante nativo; è stato sostituito il termine “parlante nativo” con “parlante
esperto della lingua obiettivo”, eliminando il concetto iniziale di parlante nativo. Nessun parlante è parlante
nativo delle varietà/registri formali della lingua. L’accezione di parlante nativo si sta sempre di più mettendo
in discussione. Confronto con parlanti esperti che possono essere parlanti di quella lingua. La motivazione
rientra negli obiettivi ma è anche più nell’accezione comune di elemento affettivo.

Ma senza cosa io faccio fatica?


Ci sono anche degli elementi grammaticali e vedremo in che tipo la grammatica interviene nelle situazioni.
Tuttavia, ciò che viene prima è l’input (lettura, ascolto, motivazione, dialogo, comprensione, opportunità di
usare quella lingua, lingua come mezzo).
Acquisizione e apprendimento, teorizzati da Krashen quando abbiamo fatto riferimento alla teoria del
monitor. Queste ci riportano alla situazione precedente: imparo una lingua senza necessariamente seguire un
percorso formalizzato, ma la acquisisco.
Acquisizione: in un contesto spontaneo, il più vicino possibile a un apprendente di L1 che apprende la
propria lingua materna; il parlante è concentrato sul contenuto che deve veicolare, allora la grammatica è
inconscia.
Apprendimento: condizione in cui il parlante impara la lingua attraverso la riflessione sul funzionamento in
un contesto più formalizzato e dove c’è attenzione alla forma e alla correttezza grammaticale. L’acquisizione
è quel processo che permette di apprendere la lingua in modo più efficace e duraturo rispetto
all’apprendimento. Suggerimento: anche in contesto di insegnamento e apprendimento di L2 si dovrebbero
ricreare condizioni simili all’acquisizione per permettere l’attenzione alla forma grammaticale e alla lingua e
di avere quell’effetto ed efficacia tipici dell’acquisizione. L’acquisizione è un processo inconscio, non
controllato e il focus è sul contenuto mentre l’apprendimento è in un contesto formale con la presenza di un
tutor, insegnante, processo consapevole, esplicito che mira alla correttezza formale (corsi di lingua,
apprendimento della lingua a scuola).

Condizioni senza le quali non si impara una lingua:


-esposizione alla lingua da apprendere: quello che si definisce input.
-opportunità per l’uso della lingua: l’input non basta per apprendere una lingua, sarà necessario anche
l’output; non è sufficiente che io mi concentri sull’ascolto, comprensione e lettura ma perché il mio
apprendimento sia complessivo, è necessaria l’opportunità di utilizzare questa lingua. Usare una lingua è
dialogica, interazionale, confronto e parlato ma c’è anche tutta la dimensione scritta e la dimensione della
comunicazione mediata dal computer;
-motivazione;
-insegnamento con maggiori o minori focalizzazioni sulla forma: come, quanto e quando viene insegnata la
grammatica.

Esposizione = input
L’input è un’informazione. In classe: spiegazione dell’insegnante, la musica, libri, conversazione con i
compagni o l’insegnante. Fuori dalla classe: netflix, etichetta dei prodotti al supermercato, la musica, libri.

Fotografia: non è un input perché non c’è né una parte scritta né parlata. Potrebbe essere input se mi
comunicasse qualcosa di non verbale, un gesto, che fa parte della comunicazione ma non verbale.
Regola grammaticale: è in parte un input se fornisco degli esempi, frasi a sostegno della regola, allora lo si
può chiamare input (non 100%).
Input sono tutte quelle risorse orali, scritte che io ricevo non necessariamente in classe ma anche fuori nella
lingua obiettivo. Se sono in un contesto di immersione, la mia possibilità di essere esposta ad un input è più
elevata rispetto alla vostra (ad esempio) di apprendenti di russo in Italia al dipartimento di lingue. Es:
ragazza spagnola in Erasmus sta imparando italiano in immersione perché sta vivendo in Italia e studia
italiano in questo periodo. Troviamo diverse definizioni di input (che non sono da imparare) ma danno una
panoramica di ciò che definisce input. La migliore è: the stuff out there, tutto ciò che rappresenta una risorsa
in lingua. L’input può essere didattizzato (materiale creato a doc molto semplificato perché deve avere uno
scopo didattico molto forte; devo cercare una risorsa linguistica che mi permetta di lavorare su un
determinato lessico o struttura grammaticale) o autentico (è una risorsa reale che non è nata per scopi
didattici). Es: estratto da un giornale; se uso una risorsa che nasce come autentica e non intervengo
modificandone il testo, non metto parafrasi o non cambio il tono, non rallento la notizia (se è un telegiornale
o intervista), allora posso ancora considerarlo autentico. Quello che invece si fa di solito in classe è quello di
didattizzare il tutto. C’è poi l’input spontaneo: quello della conversazione spontanea ma anche l’utilizzo di
una chat (frammento di una chat, input spontaneo tra due parlanti). Posso intervenire nel caso e didattizzarlo.
È spontaneo quando la lingua è usata al naturale e autentico se non nasce per scopi didattici. Es: il volantino
cinese presentato dalla prof era autentico perché lo ha lasciato così com’era.

Quand’è che queste risorse proposte agli apprendenti sono efficaci e utili e come deve essere l’input
che proponiamo ai nostri apprendenti?
La settimana scorsa avevamo accennato la formula dell’input, efficace quando è rispondente alla forma
input+1. Deve essere di un livello leggermente superiore a un livello di conoscenza mio attuale per essere
anche più comprensibile. L’input è efficace per l’apprendimento solo se l’apprendente è in grado di
comprenderlo, di capire l’input che gli viene fornito. Altrimenti, non lo capirà e si demotiverà. Qualsiasi
lezione, scambio, interazione anche fuori dalla classe è un input utile se comprensibile. Oltre a essere
comprensibile, l’input deve essere quantitativamente e qualitativamente ricco (un input variato che proponga
diverse risorse, che comprenda diverse abilità e non dobbiamo concentrarci su una sola tipologia di risorsa).
Abbiamo fatto riferimento a input autentico e didattizzato ma l’intervento sull’input avviene anche in
un’interazione; quando parliamo con un bambino più piccolo o con persona di un’altra nazionalità,
utilizziamo un foreigner talk. Normalmente, in interazione, quando ci troviamo con un parlante meno esperto
o di fronte a un parlante di origine straniera, tendiamo a manipolare il nostro input fino al foreigner talk con
l’uso dell’infinito, uso eccessivo della forma del “tu”. L’input, anche in una comunicazione extra-didattica,
può subire una manipolazione. Si può intervenire in un contesto didattico attraverso la semplificazione o
elaborazione dell’input (intervenire sulla nostra risorsa che può essere già nata o autentica [sulla quale
interveniamo per modificarla o elaborarla]).
Si può rallentare il ritmo dell’eloquio, mettere enfasi o semplificazioni morfologiche, semantiche o di
contenuto.

Quali sono gli svantaggi della semplificazione?


Offrire un input che è troppo poco e non rispecchia input+1. Se semplifichiamo il lessico e la sintassi,
rischiamo addirittura di ostacolare l’apprendimento e la comprensione. C’è un rischio di impoverimento
linguistico anche nell’apprendente. Se offro sempre frasi o testi troppo semplici, non avrò mai una varietà
testuale e non approfondirò o migliorerò perché avrò modelli troppo poveri. Oltre alla semplificazione
troviamo l’elaborazione, intervenire sul testo facilitando e intervenendo su alcuni passaggi e riducendo la
complessità lessicale. Potrei proporre dei sinonimi più semplici. Un’altra strategia è quella del
potenziamento, si potenzia l’input. Si prova a potenziare con una strategia che si chiama inondazione o con
l’evidenziazione.
1. Ripetizione eccessiva di una determinata caratteristica;
2. Graficamente mettere in grassetto.
Il potenziamento è il tentativo di rendere determinati elementi dell’input salienti e fare in modo che
l’apprendente li noti più facilmente.
Inondazione: quando lo stesso elemento è molto ridondante in una risorsa audio o scritta e quindi se io sento
o leggo e mi concentro su quell’elemento, è più facile che io lo noti e quindi si riprende l’ipotesi di Smith: se
un input è riconoscibile dall’apprendente, è più facile se lo noto in una risorsa e trasformo l’input in intake
(acquisizione).
Evidenziazione: alterazione grafica oppure un evidenziazione attraverso la voce. Io con la mia intonazione
vado a sottolineare i determinati elementi.
Un’altra delle condizioni necessarie per l’apprendimento di una lingua straniera è l’opportunità d’uso.
Impariamo determinate strutture linguistiche e strategie comunicative e aspetti legati alla pragmatica
attraverso l’interazione. Il punto è che dobbiamo necessariamente, non solo, come docenti, concentrarci
sull’input, ma l’output e sulle opportunità d’uso se vogliamo che gli apprendenti sviluppino una maggiore
competenza; quindi si devono sfruttare strategie didattiche che permettano di utilizzare la lingua.
Motivazione: riguarda non solo aspetti personali ma anche gli obiettivi del nostro apprendente cioè perché
impara la lingua. Consideriamo la motivazione, i fattori emotivi e affettivi e rientra anche l’ansia: il livello di
filtro affettivo.
Relazione circolare:
CIRCOLO VIRTUOSO CIRCOLO VIZIOSO
Alta motivazione Bassa motivazione
Buoni risultati Risultati deludenti
Mantenimento della motivazione Diminuzione della motivazione

Con un’alta motivazione, attiviamo un circolo virtuoso nell’apprendimento. Con una bassa motivazione,
attiviamo un circolo vizioso. Perciò, è più importante mantenere alta la motivazione per facilitare
l’apprendimento della lingua e l’ottenimento di buoni risultati. La motivazione rientra anche nella sfera
individuale e affettiva, non dipende esclusivamente dall’insegnante.

Motivazione strumentale
a. motivazione strumentale di lungo periodo: per conseguire un titolo di studio, per lavorare.
b. motivazione strumentale di breve periodo, estrinseca, tipica dell’apprendimento scolastico.
Motivazione integrativa
a. integrativa specifica: il desiderio d’integrarsi nella comunità (un immigrato che arriva in Italia e che
ha necessità di calarsi nella cultura del paese di arrivo o uno studente che dopo le superiori si prende
un anno sabbatico, ma non ha risorse per pagarsi un corso di lingua.
b. Integrativa generale: la seconda lingua per comunicare con molti altri stranieri.

Caratteristiche individuali
-motivazione personale: gli insegnanti possono mantenere alta la motivazione degli apprendenti migliorando
la qualità di insegnamento o essendo il più possibile rispondenti dei bisogni degli apprendenti.
-fattori/motivi affettivi
-età
-ansia
-stile cognitivo

Lezione 5 21/02/2023

TEORIE, APPROCCI E METODOLOGIE GLOTTODIDATTICHE


Ci sono alcuni elementi e definizioni tecniche che vanno sapute utilizzare. La didattica delle lingue ha dei
termini che corrispondono a concetti specifici e devono essere usati con cognizione.
Elementi che analizzeremo: cosa si intende per approccio, metodo, metodi e partiche didattiche?
Ci focalizzeremo sui momenti dello sviluppo della disciplina e i cambiamenti che questa disciplina ha avuto
nei secoli.

Cosa si intende per didattica delle lingue/glottodidattica?


L’apprendimento di una lingua straniera non è un fenomeno recente ma di data più lontana. Già i greci, i
romani apprendevano lingue straniere. L’obiettivo era: conquista, commercio quello che noi riportiamo a
comunicazione. È solo più recentemente che la didattica delle lingue straniere si è imposta come disciplina
indipendente.
L’obiettivo è capire e studiare l’organizzazione di modelli teorici e operativi, pratiche che possono essere
spese nella didattica di tutti i giorni finalizzate per l’insegnamento delle lingue moderne. Ci concentriamo su
lingue straniere e seconde. La lingua straniera è la lingua obiettivo (L2), insegnata in un paese in cui, però, si
parla e si utilizza un’altra lingua come lingua principale, del paese. Se siamo in Italia e insegniamo inglese,
francese e spagnolo in una scuola superiore, si parla di insegnamento di lingua straniera. Se ci trasferiamo in
Inghilterra per lavorare e frequentiamo un corso di perfezionamento della lingua inglese (lingua che non è la
nostra lingua madre), allora si parla di lingua seconda. È vero che la didattica delle lingue moderne tende a
non concentrarsi più in maniera specifica su questa distinzione ma visto che è utile sapere a cosa facciamo
riferimento, sappiamo che esiste questa distinzione.
Nella didattica anche delle lingue classiche, la didattica del greco e latino per cercare di avvicinarsi
maggiormente agli studenti, per puntare in un maggiore coinvolgimento dell’apprendente, ha iniziato a
proporre l’insegnamento delle lingue classiche come se fossero lingue moderne, attingendo ad approcci,
metodi e pratiche didattiche, caratteristiche della didattica delle lingue moderne. Didattica delle lingue
moderne: studio di modelli teorici e operativi ed è una disciplina definita come “scienza morbida” (Villarini).
Prima di questa definizione, era definita una costellazione disciplinare, una disciplina che attinge da altre
discipline che si trova in un’intersezione; ha principi, teorie che si rifanno in parte alla linguistica generale o
applicata, alla psicolinguistica, alla neurolinguistica, alla pedagogia (scienze dell’educazione),
all’acquisizione (interlingua). Scienza fluida nel senso che si trova in un punto di convergenza tra diverse
discipline. La didattica delle lingue moderne si occupa degli approcci, metodi, tecniche e della valutazione
per l’insegnamento/apprendimento delle lingue straniere per imparare e insegnare e costruire, potenziare le
abilità linguistiche dei nostri apprendenti.
Cosa si intende per abilità linguistica?
Si fa riferimento ad abilità linguistiche primarie e integrate. Quando impariamo una lingua straniera
dobbiamo imparare a comprendere; la comprensione può essere orale o scritta. Dobbiamo leggere e ascoltare
ma anche parlare e scrivere. Le quattro abilità primarie sono quelle appena citate: ascoltare, parlare, leggere,
scrivere. Due sono prevalentemente integrate all’oralità: ascoltare e parlare. Due sono orientate a costruire
l’abilità di scrittura. Così come due hanno come obiettivo la ricezione: ascoltare e leggere e due, parlare e
scrivere, sono orientate alla produzione.

Cosa si può intendere per abilità integrata?


Giusto mettere insieme due o più abilità primarie. Conversare e prendere appunti sono due abilità integrate:
io sto scrivendo, riassumendo e ascoltando. Il conversare è l’interazione e prevede che io, auspicabilmente,
capisca e risponda in maniera sensata a quello che mi sta dicendo il mio interlocutore. Quindi è
l’integrazione di due o più abilità.

Qual è una delle caratteristiche principali di questa disciplina?


Insegniamo la lingua utilizzando la lingua e quindi attraverso il mezzo stesso. L’altro aspetto è considerare il
contesto nel quale stiamo insegnando la lingua, e quindi le occasioni/opportunità d’uso della lingua stessa. Si
allarga a tutto quello che succede dall’aula.
Come qualsiasi altra scienza, anche noi ci basiamo su fondamenti teorici, approcci, metodi che sono
funzionali a fornire delle linee guida ai docenti e a suggerire su come insegnare: come tradurre da teoria ad
attività didattica.

Qual è il ruolo del docente? Quello dell’apprendente? Quello della lingua?


Quattro situazioni diverse e quattro contesti diversi dell’apprendimento di una lingua straniera: metodi e
approcci diversi.
-Nel primo caso c’era maggiore coinvolgimento e quindi si impara prima e in maniera più efficace. Nel
primo caso (video in classe della prof), in posizione prevalente vediamo gli apprendenti, non il professore.
-Nel secondo caso (Carlo in The Crown), abbiamo un dispositivo che insegna, ma a prescindere il ruolo
dell’apprendente è inferiore. L’attenzione è tutta centrata sulla correttezza.
-Nell’ultimo caso (Emily in Paris a scuola) creano una conversazione. L’insegnante lascia spazio agli
studenti, il suo ruolo è anche quello di proporre un feedback della produzione degli apprendenti. Il ruolo
della lingua è comunicativo rispetto a quello di Carlo o l’imitazione audio durante la corsa di Emily in Paris.
C’è un’attenzione alla forma ma anche all’efficacia (nell’ultimo caso).
Definizione di approccio: per molti studiosi, approccio e metodo sono termini molto simili che quasi tendono
a sovrapporsi mentre altri studiosi tendono a separarli e a considerarli diversi. Vediamo perché possono
essere considerati simili. L’approccio corrisponde alla teoria generale linguistica, alla quale ci si ispira e si
traggono ispirazioni. Sono le condizioni o principi generali in base ai quali il docente svolge il proprio
mestiere. Un approccio può generare più metodi che vengono applicati a seconda dei diversi contesti
comunicativi o situazioni di insegnamento. È vero che, nella storia, alcuni approcci sono stati anche definiti
metodi ed è per questo che alcuni studiosi tendono a una sovrapposizione dei due metodi: approccio o
metodo comunicativo/naturale. Il metodo, se l’approccio mi da le indicazioni di massima, consiste
nell’insieme, complesso delle azioni metodologiche ma in senso tecnico/operativo. Le azioni didattiche che
compio in relazione, ispirate a un determinato approccio; in relazione alle linee guida proposte da un
determinato approccio  realizzazione dell’approccio, come e cosa faccio operativamente in aula.
Chiaramente se si ispira alle condizioni dell’approccio, deve essere coerente con l’approccio. Non ci sono
metodi o approcci buoni o non buoni. Tutto sta nell’essere coerenti rispetto alle indicazioni che vogliamo
seguire e rispetto agli apprendenti che abbiamo davanti. La difficoltà è cercare di capire rispetto al contesto
educativo nel quale ci troviamo, quale approccio e quale metodo seguire; il tutto cercando che sia coerente.
Le tecniche sono le procedure operative. Una tecnica non è un esercizio; una tecnica può essere composta da
più esercizi. Una tecnica è l’imitazione, la drammatizzazione. Per drammatizzare, per fare la scenetta vista
prima in EIP, i miei apprendenti devono fare più esercizi. Quindi, è una tecnica che comprende più esercizi.
È quindi quella pratica attraverso la quale propongo e presento il materiale linguistico che poi viene
elaborato, analizzato, riprodotto e riutilizzato dagli apprendenti e mi porta a riflettere sulla lingua e a pensare
a una valutazione da parte del docente. L’importante è che l’approccio sia fondato e definito e che il metodo
sia coerente e adeguato rispetto agli apprendenti che ho davanti. Stessa cosa, che le tecniche siano adeguate
ed efficaci rispetto al metodo, condizioni teoriche che sto cercando di seguire. Una tecnica potrebbe essere
inefficace ma non significa che non è in assoluto una tecnica efficace; significa solo che in quel contesto e
con quegli apprendenti non ha funzionato. Si sono susseguiti diversi approcci.
1. Approccio formalistico  definito metodo grammaticale e traduttivo. È l’approccio che è stato seguito
dal post rinascimento fino al 1700 avanzato. Studio della lingua straniera seguendo il modello delle lingue
classiche (latino e greco). Leggere una lingua straniera e provare a replicarla in un’altra lingua. Modello di
insegnamento che si segue e seguiva per l’insegnamento delle lingue classiche. Si impara una lingua
attraverso una traduzione/versione della lingua target. La lezione è quella frontale, quindi il ruolo del docente
è in posizione predominante; il ruolo dell’insegnante è frontale ed è una figura di riferimento assoluta. Non è
messa in discussione, docente infallibile. Il ruolo del discente è quello esecutivo, passivo. La lingua
rappresenta il modello da imparare e le norme e le regole vanno imparate e riapplicate fedelmente.
L’obiettivo è quello di leggere, capire i testi. L’abilità primaria infatti è quella di lettura o se voglio
interagire, per rispondere, di scrittura. Il metodo è quello grammaticale, traduttivo. Le tecniche sono
traduzioni e versioni e i testi sono i testi classici/romanzi con elevata difficoltà morfosintattica. I materiali a
disposizione sono grammatiche o vocabolari.
2. Approccio naturale/diretto  fine 800 e tutta la prima parte del 900. Epoca caratterizzata da questo
approccio dove si cambia completamente; si elimina la traduzione e il riferimento a testi e abilità di lettura.
Si apprende una lingua attraverso la mediazione con il docente e l’espressione nella L2. La lingua si
apprende attraverso un metodo induttivo, inconscio. Si definisce diretto o naturale e l’apprendimento è
quindi molto simile all’acquisizione di una L1. In alcuni contesti di apprendimento, l’approccio naturale è
ancora molto utilizzato. Le tate e le babysitter utilizzano un approccio che è naturale. Loro insegnano la
lingua attraverso l’oralità come se fosse una L1 attraverso la mediazione, interazione e correzione come una
conversazione tra parlanti. L’insegnante è prevalentemente madrelingua, colui/colei che riorienta la
produzione. Il ruolo dell’apprendente è centrale, tutto orientato sull’apprendente attorno al quale
organizziamo il nostro operato come insegnanti. La lingua è un input autentico. L’obiettivo è quello di
esprimere concetti ed elaborare contenuti nella lingua due. Meno orientato alla correttezza formale e l’abilità
prevalente è quella del parlato, dell’orale. Le tecniche che si possono utilizzare sono delle drammatizzazioni
(meno controllate di quelle di prima, più riconducibili a un approccio comunicativo), immagini, gesti e
oggetti. Drammatizzazione: calarsi, creare delle situazioni in cui diamo delle indicazioni ai partecipanti per
mettere in scena una situazione. Drammatizzazione e role play sono intesi in maniera piuttosto simile. Nel
caso dell’approccio naturale, farò scarso uso di manuali, grammatiche e vocabolari.
3. Approccio strutturalista  a cavallo della seconda guerra mondiale, inizia ad emergere questo
approccio. Ha il suo massimo sviluppo negli anni 60, 70. La maggior parte dei disastri della seconda guerra
mondiale sono dovuti agli interpreti che non avevano una formazione adeguata; erano persone che
conoscevano poco la lingua. Vi è quindi la necessità di capire il nemico, non per andarci fuori a cena ma
capire dove attacca, come intende attaccare, capire le indicazioni che si danno. Sono frasi abbastanza
ripetitive, dare e ricevere un’informazione ma con campi semantici circoscritti. Era necessario formare
rapidamente persone in grado di capire questi messaggi, decifrarli e tradurli. Quindi, come modello
linguistico, si usa quello di stimolo, risposta, rinforzo. Per interiorizzare uno schema, devo interiorizzare un
modello. Per apprendere un modello, lo devo immagazzinare, riconoscere ed imitare rapidamente.
Conoscenza a breve termine, serviva solo in quei contesti. L’insegnante c’è ma comincia a essere sostituito
dal laboratorio linguistico con gli stimoli audio. L’insegnante fornisce uno stimolo e verifica la risposta.
Propongo lo stimolo, dico una frase, chiedo che venga ripetuta e dico se è giusta. Il discente è assolutamente
passivo; si riceve lo stimolo, si ripete e si cerca di memorizzarlo in modo meccanico. Il metodo audio-orale è
il metodo prevalente nell’approccio strutturalista ed è il metodo che abbiamo visto da Carlo d’Inghilterra; si
imita, memorizza e si riproduce fedelmente ma sono esercizi automatici di ripetizione. Materiali: i laboratori
linguistici, l’uso dei registratori, cassette, cd oppure un docente. Tutti questi metodi sono stati utilizzati non
solo in quegli anni ma anche fino a qualche anno fa fino all’arrivo delle nuove tecnologie.
4. Approccio comunicativo  ha rappresentato il vero cambiamento radicale. Approccio indica le linee
guida, teorie linguistiche che suggeriscono indicazioni al docente. Gli studiosi che forniscono queste linee
guida: Austin, Searle, Wittgenstein, Corder, Selinker, Hymes. Verso la fine degli anni 60, 70, 80 si applica
quella che ha rappresentato una rivoluzione per la didattica: l’introduzione di competenza non solo
linguistica ma il concetto di bisogno comunicativo, di competenza comunicativa. Competenza che
riguardasse anche il saper usare, agire, fare con la lingua. Quindi, sempre di più, emerge la necessità di
sapere correttamene la lingua ma anche saperla usare in modo efficace e adeguato rispetto al contesto e agli
interlocutori. Pensiamo, ad esempio, al modello “speaking” di Hymes. Nel modello “speaking” è un
acronimo proposto da Hymes in cui “essere” sta per “situation”, all’interno del quale si realizza l’evento
comunicativo. Modello sviluppato da Hymes per identificare i fattori che influenzano le interazioni
linguistiche:
• Setting (situazione) → insieme di condizioni ambientali, materiali e immateriali: luogo + momento +
configurazione psicologica;
• Participants (partecipanti) → tutti coloro che influiscono sullo scambio, non solo emittente e destinatario;
• Ends (finalità) → obiettivi dello scambio + risultati effettivamente raggiunti a scambio avvenuto;
• Acts sequences (atti) → contenuti trasmessi;
• Keys (tono) → modo in cui il messaggio viene modulato, chiave interpretativa;
• Instrumentalities (strumenti) → strumenti impiegati dall’emittente e dal destinatario: canale prescelto +
lingua usata + codice;
• Norms (norme) → regole secondo cui emittente e destinatario interagiscono + regole a partire dalle quali
essi interpretano ciò che accade;
• Genre (genere) → categorie stilistiche del tipo di comunicazione: racconto + conferenza + poema.

Lezione 6 22/02/2023

…approccio comunicativo: dalla fine degli anni 60 e soprattutto 70, grazie all’influenza di alcuni studi
sociolinguistici importanti: Searle, Austen, Corder, Selinker, Hymes e Wittgenstein. Si realizza la “svolta
comunicativa”. L’elemento centrale della svolta comunicativa: non si punta più solo ed esclusivamente allo
sviluppo di una buona competenza linguistica ma si introduce il concetto di competenza comunicativa,
l’importanza di non sapere solo le strutture linguistiche, grammatica, sintassi, lessico e fonologia ma saper
usare la lingua in modo efficace ed adeguato rispetto all’importanza del contesto nella comunicazione. Non
solo il sapere ma il saper fare e agire in lingua. Due concetti sono importanti: nozione di contesto e cultura.
La cultura incide fortemente il contesto comunicativo nel quale interagiamo. Hymes sottolinea che l’evento
linguistico non è solo linguistico ma è un fatto anche socioculturale, è influenzato dalla cultura di riferimento
dal contesto nel quale stiamo interagendo. Il modello “speaking” fa riferimento al fatto che una situazione
comunicativa sia determinato dalla situazione, dal setting (“S” di speaking), dove si realizza; non è solo un
dove ma anche uno spazio, un tempo. È determinato dal mittente e dal ricevente. L’altro aspetto principale è
l’obiettivo della comunicazione, sia il fatto che il nostro obiettivo sia stato veramente raggiunto. Se io faccio
una richiesta, dovrò tener presente la mia finalità, sia il fatto che quella richiesta abbia tenuto una risposta
positiva. Nella comunicazione quindi anche la risposta da parte del mio interlocutore.
La “A” fa riferimento agli atti linguistici realizzati per raggiungere le finalità sopra. Per chiave, si intende la
chiave interpretativa del messaggio; non è solo il modo in cui realizziamo un messaggio (tono) ma è anche il
modo; in chiave rientra tutto ciò che riguarda la sfera dell’ironia.
Tra chiave e obiettivi pensiamo a tutto ciò che può riguardare la sfera dello scherzo, uso ironico, humor,
presa in giro. Rientra il modo e l’effetto che produce una determinata situazione. Avere gli strumenti per dare
una certa forza o pronunciare un enunciato in un certo modo e dall’altra parte interpretarlo in un certo modo.
“I” (instrumentalities): canale che stiamo usando nella nostra interpretazione.
“N”: norme più legate alla cultura; come una cultura di riferimento condiziona la realizzazione di un atto
comunicativo.
“G”: generi discorsivi ai quali stiamo facendo riferimento.
Non è il modello attorno al quale ruota l’approccio comunicativo ma ha influenzato l’approccio
comunicativo nella didattica delle lingue. Se le linee guida tra gli anni 70 e 80 cominciavano a essere queste,
si sviluppa poi un cambiamento che deve tenere in considerazione il contesto, l’efficacia comunicativa, oltre
alla correttezza linguistica. Lo scopo dell’insegnamento di una lingua straniera non è solo usare una lingua in
modo corretto dal punto di vista grammaticale, ma è interagire nel miglior modo possibile con i parlanti a
livello di efficacia. Assume centralità il concetto di pragmatica: uso della lingua rispetto al contesto di
riferimento. La capacità o meno di raggiungere uno scopo nella comunicazione ed è importante che un
apprendente di lingua straniera conosca le norme culturali di riferimento se vuole sviluppare una piena
competenza, sapere come agiscono i parlanti in una determinata cultura. Il modello di apprendimento e
insegnamento è quello di calare l’apprendente in contesti che siano il più possibile vicini a situazioni reali o
verosimili e permettergli di agire o reagire in lingua straniera.
Nell’approccio comunicativo, l’insegnante non sarà più l’esperto assoluto o la figura di riferimento ma è un
mediatore, facilitatore. È un mediatore culturale, figura esperta che conosce non solo la lingua ma anche le
norme culturali e nell’impostare l’operato fa attenzione ai bisogni comunicativi dell’apprendente: al perché
un apprendente vuole o deve imparare quella lingua straniera/quali sono le motivazioni dell’apprendente. Il
ruolo dell’apprendente diventa il fulcro e assume centralità. La lingua non è più solo la lingua corretta dal
punto di vista formale ma deve diventare una lingua che permetta di muoversi in un contesto comunicativo in
maniera adeguata senza creare fraintendimenti e che gli permetta di realizzare atti linguistici adeguati (saper
negoziare, insistere, ringraziare ecc.). Cerchiamo di ricreare situazioni verosimili e non presentiamo delle
situazioni decontestualizzate, asettiche o impresentabili ma cerchiamo di proporre delle situazioni il più
possibile vicine a situazioni che si potrebbero ripresentare. L’obiettivo è quello di permettere all’apprendente
di produrre una lingua in un contesto nel quale si potrebbe ritrovare e produrre una lingua che sia efficace e
appropriata. Dobbiamo permettere di realizzare atti linguistici corretti dal punto di vista grammaticale ma
dobbiamo anche permettere che si cominci a tener presente il contesto e la situazione comunicativa.

Per fare una richiesta, che elementi linguistici e formali utilizzo?


Unire le strutture grammaticali che sono funzionali per quell’atto linguistico.
Aspetti metodologici principali: metodi (situazionale, nozionale-funzionale); tecniche (role play,
drammatizzazione, simulazione); materiali (scelti sulla base della situazione e della funzione comunicativa,
materiali vicini alla situazione comunicativa degli apprendenti; autentici o verosimili). Attenzione ad
“autentici”: lavorando sui manuali troviamo testi che si ispirano a testi autentici ma sono fortemente
manipolati e semplificati dall’autore.
5. Approccio umanistico-affettivo  visto che la centralità si è spostata molto sull’apprendente a partire
dagli anni 70/80, più o meno nello stesso periodo si sviluppa anche questo approccio. A partire dagli anni
70/80 tutta la didattica, tutte le metodologie, anche più recenti, possono essere ricondotte a questi due
approcci che, in molti casi, si intersecano e quindi è molto difficile dire “sto facendo riferimento a un
approccio comunicativo puro o un approccio umanistico-affettivo puro”. Però, quest’ultimo approccio, mette
al centro dell’intervento ancora di più il discente con il ruolo del docente che è ancora più osservatore. Lì,
entra come facilitatore. La dimensione affettiva, emotiva, psicologica del singolo apprendente è l’elemento
centrale. L’insegnante, se prima era un mediatore, qui è una figura che incoraggia e sostiene
l’apprendimento, osserva l’apprendimento e permette che si sviluppi ma ha un ruolo più marginale rispetto
all’approccio comunicativo. Nell’approccio umanistico affettivo, il discente è al centro dell’intervento come
individuo unico ed è esposto a una lingua esclusivamente autentica. Rientrano, ad esempio, tutte le ipotesi
formulate da Krashen sulla presenza del monitor come elemento di controllo nel processo di apprendimento,
la centralità dell’input, e l’input+1. Le tecniche utilizzate cercano di riproporre situazioni didattiche
confortevoli dove l’apprendente si può muovere più agilmente (non è ancorato al banco e alla seggiola ma si
propongono attività più ludiche per cercare di eliminare o limitare il filtro affettivo dell’apprendente). Deve
avere un avvicinamento progressivo alla lingua e non sentirsi in ansia; sono tecniche che permettono di
mettere in condizioni positive l’apprendente. Si utilizzano tutti i sensi: udito, tatto, gesti ecc. (per questo si
usa anche molto il corpo). Si sviluppano alcuni metodi prevalenti, i principali: total phisical response per
superare la fase di silenzio iniziale dell’apprendente senza sforzarlo a parlare. Per sfruttare questa fase,
questo è un metodo che permette di verificare se c’è comprensione e permette all’apprendente di rispondere
senza utilizzare la produzione orale o scritta. Importanza di un input comprensibile, rispettare una fase di
silenzio caratterizzata da comprensione piuttosto che conversazione. La grammatica c’è ma viene proposta in
modo implicito; l’apprendente si avvicina progressivamente alle forme grammaticali. Quello che può esserci
successivamente è una riflessione perché loro impareranno a usarli prima come forme fisse e poi si può
portare la loro attenzione su altre forme. Il lessico è proposto non con una lista di parole ma in modo più
naturale e in forma più ludica. Il TPR è utilizzabile e si adatta anche per gli adulti.

Cosa si è sviluppato più recentemente?


Tutti quei metodi didattici che rientrano nella didattica ludica o gamification. A partire dall’approccio
comunicativo, la didattica collaborativa, attività di piccolo grande gruppo. I nuovi orientamenti tengono in
considerazione le nuove tecnologie. Metodologie più centrate alla produzione di output legato al contenuto
(CLIL).

Un metodo/approccio esclusivo o si possono ritrovare più approcci o più metodi? Qual è l’approccio
oggi?
Sempre di più per andare incontro al fabbisogno dell’apprendente si va verso nuovi approcci e metodi. Posso
basarmi di più sull’approccio comunicativo ma poi usare, in determinate occasioni, approcci umanistico-
affettivi. Per questo si parla di approcci integrati a seconda dell’obiettivo che mi do in quello specifico
momento. La centralità dell’apprendente è sempre più forte e il docente è sempre di più un mediatore,
facilitatore.

Lezione 7 27/02/2023

Programmare un corso di lingua inglese per il marketing e la comunicazione marketing strategies,


branding, advertising, market research, marketing idioms.
Totale ore: 30
Partecipanti:14
Cosa chiedere all’ente?
PARTECIPANTI: Età/ titolo di studio/ presenza di studenti Erasmus o le persone che frequenteranno il
corso sono tutte italiane o anche straniere? Sanno già l’inglese o conoscono altre lingue? (chi è sotto i
trent’anni avrà già studiato un'altra lingua comunitaria)? / effettuare un’analisi dei bisogni (da fare, ad
esempio, nel momento introduttivo del corso/ che scuole hanno frequentato, cercare di capire qual è il loro
obiettivo, capire qual è la loro motivazione). Chiedere se ci sono studenti DSA, con disabilità o con
particolari disturbi dell’apprendimento.
ANALISI DEI FATTORI CONTESTUALI= (che tipo di aula ho? L’aula è dotata di strumenti
tecnologici? Posso contare su strumenti cartacei oppure farci dire dall’ente/scuola/ se viene messo a
disposizione uno spazio virtuale (se non c’è, pensare di creare un drive condiviso con gli apprendenti)
valutare se sanno utilizzare queste strumentalizzazioni (che competenze hanno in informatica? il
cinquantenne potrebbe essere meno ferrato) ma anche se hanno la possibilità economica per usufruire anche
di una connessione ad internet (non è scontato neanche al giorno d’oggi). 
Verrà fornito del materiale da parte dell’ente oppure dovremmo essere noi a fornirlo? / Come si terrà il
corso? Presenziale o in smart? / nel caso in cui fosse in presenza la struttura avrà a disposizione strumenti
tecnologici quali proiettori, lavagne interattive? 
I TEMPI: in questo caso abbiamo solo un monte ore di 30 ore. Decidiamo noi i giorni del corso e quante
volte alla settimana (tenere anche in considerazione il compenso perché è da lì che, anche in maniera
utilitaristica, basiamo il nostro percorso). Bisogna capire se si possono assegnare attività extra—> nel caso di
un corso del genere magari renderle facoltative, come approfondimento). Se scegliamo noi i tempi,
dobbiamo optare per blocchi che non siano eccessivamente lunghi (3 ore no), soprattutto l’intento non deve
essere quello intensivo che in due settimane forza lo studente ad apprendere quante più informazioni
possibile; l’apprendimento richiede un’assimilazione; pertanto concentrare tutte le ore è controproducente.
Non è neanche l’ideale optare per blocchi da un’ora perché non facciamo in tempo neanche ad entrare in
classe (per questo si sta parlando molto del modello finlandese che prevede l’accorpamento delle ore di
lingua); l’ideale è far durare una lezione all’incirca 1 ora e 30 o 2 ore in due volte la settimana e di collocarle
settimanalmente in modo da non essere messe vicine proprio per favorire una migliore assimilazione dei
contenuti (Lun-Gio/ se si opta per una volta alla settimana si potrebbe fare un blocco più lungo).
DINAMICHE DI GRUPPO= fattori sociali, culturali, politici, religiosi. [quando entriamo in una classe
dobbiamo tenere conto delle dinamiche sociali della classe; osservare se gli studenti vanno d’accordo, se
regna l’armonia o il caos, se vi sono dissidi frequenti]. Nel caso del corso in lingua inglese di marketing
significa osservare ed evitare che si creino situazioni conflittuali. Conoscere alcune specificità sociali e
culturali dell’apprendente mi permette di selezionare accuratamente l’input da andare a proporre in modo da
non fare delle gaffe. Se, ad esempio, voglio strutturare attività argomentative, magari non devo buttarmi su
argomenti taboo che possano scatenare la classe, bisogna provare sempre a sondare. In questo caso, è un
corso pensato per qualcuno che sceglie di iscriversi perché ha principalmente un obiettivo di inserimento
lavorativo; può essere che o si conoscano o che non si siano mai visti in vita loro (l’età variegata e il gruppo
disomogeneo possono confermare tale ipotesi). Se questo corso fosse un corso aziendale, le dinamiche
cambierebbero; c’è coesione nel gruppo, ci potrebbero essere delle rivalità, antipatie o simpatie ma si tiene
presente la dinamica di gruppo per l’attività didattica, l’input che vogliamo proporre; se proponiamo
un’attività di produzione orale in cui chiediamo di parlare e discutere apertamente di un tema, magari anche
aziendale con il capo di dipartimento o si finge un ruolo che non si ha all’interno dell’azienda con il role-play
si rischia il fallimento del nostro metodo ma soprattutto avremo tanta frustrazione da parte di chi frequenta il
corso (il filtro affettivo schizza alle stelle) tutto ciò ne va quindi della nostra attività. 
Altre domande da porre all’ente: avremo carta bianca sul corso o l’ente darà delle linee guida su come
strutturarlo? (si dovranno far svolgere delle prove in itinere, la prova finale come sarà strutturata?).

Età: molto variegata. Influisce anche per come si è appresa una lingua rispetto al momento in cui si è
appresa; sono cambiati la didattica, strumenti, approcci. Cambia il tempo, il momento di avvicinamento allo
studio della lingua inglese (i ventenni del corso hanno appreso l’inglese sin dalle elementari ad esempio:
ovvero in età prescolare. Mentre chi è più in là con gli anni lo ha iniziato alle medie, o addirittura dalle
superiori).
La lingua: bisogna vedere se c’è predisposizione ad una riflessione linguistica.

Come ci si prepara?
La ricerca sull’acquisizione e apprendimento ci mostra che l’apprendimento guidato, nel complesso, può
dare risultati migliori in termini di accuratezza linguistica, rispetto a un’acquisizione spontanea che può
essere efficace ma magari essere meno precisa e accurata grammaticalmente. 
I vantaggi dell’insegnamento:
  Portare l’apprendente ad essere più corretto formalmente. L’insegnamento, soprattutto in età più
adulta, ha dei tempi più rapidi (apprendo un'altra lingua in tempi più limitati ho la capacità di
riflettere sulla lingua – MA ATTENZIONE se ho seguito un percorso di alfabetizzazione, se ho già
acquisito i concetti linguistici, posso sfruttare conoscenze metalinguistiche per un apprendimento più
rapido della lingua.
 Posso raggiungere livelli di competenza più alti ed elevati. L’acquisizione spontanea porta ad un
livello un po' più basso.
 C’è minor rischio di fossilizzazione; si avrà un docente osservatore della mia produzione che potrà
concentrarsi sul tipo di errore che compio, capire se è transitorio o stabile e portarmi a risolvere
quest’errore prima che diventi fossilizzato e rimanga stabilmente nella produzione strutturale.
Il docente si orienta per sviluppare tutte le abilità contemporaneamente, portandole avanti nello stesso
livello; (produttive e ricettive) / in un percorso spontaneo ci si concentra solo su alcune attività o in
prevalenza solo su competenza orale (produzione e comprensione orale e non quelle scritte, per esempio).
Como si fa a lavorare e a concentrarsi su questi vantaggi e come possiamo sfruttare al meglio il nostro
intervento?
Lo si fa partendo da un’analisi generale che viene prima della pianificazione vera e propria, che tenga in
considerazione l’analisi dei fattori contestuali, dei fabbisogni e delle motivazioni dei nostri apprendenti.
Occorre stabilire i principi guida, le linee teorie e metodologiche del nostro intervento, decidere se ci
orientiamo su approccio comunicativo, strutturale, se magari invece siamo più portati a adottare un approccio
umanistico-affettivo o se invece i nostri principi sono orientati a un metodo integrato. 
Dobbiamo individuare quali sono i nostri obiettivi (quali input si devono selezionare?). Chiaramente
dobbiamo tenere a mente:
 Qual è il nostro scopo a livello linguistico = quali contenuti tematici, grammaticali vogliamo
proporre. 
 Che cosa devono saper fare alla fine dell’intervento : a volte sono già indicate linee guida come nelle
indicazioni ministeriali 
 La valutazione è richiesta? Dipende dai corsi: per corsi volti al raggiungimento delle certificazioni
PET o DELE, la valutazione è essenziale e diventa l’obiettivo ultimo del corso. Quest’ultimo sarà
fondato sul raggiungimento di tale obiettivo. Si può optare per una prova in itinere o sarà una
valutazione al termine del nostro intervento didattico? La valutazione è importante per noi come
docenti per cercare di capire se c’è stato un miglioramento o peggioramento dei nostri allievi, per
l’apprendente per verificare se c’è stato un progresso o regresso. Deve essere intesa così o deve
essere intesa come valutazione puramente formale in cui come docente dobbiamo solo mettere i voti
alla fine del quadrimestre o devo solo mostrare che effettivamente attraverso una mia valutazione
dimostro a chi mi paga il corso o al preside che questo corso è stato efficace. 
 I fattori contestuali: le risorse nel contesto umano in cui intervengo; le risorse fisiche, strumentali,
tecnologiche (c’è un manuale di riferimento? Esiste una biblioteca o ci sono manuali consultati
anche di corsi precedenti, o qual è il manuale in uso della scuola dove sono chiamato ad operare?).
 Contesto; osservare se è più o meno un contesto formale (scuola, azienda, CPA), oppure informale
(corso di impostazione volontaria, doposcuola). 
 I tempi
 Fattori sociali e culturali dei partecipanti coinvolti nel percorso di apprendimento.
Su che cosa ci concentriamo noi docenti: (a quali principi guida ci ispiriamo, quali sono li linee guida
macro?)
 l’input che proponiamo e se quanto e come queste fonti sono manipolate, didattizzate.
 Quale attenzione alla forma vogliamo dare (come insegniamo la grammatica; deduttivo: dalla
regola alla pratica oppure implicito, attraverso una riflessione sulla lingua)
 Come decidiamo di intervenire sul feedback, che tipo di feedback si deve avere.
 Come stimoliamo e sollecitiamo la produzione dei nostri apprendenti (scritta e orale).
Aspetto importante è la sequenziazione = che tipo di ordine e progressione dare al nostro intervento.
Significa chiedere non solo che cosa insegno ma che cosa viene prima e che cosa viene dopo, in che ordine
intendo inserire i contenuti e gli obiettivi linguistici. Che tipo di progressione e concatenazione voglio dare.
A volte non c’è mai un'unica risposta o una progressione univoca. Sicuramente una considerazione che si
può fare con un manuale di lingua alla mano è che nelle lingue romanze, ad esempio, il passato non è mai
prima del presente, il congiuntivo e condizionale mai prima dell’indicativo presente. 
È abbastanza semplice costruire una sequenziazione se costruiamo un percorso di lingua da zero, In un
contesto come quello di prima, in cui gli apprendenti hanno livelli disomogenei stabilire la sequenziazione
dei contenuti, diventa molto più difficile, specialmente se si aggiunge la variabile “durata del corso” = in un
intervento circoscritto e limitato delle 30 ore individuare che cosa insegnare diventa molto più complesso.
Possiamo dire che è molto più semplice essere dei docenti che accompagnano i discenti per più anni a scuola
perché si hanno tempi più dilatati in cui si può scegliere con tranquillità i contenuti da proporre e la loro
sequenzialità.
Gli strumenti del docente che permettono di pianificare l’intervento didattico sono due:
 Curriculum
 Il sillabo
Il curriculum è la macro-pianificazione dell’intervento didattico. È la pianificazione di ciò che penso di poter
realizzare in modo realistico e concreto per il raggiungimento degli obbiettivi dei miei apprendenti.
Corrisponde a quello che viene chiamato un programma macro, ovvero prendere decisioni più ampie e
generali che indirizzano il corso o l’intervento didattico. Questa macro-pianificazione comprende il fatto che
si stabiliscano dei principi guida sull’ analisi dei fattori contestuali, della motivazione, dei fabbisogni e degli
obiettivi. Il curriculum prevede anche la valutazione; pianificarla se è prevista. Dobbiamo capire se è prevista
e in quali modalità. Può essere anche una valutazione in ingresso = un quick test per stabilire il livello, la
situazione di pre-intervento; serve per capire se conoscono contenuti base? A volte potrebbe essere più
producente rispetto al tipico quick test a crocette, provare a far fare una breve produzione scritta o orale, per
vedere come realmente usano e sanno usare la lingua. 
Una volta individuato una macroprogrammazione, abbiamo bisogno di scendere nel dettaglio e di capire cosa
fare, che tipo di sequenziazione proporre: per farlo, utilizzo il sillabo che permette di fare la specificazione
dei contenuti e di graduarli in una progressione.

[ATTENZIONE] L’indice del manuale non è il sillabo = l’impostazione che propongono alcuni tipi di
manuali è il suggerimento di “fax simile sillabo” che potrebbe utilizzare un docente che pianifica l’intervento
didattico. Alcuni manuali si ispirano a determinati sillabi e suggeriscono già che tipo di sillabo utilizzare al
docente. 
Si hanno diversi tipi di sillabo:
 Strutturale 
 Nozionali-funzionali
 Task based
 Integrati o ibridi = propongono accanto a strutture grammaticali delle funzioni comunicative. Sono
sempre più usati.

Krahnke (1987) situa sei tipi di sillabi su una linea immaginaria che rappresenta il continuum del sillabo, a
partire cioè̀ dal sillabo basato sulle forme del linguaggio sino al sillabo centrato sui significati e gli usi della
lingua (slide).
Chi opta per un insegnamento esplicito generalmente adotta un sillabo di tipo sintetico, mentre
l’insegnamento implicito si adatta più̀ facilmente a un sillabo di tipo analitico, anche se non si escludono
combinazioni diverse.  (a seconda dei contenuti posso anche scegliere di programmare alternando momenti
in cui insegno esplicitamene, altri implicitamente—opzione ibrida).
Sillabi sintetici:
Si definiscono prima di iniziare il mio intervento didattico.
Detti anche proposizionali > considerano le conoscenze e le capacità da acquisire come esprimibili in termini
ben definiti: strutture, regole, schemi ecc. 
La lingua-obiettivo viene scomposta in unità chiaramente distinte, normalmente determinate a monte del
lavoro didattico > “sillabi a priori”. Si ritiene che l’apprendente sia in grado di operare una sintesi di ciò̀ che
ha appreso in modo parcellizzato ricomponendolo nella sua globalità̀ alla fine del percorso. 
Possono essere suddivisi in:
formali (detti anche grammaticali o strutturali) e funzionali (o nozionali-funzionali). 
Sillabi formali: Focalizzano l’attenzione sul codice linguistico e suddividono i contenuti in base a livelli di
significato della lingua: fonologici, morfologici, sintattici e lessicali. 
I contenuti vengono messi in sequenza secondo una progressione che va dal più facile (= più semplice
strutturalmente o più frequente statisticamente) al più difficile. (alfabeto, articoli, nomi…)

Quello che potrebbe richiamare un sillabo formale:

SILLABO FUNZIONALE: Orientato alle funzioni comunicative per atti linguistici inizialmente più
frequenti (salutarsi, presentarsi; progressivamente via via quelle che possono risultare più complesse). La
caratteristica del sillabo funzionale è quella di presentare le nozioni non in modo lineare; le nozioni e atti
linguistici vengono presentati a spirale ciclicamente. Durante l’intervento didattico, se si ritorna su stesse
funzioni comunicative, non lo si fa per semplice ripetizione o ripresa ma per utilizzare forme ancora più
specifiche e tecniche. Se in un sillabo a forma lineare si passa da argomento semplice e complesso, per quelli
a forma a spirale si passa da un uso più frequente ad un uso meno frequente, più marcato; gli usi più atipici ).
Inizialmente, l’apprendente è esposto agli usi più comuni della lingua ritorna in quegli stessi usi per
approfondire, integrare, ampliare altri usi dello stesso tema considerati più atipici o meno frequenti . Per
questo, si definiscono sillabi a spirale, perché permettono di ritornare sulla stessa nozione e mostrare altri usi
meno frequenti (forme di cortesia, richieste di informazioni, negoziazioni - a livello di campo semantico -
nozioni come la casa, la famiglia).
1) prima si apprendono nozioni base: madre, padre, nonni, zii, fratelli;
2) Poi, si ritorna su elementi lessicali più specifici: matrigna, sorellastra, cugino, cognato, gradi di cuginanza.
Esempio del lessico della carne: prima si apprende a dire solo carne / poi si apprende a dire carne e ad
intenderla attraverso i modi ci cottura: carne ben cotta, media cottura, al sangue.

Esempio di sillabo funzionale:

SILLABI ANALITICI = processuali, procedurali. Comprendono conoscenze o procedure che dobbiamo


sviluppare per una buona competenza d’uso nella lingua obiettivo e per sviluppare le competenze che
desideriamo che i nostri apprendenti raggiungano. L’apprendente viene messo nelle condizioni di usare
subito la lingua; l’insegnamento diventa sempre più implicito (si parte da un uso della lingua e
successivamente si propone un uso della lingua). 
Si parte dall’esposizione d’uso, dalle occasioni di produzione scritta/orale in lingua e gradualmente si
mettono a fuoco le nozioni utilizzate e le strutture linguistiche adottate. 
Troviamo i sillabi task-based: in cui si parte da una produzione linguistica per poi riflettere sulla lingua.
Spesso, questi sillabi vengono definiti a posteriori; saprò, in base al piano generale e all’analisi dei
fabbisogni, dove li voglio portare. Non significa che definisco il mio percorso didattico in maniera aleatoria,
senza un obiettivo fisso  l’obiettivo esiste ed è centrale per la definizione di questo tipo di sillabo;
attraverso questo si modellano le tecniche e gli approcci che meglio calzano con il contesto situazionale della
classe mentre si sta svolgendo il percorso, in itinere; se il mio obiettivo è quello di portare gli apprendenti a
chiedere informazioni e a rispondere a richieste, per raggiungerlo, si possono ipotizzare, in itinere, delle
tecniche, approcci e argomenti atti al complimento di tale obiettivo. È evidente che cambia l’impostazione e
in base a ciò solo a posteriori saprò su quali aspetti, strutture linguistiche e funzioni comunicative ci si è
concentrati. (Nel sillabo a priori si ha la schematizzazione prima dell’intervento didattico = so già prima la
sequenza di argomenti da trattare, nel sillabo a posteriori ci possono essere dei riorientamenti importanti
rispetto al mio operato).

Lezione 8 28/02/2023

Nel momento in cui: abbiamo stabilito i principi macro del nostro intervento; abbiamo individuato un
approccio o più approcci che vogliamo utilizzare; abbiamo analizzato il contesto (tempi, durata, spazio);
abbiamo stabilito degli obiettivi del nostro intervento; abbiamo deciso che tipo di valutazione realizzeremo e
una volta che abbiamo pianificato e costruito il nostro sillabo (sequenziazione dei contenuti che vogliamo
proporre nel nostro intervento didattico), se non possiamo disporre di un manuale, dobbiamo iniziare a
pensare a un tipo di input che vogliamo proporre. Dobbiamo pensare a come concentrarci sulla forma, su
come proporre una riflessione sulla forma, o insegnare una forma linguistica.
Input: qualitativamente e quantitativamente ricco, comprensibile. L’input è qualsiasi tipo di risorsa
linguistica che proponiamo al nostro apprendente; può essere autentico o semplificato e manipolato.
Abbiamo visto l’interazione della breve sequenza video dell’ispettore Coliandro con la persona di origine
straniera. L’input subisce una semplificazione anche in interazioni extra didattiche ma la maggior parte delle
volte questi input sono manipolati per scopi didattici. Dobbiamo lavorare sulla comprensione, restituzione,
concentrarci sulla lingua proposta da questo lessico e per questo si operano delle selezioni. Si manipola
ulteriormente se poi si agisce didatticamente.
Selezione dell’input: in base al livello di difficoltà; proporre un input sempre di livello superiore rispetto alla
competenza degli apprendenti (Krashen). Un input che sia anche adeguato all’apprendente target: se io
propongo per dei bambini piccoli un materiale adatto a un target più adulto sia per contenuti, grafica e
lingua, sarà un materiale difficilmente accessibile. Se, viceversa, io proponessi delle schede con grafica
ludica, infantile a una classe di russo, ciò non sembrerebbe adatto, idoneo.
Nella selezione dell’input, l’altro elemento a cui si deve fare attenzione è il livello di frequenza della
struttura sulla quale mi voglio concentrare: grammaticale, linguistica o lessico. Se sto lavorando sul tema
“ecologia” e “cambiamento climatico”, cercherò un testo o un video in cui siano presenti tante parole che
fanno riferimento a quel campo semantico. Se voglio lavorare sul passato remoto in inglese, cercherò una
risorsa in cui sia molto presente quel tipo di struttura perché si riprende il concetto di “noticing”. Se
l’apprendente riesce a notarlo perché molto frequente, è facilmente osservabile, riconoscibile e comincerò ad
attivare una riflessione sull’uso di quel determinato elemento. Se l’input è facilmente riconoscibile, più
facilmente può diventare “intake”. Altro aspetto: proporre il più possibile materiali autentici e verosimili, che
può essere ritrovato anche in un contesto extra didattico. Il concetto di gradevole per il pubblico significa in
linea con il pubblico target. Questo per quanto riguarda la selezione.
Poi si può selezionare/scegliere un input, lo abbreviamo ma lo manteniamo intatto oppure si può procedere
con le tecniche di “input fload” o di evidenziazione. La manipolazione avviene anche attraverso l’intervento
verbale dell’insegnante. Attraverso il tono della voce o fluenza, si sottolineano alcuni aspetti. Se possiamo
manipolare l’input, anche il feedback può essere manipolato. Nella comunicazione e interazione spontanea,
sempre quotidianamente noi negoziamo il feedback che diamo ai nostri interlocutori. Diamo un feedback e
permettiamo di espandere, integrare, chiarire, ridire. Nell’interazione extra didattica, possiamo chiedere dei
chiarimenti, correggere se percepiamo che è stata formulata per un lapsus (possiamo, quindi, in questo caso,
correggerla). La manipolazione del feedback è ciò che rende l’input del nostro interlocutore comprensibile
perché possiamo negoziare il significato. Se non ho capito un’informazione, per capirla, posso utilizzare le
strategie viste prime: richiesta di chiarimento, riformulazione ecc. Permetto, con esse, di capire meglio il
messaggio, l’input. Attraverso il feedback che propongo, posso anche aiutare il mio interlocutore a osservare
la differenza tra ciò che io ho detto e ciò che lui aveva detto precedentemente. Portiamo il nostro
interlocutore a riflettere che c’è una differenza tra la sua produzione iniziale e la forma dell’input più
corretta. Aiuta anche a notare le differenze tra una produzione iniziale e quella “attesa”.
Es di KAR e ELE (nelle slide): attraverso questo tipo di interazione, sto già proponendo un feedback. La
parlante non nativa (forse apprendente di lingua), attraverso il feedback, nota quella che potrebbe essere una
produzione attesa.
Stessa cosa accade dopo: “l’assegno”; il feedback che propongo non è esplicito del tipo “non ho capito” ma
si negozia per trovare la parola che manca. Feedback che viene proposto anche in un contesto extra didattico.
Anche qui si può parlare di manipolazione del feedback per portare l’apprendente a notare la produzione più
adeguata/corretta.
Terzo esempio: interazione spontanea e naturali tra parlante nativo e non nativo. Il feedback è negoziato e
attraverso il feedback si propone la formula corretta senza una correzione esplicita. Si porta implicitamente il
parlante a riconoscere e osservare che rispetto alla sua produzione, l’altro parlante suggerisce una formula
più corretta o la più corretta. Attraverso la voce, porto il parlante o l’apprendente (in un contesto didattico) a
osservare e riconoscere la formulazione più corretta.
Quarto esempio: la conoscenza del contesto porta ad espandere e proporre una formulazione più estesa che
metta insieme diversi elementi. [Dialogo tra mamma e bambino Mamma: “andiamo”; Bambino: “bimbi”;
Mamma: “andiamo dai bimbi al giardino”; Bambino: “palla”; Mamma: “palla”]. Se, attraverso il feedback,
mostriamo un modello di frase completa, accompagniamo l’apprendente a formare una frase più simile al
modello. Il feedback correttivo ideale è quello che si avvicina maggiormente al tipo di interazione di
feedback che un parlante nativo offre a un parlante non nativo.
Il feedback è fondamentale e aiuta gli apprendenti a notare la differenza tra la loro produzione di output e la
lingua target: se io, durante una lezione di lingue, ho detto “mi fa fastidio”, e l’insegnante mi porta a capire
che non si dice così ma “mi da fastidio”, vengo portato verso la correttezza della lingua bersaglio. In
generale, la ricerca sottolinea il fatto che il feedback si mostra efficace; una variabile importante è sempre il
feedback che noi proponiamo (esplicito, più o meno esplicito ecc.). Il tipo di feedback dipende anche da
quanto è risolutivo; offro la soluzione preferibile, più corretta e adeguata o avvio una negoziazione per
cercare assieme all’apprendente un’altra formulazione? Rispetto a una produzione, a una frase
formulata/scritta, potrei aprire una parentesi e portare l’apprendente/un gruppo a un dibattito. Offrire quindi
ulteriori spunti per la riflessione linguistica.

Tipi di feedback correttivo/costruttivo


Una strategia: lavorare separando i campi, restituendo una discussione a gruppo oppure portando gli
apprendenti a separare i piani. Partire da una divisione: elementi lessicali, testuali, grammaticali ecc. Portare
a fare una sorta di auto-revisione (tutto ciò se si tratta di uno scritto).
Attenzione alla forma linguistica: come insegnare grammatica. Sappiamo che in una fase di acquisizione pre-
scolare, apprendiamo la forma e la grammatica in modo inconscio e incidentale. Anche da adolescenti o
adulti possiamo apprendere molto a livello inconscio ma sappiamo che l’insegnamento esplicito della forma
linguistica è utile per sistematizzare le forme e utilizzarle bene in tempi più rapidi e l’attenzione al
contenuto/significato/aspetti comunicativi non è sufficiente. Per raggiungere una piena competenza e un
buon livello di competenza linguistica è utile prestare un’attenzione specifica, insegnamento mirato sulla
forma.
Perché insegnare grammatica? Quando usiamo la lingua per comunicare, spesso perdiamo di vista
determinati elementi; non siamo portati a osservare, prestare attenzione a determinati elementi. A volte
perché è difficile percepirli. Siamo troppo concentrati sull’obiettivo della comunicazione a volte e non ci
concentriamo sulla correttezza. A volte, invece, perché è ininfluente (se riesco a raggiungere il mio scopo
comunicativo). A volte, è difficile, nella comunicazione, prestare attenzione a determinati elementi perché
non sono molto utilizzati. Pensiamo a determinate strutture linguistiche che studiamo perché siamo a un
livello C1 della lingua (nella lingua quotidiana non ci capita quasi mai di utilizzarle). Il passato remoto, in
italiano, è poco frequente  se non ci fosse un’attenzione specifica, un apprendente di italiano non si
troverebbe nel contesto spontaneo di incontrare il passato remoto (centro-nord). Se il nostro è un contesto di
apprendimento adeguato, ci ritroveremo a un determinato livello anche a proporre il passato remoto.
Ipotesi del “noticing”: impariamo ciò che notiamo e ciò che è utile al nostro scopo linguistico e
comunicativo. Impariamo a usare il condizionale anche se non c’è stato insegnato perché lo osserviamo e
riconosciamo in ogni lingua. Capiamo che quella forma ci riporta ad una formalità maggiore.
Nelle comunicazioni extra didattiche, i parlanti si concentrano sul contenuto, significato, l’efficacia della
loro comunicazione: bisogna raggiungere uno scopo, un obiettivo e apprendono le formule che si notano
maggiormente e che sono maggiormente funzionali al raggiungimento di un obiettivo. Il nostro scopo è
quello di replicare questa condizione anche in un contesto didattico: portare l’apprendente a notare certi
elementi utili ed efficaci al suo raggiungimento dei suoi scopi comunicativi.
Come e che cosa insegnare?
Implicito: apprender qualcosa inconsciamente;
esplicito: concentrare l’attenzione verso un elemento che viene dichiarato.
Attraverso l’insegnamento implicito, si cerca di far osservare, notare determinate strutture senza averne
necessariamente la consapevolezza.
In che modo? In modo reattivo o proattivo.
Reattivo: propongo delle risorse/attività comunicative che ritengo siano interessanti e utili ai fini del
significato e mi soffermo sulla forma solo nel momento in cui l’apprendente richiede un chiarimento;
Proattivo: progetto attività comunicative immaginando che, per realizzarla, l’apprendente debba utilizzare,
ad esempio, un congiuntivo, periodo ipotetico. Mi concentro meno sul significato ma porto implicitamente a
riflettere; cerco di vedere se e come utilizzano determinate strutture e poi facciamo riflessioni
sistematizzando i loro dubbi.
Esplicito: può essere realizzato tramite un metodo deduttivo o induttivo. 1. Viene presentata una regola e
successivamente rimessa in pratica; 2. Propongo una risorsa/materiale dal quale cerco di estrapolare una
regola con la sistematizzazione di essa. La mia lezione sarà centrata sul congiuntivo, simple past, plurali (ad
esempio).
Metodo deduttivo: utilizza un sillabo a priori e il presupposto è quello che la lingua si impara attraverso
regole grammaticali proposte a livello sequenziale con un controllo conscio sulla lingua (riapplicazione della
regola che è stata applicata). Tipo di esercizio: presentazione del passato prossimo.
Metodo induttivo: generalmente, non parte da una spiegazione dichiarata di una regola grammaticale ma si
cerca di individuare alcuni elementi che sono frequenti (si può proporre un input che sia manipolato) e,
attraverso l’osservazione, analisi di strutture, si prova a ricostruire la regola.
Esempio: si propone un testo scritto e, dopo l’analisi del testo, si chiede di cercare le formule che
corrispondono al passato e si chiede di formulare delle ipotesi per creare una regola. Solo dopo le proposte,
l’insegnante farà vedere la regola.
Non è detto che un insegnamento esplicito sfoci in un apprendimento o che un insegnamento implicito
provochi sempre apprendimento implicito. Non c’è solo un unico detto (non è detto che funzioni per tutto e
tutti). L’ideale sarebbe trovare un equilibrio tra i due metodi, integrandoli in modo tale da non concentrarsi
sempre ed esclusivamente su un metodo. Non è sempre così chiaro ed evidente distinguere: insegnamento
implicito ed esplicito. Spesso, ci sono attività che vengono proposte che non sono divise in maniera netta ed
evidente. Tendenzialmente, possiamo dire che quello implicito porta alla riflessione sulla lingua (una delle
prospettive didattiche che propone è, ad esempio, la didattica per task, compiti; quindi, un insegnamento che
propone l’osservazione e il riconoscimento di alcuni elementi e che viene offerto in maniera apparentemente
casuale). Non porta a delle interruzioni per delle spiegazioni grammaticali molto approfondite. La forma
linguistica è sempre presentata in un contesto e non è decontestualizzata e incoraggia/spinge l’apprendente a
utilizzare le forme target in modo spontaneo e naturale, non vincolato da un’attività.
Quello esplicito porta l’attenzione sulla forma target; è pianificato a priori. L’intervento dell’insegnante è più
intrusivo, le spiegazioni sono più attente e spezza meno l’attività, la interrompe meno. Attraverso questo
insegnamento, si propongono spesso attività decontestualizzate e presentano le forme isolate. Gli esercizi
meccanici non presentano la forma in un contesto più ampio.
Quale funziona meglio? Dipende dall’analisi che abbiamo fatto del nostro contesto didattico, degli obiettivi
degli apprendenti e non è detto che sempre e soltanto funzioni un tipo di insegnamento e l’altro meno.
Come insegniamo la grammatica? In modo esplicito attraverso metodi deduttivi induttivi. A livello
implicito, con la riflessione sulla lingua. La grammatica esplicita ha come soggetto centrale l’insegnante che
ha come obiettivo quello di sviluppare la competenza linguistica; la grammatica è il punto di partenza
dell’intervento didattico e la motivazione è saper riutilizzare, in modo corretto e preciso, la forma linguistica.
La grammatica implicita: sposta l’attenzione sul soggetto che apprende; l’obiettivo è sviluppare una
competenza comunicativa.
La lingua è il punto di arrivo , non è una spiegazione a priori ma la riflessione arriva a posteriori dopo che ho
avuto modo di osservare le riflessioni degli apprendenti. La motivazione è maggiore con un coinvolgimento
maggiore dell’apprendente e uso obiettivi comunicativi più vicini anche ai miei obiettivi comunicativi.

Lezione 9 06/03/2023

L’aspetto che abbiamo trascurato e che sappiamo essere fondamentale nell’apprendimento della lingua
straniera, è il ruolo dell’output, della produzione. Opportunità d’uso, occasioni di produrre lingua: che sia
una produzione scritta o orale.
Ruolo dell’output nell’acquisizione di una lingua straniera: il fatto che l’esposizione all’input (che deve
essere comprensibile, quantitativamente e qualitativamente ricco) è una condizione necessaria ma non
sufficiente per apprendere una lingua. Anche nel video di Krashen, possiamo ascoltare, leggere, visivamente
accedere a un input, ma se non abbiamo occasioni per riutilizzare la lingua a cui siamo stati esposti, non
abbiamo la possibilità di raggiungere una piena competenza; non riusciamo a metterci alla prova. A partire
dagli anni 80, con la svolta degli approcci comunicativi, la glottodidattica si è indirizzata a metodi e pratiche
che sollecitassero la produzione linguistica con metodi su cui si concentrava l’intervento didattico.
Output: tutto ciò che l’apprendente produce in forma orale o scritta. Tutto ciò che l’apprendente produce
nella lingua 2. Produzione orale e scritta stimolata in maniera intenzionale. Durante una lezione di lingua,
potrei interagire con il docente: occasione d’uso della lingua che è più vicina alla lingua spontanea ma non si
intende quel tipo di interazione come output. Come input, sono le risorse che espongono l’apprendente alla
lingua target; l’output non sono tutte le condizioni d’uso, ma le produzioni scritte o orali stimolate per fini
didattici. È evidente che anche la produzione più libera, spontanea costituisce un’occasione di apprendimento
perché attraverso un’interazione con un docente/compagno di studi posso acquisire una serie di dinamiche,
posso negoziare dei significati con strategie comunicative che mi permettono di raggiungere lo scopo
comunicativo. Si intende la produzione sollecitata in modo intenzionale: come agiamo, che prospettive
didattiche usiamo per portare l’apprendente a usare la lingua.
L’output assume un ruolo centrale nella glottodidattica a partire dagli anni 80 e poi successivamente; quando
assume centralità anche il contesto, la capacità di interagire dei parlanti e muoversi in contesti diversi e
quando si inizia a prestare attenzione allo sviluppo delle quattro abilità primarie, non più solo con
un’attenzione specifica sulla comprensione ma anche sulla produzione. In particolar modo, sui modi per
stimolare e fare in modo che gli apprendenti avessero occasioni per mettersi alla prova e usare la lingua.
Spesso però, soprattutto nei primissimi anni (manuali anni 80/90), si trovavano attività che cercavano di
stimolare la produzione o orale o scritta tenendo queste abilità separate senza proporre attività integrate. In
manuali più recenti, si cerca di stimolare una produzione più integrata. Generalmente, vi erano alcune
attività, soprattutto verso la fine dell’unità che proponevano attività di coppia in cui venivano scambiati i
ruoli o attività di produzione orale monologica (descrivi la famiglia, la camera ecc.) oppure attività che
miravano alla produzione scritta.
Come possiamo orientare la stimolazione dell’output? Lungo un continuum che va a un’attenzione più
mirata sulla forma e la correttezza di essa e quindi con una manipolazione più diretta e una
richiesta/sollecitazione dell’output molto più mirata, controllata. Dall’altra parte, invece, troviamo
un’attenzione più legata al significato, ai contenuti. Significa che avremo, da una parte, quello che viene
definito “focus on forms” (sulle strutture che abbiamo appreso e ci viene richiesto di riapplicare). Dall’altra
parte un “focus on meaning” (metodologia CLIL è importante veicolare i contenuti oggetto
dell’intervento). In mezzo, abbiamo il “focus on form” che ha un’attenzione inferiore alla forma ma permette
di partire dalle risorse dell’apprendente. Insegnamento implicito della lingua, riflessione sulla lingua e in fase
iniziale permette di usare le proprie risorse linguistiche: usare quello che so già.
Un minimo di etichette e terminologia specifica e di settore è bene averla. Questi non sono metodi, approcci
ma vengono definiti “prospettive didattiche”, sul rapporto tra la lingua e il messaggio, contenuto che voglio
comunicare ma soprattutto il rapporto fra codice e messaggio nell’insegnamento (quale prospettiva voglio
usare, maggiormente esplicita o implicita).
Focus on Form intervento di stampo comunicativo in cui, solo successivamente (prima vi è una
produzione), vi è un’attenzione agli aspetti linguistici che sono emersi.
Focus on Forms richiede un’attenzione precisa e mirata alle forme linguistiche e aspetti introdotti. Spesso
si rifà all’insegnamento esplicito della grammatica. Metodi induttivi e deduttivi usati per la lezione di
grammatica. Il punto è che il focus on form, proponendo attività più vicine al vissuto dell’apprendente,
permette di calarsi in situazioni che potrebbero verificarsi nella realtà. Il focus con forms rischia di essere
decontestualizzato, presentare queste forme in modo isolato, non all’interno di una situazione comunicativa.
S lavora in modo mirato su determinate forme.
Focus on meaning richiama la didattica del CLIL e ha come obiettivo il significato senza prestare
attenzione a forme.
Attenzione e atteggiamento da parte degli apprendenti:
1. Focus con Forms: output dopo la spiegazione grammaticale. Presento la struttura, lavoro sulla
struttura e, successivamente, richiedo un output all’apprendente e sarà molto controllato (chiedo di
mettere in pratica le strutture presentate precedentemente: prodotto diretto).
2. Focus on Meaning: l’output sostituisce la riflessione sulla lingua.
3. Focus on Form: output precede. Parto da esso per poi sviluppare una riflessione sulla lingua
attraverso un insegnamento implicito della grammatica. A partire dalla produzione degli apprendenti,
cercherò di portarli a riflettere sulle strutture che hanno utilizzato. Io, docente, devo aver in mente il
tipo di produzione che mi posso aspettare: strutturo l’attività iniziale cercando di sollecitare, far
emergere determinate strutture.
Nel focus on forms, l’insegnante sa già a priori. Attraverso spiegazione di regole con metodo deduttivo o
induttivo facendo ricostruire la regola. Sa già che vuole concentrarsi su quelle forme linguistiche.
Nel focus on form, invece, lavoro su elementi specifici: un aspetto o più aspetti grammaticali. Posso usare
tutte le forme linguistiche che mi aiutano a raggiungere il mio obiettivo comunicativo.
Nel focus on meaning, l’attenzione è sul contenuto e non sulla forma.

a) L’insegnamento presenta un’attenzione su una forma specifica che è presentata all’inizio


dell’intervento in maniera dichiarata. Generalmente, gli interventi didattici sfruttano un sillabo
sintetico che può essere strutturale o nozionale-funzionale, che presenta una regola, nozione tematica
e poi fa scoprire in maniera più o meno aperta, esplicita; si chiede all’apprendente di riutilizzare
questi usi, forme linguistiche prima in modalità più guidata e poi in maniera più libera (libera ma
sempre e comunque controllata). Chiederò prima un riutilizzo meccanico delle strutture e nozioni,
poi un po’ più libero ma controllato perché l’apprendente deve rimettere in pratica gli elementi
presentati, oggetto di quell’intervento didattico. Segue un modello molto frequente nei manuali
modello chiamato PPP (presentazione, pratica, produzione). È uno schema di riferimento utilizzato
da molti insegnanti per organizzare l’intervento didattico e prevede una sequenza che è sempre fissa
in cui, prima presento l’elemento oggetto della lezione, poi chiedo di rimettere in pratica quella
forma, nozione e infine di concentrarsi su una produzione specifica che riutilizzi gli elementi
presentati. Pratica e produzione in entrambi i casi richiamano l’output ma la pratica è spesso molto
meccanica. La produzione è comunque abbastanza controllata e vincolata al riutilizzo della stessa
forma.
Presentazione attraverso testi orali, scritti, dialoghi all’inizio delle unità didattiche e in modo
esplicito si presenta la regola o si riassumono tutti gli elementi lessicali che riguardano quella
nozione tematica. L’input è spesso costruito a doc o è stato modificato in cui è presente un input
fload di determinati elementi che vogliamo che il nostro apprendente noti. È un input che è stato
manipolato anche attraverso l’evidenziazione degli elementi.
Pratica: esercizi di completamento, abbinamento ecc.
Produzione: si offrono attività che non sono spontanee e libere ma che richiedono sempre la
riapplicazione della regola, nozione proposta precedentemente. I role-play non lasciano molta libertà,
ci sono quelli più vincolanti o quelli che permettono di calarsi in una situazione ma suggeriscono
sempre indicazioni che dicono già che tipo di struttura o elementi vadano riutilizzati. Il successo
avviene se ho riapplicato la regola in modo corretto. La produzione mira alla correttezza, a riuscire a
riutilizzare in modo corretto tutti gli elementi che sono stati presentati.
Schema piramidale: presentazione in cima e la produzione alla base. Cercano di portare
l’apprendente a notare un elemento. Se noti un elemento perché è ben visibile, è più facile che
ragioni su quell’elemento e che quindi l’input si trasformi in intake. È anche uno schema/sequenza
che dà fiducia al docente perché ha già una sequenza ben prestabilita. L’impostazione del mio
intervento seguirà quindi certi passaggi. Se uno dei vantaggi c’è, è quello di essere una struttura
stabile che mi da delle certezze, so già anche come impostare il mio intervento. Mi chiedono di fare
un corso e non ho un manuale di riferimento, individuo degli elementi linguistici seguendo una
forma PPP. Lo svantaggio è che non ho sempre la sicurezza o certezza che gli elementi sui quali ho
lavorato portino a una produzione stabile, che il mio apprendente li sappia usare in modo spontaneo
anche in una produzione controllata. Non vi è garanzia che la produzione poi si mantenga anche
quando viene richiesta una produzione più spontanea perché la lingua non è un insieme di prodotti
isolati che vengono accumulati e vengono interiorizzati. È diffuso perché è facile da seguire,
riapplicare, strutturare didatticamente e quindi molti manuali sfruttano questa sequenza: c’è una
grande disponibilità di materiali che sfruttano questo livello. È rassicurante.
b) Attenzione sul contenuto, significato e non sugli obiettivi linguistici e le strutture linguistiche. La
lingua è il mezzo attraverso il quale cerco di passare il mio contenuto. L’apprendimento linguistico
c’è ma è incidentale, inconscio, più simile all’apprendimento linguistico che avviene in un contesto
spontaneo. È del tutto occasionale, inconscio, non c’è un’insegnante che spiega delle forme. Lo
scopo è l’apprendimento o potenziamento della lingua ma c’è minore/scarsa attenzione alla
correttezza linguistica. Il sillabo che si segue è sintetico ma funzionale o presenta una
sequenziazione per temi/contenuti. Le forme specifiche sono quelle che richiamano i contesti di
immersione o la didattica CLIL. Viene introdotto un argomento a lezione, si possono, attraverso un
brainstorming, apprendere alcune nozioni / parole chiave. Poi, si può far rileggere la storia o il testo.
Si possono arricchire le espressioni, il lessico e poi richiedere di costruire il testo, riordinare la
sequenza o anche di preparare un’esposizione. A partire da un dossier dato, preparare una breve
presentazione per la classe. il tipo di output richiesto è più simile all’output di una produzione
spontanea e anche il tipo di riflessione sarà più incidentale come spontanea. Se io chiedo di fare una
sintesi dei testi che ho dato o chiedo di commentare un dossier dato o chiedo a due gruppi di
argomentare, creare un debate. A seconda del compito comunicativo che propongo, posso orientare
alcune strutture linguistiche, adotto diverse strutture linguistiche. Anche nella scelta dei testi scritti e
orali e anche nella consegna del tipo di attività che chiedo di svolgere, un minimo di orientamento
verso le strutture che possono essere utilizzate c’è.

Lezione 10 07/03/2023

Focus on Form: prevede che le strutture sulle quali proporrò la riflessione non vengano dichiarate a priori
dall’apprendente ma la riflessione avviene successivamente, dopo una produzione. Il sillabo che più si addice
ad esso è un sillabo di tipo analitico che si avvicina ai fabbisogni dell’apprendente. È quello che meglio
segue il sillabo interno dell’apprendente, ovvero le strutture che sta acquisendo mano a mano. Viene definito
sillabo a posteriori. Significa che, in corso d’opera, potrei aver immaginato che per quel tipo di apprendente
posso o intendo cercare di lavorare su determinate strutture ma in corso d’opera mi rendo conto che gli
apprendenti hanno bisogno di altre strutture o gli obiettivi che pensavo di elicitare, in realtà, sono già
possedute (strutture). È inutile che mi ostini a proporre cose che già sa. Viene definito in base alle risorse e
all’interlingua dell’apprendente.
È più vicino al naturale sviluppo della competenza linguistica e comunicativa dell’apprendente e quindi alla
sua interlingua. Deve puntare e permette maggiore possibilità di “noticing”, creare attività o percorsi dove
l’apprendente osservi e riconosca strutture funzionali per il raggiungimento dello scopo comunicativo oppure
si renda conto di una sua carenza (es: “non riesco a svolgere questo compito perché mi manca la forma del
passato”). Un esempio di focus on form è la didattica per task Produzione, analisi e pratica (con una
piramide comunicativa capovolta). Parto da una produzione non così vincolata, poi ho una fase di analisi,
riflessione sulla lingua, e come ultimo passaggio ho la pratica. Se il focus on formS presentava come criticità
il fatto che è sicuramente una struttura stabile e rassicurante, molto riapplicata nella didattica ma non ci da la
garanzia di un’effettiva assimilazione degli elementi presentati; la criticità del focus on form, invece, è il
fatto di essere molto meno rassicurante e fisso come modello, il fatto che siano molti meno i materiali a
disposizione o i manuali di lingua che propongono la didattica per task o il focus on form. Un sillabo a priori
mi da delle certezze; un sillabo analitico che si avvicini alle risorse dell’apprendente e maggiormente
negoziato rispetto alla risposta degli apprendenti è sicuramente più “challenging” per un docente. Nella realtà
e pratica didattica, il focus on form puro è difficile da applicare; di solito ci sono proposte di attività
comunicativa che si avvicinano a un task ma che chiaramente è più difficile da realizzare. In realtà, le
proposte didattiche sono comunque delle forme più leggere che tendono a questa prospettiva ma che è
difficile riproporla veramente come da manuale o da teoria andrebbe proposta.
Didattica per task? Cos’è un compito didattico? (Esempio dell’ufficio stranieri e quello della stazione). In
questi due casi, le situazioni presentate servono da pretesto per costruire un’unità didattica che ha altri fini:
articoli e genere dei sostantivi. Quindi, possiamo non considerarli buoni manuali, in questo caso.
Altre situazioni (fatte bene – Elena e Diego): hanno in comune l’obiettivo extralinguistico (arrivare alla
conferenza e ottenere il permesso di soggiorno) e, per raggiungerlo, devono utilizzare la lingua. In questo
caso, per loro è la lingua straniera. Per raggiungere questi obiettivi, la correttezza non interessa. A loro
interessa l’efficacia e il raggiungimento dell’obiettivo. Utilizzano le risorse linguistiche che possiedono. Se
non sanno alcune parole, troveranno una strategia comunicativa per superare quell’ostacolo.
Cos’hanno in comune? Nei due primi manuali, nessuno aveva lo stesso obiettivo reale di Elena e Diego e le
due situazioni erano solo un pretesto. Abbiamo visto che la situazione della questura non era usata nemmeno
per introdurre gli aspetti linguistici che venivano presentati nell’unità. Normalmente, gli input e dialoghi a
inizio manuale sono un pretesto ma hanno almeno uno sviluppo e un collegamento con il focus linguistico
con l’unità, mentre, nei primi due esempi, non c’è nemmeno questo collegamento. Nei manuali, puntiamo
alla riapplicazione della regola corretta, non all’efficacia. Si chiede, generalmente, di riapplicare
correttamente l’elemento lessicale, grammaticale, l’atto linguistico che viene proposto in maniera corretta.
L’efficacia non è importante se l’apprendente raggiunge uno scopo comunicativo; non mi interessa che
l’apprendente mi presenti la sua estate passata in maniera creativa e coinvolgente, mi interessa che utilizzi il
passato remoto in maniera corretta. Il punto di attenzione qui, se si applica un focus on forms, è quello della
correttezza grammaticale e lessicale e l’efficacia viene trascurata. Le attività proposte non hanno un riscontro
con attività reali e sono scollegate dalle attività che potrebbero presentarsi realmente e sono spesso
decontestualizzate e presentano aspetti molto isolati. Le frasi sono singole e isolate. Propongono un modello
di riferimento che si chiede di riapplicare.
Le condizioni per l’apprendimento sono l’esposizione all’input e l’opportunità d’uso della lingua e la
motivazione dell’apprendente.
Cosa posso fare, didatticamente, per cercare di proporre un input comprensibile ma anche motivante,
arricchente e vicino ad una situazione d’uso reale? Cosa posso fare per sollecitare una produzione
naturale da parte dell’apprendente? Cosa posso fare per rendere la didattica accattivante e non
ansiogena e noiosa? Cosa posso fare per rendere la didattica il più vicino possibile a un percorso di
acquisizione come se fosse un’acquisizione spontanea della lingua?
Posso usare la didattica per task che viene proposta come sviluppo naturale; nasce nell’ambito
dell’insegnamento linguistico, nell’educazione linguistica in un contesto più ampio (posso usarla anche
nell’apprendimento della L1). Si sviluppa molto in glottodidattica e pone al centro un compito, un obiettivo
comunicativo da raggiungere. Un compito che gli apprendenti devono svolgere e realizzare. I principi della
didattica per task per l’approccio comunicativo: le attività propongono contesti comunicativi reali o realistici
(se propongo un contesto in cui l’apprendente si è trovato, è più facile calarsi in una situazione vicina al
contesto reale e riesca a calarsi in quella realtà). Un compito di realtà non realistico potrebbe essere chiedere
di lavorare sui registri formali e informali della lingua con apprendenti giovani e chiedere di scrivere una
lettera al sindaco. Tuttavia, il compito di realtà ha come obiettivo quello di creare una situazione che sia
verosimile e realistica. La lingua è un veicolo/mezzo attraverso il quale raggiungere un obiettivo. La lingua
che utilizziamo, è vero che non sarà perfettamente corretta dal punto di vista grammaticale/sintattico, ma è
una lingua densa di significato. È una lingua imperfetta ma che è la lingua che si basa sulle risorse che già
possiedo oppure che si basa sulle mie ipotesi; è la stessa lingua che usiamo nel momento in cui non
conosciamo un termine tecnico o ci dobbiamo muovere in un contesto che non è per noi usuale.
Il task è un compito intrapreso da un parlante della vita reale o da un apprendente di lingua per raggiungere
un obiettivo. È un’attività che ci richiede di raggiungere il nostro scopo e arrivare a un risultato partendo da
informazioni che ci vengono date, dal contesto che ci viene proposto e applicando una serie di processi
cognitivi che ci permettono di usare la nostra conoscenza del mondo, le nostre risorse non solo linguistiche e
che mettono in gioco diverse competenze.
Il task è tutto il compito, non si compone di un esercizio ma tutta la progettazione che ruota attorno al
compito e che comprende la proposta inziale, cioè la fase di avvicinamento e introduzione, la fase di
produzione, la fase di riflessione sulla lingua o analisi della lingua e la fase di rimessa in pratica. Quindi tutto
il ciclo riguarda la progettazione didattica del task. È un’attività complessa che richiede agli apprendenti
diversi tipi di attività che richiedono diverse capacità cognitive e competenze perché devo comprendere,
rispondere, manipolare, anche attraverso strategie, negoziare un significato, produrre, interagire in modo
scritto o orale e tutte queste abilità devono puntare al raggiungimento dell’obiettivo.
Task: è un’attività complessiva dove il significato/il contenuto è primario in cui non si ripete a pappagallo la
regola appresa, che ha un riscontro in attività reali nelle quali l’apprendente si può ritrovare, può riportare le
proprie competenze nell’attività che sta svolgendo e l’obiettivo è valutato in termini di efficacia: hai
raggiunto o no il risultato.
Come facciamo a mettere un voto? La valutazione è complessiva; la mia valutazione sarà globale e
cercherò di valutare come si è mosso l’apprendente e ha partecipato, collaborato, che tipo di risorse ha usato
nella fase iniziale, durante la riflessione e come ha messo in pratica le strutture su cui si era fatta la
riflessione nella fase intermedia. I punti teorici di riferimento: la lingua diventa il mezzo; il compito è
extralinguistico che cerco di raggiungere grazie alla lingua. L’altro aspetto è che la didattica per task è una
didattica collaborativa: l’interazione tra pari gioca un ruolo fondamentale.
Dove sono chiamato a svolgere un compito dove riesco a calarmi e faccio collaborativamente, senza ansia e
stress di dover utilizzare necessariamente il modo corretto delle strutture, è più motivante e coinvolgente.
Innesca quel circolo virtuoso della motivazione che permette di far crescere anche la competenza linguistica.
I task sono sfruttati per creare situazioni comunicative funzionali per l’apprendente, vicine ai bisogni
linguistici dell’apprendente e quindi cercherò di partire dalle loro esigenze e lavorare su strutture che per loro
siano importanti da utilizzare e rispondano alle loro esigenze.
Cosa significa? Se ho un gruppo di apprendenti lavoratori con una scarsa alfabetizzazione, non proporrò le
strutture linguistiche, ma cercherò di proporre strutture utili a discutere un’assemblea sindacale. Quindi,
punterò a strutture ed elementi della lingua che siano efficaci e permettano di rispondere alle loro effettive
esigenze.
Differenze:
Esercizio: proporre un testo regolativo dell’ufficio immigrazione e chiedere di evidenziare i verbi.
Task: leggi lo stesso testo e prendi nota o comunica quali documenti bisogna portare.
o
Attività comunicativa: costruire un dialogo seguendo le indicazioni.
Task: simulazione del tema.
o
Competenza: sapersi orientare sulla mappa di una città.
Task: seguire una mappa della città per arrivare dalla stazione al Teaching Hub.

Le nostre competenze sono quelle enciclopediche ma anche quelle che abbiamo sviluppato, ad esempio, per
sapersi muovere e orientare. Permette di sfruttare anche altre competenze.
Quando è che facciamo grammatica e riflettiamo sulla lingua? Dopo la produzione. Non suggerisco
strutture da usare ma assegno un compito. Nel momento in cui svolgono il compito, il primo punto è vedere
se hanno raggiunto l’obiettivo e cerco di capire perché non l’hanno raggiunto (se non l’hanno raggiunto) e
poi svolgo la fase di riflessione: a partire da tutte le riflessioni vado a osservare e discutere su quali strutture
sono state utilizzate e poi vado a correggere e cerco di vedere cosa emerge.

Lezione 11 08/03/2023

[Possibile task o esercizio mirato a un focus linguistico o lessicale] obiettivo della lezione di oggi.
Abbiamo detto che nella costruzione/progettazione di un task, viene compreso l’intero ciclo di unità che
propongo e la produzione è la prima fase di questo ciclo (la produzione da parte dell’apprendente).
Normalmente, vi è anche una fase introduttiva che non è un vero e proprio brainstorming ma è un
brainstorming in cui non si esplicita l’oggetto del task o l’obiettivo del task ma si lascia molta libertà ed è
mirato nel far emergere risorse che possono essere funzionali per il task. Nella fase successiva alla
produzione, rifletto sulla lingua usata (per migliorare anche la competenza linguistica e comunicativa dei
nostri apprendenti). A posteriori, quindi, viene una fase di focalizzazione/riflessione e focus linguistico sulle
forme utilizzate ed emerse, osservate durante la produzione, funzionali alla realizzazione del task.
Prendiamo, ad esempio, il task legato alla mappa: “come faccio a raggiungere dalla stazione via Cartoleria”
 vedo se hanno commesso degli errori e che tipo di errori (ero più concentrata sull’obiettivo o ho difficoltà
ancora a utilizzare una certa forma?). Non possiamo pensare di analizzare e soffermarci su tutte le strutture,
ma dobbiamo fare una selezione degli errori e strutture che sono risultate più critiche e problematiche e
concentrarci sulle strutture funzionali al raggiungimento di quel task. Significa che, se nel descrivere il
percorso, mi sono dimenticata di una “s” alla terza persona plurale, ma quell’aspetto non è il focus delle
funzioni utili per il raggiungimento del task, trascuro quella determinata struttura in quel momento a meno
che tutti gli apprendenti abbiano fatto lo stesso errore. C’è attenzione alla forma linguistica, c’è una
riflessione, un focus sulla forma linguistica in una fase che segue immediatamente la produzione partendo
dalle risorse usate dagli apprendenti andandole a sviluppare. Il focus prevede il negoziare e chiedere delle
richieste; mi accorgo che viene usata prevalentemente una struttura, ma che, invece, potrebbero essere usate
altre strutture. Cerco, quindi, di ampliare e proporre altre soluzioni.
Nella selezione cerco sempre di dare la precedenza alle forme che sono funzionali, alle forme e usi e strutture
funzionali all’obiettivo comunicativo. Quindi, questo aspetto di cercare di dare maggiore attenzione a ciò che
è funzionale per il raggiungimento dell’obiettivo, ci collega a “i task vengono valutati?”, “queste produzioni
vengono valutate?”, “io come faccio a mettere un voto?”. Non viene valutato il task in termini di correttezza,
ma anche in termini di efficacia, adeguatezza e raggiungimento o meno dell’obiettivo. I gesti, ad esempio,
sono una componente della comunicazione; comunichiamo anche con il para-verbale. All’estero, ad esempio,
usiamo la gestualità per farci capire. Il primo punto critico rispetto alla valutazione di un task è che non
possiamo valutarlo in termini di correttezza formale ma in termini di adeguatezza rispetto all’obiettivo
comunicativo che dobbiamo raggiungere. Si passa alla fase successiva alla riflessione che è quella di pratica.
Cosa si intende? È una fase che segue il focus linguistico durante la quale il docente cerca di rifare
applicare, in maniera più sistematica, le forme linguistiche che sono state oggetto della riflessione.
Es: attività sulla cartina; nella fase di produzione gli apprendenti hanno usato qualsiasi tipo di strategia
comunicativa per dare indicazione e per portare il soggetto “X” dalla stazione a via Cartoleria, compresi
gesti, parafrasi, transfer ecc. Primo elemento: hanno raggiunto o no l’obiettivo. Poi, siamo passati a lavorare,
ad esempio, sugli imperativi e altri modi per realizzare la stessa funzione; abbiamo lavorato su “destra”,
“sinistra”, “vai dritto” ecc.; elementi lessicali della città (vari negozi). Nella fase di pratica, cercherò di
proporre un’attività in cui non chiedo di riapplicare meccanicamente certe strutture ma è un’attività di tipo
comunicativo simile al task iniziale, alla produzione che era stata chiesta inizialmente. Non chiedo di andare
dalla stazione in via Cartoleria ma un qualcosa che permetta all’apprendente di usare le strutture della fase di
riflessione. A questo punto, la valutazione complessiva deve tenere conto della parte di produzione,
riflessione (attraverso una discussione aperta) e fase di pratica (se c’è stato un miglioramento).
Tipo di vantaggi: attenzione alle forme linguistiche da utilizzare anche in termini di “noticing”, accorgersi di
aver bisogno di una struttura che ancora non possiedo, è ancora più alta. L’esigenza di una struttura è in
risposta a un bisogno reale, comunicativa dell’apprendente. Se non so come costruire una domanda per una
richiesta, mi rendo conto che ci provo ma se non ne sono sciuro, mi interrogo su come possa essere formulata
una domanda. Attraverso il task si evitano testi didattizzati si parte da documenti autentici, dalla lingua
che viene proposta all’orale, allo scritto perché io posso partire anche da un video. I contesti devono essere
verosimili e vicini alla realtà dell’apprendente e non risultano artificiosi come “scrivi una lettera al sindaco”.
Sono calati nella realtà dell’apprendente e soprattutto la produzione e anche le indicazioni e la prospettiva
che si adotta è quella più simile all’acquisizione della L1 e della lingua straniera in contesto spontaneo.
Ricrea le condizioni per un contesto spontaneo e naturale ed è più vicina al sillabo interno dell’apprendente e
mi permette di allinearmi alla reale interlingua dei miei apprendenti. Questo tipo di prospettiva didattica mi
permette di proporre interventi vicini ai bisogni di apprendimento e sequenza nell’apprendimento di una
lingua e mi permette di individualizzare meglio il mio intervento a livello didattico. Significa essere vicina ai
reali bisogni. Non sarà un intervento didattico specifico per ciascuno ma più vicino alle effettive esigenze
che riscontro nella classe osservando l’interlingua. Ci saranno delle differenze di competenza in una classe
ma, se una classe è omogenea, mi permette di orientare maggiormente il mio intervento didattico. Posso
rendermi conto che una metà della classe ha ancora difficoltà in certi argomenti  oriento quindi la mia
progettazione didattica verso quell’argomento. È molto meno rassicurante rispetto al modello PPP.

ESERCIZIO O TASK? (esercizio a gruppi in classe)


Partendo dalle risorse/materiali degli esempi riportati di seguito, prova a immaginare:
1) un possibile esercizio
2) un possibile task.
Target: studente italiano di terza superiore che impara l’inglese in un istituto superiore tecnico-economico.
Materiale: notizia del telegiornale – news della CNN.
Esercizio: dopo aver consegnato una trascrizione della news, si chiede all’apprendente di individuare il
vocabolario inerente al settore economico e cercare quindi termini tecnici.
Task: l’apprendente dovrà spiegare al compagno, con parole sue, le notizie o le parti salienti della notizia
ascoltata. Come seconda fase del task, si potrà proporre una discussione comune con tutta la classe affinché
emerga un linguaggio ancora più naturale con diversi punti di vista, o prendere un elemento e trovare una
soluzione. Oppure: solamente una metà della classe ascolta la notizia del telegiornale, l’altra metà non la
vede e se la fa spiegare dai compagni. Il fine del task potrebbe essere informare i compagni che non hanno
ascoltato la notizia, spiegandola con parole semplici. L’obiettivo è vedere come la stessa notizia possa essere
rielaborata, spiegata ma anche recepita in modi diversi.
Lezione 12 13/03/2023
Lavoriamo su un aspetto più trascurato nella didattica delle lingue moderne ma è un argomento di didattica
(insegnamento e ricerca) che nell’ultimo ventennio e decennio sta assumendo un’importanza sempre
maggiore.
Cosa diremmo in queste situazioni?
Ordinare un caffè al bar: “sì ciao, vorrei ordinarti una tisana, grazie”
Chiedere a un amico di uscire al sabato sera: “raga, usciamo stase?”
Chiedere alla prof un euro: “Scusi prof, ho dimenticato i soldi a casa, riuscirebbe a prestarmi un euro? Glielo
riporto domani”.
Nel secondo caso, viene usato un gergo più colloquiale. Ci sono elementi che possono essere regionali o
dialettali; ci sono abbreviazioni. Sono tutte formulazioni efficaci, corrette perché non presentano grossi
problemi linguistici. Stiamo discutendo sull’efficacia di una determinata formulazione. Ragioneremo sul
piano comunicativo, sull’efficacia di una nostra produzione, in particolar modo sulla dimensione pragmatica
della lingua. Ci interessa se, perché e come insegnare pragmatica di una lingua straniera.
Due punti di riferimento relativi a cosa si intende per “pragmatica”: negli anni 70, alcuni linguisti tra cui
Hymes, introducono il concetto di competenza comunicativa in contrapposizione con la competenza
linguistica (Chomsky). A partire dagli anni 70, si sottolinea il fatto che il parlante non solo deve aver una
buona competenza linguistica ma deve sviluppare anche una competenza che viene definita comunicativa,
competenza d’uso della lingua, saper usare la lingua in modo efficace, appropriato e introduce la dimensione
“pragmatica”. Oltre a sintattica, semantica, morfologia e fonologia, un parlante competente deve saper
gestire la componente pragmatica. L’uso della lingua e il saperla usare in modo adeguato, mette al centro il
fattore dell’interazione. Alcuni linguisti introducono l’importanza della capacità di usare la lingua nel modo
adeguato e l’interazione (inizio anni 70). Fine anni 70 e inizio anni 80 si sviluppa l’approccio comunicativo e
l’interazione è al centro degli studi di Crystal che sostiene che la pragmatica riguardi quei fattori/elementi
che orientano la scelta del parlante nell’interazione sociale e che provocano degli effetti negli interlocutori.
La competenza d’uso: giostrare bene tutti gli elementi della richiesta di un euro alla prof affinché in quello
scambio interazionale si ottenga: - che la prof ci presti l’euro; - che non pensi che siamo dei maleducati;
muovere degli equilibri determinati dal contesto e dall’interlocutore (peso e ruolo dell’interlocutore). Non ha
niente di linguistico il fatto di chiedere un euro.
Cosa comporta la competenza comunicativa? Include la competenza linguistica aggiungendo un altro
elemento. Per una piena competenza comunicativa, non dobbiamo escludere la competenza linguistica;
conoscere le regole linguistiche (elementi organizzativi e formali della lingua che stiamo utilizzando) ma
dobbiamo, in più, raggiungere la competenza pragmatica, conoscendo tutte le variabili sociolinguistiche
(anche la forza che il nostro atto produce nel nostro interlocutore). Dal punto di vista linguistico, assumono
una grande importanza gli atti linguistici: quel significato che i parlanti attribuiscono a un atto, come lo
comunicano e l’effetto che viene prodotto negli interlocutori. Sono azioni prodotte linguisticamente che
producono una reazione da parte dei parlanti. Atti linguistici: scuse, richieste, protestare, ringraziare,
salutare, mettersi d’accordo ecc. L’altra prospettiva è quella legata al discorso, all’interazione; tutti i
significati sono co-costruiti dai partecipanti in una conversazione dove l’interazione è più vasta. Non
produciamo il nostro turno conversazionale e in risposta abbiamo un unico turno dell’interlocutore ma spesso
i turni sono distribuiti e anticipati da altre azioni linguistiche. Da un lato, abbiamo gli atti linguistici, come
realizziamo delle azioni perché con una richiesta/scusa stiamo facendo un’azione che prevede una reazione;
dall’altra parte, queste azioni linguistiche non sono condensate in turni adiacenti e vicini.
I concetti centrali dal punto di vista linguistico e comunicativo dello studio della pragmatica: atti linguistici,
deissi (cortesia, distanza tra interlocutori e indica spazio e tempo) e ciò che diventa implicito. Impliciti,
inferenze e presupposizioni e tutta la sfera dei segnali discorsivi che sono una parte centrale della co-
costruzione e interazione con i parlanti. Interpretare correttamente due affermazioni linguisticamente
identiche, si può fare se abbiamo una piena competenza comunicativa dove, oltre alla competenza
linguistica, abbiamo aggiunto la dimensione pragmatica (“è sempre un bel filmone” / “è un capolavoro”).
Cos’è la pragmatica? Si compone di due sottodimensioni: pragmalinguistica e sociopragmatica. Da un lato
imparare a riconoscere le strutture linguistiche ed elementi linguistici che permettono di realizzare un atto
linguistico (es.: imparare a utilizzare il “tu” e il “lei” in maniera adeguata a seconda delle circostanze o il
condizionale per una forma più cortese). Dall’altro, troviamo la sociopragmatica: sviluppare norme sociali
che regolano l’interazione all’interno di una determinata situazione comunicativa. Normalmente, se partiamo
da un manuale di lingua spagnola, francese o italiana, le prime unità dicono “quando si parla in un contesto
informale si usa questa persona” e “quando si parla in un contesto formale si usa questa persona”.
Rivolgendomi a un amico, userò il “tù” e in una situazione più formale “usted”. Sociopragmatica è il fatto
che ci troviamo in Italia: entro in un negozio e la commessa è giovane e dice “ciao, cosa ti serve?”. Se sono
un apprendente di italiano all’estero, so, in base a quello che ho studiato, che dovrebbe rivolgersi con il “lei”.
Ma le norme sono in piena evoluzione e quindi, negli ultimi tempi, è cambiato questo tipo di approccio.
Competenza sociopragmatica: molti docenti italiani rimangono scioccati dal fatto che gli studenti spagnoli si
rivolgono a loro con il “tu”. Dal punto di vista linguistico, se hanno già livelli alti, non hanno problemi a
usare le forme di cortesia. Quello che varia per loro è la sociopragmatica. Le norme che regolano
l’interazione è sociale e culturale, le trasferiscono (transfer pragmatico). Se in spagnolo, docenti e studenti si
danno del tu, gli spagnoli trasportano questa norma anche in italiano. Il rischio per questi apprendenti non è
che facciano un errore grammaticale ma che creino un fraintendimento o che vengano mal interpretati. Il
rischio è attaccare un’etichetta comportamentale ma, se lo analizziamo, capiamo che è una ridotta
conoscenza della norma italiana.
Pragmatica: capacità di mettere in stretta relazione le parole pronunciate, scritte con il contesto comunicativo
nel quale ci stiamo muovendo. Da un lato, prevede la conoscenza delle norma linguistiche e delle norma
d’uso/valori delle norme culturali e sociali che muovono quella determinata società e sono alla base di quel
determinato evento comunicativo.
Lingua e contesto sono in stretta relazione perché il contesto agisce sulla lingua. Se il rapporto fra parlante e
interlocutore ha un distanza sociale elevata, il contesto influisce sulla scelta linguistica che vado a fare; allo
stesso modo, le parole che utilizzo influenzano il contesto. Se io scelgo di formulare il mio atto linguistico
con parole efficaci, raggiungerò il mio obiettivo comunicativo. Se scelgo una formulazione non appropriata
del contesto, vado incontro a un fallimento comunicativo o vengo accusata di essere inappropriata e creare
fraintendimenti e conflitti comunicativi.
Insegnare pragmatica è difficile? Le variabili di interpretazioni sono infinite. Potenzialmente, anche i
bambini più piccoli fanno pragmatica e la conoscono. Detto questo, però, troviamo anche studenti
universitari che sulla pragmatica ancora potrebbero svilupparla per migliorarla. Serve una buona ed efficace
gestione di tutte le dinamiche del contesto.
Molto è stato studiato su come si sviluppa la competenza pragmatica attraverso la teoria degli atti linguistici.
Molto è stato fatto sugli apprendenti adulti o sui bambini in prima acquisizione; atti linguistici: stiamo
realizzando delle azioni ma il punto è che esistono tanti modi diversi per realizzare la stessa azione. Posso
dire “sei in ritardo come al solito” – “sai che ore sono?” (significa, ‘sei in ritardo’). Più o meno
implicitamente, posso lamentarmi, ironizzare sul fatto che la persona che doveva arrivare all’appuntamento è
arrivata in ritardo. Devo imparare a gestire tutta una serie di variabili, capire se posso dire al mio amico
“eccoti, finalmente”. Sono elementi che noi apprendiamo attraverso l’interazione, le situazioni nelle quali ci
troviamo; impariamo anche a capire se e quando possiamo usare una determinata azione linguistica. C’è la
scelta anche dell’azione linguistica che voglio realizzare: la mia è una scelta, se voglio ironizzare, protestare
ecc. Questa scelta la faccio se il contesto e l’interlocutore me lo permettono. In questo senso, non è solo le
parole che usiamo ma è anche l’azione che scegliamo di dirigere. Contesto inteso come situazione
comunicativa (se è formale o informale) e dal rapporto tra gli interlocutori e la distanza tra essi (gerarchia
sociale). Imparare a modulare un’azione linguistica: fare scelta lessicale, morfosintattica e a livello di
prosodia (tono della voce), a livello di linguaggio non verbale (gestualità), a livello di organizzazione e co-
costruzione dell’interazione (su quanti turni distribuire il focus della mia interazione).
Saper imparare ad agire in una lingua, significa imparare a sviluppare delle strategie che permettano di
modulare e mitigare le nostre azioni: usare un condizionale, preparare una richiesta attraverso delle scuse
(distribuire e preparare la richiesta). Questo significa saper agire in una lingua e imparare a modulare
linguisticamente. Sono tutti quegli elementi linguistici che aiutano alla realizzazione della nostra azione in
relazione all’obiettivo, al contesto e all’interlocutore. Saper agire significa anche conoscere le norme:
chiedere il cellulare comporta conoscere determinate norme; in base alla situazione, si valuta quali norme
usare. Sono tutte quelle convenzioni sociali che mi permettono di dire: si può fare o sarebbe meglio non
farlo. Tenendo conto dei due elementi: come modulare un atto e come considerare le norme sociali che
caratterizzano un contesto, è facile o difficile? Delle volte, la formulazione linguistica può essere non
particolarmente felice; si parla di felicità (quando l’atto linguistico è usato in maniera efficace) o infelicità
(quando vado verso il conflitto o fraintendimento) di un atto linguistico. A volte viene interpretato come un
elemento caratteriale e quindi rischiamo di essere fraintesi perché ci sono aspetti individuali che ci portano
ad essere più o meno diretti. Il fatto di imparare a sviluppare determinate competenze, ci porta a
ragionare/saper dosare e regolare bene le variabili contestuali. Altrimenti, risulta che veniamo mal
interpretati o veniamo considerati sfrontati. Tutto ciò, da insegnare, è difficile perché comporta il tenere a
mente dinamiche contestuali, specifiche, diversificate e variabili. È importante però insegnare la pragmatica
se non vogliamo che ai nostri studenti vengano attribuite delle etichette. Imparando una lingua entriamo in
contatto con norme culturali e sociali di un altro Paese, di un’altra cultura ma soprattutto, quando siamo in
contesto di L2 e impariamo quella lingua straniera, abbiamo ridotte possibilità di contatto con parlanti di
un’altra cultura che ci permettano di sviluppare queste capacità interazionali. Le norme pragmatiche si
possono apprendere, oggi, anche attraverso le serie tv, dove riusciamo a vedere come i parlanti si muovono e
interagiscono e di conseguenza apprendiamo delle norme sociali.
È importante capire quando entrare in una conversazione, è una delle competenze per livelli più elevati
(saper inserirsi in una conversazione nel momento giusto seguendo delle norme che non ci vengono
insegnate a scuola). È comunque una competenza che è importante sviluppare ed è legata a norme sociali. La
sovrapposizione è vista molto spesso come partecipazione alla conversazione (in Italia e in Spagna).
Cosa succede nella comunicazione tra parlanti nativi e non nativi? Cosa comporta questo non capire le
norme pragmatiche e culturali? [Sequenza di Luca Argentero]  richiesta di un favore. C’è un’altra
cultura in cui un favore deve essere anticipato da un preambolo; deve essere preparato il terreno per
richiedere un favore. Questo avviene tra parlanti nativi e non nativi. Questo avviene anche tra parlanti nativi.

Lezione 13 14/03/2023

È opportuno “insegnare” la pragmatica e cosa comporta?


Es: pensiamo a due adulti che iniziano a flirtare, lei dice a lui: “cretino”. Pensiamo, invece, a un apprendente
di lingua straniera che cerca la definizione di ‘cretino’ e sente poi, in una conversazione, questa parola.
Dovrebbe capire il contesto. Quindi la pragmatica è utile per mettere nelle condizioni giuste l’apprendente
per intendere il contesto. Se siamo in un contesto di immersione, saremo maggiormente esposti a delle
situazioni e contesti reali e avrò diversi input che posso cogliere. Posso capire che non sempre ‘cretino’ viene
usato per offendere qualcuno. Quando impariamo una lingua e non siamo in un contesto di immersione,
stiamo portando i nostri apprendenti ad avvicinarsi a delle norme sociali, a una cultura ma i nostri
apprendenti hanno contatti limitati, circoscritti.
Nel momento in cui due parlanti, anche con diversi livelli di competenza, interagiscono, ci possono essere
dei fraintendimenti; sono malintesi che possono sfociare anche in veri e propri conflitti comunicativi e legati
ad altre dimensioni.
Cosa succede? Nel momento in cui ci troviamo con parlanti che hanno diversi livelli di competenza e
quando ci troviamo a interagire con un parlante/apprendente che noi consideriamo avere un buon livello di
competenza linguistica, tutti quegli aspetti che riguardano invece la limitata o non adeguata gestione della
situazione comunicativa, tendiamo a riportarli a un problema di carattere individuale oppure siamo portati ad
esprimere dei pregiudizi che possono essere anche di tipo etnico-culturale.
Perché? Ad esempio ci sarà capitato di sentire: “gli inglesi/russi si comportano così…” oppure, altre volte,
situazioni che ci spiazzano con persone apprendenti che provano a fare un transfer da una lingua all’altra.
Noi siamo portati ad attribuirgli degli aspetti caratteriali che magari non è vero che sono caratteriali.
Abbiamo visto la difficoltà a inserirsi in una conversazione. Ci sono anche diverse reazioni: ad esempio, a
richieste di informazioni, a saluti.
L’espressione “Did you have a good WE?”, per gli australiani, è un semplice saluto, non c’è bisogno di
rispondere. Per i francesi, invece, è l’inizio di una conversazione. Se il mio “come va” è un saluto di rito e
non comporta davvero cosa hai fatto nel WE, potrebbe spiazzarmi. Quello che manca è la corrispondenza
delle norme socioculturali. Pensiamo alla difficoltà di accettare un’offerta quando ci confrontiamo con
culture diverse. Rientra nello stereotipo ma fa parte di norme che sono culturali e condivise da una certa
comunità. Il problema è che condividiamo linguisticamente lo stesso codice e abbiamo norme sociali vicine
ma quando non c’è un esatto matching delle norme culturali e sociali, si creano delle incomprensioni.
La sfida per un apprendente di L2: ha una limitata esposizione all’input anche se cerchiamo di proporre un
input qualitativamente e quantitativamente ricco ed è difficile, per questo, avere una piena conoscenza di
determinate norme se non siamo in un contesto di immersione e ci vuole tempo per acquisire tutte queste
norme. Se siamo portati, nel nostro processo di acquisizione, a realizzare dei transfer linguistici, coniamo
parole nella speranza che siano quelle, allo stesso modo proviamo a fare dei transfer culturali e proviamo a
vedere se si agisce e reagisce nello stesso modo. Purtroppo, questo non sempre avviene. Quando questo
matching non avviene, interpretiamo come stranezze questi comportamenti anomali, o peggio ancora li
etichettiamo come pregiudizi di tipo etnico. È importante insegnare la pragmatica per permettere agli
apprendenti di evitare in questi comportamenti o rischiare di essere fraintesi, rischiare dei malintesi o dei
conflitti comunicativi.
Diverse modalità di realizzare un’azione linguistica, di proporre/rispondere a un’offerta o invito ecc.
Abbiamo visto che ci sono tanti modi per realizzare la stessa azione linguistica. “Insegnamento” non è il
termine più appropriato perché non esistono regole fisse. In didattica, si fa riferimento all’insegnamento della
pragmatica anche se sarebbe più corretto parlare di accompagnamento o portare gli apprendenti a sviluppare
una maggiore consapevolezza pragmatica. Quello che non posso fare è dire agli apprendenti che un caffè si
ordina in un certo modo; posso sviluppare in loro un’attenzione (consapevolezza) rispetto a diverse modalità
per ordinare un caffè, per realizzare un’azione e portarli a ragionare sul fatto che ci siano vari modi per
realizzare un’azione e farli ragionare sulle variabili: contesto, rapporto con l’interlocutore.
Perché è importante sviluppare questa consapevolezza? Anche in un contesto spontaneo ci vuole tempo
per sviluppare questa competenza da soli, spontaneamente. Mi richiede tempo, immersione, interazione in un
contesto di lingua target per lungo tempo. Negli apprendenti che hanno un livello elevato di lingua, per
evitare che si creino fraintendimenti, è importante guidarli e portarli a ragionare su questi aspetti. Il rischio è
che ci troviamo in situazioni come quella del ristorante cinese dell’ispettore Coliandro dove l’input elimina
le variabili e rischiamo di cadere nel “foreigner talk”.
Insegnare pragmatica perché le nostre classi sono sempre più plurilingue e queste norme emergono nella
lingua straniera che stiamo insegnando ma in queste classi arrivano ed emergono anche perché c’è un
background che è già plurilingue e comporta la gestione di varie norme sociali e culturali.
Es: Karim: “Maestra, fammi andare in bagno” o Paolo: “Maestra, potrei andare in bagno per favore?”
Questo plurilinguismo si riferisce anche a diverse norme socio pragmatiche e non solo diverse lingue.
Dobbiamo cercare di orientare e far ragionare l’apprendente sul perché quella determinata azione linguistica
può risultare adeguata o meno in quel contesto.
Ragioniamo sugli usi della lingua, sulla riflessione e non su regole grammaticali. Non li stiamo portando a
riflettere sulla lingua e sulle sue forme ma sui diversi usi che ne facciamo.
Perché è più complesso? Perché è un costrutto complicato; abbiamo diverse modalità per realizzare la stessa
azione linguistica. Dipende da variabili indefinite, imprecisate, dettate dal contesto e dalla reazione degli
interlocutori. Nel caso della pragmatica, la regola non c’è e la norma d’uso varia. Per insegnare una regola o
struttura grammaticale, dal punto di vista grammaticale, abbiamo un numero delimitato di regole e possiamo
fare riferimento ad esse. Nella pragmatica, purtroppo, no, però possiamo essere più creativi. Per lo studio
della grammatica, possiamo seguire un libro che ci presenta le strutture e le regole. Per la pragmatica, la
difficoltà è che non ci sono manuali inerenti ad essa.
Difficilmente, si potranno prevedere le azioni e le reazioni: tutti i modi di formulare un atto linguistico e tutte
le reazioni legate ad esso  imprevedibilità.
Allora quanto devo essere competente io come insegnante per essere in grado di rispondere e poter
valutare le produzioni? Abbiamo detto che non siamo infallibili e non possiamo pensare di sapere tutto e
tutte le possibili formulazioni. Davanti a una formulazione che non ci aspettavamo, possiamo ragionare
assieme al gruppo classe anche portando altri esempi simili.
L’altro grande punto è il nativo come norma. La figura del parlante nativo come figura di riferimento e
parlante competente va messa molto in discussione. Non è necessario essere parlanti nativi per insegnare
grammatica. Dobbiamo essere esperti, non solo linguisticamente, ma anche dal punto di vista pragmatico.
Forse, non riusciremo a prevedere tutte le situazioni ma possiamo portare i nostri apprendenti a riflettere su
una diversità.
Le variabili sociolinguistiche e riflettere sugli usi della lingua anche in L1, sviluppare attenzione non solo
sulla forma ma sugli usi linguistici, fa parte del curriculum scolastico anche in L1. È utile che accompagni i
miei apprendenti a sviluppare una consapevolezza rispetto agli usi ma dall’altra parte non significa che,
come parlante di un’altra lingua, mi senta di seguire quelle norme sociali o culturali; a volte, perché sono
troppo distanti e richiederebbe allontanarmi troppo dalle norme della L1 e non mi verrebbe naturale.
L’obiettivo: riuscire a lavorare su un atto linguistico o presentare una sequenza interazionale,
conversazionale più ampia e proporre diversi tipi di input che mi riconducano a una stessa funzione. Cercare
di proporre un input vario che permetta di lavorare sul noticing e permettere all’apprendente di osservare
diversi usi e portarlo a ragionare sulle diverse funzioni e reazioni che comporta un determinato uso; portarlo
a sviluppare una consapevolezza; non a usare quell’uso, l’importante è che aiuti il mio apprendente a
riconoscerlo. Le prospettive: lavorare, in modo ricco, su un atto linguistico o partire dalle basi.
Pragmatica: lavora a partire dagli usi che i parlanti fanno della lingua; più legata a comportamenti
comunicativi, ha a che fare con le scelte dell’interlocutore. Quelle che portano a lavorare sullo sviluppo della
competenza pragmatica, che mi portano a scoprire un uso in termini di notare, osservare, riconoscere un uso
e valutare quanto quell’uso è appropriato, adeguato ed efficace in termini di valutazione.
Si insegnano le parolacce? Insegnare nel senso tradizionale no. Tuttavia, è utile portare un apprendete a
riconoscere il valore e la funzione comunicativa di un’espressione cortese. Spontaneamente, ci troveremo a
confrontarci con quelle espressioni ed è bene che io capisca (magari all’estero) che funzione hanno. Mettere
nelle condizioni di riconoscere l’effetto e la funzione che hanno in un determinato contesto. Sta poi a noi
decidere se usarle o meno. Una delle attività è quella di scoprire che funzione ha un determinato uso. Portare
gli apprendenti a ragionare sul fatto che le parolacce possono essere usate anche senza essere offensive per
chi ascolta. A volte, vengono utilizzate in senso ludico, scherzoso o addirittura affettuoso. Chiedo, poi,
all’apprendente se le sto usando per scherzo o sul serio. Posso selezionare una serie di input vari che mi
presentino diverse funzioni e diversi usi.
Altre due attività molto sfruttate per la competenza pragmatica e attività che seguono un approccio
comunicativo e che sono nate nel filone degli studi sulla didattica della pragmatica e vengono sfruttate per la
didattica per task: DCT (discourse completion task) e DRT (discourse rating task). Attività che mi
permettono di ragionare sulla scelta delle parole usate per compiere un’azione e mi portano a ragionare sulle
dinamiche relazionali e le variabili sociolinguistiche: gerarchia, distanza sociale, famigliarità ecc.). DCT:
metto l’apprendente nelle condizioni di calarsi in una circostanza; presento un contesto e chiedo di reagire a
quel contesto. Può essere scritto, rispondendo a uno stimolo (in questo caso una situazione video che può
essere verosimile) o orale. Si ragiona anche sul tenere presente i rapporti di gerarchia.
Lezione 14 21/03/2023

Stavamo ragionando su quali tipi di attività possono essere realizzati per l’insegnamento della pragmatica.
Ragioniamo oggi su due risorse; richiameremo alcuni principi alla base dell’uso delle nuove tecnologie e che
hanno portato a un cambiamento nella didattica. Sfruttiamo quindi due risorse online per vedere insieme
quali sono le potenzialità per la didattica delle lingue moderne e quali sono le criticità nell’uso di risorse e
materiali online per la didattica delle lingue.
1. CARLA: tra i primi materiali online creati e concepiti per potenziare la riflessione e lo sviluppo
della conoscenza grammaticale (inizialmente, dall’inglese allo spagnolo; queste risorse sono poi
state ampliate ad altre lingue straniere).
2. LIRA: piattaforma online italiana. È il risultato di un progetto di ricerca realizzato anche in parte dal
dipartimento di lingue unibo insieme ad altre università. È una proposta di materiali che hanno come
obiettivo principale lo sviluppo dell’abilità orale e della competenza pragmatica. È una piattaforma
che non prevede la presenza di un tutor che accompagna lo studente nell’uso delle risorse ma sfrutta
la community degli utenti. Possiamo usare una piattaforma online come lo spazio di virtuale e
caricare contenuti digitali che possono essere utilizzati in modalità “blended” (es: 50 in aula e 20 con
l’utilizzo di una piattaforma online con l’aiuto di un tutor). Tuttavia, in questo caso, non è prevista la
figura di un tutor, quindi si basa sull’autoapprendimento degli apprendenti.
Come proporre il feedback agli apprendenti? Alla base del feedback pensato e costruito per
questa piattaforma, vi è uno dei principi alla base dell’insegnamento della pragmatica.
Come facciamo a proporre un feedback? Problema di tipo metodologico. Il feedback è stato
progettato in modo tale da poter utilizzare al massimo la community degli utenti  le attività
forniscono una risposta suggerita come adeguata da parte degli autori; tutte quelle attività che
lasciano ampio margine di discussione tra gli utenti, offrono invece un feedback fornito direttamente
da altri utenti che possono essere parlanti non italofoni ma utenti esperti (più o meno esperti in lingua
italiana) oppure da parlanti considerati nativi. Il feedback, in alcune attività, deve essere lo stesso
utente che ragiona e confronta la propria produzione rispetto ad altre proposte e si confronta con altri
parlanti.
Attività: quelle che posso proporre per insegnare la pragmatica sono, oltre a quelle tradizionali (vero o falso,
multiple choice ecc.), quelle più funzionali e utili per accompagnare l’apprendente a scoprire una funzione,
capirne il funzionamento, notarla. Se osservo e riconosco, se valuto in termini di efficacia e adeguatezza, se
posso ragionare sul fatto che una produzione sia più o meno adeguata (valutazione non in termini di feedback
o judgment ma rating) e se riesco poi a mettere in pratica le funzioni che ho osservato e riconosciuto.
Avevamo detto che la maggior parte delle attività sono finalizzate allo sviluppo della consapevolezza
sociopragmatica e pragmalinguistica (attenzione rispetto a determinati usi). I tipi di attività più
specificatamente legati allo sviluppo della competenza pragmatica sono il DCT e il DRT. Sono attività che
tendono a esplicitare o elicitare la produzione di un determinato atto e che mi permettono di scoprire,
osservare, riconoscere anche i gradi di variazione  cosa cambia in una produzione rispetto a un’altra/
in un uso rispetto a un altro? Mi permettono di lavorare sull’atto linguistico, sull’azione che sto compiendo
e, quindi, che si concentrano sul modo per chiedere, lamentarsi, scusarsi, ringraziare, salutare ecc. Dall’altro,
sono attività che mi permettono di riconoscere e mettere in gioco le relazioni sociali legate a quell’azione
comunicativa. Mi permettono anche di lavorare sulle relazioni: si mettono in gioco, non solo le richieste o le
scuse, ma anche il rapporto tra gli interlocutori (età, distanza sociale, il ruolo ecc.). Sono dinamiche che
vengono esplicitate in queste attività o vengono elicitate.
Esplicitare: se sto dando come consegna tutti i riferimenti “devi chiedere il caffè al bar dal tuo amico che ha
25 anni…” (esplicito una serie di fattori).
Elicitare: portare l’apprendente a produrre riducendo il numero di variabili.

ESEMPIO
DCT:
- “Avete invitato alcuni amici per una cena improvvisata. Alla fine della serata uno dice: ‘è stata una serata
piacevolissima’.  potrei anche aver detto: “alla fine della cena, uno dei partecipanti ha detto…”  questa
serata è stata con amici o altro? È sempre un DCT ma chiedo più opzioni perché ci possono essere più
soluzioni che ci vengono in mente. Successivamente, si lavora sulle produzioni degli apprendenti, sugli
input.
Forum linguistici: feedback da parte di persone più o meno esperte, quindi non necessariamente sono tutti
apprendenti o madrelingua. Il feedback sfrutta il confronto con una community di utenti di diverso livello e
prova a proporre una soluzione per una difficoltà metodologica legata alla valutazione pragmatica. Non è il
docente che offre una risposta; mi confronto con una comunità più vasta rispetto ai gradi di correttezza e
accettabilità delle risposte fornite. Le risposte e le riflessioni le andiamo a mettere in ordine in termini di
adeguatezza, efficacia e accettabilità. Lavoriamo anche sugli usi della lingua, non solo in termini di rating. Si
chiede agli utenti di compilare un profilo bio-linguistico: chi siete / che lingua parlate / a quale varietà
regionale della lingua riconducete la vostra? Il feedback proposto distingue tra chi si è dichiarato L1 e altri
utenti (non lingua madre italiana).
Un altro tipo di rating: quello in cui non chiedo la produzione immediatamente agli apprendenti ma offro io
una soluzione e poi chiedo di metterle in ordine  difficilmente saremmo d’accordo nello stesso rating.
L’attività si sviluppa anche successivamente (perché è stato dato un determinato livello di valutazione ma si
può ragionare insieme su cosa è stato percepito come più adeguato o meno adeguato ecc.). portare gli
apprendenti a discutere insieme porta anche a mettere in discussione norme sociali e culturali tenendo
presente che la risposta esatta non c’è.
Quali sono i problemi e le difficoltà legate all’insegnamento della pragmatica e perché ancora attività
vere e proprie mancano nei manuali? Sono ancora abbastanza decontestualizzate, isolate (a volte
presentano usi dogmatici e manca la riflessione e il confronto sulla variazione). Il problema è il reperire il
materiale, selezionarli, graduarli, decidere a quali usi/forme voglio esporre l’apprendente. Materiali didattici
pronti, ancora, scarseggiano. Posso usare dei corpora, parlanti nativi o esperti competenti, situazioni
spontanee (è un po’ difficile invitare parlanti competenti ogni volta) o la rete (però ritorniamo a reperire,
selezionare e graduare; è dispendioso in termini di tempo, energie).
CARLA: Role play girati dai ricercatori; hanno organizzato delle situazioni comunicative e sfruttato gli usi,
le funzioni degli atti linguistici per creare dei materiali. Hanno svolto, drammatizzato delle situazioni in cui
emergessero, per esempio, i complimenti; ci vengono poi chieste le situazioni comunicative nelle quali il
complimento viene realizzato (circostanze in cui viene realizzato un complimento). È evidente che possiamo
trasferirli da un’altra cultura e immaginare le situazioni più standard ma anche quelli più frequenti. Prima si
chiede all’apprendente di nominare i complimenti e poi vengono esplicitate. Poi, si chiede di metterle in
pratica e alla fine dell’unità di produrle. Data la difficoltà di portare l’apprendente a riconoscere le funzioni
più standard e lavorare, soprattutto, su quelle più atipiche, sfrutta un modello che dà maggiore sicurezza
nell’insegnamento ed è riconducibile a PPP (presentazione, pratica, produzione).
LIRA: ha provato ad ampliare e propone dei materiali che sono un po’ più vari. La differenza è che è una
sequenza discorsiva più ampia, dando la possibilità di osservare diversi usi. L’obiettivo è di proporre, anche
nei materiali introduttivi, delle sequenze discorsive più ampie che permettono di osservare che ci possono
essere più atti in una sola sequenza, portando l’apprendente a osservare diversi usi ed elementi.
Nelle attività, si propone una scoperta, chiedo (prima avevamo “chiedo in quali situazioni si fa un
complimento/per quale obiettivo comunicativo) all’apprendente di riconoscere quali propongono il
complimento e quali no. Chiedo di concentrarsi sulla risposta, su come si reagisce a un complimento.
Le serie tv non offrono un parlato totalmente spontaneo perché viene proposto un canovaccio da seguire ma
dà un minimo di libertà recitativa agli interpreti. È vero che, da un lato, non è spontaneo ma è un parlato che
negli ultimi vent’anni tende ad avvicinarsi, presentare dei tratti del parlato spontaneo in maniera più
frequente rispetto a quello che avveniva in un passato. Non abbiamo ancora chiesto in quale situazione si può
fare un complimento. Chiediamo, però, più avanti, di scegliere tra varie opzioni (VIDEO e poi quattro
opzioni per riconoscere la situazione del complimento). Si propongono anche situazioni di pragmatica,
quando il complimento ha in realtà un’altra funzione.
Lezione 15 22/03/2023

Esemplificare un DCT: Cercare di ricreare una condizione/situazione che permetta all’apprendente di calarsi
in quella situazione e di reagire a questa condizione. Possiamo usare vari tipi di input: contestualizzazione
scritta (presento, metto per iscritto una situazione)  “immagina di andare al bar e di chiedere un caffè”;
oppure una situazione in cui presento già una domanda e si chiede “cosa diresti?”. Oppure, può essere una
situazione video; presentare, far ascoltare un audio video con un role play che viene ricreato, poi lo stoppo
nel momento in cui chiedo di reagire. Si può anche partire da un immagine, che sia però così esplicito da
suggerire all’apprendente il tipo di reazione da avere. Devo cercare di elicitare il tipo di atto e la relazione tra
gli interlocutori. Il DCT può essere fatto sia in modo scritto che orale.
DRT: (esempio sul file) presento le soluzioni e chiedo di metterle in ordine, in scala, dalla più alla meno
cortese.
Poi, posso avviare una discussione di gruppo. Nel DCT, dopo che ho chiesto la produzione scritta o orale,
posso creare, a partire dalle stesse produzioni, un DRT. Ne seleziono alcune e provano a rimetterle in ordine:
anche un DCT può sviluppare, successivamente, un DRT. Se si lavora con un role play e su tutti gli atti che
compongono la scortesia linguistica, posso cercare di distribuire delle situazioni simili ma diverse anche in
termini di relazione e poi riflettere su cosa comporta insistere e protestare con un amico e poi con una
persona che ha un diverso grado di distanza.
La tecnologia nella didattica delle lingue moderne: si è passati dal registratore, dai laboratori linguistici in cui
avevamo la cassettina e lo stimolo audio (metodo audio-orale) fino ad arrivare alle aule, didattica con LIM,
lavagne multimediali, accesso a internet in classe per la didattica quotidiana, passando per gli ultimi anni
della didattica a distanza e quello che ha comportato a livello di sviluppo didattico e tecnologico. I supporti
del passato servivano, soprattutto, per presentare un modello e per cercare di conformarsi a quel tipo di
modello (fonetica, pronuncia ecc). Negli anni 80/90, grazie allo sviluppo di tecnologie audio-visive più
avanzate, in aula sono entrati i televisori. I laboratori linguistici, poi, sostituirono le videocassette, i
videoregistratori e i televisori con i computer. La possibilità di vedere materiali audiovisivi più complessi
(film, documentari, telegiornali registrati) permetteva di ascoltare e vedere un input (accesso a un input
autentico), di lavorare sulle abilità di ricezione dell’audio in termini di correttezza del suono e della
riproduzione, ma anche di avere un’idea di contestualizzazione, lavorando su aspetti più comunicativi. Negli
anni 80, ci fu anche lo sviluppo dell’approccio comunicativo (quindi non è un caso che ci troviamo negli
anni 80). Stiamo lavorando su abilità che sono ancora prevalentemente di ricezione e comprensione. L’altra
grande e immensa svolta è data da internet ma non solo, anche dallo sviluppo degli strumenti tecnologici e
dall’accessibilità degli strumenti (telefonini e tablet nelle aule); svolta data dalla possibilità di sviluppare
l’ipertesto (ipertestualità) e utilizzo di risorse come LIM, rete, video ecc. Poi, anche tutta la sfera di
cooperazione e collaborazione legata ai forum, apertura della classe a un mondo di lingua autentica.
All’inizio degli anni 2000, potevo utilizzare i DVD, i CD e l’input presentato in classe era circoscritto;
l’apertura a risorse che diventano più accessibili abbassa i confini della classe (ora, come docente, devo tener
conto, non solo dell’input che posso proporre ai miei apprendenti, ma anche delle occasioni dell’esposizione
e uso dell’input al di fuori della classe). Prima della grande diffusione delle tecnologie, i canali
dell’istruzione erano legati all’istruzione formale (in classe) e informale (ed erano molto ben distinti).
Apprendo lingue in classe ma non solo (anche senza partire per una vacanza studio); posso strutturare i miei
interventi didattici anche in modalità blended. Questo significa anche abbattere i muri/confini dell’aula.
Anche il paradigma istruzione formale e informale è cambiato negli ultimi 25 anni. Da un’istruzione che era
circoscritta a scuola e orientata nel superare un esame, prendere una certificazione, essere rimandati e,
dall’altra parte, contesti informali (scambi interazionali) si è passati a istruzioni che interagiscono tra di loro.
Le occasioni di apprendimento formale e informale non sono più separate e distinte, ma tendono a integrarsi,
completarsi. Questo ha comportato che la didattica delle lingue moderne si sia dovuta adattare alle possibilità
offerte dai nuovi mezzi e si sia modificata (mutamento delle situazioni di apprendimento formale, non
formale e informale). Dobbiamo essere noi docenti a capire come sfruttare al meglio queste tecnologie e
cercare di inglobarla, integrarla nel nostro curriculum, intervento didattico. Posso fare anche didattica senza
l’uso delle tecnologie ma, se si ha la possibilità di avere uno strumento che può aiutare, sarebbe meglio
utilizzarlo. Si è passati da competenze funzionali (sapere che esistono gli strumenti e saperli usare) a
competenze critiche (capire cosa sia necessario per il fabbisogno dei miei apprendenti) e competenze
retoriche (in che modo gli strumenti ci aiuteranno a modificare il nostro insegnamento).
L’uso delle tecnologie permette lo scambio tra pari in aula, a distanza (con altri apprendenti), tra esperto e
non esperto in attività che sono maggiormente interazionali e permettono di co-costruire un sapere legato al
saper fare. L’apprendente è in primo piano; gli interventi didattici si basano maggiormente sulle necessità e
gli obiettivi dell’apprendente e si parla di un insegnamento focalizzato sull’apprendente.
In modo attivo: all’apprendente viene richiesto di collaborare, partecipare con i pari per raggiungimenti
comuni. L’apprendimento avviene attraverso l’esplorazione di nuove conoscenze, attraverso una riflessione
sulla lingua aumentando la sua motivazione.
Il concetto è quello di comunità di apprendimento; tra pari ci si confronta su elementi da sviluppare, si
riflette sulla lingua, sugli usi, sulle strutture e, all’interno delle communities of learning, il docente è un
facilitatore, è un moderatore (così come lo era nella didattica per task). Nelle comunità di apprendimento, nei
gruppi classe che si basano su questo concetto pedagogico, gli aspetti fondamentali sono: il raggiungimento
di obiettivi comuni e la dimensione collaborativa.
Il vantaggio di usare tecnologie multimediali è che posso coinvolgere sia la sfera cognitiva che quella
sensoriale che mi aiutano a sostenere e a favorire l’apprendimento; il fatto che apprendere significa costruire
o co-costruire, insieme ad altri, un sapere delle conoscenze ma anche un saper fare qualcosa (saper cercare,
riassumere, rielaborare, riassumere un’informazione). Attraverso queste operazioni, imparo anche la lingua.
L’apprendimento può essere più facilmente personalizzato; se abbiamo un gruppo classe di 25 persone, non
possiamo costruire 25 interventi diversi ma se so che certi hanno più difficoltà nella comprensione orale,
potrò integrare con loro altri tipi di risorse, potrò personalizzare e proporre anche risorse aggiuntive,
materiali integrativi al mio intervento didattico che possano sviluppare un aspetto che a loro preme
particolarmente. Andare quindi a inserire, integrare e sostenere gli apprendenti con attività più integrate. Noi
diventiamo facilitatori e intermediari; non abbandoniamo l’apprendente all’uso autonomo delle risorse, ma
dobbiamo metterci in mezzo proponendo, individuando e graduando le risorse. Dobbiamo essere noi a
proporre una risorsa, individuando il tipo di risorsa perché altrimenti rischiamo che l’apprendente si trovi da
solo, di fronte a un input che non risponde all’input + 1 (Krashen) ma a quello eccessivamente elevato. Si
possono così sfruttare anche diverse modalità dell’utilizzo di una risorsa (tagliarle, riascoltarle,
personalizzarle ecc.), permettendo così di aumentare il livello di motivazione.
È naturale usare la tecnologia ma tecnologia non è un concetto monolitico  nelle giuste dosi/misure come
tutto; siamo noi che insegniamo la lingua e ci rendiamo conto se, quanto e quanto usare la tecnologia. C’è
sempre una via di mezzo (come il concetto di ‘cellulari sì o no in classe’). La tecnologia ci porta a un
approccio superiore ma non è, a volte, sufficiente per le sfide del domani (come è successo durante il covid;
una piattaforma e materiali che erano molto avanzati nel 2012, nel 2023 sono obsoleti). Tuttavia, alcuni
vecchi materiali sono ancora buonissime risorse (es: un film di Chaplin). La tecnologia, inoltre, non
sostituirà i docenti; meglio buoni docenti che una buona tecnologia. La tecnologia diventa uno strumento a
disposizione di un esperto che deve mediarla in un’interazione, dialogo e scambio con gli apprendenti. Le
risorse le devo mediare e cercare di mettere in grado gli apprendenti di usarle.
Tutto questo ha mutato i ruoli dell’insegnante e dell’apprendente  apprendente con un ruolo centrale e un
docente che è facilitatore, esperto che mette l’apprendente nelle condizioni di sfruttare al meglio la
tecnologia. Può essere usata in classe, in modalità blended e per l’autoapprendimento (lira, forum
linguistici).
La rete e l’utilizzo di alcune tecnologie permettono di avere a disposizione molti materiali autentici; è anche
un deposito di materiali didattici, andando a vedere se esistono già dei materiali su un determinato aspetto
linguistico, lessicale ecc. I materiali didattici sono utilizzabili da tutti (sharing)  scambio anche con
colleghi o altri esperti; ciò mi permette di integrare e selezionare materiali che magari non sono contenuti in
un libro di testo.
Dal lato apprendente  possibilità di accedere a risorse autentiche e utili dal punto di vista didattico
(strumenti di consultazione, dizionari, stampa). Si possono creare aule virtuali per l’apprendimento in
blended o in autoapprendimento (mi posso iscrivere a gruppi di discussione). Ho una possibilità di interagire
maggiormente con il docente via mail, videoconferenza (maggiore possibilità di scambio) o anche con altri
apprendenti (con pari o con altri parlanti che possono essere esperti o non esperti)  RISCHIO: devo avere
quella capacità critica di saper selezionare, individuare la persona con la quale sto interagendo o la risorsa
che sto consultando.
Devo capire se la risposta è certa e sicura e proviene da una fonte affidabile o un esperto non
affidabile, distante dalla norma, dagli usi della lingua obiettivo? È effettivamente un esperto oppure si
passa per tale ma in realtà non lo è? Il pericolo di un accesso a risorse è anche quello di trovarsi davanti a
risorse che non sono corrette, non so calibrare e non so se è una risorsa che vada presa per buona o se è
meglio cercare altrove. Questo è un rischio anche per il docente: a volte, magari, ci ritroviamo davanti a un
uso che ci risulta atipico per noi e dobbiamo avere la capacità di capire se la risposta che abbiamo trovato sia
buona o meno. Deve essere adeguata e calibrata per gli apprendenti. Dal punto di vista dello sviluppo delle
abilità, posso lavorare sulla comprensione scritta e orale, sull’abilità produttiva-scritta e produttiva-orale.

THE END

Potrebbero piacerti anche