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Capitolo 1
Che cos’è una seconda lingua e cosa significa acquisire una lingua
Acquisire…
Con acquisizione di una lingua si intende il fenomeno per cui un essere umano diventa
progressivamente competente nell’uso di una lingua per la comunicazione con i suoi simili.
La capacità di acquisire una lingua è propria dell’essere umano; se non sussistono problemi
psichici o condizioni di grave carenza di relazioni sociali ed esposizione ad una lingua,
qualunque essere umano, nei suoi primi anni di vita, inizia a sviluppare la propria capacità di
interagire con gli altri per mezzo di una o più lingue.
Lingua materna, lingua nativa o madrelingua→ lingua acquisita nella prima infanzia.
L’acquisizione è avviata in primo luogo dall’esposizione ad input di una lingua, ovvero dalla
possibilità di ascoltare enunciati nella lingua inseriti in un contesto che consente di
comprenderli, cioè di ricostruirne il valore comunicativo.
La facoltà di linguaggio, cioè la capacità di acquisire una lingua verbale, è una delle
caratteristiche che maggiormente caratterizzano l’essere umano e pare essere
fondamentalmente specie-specifica.
Tuttavia, questa capacità sembra ridursi nel tempo. È esperienza comune che l’acquisizione
di altre lingue in età successive all’infanzia (=lingue seconde) sia impresa più difficoltosa e
dall’esito più variabile
↓
L’acquisizione di una lingua in età post-infantile non arriva solitamente ad esiti comparabili
con quelli di chi apprende quella stessa lingua fin dall’infanzia.
La glottodidattica ha interesse per i risultati della ricerca della linguistica acquisizionale poiché
una migliore conoscenza dei meccanismi di apprendimento può contribuire alla progettazione
di un più efficace intervento didattico.
Uno dei contributi fondamentali che la linguistica acquisizionale ha offerto agli studi di
glottodidattica→ constatazione che ciò che si impara non coincide con ciò che si insegna,
perché l’apprendimento di una lingua e delle sue strutture avviene anche in assenza di
insegnamento e viceversa, l’insegnamento di specifiche strutture linguistiche non sempre
garantisce il loro apprendimento
↓
Questa constatazione ha portato la glottodidattica ad una maggiore focalizzazione
sull’apprendente, sulle sue potenzialità e i suoi limiti.
D’altra parte, la ricerca glottodidattica è di interesse per la linguistica acquisizionale
nell’esplorare gli effetti di specifiche tecniche didattiche sui percorsi di acquisizione, mettendo
in luce il comportamento dell’apprendente in contesti di acquisizione guidata; inoltre, gli
strumenti di valutazione della competenza linguistica elaborati dalla glottodidattica si rivelano
utili strumenti di analisi anche per la ricerca in linguistica acquisizionale.
Biografia linguistica di un individuo→ modi e tempi in cui le lingue da lui possedute e che
quindi fanno parte del suo repertorio linguistico, sono state acquisite nel corso della vita.
Sul piano biografico→ si definisce lingua nativa / lingua materna / madrelingua di un individuo
quella che si inizia ad acquisire in età infantile nella socializzazione primaria, cioè nelle
prime relazioni sociali con i genitori o con le persone da cui si è accuditi nel contesto familiare
e intimo. Questa lingua viene anche chiamata prima lingua o L1→ è la prima in senso
cronologico che comincia ad essere acquisita.
Lingue seconde o L2→ altre lingue che l’individuo inizia ad acquisire dopo la prima infanzia.
I contesti di acquisizione di una seconda lingua possono essere vari (es. esposizione a media
in quella lingua, frequenza di corsi di studio dedicati all’insegnamento della lingua in
questione…)
Altrettanto varie possono esserne le occasioni d’uso (es. cerchia di relazioni, in ambito
professionale…)
La nozione di parlante nativo viene spesso fatta coincidere con quella di parlante competente;
in effetti è il parlante nativo che viene considerato come il modello di lingua di riferimento.
La stessa osservazione che in una seconda lingua raramente si raggiunge una competenza
“piena” è basata sulla constatazione dello scarto che solitamente distingue le produzioni dei
parlanti nativi da quelli non nativi.
Ogni essere umano nasce naturalmente dotato della facoltà di linguaggio, tuttavia nessun
essere umano nasce competente in una specifica lingua naturale: ogni lingua naturale deve
essere appresa. Ciò che distingue una lingua nativa da una lingua seconda sono le diverse
fasi di vita e condizioni in cui queste vengono apprese.
La lingua materna viene appresa fin dall’infanzia nella socializzazione primaria: questa
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precoce esposizione alla lingua garantisce un vantaggio acquisizionale che porta solitamente
ad esiti di acquisizione superiori rispetto a quelli tipici di un’esposizione tardiva.
N.B. l’esposizione precoce all’input di una lingua nella socializzazione primaria non è
sufficiente di per sé a garantire una piena competenza linguistica, né un livello di acquisizione
superiore→ in questo contesto l’alfabetizzazione e i diversi livelli di scolarizzazione sono
fattori rilevanti almeno per alcuni aspetti dello sviluppo della competenza linguistica.
parlante quasi nativo→ il parlante che ha imparato una lingua come lingua seconda o
straniera dopo il periodo della socializzazione primaria ma che ne abbia sviluppato una
competenza molto progredita assai vicina a quella di un vero parlante nativo. La sua
competenza è quindi indistinguibile da quella di un parlante nativo ma d’altronde non viene
definito nativo poiché la lingua in questione non è stata la lingua della socializzazione
primaria.
Casi di parlanti quasi nativi: le seconde generazioni di immigrati, cioè fra i figli di immigrati da
altri paesi, nati in Italia o arrivati nei primi anni di vita; per loro l’italiano può essere una
seconda lingua, se non vi sono stati esposti nei primi anni di vita in famiglia, ma con
l’estendesti dei contesti di socializzazione e soprattutto con la scolarizzazione essa può
diventare lingua dominante, nella quale si ha maggior competenza e maggior frequenza ed
occasioni d’uso.
heritage speakers→ parlanti che hanno appreso una lingua all’interno del contesto familiare
che trova però ridotti ambiti d’uso al di fuori della famiglia di origine a causa del fatto che non
si tratta di lingue diffuse nella comunità allargata in cui l’individuo si trova a vivere. Questa
lingua è detta lingua di origine di quell'individuo: essa è una lingua nativa (perché di
socializzazione primaria) di un individuo, per la quale ha ambiti d’uso ristretti alla sfera
familiare o amicale e la cui competenza può perciò restare limitata a varietà informali e
colloquiali.
semi parlante→ parlanti che hanno una competenza ridotta in una lingua cui pure sono
esposti fin dall’infanzia, per lo più a causa di una esposizione ridotta e della forte interferenza
di un’altra lingua dominante per frequenza e ambiti d’uso
⏎
Una esposizione costante nel tempo ma estremamente ridotta e frammentaria e la mancanza
pressoché totale di occasioni di produzione attiva hanno avuto come esito una elevata
competenza recettiva, ma una competenza produttiva estremamente incerta.
Conclusione→ parlanti nativi “si nasce”, nel senso che l’etichetta di parlante nativo viene
attribuita, per definizione, al caso di colui che apprende una lingua fin dall’infanzia nella
socializzazione primaria.
Con lingua seconda si intende per definizione una lingua “con cui non si è nati”, appresa al di
fuori della socializzazione primaria e dopo le prime fasi di vita. Tuttavia, i diversi modi di
“crescere” in una lingua possono condurre a situazioni di competenza molto diverse sia per
le lingue seconde sia per le lingue native.
↓
Es: condizione di parlante quasi nativo mostra che gli esiti in termini di competenza ed uso in
una seconda lingua possono giungere ad essere molto vicini a quelli tipici dei parlanti nativi di
quella stessa lingua.
D’altro canto, l’essere parlante nativo di una lingua non assicura di per sé alti livelli di
competenza in una lingua se la pratica e l’esperienza nella lingua stessa non si protraggono
nel tempo (caso dei semi-parlanti)
Parlanti nativi si nasce, ma parlante competenti si diventa, sia nelle lingue native sia nelle
lingue seconde.
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Meno si ha occasione di usare una lingua seconda, più è facile che le competenze acquisite
non solo non riescano a progredire, ma possano anche regredire.
↓
Nell’esperienza comune, la fragilità pare caratterizzare la competenza nelle seconde lingue
molto più che quella in lingue materne; tuttavia, anche il caso della perdita di competenza in
lingue materne è ben documentata in letteratura.
denominazione di parlante ex-nativo→ caso di una persona che ha perduto o sta perdendo
più o meno progressivamente la lingua della socializzazione primaria a favore di un’altra
lingua più forte nell’ambiente in cui si trova a vivere
⏎
Si tratta di un caso particolarmente frequente anche in condizione migratoria, specie fra
persone immigrate in giovane età→ se da un lato la lingua è appresa e usata in famiglia fin
dai primi anni di vita, non avendo sufficienti occasioni d’uso al di fuori della socializzazione
primaria, può vedere arretrarsi il proprio percorso di acquisizione (si parlerà di heritage
speaker), d’altro lato la perdita di spazi d’uso nell’età adulta può causare un progressivo
processo di erosione anche di competenze acquisite (parlante ex-nativo).
↓
Questo secondo fenomeno è chiamato attrition.
Tutte queste situazioni ci mostrano che le competenze linguistiche non sono stabili nel tempo,
nemmeno per le lingue native, e nemmeno dopo che si è completata quella fase sicuramente
cruciale per l’acquisizione che è quella dei primi anni di vita.
Inoltre, l’acquisizione di nuove lingue, specie se ad alti livelli di competenza e con alta
intensità d’uso, può avere ripercussioni, anche negative, sulla competenza delle lingue già
conosciute.
N.B. questo non significa però che l’incremento di competenze in una lingua causi
direttamente un indebolimento di competenze nelle altre lingue. La causa dei fenomeni di
limitato apprendimento o di erosione delle competenze non è direttamente l’accresciuta
competenza in più lingue, ma l’uso dominante di una o di più altre lingue, che porta con sé
come conseguenza la riduzione dei margini di impegno di altre.
N.B. con plurilinguismo comunitario non si fa riferimento necessariamente al fatto che ogni
individuo della comunità possieda e usi le diverse lingue, ma al fatto che diverse lingue sono
ampiamente rappresentate ed usate nel territorio.
Es: situazione di diffusa dialettofonia in Italia e, al di fuori dell’Europa, nel continente africano
e asiatico.
e a lungo accudito il bambino nella sua prima infanzia abbiano usato abitualmente con lui più
lingue.
Per parlare di acquisizione bilingue sono necessarie le due condizioni definitorie di lingue
native:
- esposizione fin dall'età infantile
- Nella socializzazione primaria
Si parla invece di acquisizione di seconda lingua in età infantile per l’acquisizione che
scaturisce da un’esposizione precoce ad una lingua al di fuori del contesto di socializzazione
primaria, ad esempio a seguito di programmi di introduzione precoce di una seconda lingua
nelle scuole materne o asili d’infanzia.
*Si adottano ulteriori caratterizzazioni per descrivere il rapporto esistente fra le lingue materne
in termini di competenza ed uso:
bilinguismo bilanciato→ caso di un parlante che sia ugualmente competente in entrambe le
lingue materne e le usi entrambi in una gamma diversificata di situazioni d’uso;
Dominanza di una delle due lingue→ il rapporto fra le due è sbilanciato in termini di
frequenza d’uso, fluenza o competenza.
La condizione di bilinguismo perfettamente bilanciato è piuttosto rara da riscontrare perché
per raggiungere questa condizione un individuo dovrebbe avere la possibilità di usare
entrambe le lingue con analoga frequenza nei diversi domini d’uso; nella realtà effettiva delle
situazioni è più frequente che le diverse lingue native si ritaglino nel tempo ciascuna uno
spazio funzionale, solo parzialmente sovrapposto con l’altra, determinando così una
competenza e un uso disuguale.
Quindi si può essere parlanti nativi di più lingue e ciò non è raro se osserviamo la
popolazione umana nel suo complesso, anche se la condizione di bilinguismo perfettamente
bilanciato è piuttosto rara.
È oggetto di discussione invece e di molte ricerche la questione se un parlante bilingue nativo
sia da considerarsi nativo alla stessa stregua di un parlante nativo monolingue→ etichetta di
semi-nativi (o bi-nativi) riservata ai parlanti nativi bilingui, alludendo così al fatto che questi
NON vadano considerati alla stessa stregua dei parlanti monolingui (Berruto).
↓
Secondo alcuni studiosi questo genere di precisazioni risente di quello che è stato chiamato
un “pregiudizio monolingue” → tenderebbe a considerare come anomalo ed eccezionale il
caso del parlante plurilingue e normale quello del parlante monolingue, in un certo senso
ignorando o forzando quella che pare essere l’effettiva normalità plurilingue fra le comunità
linguistiche.
Diversità fra parlanti nativi bilingui e monolingui della stessa lingua si sono osservate a più
livelli:
- a livello di competenza
- Nel grado di accettabilità che tali parlanti attribuiscono a specifiche strutture
linguistiche
- A livello di uso
- Nelle strutture usate preferenzialmente
- A livello neurolinguistico
- Nella risposta celebrale a specifici compiti linguistici
Quindi, si può essere parlanti nativi di più lingue? Si può essere parlanti nativi di più lingue,
ma non nel senso di essere contemporaneamente un parlante nativo di una lingua A e un
parlante nativo di una lingua B; si può essere, invece, un parlante nativo delle lingue A e B,
cioè appunto un parlante bilingue (o semi-nativo, nella definizione di Berruto).
Un'impostazione del genere sosterrebbe l'idea che sussiste una differenza radicale fra
l’apprendimento linguistico in età infantile e in età successiva: in un parlante che apprende
più lingue in età infantile le competenze non si organizzano allo stesso modo che in un
parlante che apprende le stesse lingue in età diverse. Non tutti gli studiosi però sono
d’accordo sul fatto che le differenze osservate fra parlanti bilingui o monolingui nativi e
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Esiste però un secondo modo per rispondere alla domanda→ parlante semilingue usata in
riferimento a parlanti bilingui con limitate competenze in entrambe le lingue possedute.
Queste competenze linguistiche sono legate ad abilità particolari:
● CALP (cognitive academic language proficiency) nella terminologia di Cummins→
capacità di usare la lingua come modo astratto e decontestualizzato;
● BICS (basic interpersonal communicative skills) → competenze basilari che si
acquisiscono fin dalla socializzazione primaria
Un parlante semilingue è quindi un parlante che conosce una o più lingue, ma non possiede
competenze CALP in nessuna delle lingue (cioè non sa usare le altre lingue per attività
cognitive e comunicative diverse dalla comunicazione interpersonale di base.
↓
Il dibattito sui parlanti semilingui nasce in ambito di bilinguismo, relativamente alla
discussione sull’opportunità di scolarizzare un bambino in una lingua diversa da quella nativa.
Es: nelle seconde generazioni di migranti c’è il rischio che la mancata scolarizzazione in
lingua materna impedisca un adeguato sviluppo della lingua materna stessa, mentre l’avvio
della scolarizzazione in una seconda lingua non sufficientemente padroneggiata produrrebbe
una situazione di gap linguistico difficile da colmare.
Conclusioni…
La ricerca sull’acquisizione di seconde lingue si pone come domanda di ricerca di base quale
sia “l’effetto di sistemi (già) stabilizzati su sistemi in corso di sviluppo” (Kellerman & Perdue).
↓
Questa definizione porta ad una distinzione tra acquisizione e possesso di una lingua, o
meglio alla diversa prospettiva legata all’osservare un sistema linguistico in una prospettiva
evolutiva, nel suo sviluppo dinamico, rispetto all’osservazione del sistema nella sua fase di
relativa stabilità al termine del processo acquisizionale.
Un apprendente di una seconda lingua è prima di tutto, in ogni sua fase del percorso, un
parlante di quella lingua.
⏎
Porta a due conclusioni importanti sul piano metodologico→
1. L'evoluzione del sistema linguistico di un apprendente è ricostruibile, ma ciò che
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dicendo mia mamma, e parla della mamma della sua amica Ilhem dicendo mia mamma di
Ilhem, ci rivela che ha probabilmente commesso un errore di decodifica dell'input: forse
perché la locuzione "mia mamma" è molto frequente in italiano e l'apprendente non ha ancora
acquisito il repertorio delle forme possessive, interpretando "mia mamma" come un unico
lessema. L'apprendente ha semplificato l'input nella decodifica, non riconoscendone la
complessità morfologica.
La semplificazione funzionale può anche interessare forme irregolari come c’è che non viene
flesso per numero (ci sono) ma viene trattato come morfema unico, usato erroneamente con
nomi singolari e plurali.
Oppure l’apprendente può produrre una forma prendendo come modello il paradigma più
frequente, anziché uno meno frequente a cui la parola appartiene. (ex: venato per venuto →
è un errore di regolarizzazione per cui al modello meno frequente della flessione della classe
di verbi in -ere (creduto, venuto) si sostituisce il modello flessivo della più frequente classe dei
verbi in -are (parlato, mangiato).
NB: non è sempre possibile individuare la causa di un errore, ad esempio un caso di dubbia
interpretazione può essere quello della forma fato/fatto, che può essere interpretata come:
- Semplificazione funzionale sul piano fonetico
- Regolarizzazione sulla base del modello di formazione regolare del participio: fa ->
fato, come parla -> parlato.
QUINDI l’analisi degli errori permette di calibrare meglio l’intervento didattico, date le ipotesi
che l’apprendente manifesta di aver elaborato attraverso il proprio comportamento.
NB: Non bisogna fare confusione tra la distinzione dell’errore e la sua esplicazione, poiché la
descrizione riguarda la comparazione tra parlante nativo e apprendente, la spiegazione
riguarda invece il comportamento dell’apprendente.
A parte la decisione riguardo la devianza (presente o assente) nelle produzioni del non-
nativo, la natura della devianza stessa può risultare difficile da descrivere con precisione.
Nella frase "La ragazza deto fare passeggiare" è indecidibile, ad esempio, il target cui essa
punta: la ragazza ha detto di fare una passeggiata? O la ragazza ha detto che voleva
fare/avrebbe fatto una passeggiata? L'errore del non-nativo è ovviamente diverso in base alla
forma target a cui aspirava.
Anche quando il target è univoco, cioè non ci sono dubbi riguardo quale sia la forma corretta,
la natura dell'errore può restare indeterminata:
Mani belli; risposti semplici; sedie bianchi. → target: mani belle; risposte semplici; sedie
bianche.
Fallacia = l’errore viene considerato come una strategia e non come il risultato di una
strategia, esso quindi rischia di essere reificato sul piano cognitivo e trattato come se fosse
un oggetto mentale, causa e spiegazione del comportamento dell’apprendente, mentre
l’errore è solamente il risultato di una comparazione tra il comportamento dell’apprendente e
del parlante nativo.
Un concetto analogo è quello della closeness fallacy, ovvero il comportamento
dell’apprendente deve essere osservato sistematicamente senza preoccupazioni relative al
corrispondente comportamento del parlante nativo. I sostenitori di questa teoria non credono
che il comportamento degli apprendenti di seconde lingue possa essere spiegato sulla base
di una comparazione (del grado di somiglianza) con il comportamento dei parlanti nativi.
Inoltre, se l'obiettivo della ricerca acquisizionale è ricostruire la sistematicità del sistema
linguistico dell'apprendente (e solo dopo la misurazione della discrepanza rispetto alla
competenza nativa), non c'è bisogno di preoccuparsi sin dal principio di paragonare i due
comportamenti.
Monolingual fallacy → la fallacia consiste nel considerare il parlante nativo monolingue come
punto di riferimento e normale esito del percorso di formazione linguistica di un individuo. La
tradizione porterebbe a considerare il parlante plurilingue come una somma di monolingui che
convivono nello stesso individuo, in modo più o meno riuscito (plurilinguismo bilanciato/ non
bilanciato). Grosjean contesta questa teoria poiché sostiene che i parlanti plurilingui hanno
comportamenti diversi rispetto ai monolingui, in termini di uso (i plurilingui possono
specializzare diversi codici per diversi usi, mentre i monolingue sfruttano l'unico codice
posseduto in ogni contesto comunicativo) e di competenza (le competenze nelle varie lingue
possono essere sbilanciate). Non è corretto, quindi, confrontare la competenza di un parlante
plurilingue con quella di un monolingue (rispetto alla stessa lingua), poiché il primo (appunto
perché conosce più lingue) manifesta comportamenti diversi da quelli tipici dei parlanti
monolingui.
NB: la stessa posizione critica è assunta da Cook, il quale conia il termine multicompetence.
Cook non crede che l'apprendimento di seconde lingue e la competenza in una seconda
lingua siano un caso particolare e motivo di svantaggio rispetto al caso normale
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dell'apprendimento della prima lingua. Secondo lui i parlanti plurilingui sono così diffusi
all’interno della comunità che i monolingui dovrebbero essere considerati un caso particolare.
Sulla nozione di errore si basano anche i learner corpora, corpus di dati di apprendenti di L2
annotati/catalogati per tipo di errore.
In una prospettiva che accolga la comparative fallacy, la sistematicità può essere descritta
evitando la comparazione col sistema target, puntando invece alla costruzione di un vero e
proprio sistema linguistico soggiacente le produzioni degli apprendenti.
Nemser sostiene che si può notare la sistematicità del comportamento degli apprendenti su
vari livelli:
Sul piano Individuale → in un dato momento del suo percorso un apprendente manifesta
regolarità nel proprio comportamento linguistico;
Sul piano Interindividuale → le regolarità si manifestano tramite il comportamento di
apprendenti diversi della stessa lingua
Sul piano evolutivo → la regolarità si manifesta nel passaggio da uno stadio ad un altro più
avanzato di competenza linguistica di un apprendente.
NB: i sistemi linguistici degli apprendenti, specifici e distanti dalla lingua target sono chiamati
in modi diversi (interlingua, varietà idiosincratica) → le diverse denominazioni però pongono
tutte l'accento su alcune proprietà riconosciute centrali: 1. Sistematicità (risponde a criteri di
ordine) 2. Specificità 3. Transitorietà dei sistemi linguistici degli apprendenti.
Ad esempio nelle varietà iniziali di italiano L2, è frequente che i sintagmi nominali siano privi
di determinanti (ad es. gli articoli), che forme verbali lessicalmente vuote come ausiliari e
copula siano assenti, e che venga neutralizzato il valore distintivo delle vocali finali delle
parole. Tuti questi tratti possono essere ricondotti a una mancanza generale della morfologia
funzionale. Sempre riguardo la morfologia, il sistema verbale è spesso ridotto a due classi
che trasmettono un’unica opposizione funzionale, ovvero l'imperfettivo (lava, prende) e il
perfettivo (lavato, prendeto). Le strutture dell’interlingua possono, come in questo caso, non
coincidere con quelle della varietà target. Quindi le regole descrivono un sistema autonomo
che non si identifica con l’input della varietà target anche se attinge da esso.
L’interlingua può divergere rispetto al target anche sul piano sintattico, ad esempio gli
apprendenti di italiano come L2 all’inizio producono frasi senza verbo, i cui costituenti si
dispongono secondo un ordine topic-comment (componente data-componente nuova).
Queste sono frasi solo parzialmente accettate dalla grammatica italiana (lui poverino
soddisfazioni zero, oggi niente giornali).
Le varietà di apprendimento mostrano anche una sistematicità di evoluzione, relativa alla
transizione da una tappa all'altra del percorso di apprendimento. Questa sistematicità può
essere analizzata attraverso:
Un’osservazione longitudinale → prolungata su un arco di tempo necessario a vederne
l’evoluzione
Comparazione trasversale → comparazione di gruppi di diverso livello (in questo secondo
caso il percorso evolutivo non viene osservato direttamente ma viene inferito).
NB: Se le tappe di evoluzione linguistica sembrano regolari per tutti gli apprendenti della
stessa L2, non si può dire che anche la velocità di apprendimento sia regolare. Secondo
l'ipotesi di apprendibilità/insegnabilità di Pienemann l’apprendente può apprendere solo ciò
che, sulla base dello stato di sviluppo della sua interlingua, è pronto ad apprendere.
NB: Idealmente lo stadio finale del percorso di apprendimento coincide con la lingua target,
se ciò non avviene si parla di fossilizzazione e di varietà fossilizzate, ovvero varietà diverse
da quella target che hanno perso il loro carattere transitorio per diventare stabilizzate, ma
tuutavia differenti dalle varietà target proprie dei parlanti nativi.
Variabilità e instabilità
Le tappe dello sviluppo linguistico sono sì sistematiche, ma anche variabili → cioè le regole
su cui si basa il sistema interlinguistico dell'apprendente possono presentare numerose
eccezioni e variabili. La variazione è presente a più livelli:
● Intraindividuale → una regola non vale sempre nelle produzioni di un singolo
apprendente;
● Interindividuale → una regola individuata nel comportamento di un apprendente non
vale per un altro.
In entrambi i casi è utile osservare se la variazione può essere a sua volta ricondotta a
regole (variabilità condizionata) o se si tratta di variazione libera, non riconducibile a regole
(instabilità).
2.1.9
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2.1.10
Variabilità nel confronto fra gruppi di apprendenti
I parametri che influiscono maggiormente sulla variazione interindividuale sono:
1. Conoscenza pregressa di altre 2Età di prima esposizione all’input
lingue Condizioni di apprendimento
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Ci sono numerose ipotesi sull'effetto di questi diversi fattori sull'esito, velocità e la direzione
dei percorsi di apprendimento.
2 studi :
Studio di Caruana (2003)
Riguarda la variabile delle condizioni di apprendimento, che è una delle più rilevanti. Studio
dedicato all’apprendimento dell’italiano da parte di un gruppo di madrelingua maltesi.
Esso ha misurato:
- competenza produttiva negli ambiti della morfo-sintattica
- frequenza del ricorso alla commutazione di codice fra italiano e maltese/inglese
Conclusioni:
Abbiamo vosto che la variazione è una dimensione costitutiva e vistosa delle varietà di
apprendimento, non ancora interamente compresa e studiata.
“competenza” ed “esecuzione”
La dicotomia fra competenza (competence= conoscenza ideale di un parlante della propria
lingua) ed esecuzione (performance), introdotta nel 1965 da Noam Chomsky, è la prima che
consideriamo. Egli distingue l’oggetto d’interesse proprio della teoria linguistica (competenza)
dall’effettiva realizzazione di performance linguistiche (esecuzione) che possono essere
influenzate dalla competenza, ma anche da fattori come memoria ed attenzione.
Questa definizione è stata criticata perché non tratta gli aspetti di variazione intra- e
interindividuale, in quanto la competenza da lui indicata sarebbe quella di un “parlante-
ascoltatore ideale” che conosce una lingua “perfettamente” e che si suppone viva in una
comunità linguistica “completamente omogenea”. → visione estremamente idealizzata di
competenza.
Ciò che interessa a Chomsky sono proprio gli aspetti di invarianza delle lingue poiché sono i
soli a poter illuminare lo studioso sulla natura della facoltà di linguaggio, posseduta in modo
uniforme da tutti gli esseri umani.
Questo obiettivo di studio delle invarianze delle lingue naturali ha portato studiosi a chiedersi
se le varietà di apprendimento di L2 possano considerarsi manifestazioni della facoltà di
linguaggio universale che si pensa agisca nell’acquisizione delle L1. → esistono
comportamenti di invarianza nel comportamento dei parlanti di L2? Coincidono con quelli
osservati per i parlanti L1?
Competenza per Chomsky → potenzialità vs. Esecuzione → realizzazione concreta di tale
potenzialità, in cui il comportamento osservabile può dare indizi più o meno precisi (dipende
da fattori tipo la memoria o l'attenzione che intervengono nel processing linguistico) sulla
competenza (che non è la semplice competenza linguistica).
La competenza linguistica è infatti intesa come uno stato cognitivo e insieme di conoscenze,
per lo più implicite, indipendenti e separate dalle procedure che intervengono nell’esecuzione
(= uso della lingua in contesti comunicativi concreti); una buona ricostruzione dello stato
cognitivo di un apprendente andrebbe tenuta distinta dalla mera descrizione del suo
comportamento, in quanto in determinate situazioni l’assenza di strutture complesse in
singole produzioni linguistiche non sarebbe indizio di un venir meno della competenza relativa
alle strutture stesse (ad es. Un apprendente che sta venendo valutato in classe evita il ricorso
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"Le competenze sono esistenti solo se esplicitamente mostrate, oppure esistono anche se
implicite?"
Dibattito fra studiosi: quali competenze possono essere ricondotte alla competenza
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linguistica?
Per Chomsky la competenza linguistica include una rappresentazione delle regole della
grammatica universale, cioè una serie di principi sintattici astratti e relativamente indipendenti
dalle regole morfosintattiche specifiche delle singole lingue. Per la linguistica acquisizionale,
tale visione è limitata, in quanto per essa la competenza linguistica include la conoscenza
del sistema della lingua specifica, cioè le sue regole morfosintattiche e il suo repertorio di
forme lessicali e grammaticali.
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Indicatori di performance: accuratezza, complessità, fluenza
La performance può dare informazioni sulle capacità di gestire le competenze linguistiche. Vi
sono 3 ambiti di misura di performance: accuratezza, complessità e fluenza.
Accuratezza: è la misura che più rimanda alla nozione di errore. È il grado di conformità delle
realizzazioni dell’apprendente alle regole del sistema target. Una performance più è accurata,
meno manifesta errori, ovvero devianze che conducono a strutture inesistenti nella lingua
target. Non è detto che se vi è molta accuratezza vi sia più competenza linguistica intesa
come possesso del sistema. Anzi è noto che l’andamento dell’accuratezza segua un
andamento “ad U”. Questo perché l’apprendente, in una fase di sperimentazione di regole, ne
sovraestende l’ambito di applicazione. Per esempio con le forme di participio, inizialmente
l’apprendente produce correttamente sia forme regolari che irregolari; in un secondo
momento egli potrebbe compiere regolarizzazioni sbagliate (vadato, prenduto) che
abbasserebbero l’accuratezza della sua performance. Constata la formazione irregolare,
l’indice di accuratezza tornerebbe a salire.
Complessità: idea che determinate strutture linguistiche o compiti comunicativi siano
cognitivamente più complessi, ovvero richiedano più operazioni. Le cause della complessità
sono molte: una struttura può essere complessa da usare (perché bisogna compiere più
operazioni) o può essere difficile da apprendere (perché è rara nell’input o meno trasparente,
o richiede più requisiti). Essa è difficile da misurare direttamente e spesso è desunta da
proprietà della struttura linguistica (ex. N° di morfemi, la sua rarità o trasparenza ecc…). la
complessità è misurata attraverso scale che includono strutture linguistiche ordinate per
grado di complessità: più una performance è complessa, più vi saranno strutture di alto
grado. Le misure di complessità sono utili per bilanciare le misure di accuratezza: una
performance può essere molto accurata perché poco complessa o viceversa. Quindi
accuratezza e complessità sono da considerare insieme.
Fluenza: misura la facilità di accesso alla competenza linguistica. Può essere misurata con
vari indicatori come la frequenza e posizione delle pause, velocità del discorso, frequenza di
segnali di esitazione, di ripetizioni, di autocorrezioni). Mentre le prime 2 misure sono indicatori
indiretti della competenza che si riflette nella performance, la fluenza è anch’essa indicatore
indiretto ma della capacità di gestione delle conoscenze in un comportamento linguistico
concreto.
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Dell Hymes si oppone alla definizione di competenza linguistica di Chomsky, in quanto essa
non evidenzia l’esistenza di conoscenze di tipo socioculturali necessarie, accanto a quelle
linguistiche, ad usare appropriatamente la lingua + l’esistenza di competenze legate all’agire
linguistico, cioè al servirsi delle proprie conoscenze legate ad una lingua. Nel 1972 Hymes
propone una definizione di competenza comunicativa, intesa a superare la visione
chomskiana; essa dipende sia dalle conoscenze (knowledge), eventualmente implicite, che
un parlante ha su una lingua, sia dalla sua abilità (ability) di servirsi in modo appropriato,
efficiente ed efficace di tali conoscenze nella comunicazione.
Canale, nel 1983, include nella competenza comunicativa, una competenza grammaticale
(relativa al sistema di regole morfosintattiche e lessicali) + una competenza sociolinguistica
( capacità di interpretare e valutare gli enunciati sulla base della loro appropriatezza nei
diversi contesti sociolinguistici) + una competenza discorsiva (capacità di organizzare e
interpretare testi) + una competenza strategica (capacità di gestire le risorse comunicative,
verbali e non verbali, per gli scopi dello scambio comunicativo).
Lehmann, nel 2007, parla di competenza linguistica che include sia conoscenze che abilità e
distingue una competenza nel sistema linguistico + una pragmatica + una variazionale.
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(NO.
Può essere Si può essere più o meno proficient in una
: certa abilità
possedut
TO SUM UP
1. Per Chom
lOMoAR cPSD| 2809100
1. Chomsky = Visione generativista → gli esseri umani hanno tutti la stessa competenza
linguistica, intesa come il possesso di una facoltà di linguaggio che guida e dirige
l'apprendimento della lingua nativa; di conseguenza, tutti i parlanti nativi di una lingua
hanno, in questa prospettiva, la stessa competenza linguistica. Non si sa se qesta
stessa competenza è condivisa anche dai parlanti di una stessa L2, il dibattito è
aperto.
2. Visione non generativista = i parlanti di una lingua, sia nativi che non, non hanno tutti
la stessa competenza linguistica, neppure se intesa nel senso ristretto della
competenza grammaticale, in quanto la grammatica, la sicurezza nel possesso delle
strutture sintattiche e l’ampiezza del lessico posseduto possono variare da parlante a
parlante.
3. La competenza dei parlanti nativi e non nativi di una lingua, intesa come insieme di
conoscenze morfosintattiche e lessicali (ciò che alcuni studiosi tra cui Hymes
chiamano competenza comunicativa) e abilità, non è uniforme.
Competenza pragmatica
Leech (1983) distingue tra competenza pragmalinguistica (conoscenze delle forme
linguistiche in relazione alle manifestazioni dell’agire linguistico in una cultura) e competenza
sociopragmatica (conoscenza delle norme sociali che regolano l’agire linguistico in quella
cultura).
Osservazioni tratte dallo studio di Elena Nuzzo del 2012:
lo studio osserva la differenza tra il comportamento linguistico di due parlanti native di italiano
e quello di sei ragazze parlanti italiano come L2. Sono emerse due differenze: una
qualitativa che riguarda la densità informativa dei turni di dialogo e l’altra quantitativa
riguardante la capacità di usare varie strutture linguistiche per attenuare la richiesta in un
dialogo. Nella prima è emerso che le parlanti native, diversamente da quelle non native,
distribuiscono la richiesta su più turni e fanno precedere alla richiesta (ex. vorrei sapere il
prezzo) una pre-richiesta (ex. Vorrei sapere alcune informazioni). Nella seconda si nota che
le parlanti di italiano come L2 attenuano le richieste molto meno delle parlanti native.
DeKeyser pensa che una competenza esplicita possa essere proceduralizzata attraverso
l’esercizio ripetuto; (NB. egli assimila la memoria dichiarativa e procedurale rispettivamente
all'apprendimento deduttivo e induttivo).
Schimdt nel 1990 sviluppa l’ipotesi del noticing, secondo la quale l’attenzione ad una struttura
è necessaria per scatenare un processo di acquisizione. L’apprendimento non può essere del
tutto subliminale; l’attenzione è necessaria all'apprendimento e richiede consapevolezza.