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Riassunto del libro

“Psicologia del patologico - Una prospettiva fenomenologico-dinamica",


di Giovanni Stanghellini e Mario Rossi Monti.

1) Professione psicologo clinico

• Che cos’è la clinica?


Il termine “clinica” rimanda direttamente al letto del malato, alla nozione di disturbo,
all’individualità del soggetto che soffre, alla diagnosi, al tentativo di capire a quale evoluzione
(prognosi) e a quale destino (esito) andrà incontro, nonché al tentativo di individuare una cura
(terapia) del disturbo. Il termine “clinica” deriva dal greco χλινω, che significa piegarsi,
chinarsi, e testimonia il fatto che la clinica nasce nel momento in cui il medico rivolge
l’attenzione verso la situazione specifica di un essere umano che mostra segni di malattia.
L’introduzione di questo termine è avvenuta ad opera di Lightner Witmer, che lo ha mutuato
dalle scienze mediche. La rappresentazione della clinica come “chinarsi sul letto del malato” va
intesa però in senso metaforico; lo psicologo clinico, infatti, si troverà abbastanza raramente
“al letto del malato” in senso concreto. La psicologia clinica rivolge la sua attenzione a
fenomeni caratterizzati dall’esistenza di una sofferenza psicologica che può arrivare o meno a
configurarsi come un vero e proprio disturbo psichico. Dunque quando si parla di clinica si fa
riferimento alla creazione di una cornice, quella del colloquio clinico, nella quale disporsi a
conoscere come la persona che abbiamo di fronte vive ciò che sta vivendo, incoraggiandola a
osservare dentro di sé ciò che le sta accadendo.
La metafora del letto del malato trasmette l’idea che l’attività psicologico-clinica è
caratterizzata da un’attenzione specifica all’individualità e alla sofferenza di ogni persona.
L’approccio dello psicologo clinico può essere definito “idiografico”; esso considera, volta per
volta, il singolo caso clinico cercando di approfondirne la conoscenza al massimo grado,
nell’intento di ricavare, dall’approfondimento sul singolo caso, regole e concetti generali che
possano servire a trattare altri casi simili. Allo stesso tempo però tale approfondimento del
caso singolo deve avvenire sulla base di conoscenze generali che siano valide per ampie
popolazioni cliniche.
La patologia, soprattutto in ambito psicologico, rappresenta spesso l’esasperazione di fenomeni
che è possibile cogliere su scala ridotta anche nell’esperienza di vita normale (non patologica).
Così anche lo studio delle vicende normali della vita e dello sviluppo può dare indicazioni utili
sulle modalità con le quali gli esseri umani affrontano gli eventi difficili della vita. Anche la
ricerca empirica fornisce un’importante contributo al patrimonio di conoscenze della psicologia
clinica, come nel caso delle ricerche sulla frequenza con cui particolari eventi di vita correlano
con lo sviluppo di alcuni disturbi psichici, o sull’associazione tra disturbi di personalità e
patologie di Asse I, tra vicende traumatiche infantili e determinati disturbi di personalità, o
ancora sui fattori terapeutici in psicoterapia o sull’efficacia delle diverse forme di psicoterapia.
Dunque in psicologia il termine “clinica” rimanda alla presa in carico di difficoltà, crisi, conflitti
che causano sofferenza se non veri e propri disturbi di rilevanza psicopatologica. Essa,
pertanto, si occupa della sofferenza psicologica in senso lato e di quella parte della sofferenza
psicologica che assume la forma dei disturbi mentali codificati dall’attuale nosografia del DSM-
IV-TR o nell’ICD-10. In quest’ultimo caso, il “chinarsi” del terapeuta si traduce nella

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formulazione di una diagnosi. La diagnosi in psicologia clinica non coincide con la diagnosi in
senso medico; essa deve sicuramente comprendere la diagnosi psichiatrica, ma non può
limitarsi ad essa, bensì deve prendere in considerazione una serie di altri elementi che non
riguardano più il disturbo ma le caratteristiche della persona nella quale il disturbo si presenta.
Per tale ragione la diagnosi in psicologia clinica si configura come un processo di valutazione
globale del disturbo, della persona e del rapporto tra persona e disturbo; tale processo è
denominato assessment.

• La diagnosi in psicologia clinica


Uno dei principali compiti dello psicologo clinico è quello di fare diagnosi. Essa consiste
nell’applicare al singolo soggetto che si ha di fronte un insieme più o meno ampio di
conoscenze ricavate dall’esperienza clinica propria o dei colleghi e dalla sistematizzazione dei
dati ricavati dalla ricerca. La diagnosi implica necessariamente il riferimento ad un sistema di
classificazione condiviso. A partire dalla sua terza edizione, il DSM è stato lo strumento
diagnostico che ha reso possibile usufruire di criteri diagnostici semplificati ma condivisi. Oltre
al DSM esistono altri sistemi diagnostici, tra cui l’ICD-10, frutto dell’attività di coordinamento
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità; mentre il DSM è espressione della cultura
psichiatrica americana, l’ICD è il prodotto di un’impostazione che tiene conto di culture molto
diverse tra loro.
La definizione diagnostica formulata dal clinico deve rappresentare il mezzo attraverso il quale
delle informazioni possono essere comunicate in maniera sintetica; tuttavia mentre la diagnosi
informa su alcuni aspetti generali e “oggettivi”, l’incontro clinico permette di riempire lo
schema generale fornito dalla diagnosi con i contenuti specifici di quella persona, e quindi con
dati altamente soggettivi. Soltanto integrando dati oggettivi e soggettivi è possibile farsi
un’idea del paziente e delle sue specifiche difficoltà, e quindi formulare un progetto terapeutico
corretto e praticabile.
Una delle importanti differenze tra diagnosi in psicologia clinica e diagnosi in ambito medico
consiste nel fatto che, proprio per questa elevata componente di soggettività insita nel
processo diagnostico, la diagnosi in psicologia clinica coinvolge intensamente il clinico stesso.
Inoltre la diagnosi in ambito medico è poco influenzata dai cambiamenti del contesto
osservativo, a differenza della diagnosi in psicologia clinica che ne è fortemente condizionata;
infatti i fenomeni di cui si occupa la psicologia clinica possono essere osservati soltanto
all’interno di una relazione, quella tra il clinico e il paziente, in cui i due poli utilizzano se stessi
e l’altro come vie di comunicazione e di conoscenza di quanto accade nella mente del paziente
stesso. Lo psicologo clinico è parte integrante di tale relazione, non è soltanto un osservatore
neutro, non può rimanere indifferente alla sofferenza altrui mantenendo un atteggiamento
freddo e distaccato; egli è parte della relazione clinica in quanto usa se stesso e la sua persona
come strumento di conoscenza dell’altro. Per questo motivo l’atteggiamento dello psicologo
clinico influenza fortemente le informazioni che egli riuscirà a raccogliere; l’atteggiamento di
fondo del clinico, infatti, può essere paragonato ad una rete da pesca: a seconda della
struttura della rete, a maglie larghe o strette, sarà possibile pescare pesci (fenomeni clinici)
molto diversi tra loro (es.: un atteggiamento molto attivo, con domande chiuse, tale che il
colloquio somigli ad un interrogatorio, impedirà di cogliere fenomeni clinici di grande rilevanza
in un paziente paranoico, il quale, sentendosi frugato o inquisito, tenderà a sottrarsi alle
domande e a dare risposte generiche o superficiali).

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Entrare in contatto con problematiche di carattere psicologico-clinico ha effetti rilevanti sul


clinico stesso; nel momento in cui uno psicologo decide di dedicarsi alla clinica deve mettere da
parte l’atteggiamento ingenuo con cui solitamente le persone si approcciano alle vicende
abnormi o francamente patologiche. La capacità di comprendere ciò che accade nella mente
dell’altro presuppone una certa familiarità con ciò che accade nella propria mente a livello di
pensieri, affetti e fantasie. La follia dell’altro ci costringe a prendere atto del fatto che essa è
una delle possibilità umane, e quindi anche una nostra possibilità. Ogni volta che assistiamo al
sovvertimento della mente altrui, allo sconvolgimento emotivo che caratterizza le gravi forme
di patologia mentale in una persona che è simile a noi in quanto alle caratteristiche di età,
professionalità, e così via, avvertiamo dentro di noi la precarietà di ciò che chiamiamo salute
mentale: l’equilibrio che giorno dopo giorno viviamo come solido si rivela precario. Ogni
oggetto che fa parte della nostra vita potrebbe improvvisamente diventare estraneo e
inquietante e diventare la fonte dalla quale scaturisce un’esperienza folle. La sensazione di
solidità e continuità che è alla base della nostra vita può andare incontro ad una crisi anche
grave, come accade negli episodi di tipo schizofrenico in cui le persone delirano sulla loro
stessa identità, cioè su quanto di più certo ognuno di noi può contare. Acquisire la capacità di
essere un buon clinico significa riuscire a mantenere o ritrovare una stabilità nella propria
identità anche di fronte agli sconvolgimenti a cui le manifestazioni della follia espongono. È
necessario sapersi identificare con chi soffre ma anche saperne prendere le distanze.
Uno psicopatologo italiano, Danilo Cargnello, ha messo in luce l’esigenza del clinico di muoversi
tra due posizioni: l’avere-qualcosa-di-fronte e l’essere-con-qualcuno; durante un colloquio, in
alcuni momenti il clinico stabilisce una relazione con il paziente come persona,
indipendentemente dalle caratteristiche del suo disturbo, mentre in altri momenti si concentra
sui sintomi, sui fenomeni patologici che il paziente presenta, e tenta di ricondurre tali fenomeni
ad un disturbo descritto dalla nosografia. Quello che è importante, secondo Cargnello, è che il
clinico non separi questi due aspetti e li consideri invece come due momenti complementari
dello stesso processo.

• Che cos’è la psicologia clinica?


La psicologia clinica è una disciplina che si occupa dell’analisi dei problemi della vita interiore.
Essa è una disciplina applicativa che prende in considerazione singoli casi, che fa riferimento
ad un metodo specifico (il metodo clinico) e che contempla un insieme eterogeneo di tecniche.
Le competenze della psicologia clinica riguardano quattro ambiti: 1) diagnosi psicologico-clinica
e assessment; 2) interventi terapeutici di natura psicologica; 3) metodologia della ricerca in
psicologia clinica, ricerca sui fattori terapeutici e sulla valutazione dell’efficacia; 4)
prevenzione, consulenza e formazione. Analizzando gli indici dei manuali di psicologia clinica è
possibile identificare diverse prospettive che coesistono all’interno di questa disciplina: 1) Una
prima area è rappresentata dalla definizione della psicologia clinica come disciplina e del suo
ambito applicativo, con particolare attenzione ai rapporti che essa intrattiene con la
psicoanalisi e con la psichiatria; in quest’ambito rientra anche la discussione relativa alle
caratteristiche del metodo clinico; 2) Una seconda area è costituita dalla diagnosi psicologico-
clinica, e comprende la diagnosi secondo il modello medico, la valutazione clinica o
assessment, il colloquio clinico, la psicodiagnostica strumentale e la psicometria; 3) Una terza
area è rappresentata dalla neuropsicologia e dall’esame neuropsicologico; 4) Una quarta area è
costituita dallo studio dei disturbi mentali, e comprende quindi: classificazione e diagnosi,

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descrizione e trattamento dei vari disturbi mentali classificati nel DSM; accanto ai disturbi
mentali, generalmente in questi manuali vengono presi in considerazione altri ambiti
problematici: i disturbi psicologici nell’arco di vita, la psicopatologia del bambino,
dell’adolescente e dell’anziano, la psicopatologia familiare, le teorie della personalità, e così
via; 5) Una quinta area comprende la psicoterapia, sia in generale che nelle sue varie
declinazioni; 6) Una sesta area è rappresentata da una miscellanea che comprende temi
specifici come psicosomatica, psicologia della salute, interventi sull’ambiente e sulla comunità,
psicologia della riabilitazione, ecc..
I manuali generalmente prendono in considerazione il versante applicativo della disciplina, ma
la psicologia clinica, oltre che una professione, è anche una disciplina scientifica, sebbene il
versante della ricerca sia meno presente nei manuali tradizionali. Nell’analisi e nella
discussione del singolo caso, comunque, la dimensione della ricerca clinica e quella della
professione clinica devono trovare un’integrazione, a vantaggio del trattamento del paziente.
A chi lo psicologo clinico applica “competenze, metodi di ricerca, strumenti di
indagine, tecniche di intervento”? Generalmente l’intervento in psicologia clinica si rivolge
al singolo individuo, il cosiddetto “caso clinico”; questo individuo sta vivendo una crisi
fisiologica legata alla normale evoluzione vitale, oppure presenta una sofferenza mentale che
ha assunto una propria struttura tanto da configurarsi come un vero e proprio disturbo nei
termini di un sistema diagnostico. Altre volte, invece, l’intervento in psicologia clinica si rivolge
a: a) coppie che vivono una condizione di sofferenza della relazione, uno stato conflittuale o
una vera e propria deriva della relazione in senso patologico; si va da crisi di coppia più o
meno fisiologiche a manifestazioni di sofferenza della coppia legate all’emersione di una
patologia; b) famiglie all’interno delle quali si è verificata una crisi, o vi è una sofferenza che
può avere molteplici cause, tra cui la presenza di una grave patologia (mentale o fisica) in uno
dei suoi membri; c) gruppi di pazienti, gruppi di familiari di pazienti, gruppi di operatori di
diverso tipo, come ad esempio personale che lavora in reparti in cui il carico di lavoro
psicologico è impegnativo e che ha bisogno di rielaborare le forti emozioni vissute per
contenere gli effetti di burn-out, o personale che lavora a stretto contatto con patologie
psichiatriche gravi o croniche, personale che lavora in residenze per anziani, e così via.
Dove? Uno psicologo clinico può prestare la propria opera in diversi contesti: (a) Egli
può lavorare in privato, nel suo studio o ambulatorio, a contatto con pazienti che hanno deciso
di rivolgersi direttamente a lui; in questo senso la pratica privata pre-seleziona i pazienti, sulla
base della motivazione alla cura o dell’esplicita richiesta di aiuto. Per tale motivo, in questo
contesto lo psicologo clinico incontrerà situazioni cliniche di minore gravità le quali, dopo una
fase di assessment iniziale, possono essere avviate verso una psicoterapia formalizzata. (b) Lo
psicologo clinico può lavorare come dipendente del Servizio Sanitario Nazionale, nell’ambito dei
servizi pubblici, svolgendo un’ampia gamma di funzioni cliniche: valutazioni diagnostiche,
certificazione, prevenzione, cura. Questo tipo di collocazione generalmente implica un lavoro
integrato con altri servizi, operatori o istituzioni (es.: medici, assistenti sociali, comunità,
scuole, ecc.). Lavorare in un setting pubblico permette al clinico di venire in contatto con le
patologie psichiatriche più gravi, e quindi con le terribili conseguenze che queste patologie
hanno sull’affettività, sul funzionamento sociale e sul destino del paziente e della sua famiglia.
(c) Lo psicologo clinico può lavorare in case famiglia, centri diurni, comunità o comunque in
strutture deputate alla presa in carico e al trattamento di patologie gravi e a lungo termine. Il
lavoro in tali strutture intermedie metterà lo psicologo clinico a confronto con dei gravi

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problemi psicopatologici, spesso cronici, nonché con le importanti e complesse dinamiche di


gruppo che si creano in questi contesti. (d) Lo psicologo clinico può occuparsi di condotte
devianti che si configurano come reato e quindi lavorare come perito (es.: come Consulente
Tecnico di Ufficio di un magistrato o come perito di parte); oppure può prestare servizio
all’interno di un carcere. (e) Lo psicologo clinico può lavorare in ambito scolastico, preventivo,
o in ambito universitario, come ricercatore o docente o come clinico che effettua un servizio di
consulenza psicologica per studenti. In questi contesti lo psicologo clinico svolge funzioni di
prevenzione e diagnosi precoce, intervenendo nel rapporto tra bambini, genitori e insegnanti e
contribuendo ad identificare e risolvere le dinamiche che potrebbero causare ulteriori problemi.
Il “dove” dell’intervento in psicologia clinica non riguarda soltanto la sede nella quale lo
psicologo esercita la sua professione, ma anche le caratteristiche dello spazio nel quale egli
opera, ovvero le caratteristiche materiali del setting. Bisogna prestare particolare attenzione
alla strutturazione e al mantenimento di una serie di coordinate spaziali, temporali e
organizzative; tali coordinate devono mantenersi il più possibile costanti in modo da
rappresentare uno sfondo stabile rispetto al quale cogliere le modalità di presentazione del
paziente, il modo di mettersi in relazione, di formulare una richiesta di aiuto, e così via. Per
tale ragione vanno rifiutate consultazioni informali. Le caratteristiche materiali del setting nel
caso dello psicologo clinico si riferiscono a pochi elementi: una stanza “normale” (non uno
sgabuzzino privo di finestre o occupato da strumentari medici, e così via), con una finestra,
una scrivania, tre poltrone, una porta ben funzionante, un telefono disattivabile. Questi
elementi da un lato creano la sede idonea ad un lavoro che ha per oggetto l’intimità delle
persone, dall’altro definiscono uno spazio psicologico in cui vengono valorizzati l’ascolto e il
contenimento della relazione.
A che cosa (qual è l’oggetto della psicologia clinica)? L’oggetto della psicologia
clinica consiste nella sofferenza psicologica e nella patologia mentale, nelle sue varie forme
(disadattamento, disturbi della condotta, esperienze psicopatologiche e disturbi mentali), e
negli stati di sofferenza para-fisiologica, in manifestazioni critiche che emergono in particolari
circostanze di vita e che non si configurano come veri e propri disturbi mentali. I problemi dei
pazienti che lo psicologo clinico deve affrontare più spesso sono: a) problemi di carattere
emozionale (paure e fobie, ansia generalizzata, ossessioni e compulsioni, depressione, rabbia,
colpa, ecc.); b) problemi di dipendenza (alcolismo, tossicodipendenza, disturbi alimentari,
gioco d’azzardo, dipendenza da nicotina, ecc.); c) problemi di carattere psico-sessuale
(disfunzioni sessuali, problemi legati all’orientamento sessuale, problemi conseguenti ad abuso
sessuale, ecc.); d) problemi di carattere sociale e interpersonale (solitudine, timidezza,
isolamento sociale, comportamenti aggressivi e antisociali, conflittualità coniugale, ecc.); e)
problemi di carattere psicosomatico e medico (disturbi psicosomatici classici, disturbi
cardiovascolari, malattie mediche croniche, ecc.).
Perché (a quale fine)? La motivazione all’intervento da parte del paziente nasce
sempre dalla percezione soggettiva di una sofferenza che può essere più o meno strutturata e
andare dal disagio di un adolescente che non riesce a risolvere alcune difficoltà legate alla fase
di transizione che sta vivendo, alle situazioni in cui la sofferenza assume la forma di una crisi
acuta, alle situazioni in cui la sofferenza si configura come un vero e proprio disturbo
psichiatrico. La richiesta di intervento può provenire dal diretto interessato (utente) o da una
persona (committente) vicina al soggetto sofferente (genitore, parente, amico, collega, vicino
di casa, medico di base, ecc.) che si fa portatrice di una richiesta di aiuto della quale, a volte, il

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soggetto non è neanche consapevole. Questa eventualità è più frequente nell’ambito delle
patologie gravi di tipo psicotico nelle quali il soggetto vive chiuso dentro un modo
psicopatologico e ha chiuso i rapporti con la comunità dei sani; in questi casi è preferibile
rivolgersi ad una struttura pubblica, dove il gruppo di lavoro può mettere in atto varie modalità
di avvicinamento al paziente.
Per quanto riguarda le motivazioni del terapeuta, l’obiettivo a cui egli mira è quello di alleviare
la sofferenza umana e di migliorare la qualità della vita. Nello specifico, l’intervento clinico
verso situazioni di crisi para-fisiologica avrà come scopo la comprensione dei motivi alla base
della crisi e l’esplorazione della possibilità di ri-negoziare un nuovo equilibrio. L’intervento
clinico indirizzato a situazioni di patologia psichiatrica avrà invece lo scopo di ridurre la
sofferenza soggettiva e di esplorare possibilità adattive migliori di quelle realizzate dal sintomo
patologico.
Come? Il clinico lavora generalmente a stretto contatto con il singolo paziente, applica
ad esso le competenze, conoscenze ed esperienze che ha acquisito nel suo iter formativo. Tali
conoscenze derivano non soltanto dal patrimonio teorico-clinico che la psicologia clinica come
disciplina ha sviluppato nel corso del tempo, ma anche dall’integrazione di queste conoscenze
con l’esperienza maturata sul campo. Via via che il clinico si trova a fare diretta esperienza
delle situazioni che ha incontrato sui libri, andrà ristrutturando le sue conoscenze e la sua
pratica, recuperando i contenuti teorici da un punto di vista diverso da quello con il quale si
approcciava ad essi da studente. Ogni caso clinico rappresenta un’occasione privilegiata per
rivedere il proprio patrimonio di conoscenze nonché per ulteriori approfondimenti conoscitivi.
Nella professione dello psicologo clinico le teorie e i modelli di riferimento svolgono un ruolo
molto importante. Al termine della sua formazione universitaria, e quindi in una fase ancora
iniziale per la sua formazione professionale, il clinico deve compiere una scelta che
condizionerà la sua intera carriera: deve scegliere una particolare teoria di riferimento e quindi
una particolare scuola di specializzazione post-laurea. Tale scelta viene spesso fatta senza
poter ancora disporre di una conoscenza sufficientemente vasta del campo, soprattutto del
versante empirico-operativo. La scelta dell’indirizzo teorico condizionerà pesantemente il modo
di fare clinica dello psicologo; è auspicabile che gli non ceda alla tentazione di “murarsi” dentro
il proprio indirizzo teorico-conoscitivo, sottraendosi così alla riflessione critica e al confronto
con altre prospettive.

• Il tirocinio clinico: rischi e possibilità evolutive


Nella formazione dello psicologo clinico il tirocinio svolge un ruolo cruciale, in quanto
rappresenta il primo momento nel quale tentare l’integrazione tra teoria e pratica. Dopo aver
studiato a lungo le forme in cui la psicopatologia si esprime, trovarsi a contatto o immersi nelle
attività cliniche cattura l’attenzione e le emozioni del tirocinante e lo introduce ad
un’esperienza formativa totalmente nuova. L’incontro con la psicopatologia fa sì che lo
psicologo clinico entri in contatto con modalità diverse di vivere il mondo, il Sé e le proprie
esperienze, modalità a cui non è abituato. È necessario che il clinico arrivi a questo incontro
con una solida preparazione teorica, ma sono necessarie anche altre qualità basate
sull’esperienza; inoltre egli deve mantenere un atteggiamento che Antonello Correale ha
paragonato all’essere convalescenti: non deve essere chiuso nella propria sanità, ma neanche
così malato da cadere nella malattia del paziente. Un buon clinico non può mantenersi freddo,
distaccato, indifferente, ma non può neanche fondersi con la persona e con l’esperienza del

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paziente; egli deve trovare il modo di regolare la propria distanza dal paziente. Tale
regolazione è influenzata però da una serie di variabili, alcune delle quali sono strettamente
personali. Ammesso che il clinico abbia avuto una buona formazione teorica, tale formazione
deve andare incontro ad un processo di lenta e progressiva deformazione, processo che si
verifica quanto egli entra a contatto con i pazienti reali. Questa deformazione è strettamente
legata alle caratteristiche di personalità del clinico, per tale ragione non bisogna considerare il
tirocinio soltanto come un’esperienza di formazione professionale, ma anche un’occasione di
formazione personale.
Il clima culturale dominante nella clinica psichiatrica, caratterizzato dall’egemonia del DSM,
non facilita il primo contatto con la clinica: le descrizioni dall’esterno, utili in ambito di
oggettivazione e di ricerca, sono solo parzialmente utili nell’esperienza diretta con il paziente:
ad esempio, il clinico può sapere tutto dei criteri DSM per la diagnosi di una certa patologia,
ma non essere in grado di mettersi in relazione con il paziente. La conoscenza dei criteri
diagnostici è necessaria ma non sufficiente; è altrettanto fondamentale acquisire delle
conoscenze che mettano il clinico in grado di rappresentarsi il mondo dell’altro, le
caratteristiche dell’atmosfera psicologica e relazionale nella quale l’altro vive.
Il processo di formazione-deformazione, come già detto, inizia con il tirocinio. Il suo punto di
arrivo è costituito dallo stile personale che ogni clinico sviluppa nel suo lavoro, nel corso di
molti anni, e rappresenta il prodotto di un progressivo e duraturo processo di assimilazione-
accomodamento tra le caratteristiche di personalità del clinico e gli strumenti di carattere
teorico.
L’esperienza di contatto con la clinica che avviene attraverso il tirocinio permette allo psicologo
di capire se si sente di dedicare alla clinica la sua vita professionale o se invece preferisce
operare in settori in cui le variabili in gioco sono note e controllabili. Nella clinica le variabili
controllabili sono difficili da trovare, e l’enorme quantità di variabili (personali, relazionali,
storiche, culturali, sociali) che entrano in gioco travolge gli schemi ordinati nei quali, da
studenti, si organizza il sapere.
Il tirocinio rappresenta l’occasione privilegiata per cominciare a fare esperienza di due aspetti
cruciali della clinica: a) il coinvolgimento personale nel contatto con la patologia mentale; b) il
coinvolgimento in un gruppo di lavoro multi professionale che si occupa di patologia mentale. Il
contatto con la clinica è anche contatto con se stessi; emerge la paura che la follia dell’altro sia
anche propria, ovvero che la follia sia “contagiosa”: lo stato mentale dell’altro si trasmette
anche a noi, nella misura in cui ci impegniamo nella relazione con lui. Nella follia vediamo in
azione negli altri forze di cui non conoscevamo neanche l’esistenza; una volta che tali forze si
sono manifestate negli altri, possiamo pensarle come qualcosa che non è estraneo nemmeno a
noi. Queste forze hanno a che vedere con l’indebolimento del confine che separa la realtà dal
mondo della fantasia, fatto di sogni, deliri, idee ossessive, e così via. Non è raro che i
tirocinanti siano messi in crisi o spaventati dall’esperienza che fanno del tirocinio. Quest’ultimo,
infatti, costituisce un’esperienza che non si può fare senza l’adeguata “attrezzatura” né
tantomeno da soli; a tal proposito, i tutor hanno il ruolo di integrare i vari aspetti
dell’esperienza formando un insieme coerente e strutturato, in modo da favorire la formazione.
Senza questa cornice formativa il tirocinio può diventare una vera e propria esperienza
traumatica. Il tirocinante non deve farsi carico del paziente, ma viene comunque a contatto
con la sofferenza mentale, con situazioni di gruppo, con i pazienti, con i loro familiari, e con le
angosce e le difficoltà dei curanti. Egli inoltre è ad alto livello di esposizione; giovane, aperto,

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curioso, sensibile, spesso viene “catturato” dalla clinica e fatto oggetto di interesse da parte dei
pazienti, soprattutto se coetanei. Il tutoraggio o la supervisione sono quindi fondamentali in
quanto fanno sì che la deformazione si realizzi senza traumi e senza rischi.

2) Psicologia clinica e dintorni


• Psicologia clinica e discipline di confine
L’area di applicazione della psicologia clinica ha una caratteristica particolare, ovvero non è
patrimonio esclusivo della psicologia clinica. Infatti della stessa area si occupano discipline
diverse, la cui specificità si basa sul metodo utilizzato, sulle competenze adottate e sugli
obiettivi. Tra coloro che esercitano la professione di psicologo clinico si possono trovare
persone che lavorano in ambiti molto diversi tra loro; dunque ogni psicologo clinico completa la
propria formazione ritagliandosi un’area specifica di competenza e di intervento.

• Psicologia clinica e psicologia generale


Il rapporto tra psicologia clinica e psicologia generale è piuttosto controverso. Teoricamente la
psicologia clinica, come pratica di intervento in ambito clinico, dovrebbe fondarsi su solide
conoscenze, modelli e teorie formulate dalla psicologia generale: in altre parole, la psicologia
clinica dovrebbe rappresentare il versante applicativo della psicologia generale. In realtà però
gran parte delle conoscenze cliniche di cui disponiamo è stata sviluppata all’interno della
pratica clinica, senza basarsi sugli studi di psicologia generale. La pratica clinica porta alla
formulazione di una teoria o alla sua messa in discussione di fronte a nuovi fatti clinici, e allo
stesso tempo le modificazioni della teoria influenzano l’approccio clinico-osservativo. Dunque
teoria e clinica si potenziano reciprocamente.
Una tradizione di ricerca più recente è rappresentata dal cognitivismo. Oggi quasi tutto il
campo della psicologia generale e clinica è permeato da concetti che appartengono alla
tradizione del cognitivismo, e inoltre da alcuni anni la psicoterapia cognitivo-comportamentale
è diventata la forma di psicoterapia maggiormente diffusa nel mondo. Nell’ambito del
cognitivismo, il rapporto tra psicologia clinica e psicologia generale è un rapporto a due vie: da
un lato i disturbi psicopatologici vengono studiati andando alla ricerca di una compromissione
di una qualche funzione cognitiva, il cui funzionamento normale è stato studiato dalla
psicologia generale; dall’altro lato, i modelli elaborati riguardo alla compromissione di una
determinata funzione cognitiva in campo psicopatologico permettono di modificare o integrare i
modelli elaborati dalla psicologia generale riguardo al funzionamento normale di quella
funzione. Quindi tra psicologia clinica e psicologia generale c’è un rapporto di mutuo scambio.
Anche se il rapporto tra psicologia clinica e psicologia generale è controverso, è invece
abbastanza evidente che queste due discipline hanno un diverso oggetto di studio: la
psicologia generale consiste nello studio sistematico dei principi generali e delle leggi che
regolano la vita mentale in genere, studio che viene condotto indipendentemente dall’analisi
delle caratteristiche specifiche del singolo individuo; la psicologia clinica, al contrario, non si
occupa degli aspetti generali del funzionamento psichico, ma di singoli soggetti che presentano
specifiche situazioni di crisi, sofferenza o disturbo.

• Psicologia clinica e psicologia differenziale


L’area di applicazione della psicologia differenziale è costituita dalla studio delle differenze
individuali. La psicologia differenziale, infatti, indaga le differenze tra gli individui (relative a

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diversi aspetti, come l’intelligenza, la personalità, e così via) attraverso strumenti quantitativi,
come i test psicometrici. Dunque essa può essere considerata una delle componenti storiche
della grande famiglia della psicologia clinica, cioè un sottoinsieme della psicologia clinica
specializzato in uno specifico settore di ricerca e di applicazione clinica, in stretto rapporto con
un altro sottoinsieme della psicologia clinica, ovvero la psicometria. Recentemente è emerso
un nuovo modello basato sul concetto di “clinimetria”: mentre la psicometria è un’area della
psicologia interessata allo sviluppo di metodi il più possibile accurati per la misurazione delle
variabili psicologiche, la clinimetria si sviluppa nell’area della clinica allo scopo di guidare e
spronare lo psicologo ad esprimere i propri giudizi nella valutazione dei fenomeni clinici a livello
diagnostico, prognostico e terapeutico, secondo una coerenza clinica oltre che statistica.
• Psicologia clinica e psicologia medica
Con il termine “psicologia medica” si fa riferimento a quella parte della psicologia clinica che ha
sviluppato particolari competenze applicate alla medicina. La psicologia medica: (a) Ha
l’obiettivo di integrare la preparazione del medico e del personale sanitario con competenze di
carattere psicologico relative alla psicologia della malattia e del rapporto medico-paziente;
infatti la psicologia del malato e le modalità di reazione alla malattia non possono essere
escluse da una presa in carico complessiva della persona malata. L’intervento del medico può
essere fortemente condizionato dalle variabili psicologiche e psicopatologiche. (b) Pone al
centro del suo interesse il rapporto medico-paziente, sia a livello individuale che a livello del
gruppo familiare o del gruppo curante. In tal senso si occupa di diverse questioni, ad esempio:
i processi psicologici che si mettono in moto all’interno della famiglia di un malato; il modo in
cui la famiglia affronta la morte imminente di una persona cara; i processi psicologici che si
attivano nell’èquipe curante di fronte alla malattia o alla morte; i processi psicologici che si
attivano nei gruppi di lavoro che si occupano di situazioni cliniche particolari, ad esempio
pazienti cancerosi terminali o pazienti in rianimazione, e così via. Sin dagli anni ’70 è stato
sottolineato come questi processi psicologici possiedano una funzione difensiva nei confronti
della morte, e come spesso essi si traducano in condotte di distanziamento e di
frammentazione dell’intervento, così da ridurre al minimo l’impatto dell’angoscia sul singolo
operatore. (c) Favorisce la diffusione delle conoscenze e delle competenze psicologiche nel
personale sanitario, attraverso una funzione di educazione, guida e addestramento all’ascolto
delle implicazioni psicologiche della malattia.

• Psicologia clinica e psicologia dinamica


Il termine “dinamica” è stato introdotto in ambito psicologico-psichiatrico alla fine del 1800.
Esso aveva diversi significati: la visione dinamica si contrapponeva alla visione statica del
disturbo mentale e si fondava sull’ipotesi dell’esistenza di un’energia psichica; allo stesso
tempo “dinamico” era un sinonimo di “funzionale”, ed era quindi contrapposto a “organico”. È
però con la psicoanalisi che il termine “dinamico” si inserisce a pieno titolo nel vocabolario delle
discipline psicologico-psichiatriche. Questo termine, nella sua accezione riferita all’esistenza di
un’energia psichica, rimanda direttamente al concetto di pulsione: ogni pulsione si compone
con diverse forze, subisce delle modificazioni a causa di alcuni impedimenti e assume così il
suo significato conflittuale. Sulla base di questa formulazione freudiana, la psicoanalisi si
qualifica come concezione dinamica dei processi psichici. Dunque, dopo Freud, la storia del
termine “dinamico” tende a coincidere con la storia della psicoanalisi. Quest’ultima infatti ha
egemonizzato la psicologia dinamica, ma non è possibile affermare che la psicoanalisi coincide

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con la psicologia dinamica: il campo psicodinamico è molto più ampio di quello psicoanalitico.
La psicologia dinamica, secondo Dazzi e De Coro, consiste in “un insieme ampio e variegato di
assunti teorici e di modelli di intervento clinico, che risultano solo in minima parte
sovrapponibili o convergenti tra loro”.
La psicologia dinamica si configura quindi come una particolare psicologia clinica che, a partire
dalla “dinamica” dei fenomeni psichici, interviene su di essi in un processo terapeutico mediato
dalla relazione. Dal punto di vista della definizione degli insegnamenti nei Corsi di Laurea in
Psicologia, la psicologia dinamica comprende le competenze scientifico-disciplinari che
considerano da un punto di vista psicodinamico e psicogenetico le rappresentazioni del Sé, i
processi intrapsichici e le relazioni interpersonali; essa comprende anche le competenze
relative alle applicazioni di queste conoscenze all’analisi e al trattamento del disagio psichico e
delle psicopatologie. Così intesa, la psicologia dinamica si configura come un ambito,
particolarmente esteso e rilevante, della grande area della psicologia clinica.
La psicologia dinamica ha sempre influenzato la psicopatologia, cioè la disciplina che si propone
di comprendere il senso delle esperienze, dei comportamenti e delle espressioni umane
abnormi. La psicopatologia dinamica è caratterizzata da modelli “dialettici” secondo i quali
sintomi, sindromi e decorsi psicopatologici hanno origine dall’interazione tra due componenti:
vulnerabilità e persona. I sintomi non si presentano sin dall’inizio come tali, ma sono il
prodotto di un percorso psicopatologico che conduce ai quadri conclamati della clinica.
Alcuni modelli dialettici in psicopatologia hanno un’ispirazione fenomenologica, e non derivano
dalla tradizione psicoanalitica. Essi sono alla base della psicopatologia del patologico
(Minkowski) [vedi fine paragrafo successivo].

• Psicologia clinica e psichiatria


Il rapporto tra psicologia clinica e psichiatria è particolarmente ambiguo perché i confini tra
queste due discipline sono diventati sempre meno netti. Una distinzione semplice si basa su un
criterio pratico: mentre la psicologia clinica è una specialità psicologica alla quale si accede con
la laurea in Psicologia, la psichiatria è una specialità medica alla quale si accede dopo la laurea
in Medicina. Al di là di questa differenza concreta, i due campi restano in parte confusi tra loro.
Questo accade anche perché l’operare di ogni psichiatra non dovrebbe prescindere da
conoscenze di tipo psicologico, e allo stesso tempo l’operare dello psicologo clinico non può
prescindere da conoscenze di clinica psichiatrica. Ad ogni modo è necessario sfatare due
convinzioni: (a) Non è possibile fare una distinzione sulla base della differente gravità delle
forme psicopatologiche che sarebbero di competenza dell’una o dell’altra specialità. Tempo fa
si riteneva che lo psicologo clinico fosse un “piccolo psichiatra” che si occupava dei problemi
minori, dei disturbi dell’area nevrotico-psicosomatica, e che lo psichiatra si occupasse dei
problemi più gravi, appartenenti all’area delle psicosi. In realtà oggi il ruolo dello psicologo
clinico è oggi inserito a pieno titolo nell’area dei disturbi mentali, sia quelli “minori” che quelli
“maggiori”. (b) Non è possibile fare una distinzione in base all’idea che la psicologia clinica e la
psichiatria siano entità separate ma contrapposte, laddove la psicologia clinica viene
identificata con l’area clinica dei problemi che hanno una presunta eziologia psicologica,
mentre la psichiatria viene identificata con l’area dei problemi che hanno una presunta
eziologia organica. Sulla base di tale erronea distinzione si è tentato di introdurre la dicotomia
che contrappone la cura con le parole alla cura con i farmaci, non tenendo conto invece di

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come ogni parola sia in un certo senso un “farmaco” e di come ogni farmaco abbia bisogno di
essere sostenuto da una relazione fatta di parole.
La labilità dei confini tra psicologia clinica e psichiatria deriva dal fatto che queste due
discipline condividono in parte lo stesso oggetto di studio: una parte della psicologia clinica si
occupa dello stesso oggetto di studio della psichiatria (la clinica dei disturbi mentali, cioè
diagnosi, prognosi e trattamento). Tuttavia, se da un lato la psicologia clinica e la psichiatria
condividono lo stesso oggetto di studio, dall’altro si differenziano per l’ampiezza delle aree
applicative e per il metodo utilizzato.
Ampiezza del campo di applicazione. Mentre la psichiatria si occupa soltanto dei disturbi
mentali codificati dai moderni sistemi diagnostico-nosografici, la psicologia clinica ha un campo
di applicazione più ampio, in quanto si occupa di tutta una serie di evenienze che non
appartengono al novero dei disturbi mentali. Si tratta di manifestazioni problematiche
individuali o gruppali che possono avere sviluppi clinici e che sono legate a specifiche tappe del
ciclo di vita; tali fenomeni critici spesso si risolvono da soli, ma a volte possono innescare un
malessere tale da motivare una richiesta di aiuto o da diventare il punto di partenza per uno
scompenso psicopatologico. Rientrano nell’ambito delle competenze psicologico-cliniche anche i
fenomeni di carattere genericamente depressivo che non sono sufficientemente gravi da
soddisfare i criteri diagnostici del DSM, così come tutte quelle situazioni di carattere
problematico, di generico disagio o di conflitto che necessitano di essere approfondite e risolte.
Sono oggetto della psicologia clinica anche le conseguenze psicologiche di vicende a carattere
traumatico. L’intervento dello psicologo clinico può esplicarsi in campo informativo,
educazionale o preventivo, oppure nell’area delle patologie neurologiche, della loro valutazione
e riabilitazione.
Modello medico e metodo clinico. Qualsiasi prescrizione medica si rende possibile soltanto
all’interno di una relazione; ogni medico deve essere consapevole delle implicazioni
psicologiche del suo operare e degli effetti psicologici dei suoi interventi. Nonostante questo,
però, la psichiatria (in quanto scienza medica) adotta il modello medico tradizionale, il quale
postula l’esistenza di disturbi clinici codificati di cui descrive i sintomi, indaga le cause
(eziologia), studia il decorso e la prognosi, progetta la cura.
Analogamente, lo psicologo clinico non può prescindere dal sapere psichiatrico, deve conoscere
la classificazione dei disturbi mentali, deve saper fare una diagnosi psichiatrica, deve
conoscere le modalità di intervento tipiche della psichiatria e avere delle conoscenze basilari di
psicofarmacologia. Tuttavia l’approccio psicologico clinico ai disturbi mentali si basa sul metodo
clinico; questo metodo, oltre a prendere in considerazione la malattia e i suoi sintomi, dà
importanza al ruolo svolto dalla persona e si basa sul rapporto interpersonale.
La dimensione storico-narrativa occupa un posto rilevante nel metodo clinico: ciò significa che,
in psicologia clinica, non è importante soltanto delineare il quadro attuale delle condizioni del
paziente, ma anche una storia più o meno articolata del percorso interiore e di vita che ha
condotto il paziente ad assumere quella particolare posizione. La storia di cui si occupa la
psicologia clinica non è l’anamnesi medica, cioè la storia dei sintomi, della malattia, degli
episodi pregressi, ma la storia di vita della persona. In tale storia sono presenti tutti gli eventi,
tutti gli snodi problematici, le esperienze del paziente, ed è in tale storia che va rintracciata
l’origine del disturbo.
L’adozione del metodo clinico comporta anche una differente prospettiva sulla diagnosi. In
psicologia clinica non vengono presi in considerazione soltanto i sintomi, ma anche la storia

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della persona e il rapporto tra la persona e la sua malattia. Per questo in psicologia clinica al
termine diagnosi, di stampo strettamente medico, si preferisce il termine assessment. La
diagnosi psicologico-clinica richiede generalmente più tempo rispetto alla diagnosi nosografica
psichiatrica, per questo lo psicologo deve essere consapevole dell’opportunità di predisporre un
setting formalizzato nel quale avviare un vero e proprio processo diagnostico. Al termine di
questo percorso il clinico formulerà una valutazione riassuntiva e illustrerà al paziente le
possibili indicazioni terapeutiche. Attraverso il processo di assessment si tenta non soltanto di
delineare la natura del problema, ma anche di identificare punti deboli e punti forti del
problema, di individuare i fattori che hanno fatto sì che qualcosa non andasse per il verso
giusto; si tratta quindi di una valutazione che tiene conto anche delle eventuali risorse del
soggetto e non considera il disturbo soltanto sotto il profilo del deficit.
La psicologia clinica è una psicologia del patologico, nel senso che, anziché considerare la
patologia mentale come l’espressione di un disturbo biologico, introduce una dimensione
psicologica anche nel mondo della patologia. Quindi la psicologia clinica non si occupa soltanto
della patologia dello psicologico, cioè non si limita a descrivere le deviazioni dalla norma del
funzionamento psicologico normale, ma è anche una psicologia del patologico, la cui funzione è
quella di elaborare dei modelli del funzionamento mentale nella patologia che servano da guida
per il trattamento. Il versante clinico della psicologia comprende la psicologia clinica e la clinica
psicologica: mentre la psicologia clinica è l’analisi dei problemi della vita interiore effettuata
attraverso il metodo clinico, la clinica psicologica è una terapia condotta con mezzi psichici
(cioè una psicoterapia).

• Psicologia clinica e psicopatologia


Nella misura in cui la psicologia clinica si occupa di patologia mentale, essa fa della
psicopatologia.
Il termine psicopatologia può essere utilizzato secondo diverse accezioni; le più comuni sono
quattro: (1) Accezione generica: in questa accezione, il termine psicopatologia indica
genericamente l’intero campo della patologia mentale, ovvero tutte le forme cliniche in cui si
esprime la patologia mentale. In questo senso i manuali di psicologia clinica hanno per oggetto
la psicopatologia. All’interno di questa accezione, il termine è utilizzato in due diverse
declinazioni: sia come sinonimo di sintomatologia di un disturbo mentale, sia come sinonimo di
un disturbo mentale in se stesso nell’ambito di una classificazione dei disturbi psichiatrici. (2)
Accezione estetica: in questa accezione, il termine psicopatologia viene utilizzato in ambito
psichiatrico per sostituire la locuzione “psichiatria clinica” con una parola che evochi una
discendenza dai tratti più nobili, rispetto all’immagine un po’ deteriorata della psichiatria.
Dunque il termine viene utilizzato soltanto per nobilitare l’immagine della psichiatria e tale uso
può essere ritenuto eticamente scorretto. (3) Accezione epistemologica: in questa accezione, il
termine psicopatologia fa riferimento ad un’impostazione metodologica che sviluppa una
riflessione sulla natura delle operazioni conoscitive e terapeutiche attraverso le quali si
studiano i disturbi mentali; dunque, in questo senso, la psicopatologia svolge una funzione di
riflessione e di svelamento dei presupposti metodologici insiti in ogni operazione psichiatrica.
(4) Accezione specialistica: in quest’ultima accezione, il termine psicopatologia indica uno
specifico metodo di conoscenza dei fenomeni patologici della psiche; in questo senso la
psicopatologia costituisce una psicologia del patologico e non assume una visione della
patologia mentale come derivazione dalla psicologia normale. Non esiste dunque la

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psicopatologia nel senso di una psicopatologia, ma esistono molte psicopatologie, a seconda


del metodo di conoscenza adottato. Dunque in quest’accezione la psicopatologia è la scienza
che si occupa di descrivere e classificare le esperienze, i comportamenti e le espressioni umane
abnormi, e appartiene a pieno titolo all’area della psicologia clinica.
È fondamentale distinguere tra psicopatologia generale e psicopatologia clinica.
(a) Psicopatologia generale: Quando al termine psicopatologia si aggiunge la specificazione
“generale”, si fa riferimento alla tradizione di ricerca che risale all’opera di Karl Jaspers, il quale
pubblicò nel 1913 un testo intitolato “Psicopatologia generale”. In quanto medico psichiatra,
Jaspers aveva quale quadro di riferimento la sua formazione medica. Secondo quanto scritto
da Samuel Henry Dikson in “Elementi di Medicina”, la scienza medica si divide in due grandi
ambiti: patologia e terapia. La patologia, a sua volta, si distingue in generale e speciale: la
patologia speciale prende in considerazione ogni malattia nella sua specificità, mentre la
patologia generale si occupa dello studio della malattia in generale, cioè dei meccanismi
generali con i quali si producono alterazioni o danni all’organismo umano. Nell’ambito delle
discipline psicologiche, la distinzione tra psicopatologia generale e clinica assume lo stesso
significato; si potrebbe quindi dire che la patologia generale sta alla patologia speciale come la
psicopatologia generale sta alla psicopatologia clinica. Dunque la psicopatologia generale si
occupa dei fenomeni morbosi generali, delle alterazioni fondamentali del funzionamento
mentale e non dei quadri clinici speciali descritti dai sistemi nosografici. La psicopatologia
precede quindi la descrizione e la classificazione dei disturbi (nosografia). Essa non si occupa
delle entità di malattia o dei disturbi che i clinici classificano, bensì dei fenomeni elementari e
generali che si possono ritrovare in molti disturbi diversi (es.: la psicopatologia generale non si
occupa di schizofrenia, ma di delirio). L’oggetto di studio della psicopatologia generale non è
quindi il singolo paziente né i suoi sintomi specifici; piuttosto la psicopatologia si muove su un
piano sovra-individuale ed è interessata alla ricerca dei principi generali dell’accadere psichico
cosciente patologico. Come la patologia generale, essa si configura come la scienza del come e
del perché dei fenomeni morbosi. I temi classici a cui la psicopatologia generale ha dato un
grande contributo sono rappresentati da: delirio e allucinazione, coscienza dell’Io,
psicopatologia dell’affettività, esperienza depressiva, esperienza del tempo, dello spazio, della
corporeità.
(b) Psicopatologia clinica: La psicopatologia clinica mira all’identificazione di sintomi significativi
indispensabili alle distinzioni nosografiche (sintomi patognomonici). Mentre la psichiatria clinica
rivolge la sua attenzione verso i sintomi oggettivabili, osservabili nei comportamenti, la
psicopatologia clinica cerca di basare la diagnosi sul rilievo di particolari configurazioni
dell’esperienza soggettiva del paziente (i suoi vissuti). Come afferma Kurt Schneider in
“Psicopatologia clinica”, la psicopatologia clinica mira a diventare “la dottrina psicopatologica
dei sintomi e della diagnosi”, in quanto essa ha a che fare con “lo psichico abnorme alla ricerca
di unità cliniche”. La psicopatologia clinica di ispirazione fenomenologica pone al centro dei suoi
interessi le qualità formali dell’esperienza vissuta.

• Psicologia clinica e psicoanalisi


La psicoanalisi costituisce storicamente una delle radici dalle quali è nata la psicologia clinica.
La nascita della psicologia clinica, infatti, deriva dall’incontro di tre importanti tradizioni di
ricerca: la radice psicometrica, la radice comportamentista e la radice psicoanalitica. La

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psicologia clinica ha fatto propri gli insegnamenti della psicoanalisi, a partire dall’attenzione
verso il mondo interiore dell’individuo che oggi la contraddistingue.
La psicoanalisi però può anche essere considerata come una specifica psicologia clinica. Infatti
il termine “psicoanalisi” ha un quadruplice significato: a) la psicoanalisi è un procedimento per
l’indagine dei processi psichici inconsci ai quali non è possibile accedere in altri modi; b) la
psicoanalisi è un metodo terapeutico per il trattamento dei disturbi mentali; c) la psicoanalisi è
una disciplina scientifica costituita da una serie di conoscenze psicologiche; d) la psicoanalisi è
un movimento scientifico al quale appartengono le persone che esercitano la professione di
psicoanalista.
La conoscenza dei contributi della psicoanalisi, fondati sull’attenzione al singolo individuo, al
mondo interno, alla relazione, alle nozioni di inconscio, conflitto, meccanismi di difesa,
transfert, controtransfert, e così via, rimane patrimonio irrinunciabile per ogni psicologo clinico.

• Psicologia clinica e psicoterapia


Il rapporto tra psicologia clinica e psicoterapia è caratterizzato da un equivoco; spesso infatti si
pensa che la pratica psicoterapeutica rappresenti la principale, se non l’unica possibilità
applicativa della psicologia clinica. In realtà le applicazioni della psicologia clinica sono molto
più ampie e numerose.
Il termine psicoterapia si riferisce ad un intervento terapeutico che ha come oggetto il
funzionamento psichico di una persona, e che si avvale della psiche del terapeuta: una terapia
della psiche con la psiche. Tale terapia si basa sulle parole e si basa su alcuni presupposti: a)
una teoria del funzionamento mentale umano; b) una teoria o un modello relativo a come il
funzionamento mentale umano normale possa perturbarsi fino a produrre i quadri clinici
descritti dalla psichiatria; c) una tecnica di trattamento derivata dalle precedenti premesse
teoriche; d) una teoria che spieghi come la terapia adottata agisce in senso terapeutico.
Non vi sono però soltanto le terapie formalizzate: la funzione terapeutica può distribuirsi lungo
un continuum che va da un estremo al quale si collocano, appunto, le psicoterapie
formalizzate, ad un altro estremo in cui il gradiente psicoterapeutico dell’intervento è ridotto;
nella zona centrale del continuum si distribuisce la valenza psicoterapeutica che è parte
integrante di ogni intervento psicologico. Per spiegare questa distribuzione della valenza
psicoterapeutica, Cawley ha distinto 3 diversi livelli di psicoterapia: 1) Livello 1: Il livello 1 è
quello dell’attitudine psicoterapica in professionisti che si occupano di individui sofferenti; è il
caso delle professioni d’aiuto (medico, psicologo, assistente sociale, ecc.); le persone che
soffrono manifestano la loro sofferenza in maniera diretta, senza distorsioni comunicative; 2)
Livello 2: Il secondo livello è quello dell’attitudine psicoterapica che caratterizza la pratica
quotidiana degli operatori specializzati nell’aiuto a persone sofferenti di disturbi psichici; tali
persone manifestano la loro sofferenza attraverso una modalità di comunicazione distorta o
disturbata; 3) Livello 3: a questo livello l’attitudine mentale psicoterapica si esprime allo stato
puro nella forma di una psicoterapia formalizzata e istituzionalizzata che adotta un modello
teorico e tecnico codificato.
Sulla base di questa distinzione, si può affermare che: a) ogni psicologo clinico pratica la
psicoterapia, nel senso che ogni suo atto possiede una valenza terapeutica che si colloca tra il
livello 1 e il livello 2; b) solo alcuni psicologi clinici praticano la psicoterapia nel senso di una
psicoterapia formalizzata, muovendosi al livello 3 di Cawley. Psicologia clinica e psicoterapia,
dunque, non coincidono tra loro, e l’area della psicologia clinica è molto più vasta di quella

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della psicoterapia. Tuttavia, se si parla di una generica valenza psicoterapeutica, psicologia


clinica e psicoterapia tendono a sovrapporsi, in quanto ogni psicologo clinico deve essere
consapevole delle implicazioni psicoterapeutiche di ogni suo atto.
L’accesso ad una psicoterapia formalizzata può costituire per il paziente il punto di arrivo di un
percorso lungo e complesso, che lo ha condotto a rendersi conto dell’esistenza di una
sofferenza e di un problema di ordine psicologico. In alcuni casi, alla fine di lungo lavoro
psicologico clinico pre-psicoterapeutico, il paziente può cominciare una psicoterapia
formalizzata. Tale lavoro, pur precedendo la terapia, si configura come un vero e proprio
lavoro psicologico ricco di valenze psicoterapeutiche. A volte con i pazienti gravi si svolgono
degli interventi psicoterapeutici a breve termine che non hanno come obiettivo il cambiamento
dell’assetto di personalità del soggetto, bensì la modulazione o il controllo di una variabile
rilevante, allo scopo di rendere possibile il trattamento stesso.

3) I livelli della diagnosi: diagnosi nosografica, psicopatologica e psicodinamica


• Introduzione
La comparsa dei manuali diagnostici standardizzati ha sempre suscitato tra gli psicoanalisti e i
fenomenologi disinteresse, se non vera e propria ostilità. Questi atteggiamenti non sono rivolti
soltanto ai manuali diagnostici, ma anche all’idea stessa di diagnosi in psichiatria, e sono legati
a due assunti: (a) La diagnosi è un’operazione di riduzione: la diagnosi consiste in
un’operazione di riduzione della complessità delle esperienze coscienti e delle dinamiche
inconsce che caratterizzano la vita di un individuo. Il processo della diagnosi riduce la totalità
del mondo individuale e personale del paziente focalizzando l’attenzione del clinico
esclusivamente sui sintomi. Tuttavia la malattia è più della somma dei suoi sintomi, e il mondo
della persona che soffre non si riduce ai sintomi che essa manifesta. (b) La diagnosi ostacola il
processo conoscitivo: i clinici, dopo aver formulato la diagnosi, si sentono appagati, non
mostrano più alcun desiderio di conoscenza o approfondimento, dando per scontato che aver
dato un nome ad un insieme di fenomeni significhi conoscerli.
Spesso i sistemi diagnostici nosografici si rivelano inadeguati a descrivere le forme di
passaggio e la dinamicità intrinseca ai diversi quadri clinici. Per tale motivo la diagnosi
categoriale comporta comunque un certo grado di riduzionismo.
La parola diagnosi può indicare sia il processo dell’indagine e della scoperta (diagnosis-as-
procedure) che il prodotto di questo processo, il risultato di una riflessione (diagnosis-as-
denotation). La preoccupazione che la diagnosi nosografica rappresenti un ostacolo alla
conoscenza non riguarda tanto il processo diagnostico di per sé, quanto piuttosto l’uso che
viene fatto del prodotto di questo processo.
Mentre le diagnosi psichiatriche identificano il disturbo che affligge una persona, le “diagnosi”
psicoanalitiche cercano di dire qualcosa anche sull’essenza del disturbo stesso.
Dunque le caratteristiche dei sistemi diagnostici sono le seguenti: a) ogni categoria diagnostica
ha un carattere necessariamente nominalistico, nel senso che non rappresenta un’entità
naturale ma un costrutto teoretico; b) la diagnosi ha un valore euristico, cioè serve a guidare
ulteriori indagini, pertanto le categorie diagnostiche devono cambiare nel tempo per servire al
meglio a questo scopo; c) ogni sistema diagnostico ha carattere prospettico, cioè seleziona
alcuni aspetti della realtà e ne ignora altri; d) le categorie diagnostiche sono fortemente intrise
da giudizi di valore, in quanto riflettono ciò che sulla base del nostro sistema di valori
consideriamo normale e patologico.

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La diagnosi non va considerata come un male in se stesso, bensì questa va inserita all’interno
di un processo diagnostico, il quale può essere rappresentato come una tripla clessidra. (1) La
prima fase consiste in una dettagliata descrizione dei fenomeni clinici, in particolare le
esperienze e i comportamenti del paziente in esame. Questa descrizione dovrebbe condurre
all’individuazione di una serie di fenomeni psichici abnormi che hanno valore di sintomi, e
tramite questi ad una sintesi ipotetica e provvisoria che può essere definita “diagnosi
descrittiva o nosografica”; questa corrisponde al primo punto di strozzatura della clessidra. (2)
La diagnosi descrittiva è seguita da un’ulteriore indagine finalizzata a recuperare il senso che i
fenomeni clinici hanno per quella persona, nel suo mondo e nel contesto delle sue relazioni.
Dunque in questa fase avviene un’accurata indagine delle caratteristiche dell’essere-nel-mondo
del paziente (il suo modo di vivere il tempo, lo spazio, le altre persone, il proprio corpo, ecc.).
Questa fase può essere definita ermeneutica in quanto va alla ricerca dell’organizzatore di
senso complessiva delle esperienze e delle azioni della persona sofferente. Attraverso la ricerca
del senso (cioè degli organizzatori psicopatologici) i singoli fenomeni e sintomi perdono il
carattere caotico e disparato e assumono un carattere coerente, in quanto facenti parte di un
insieme dotato di una struttura. Questo processo può essere definito “diagnosi psicopatologico-
fenomenologica” e rappresenta il secondo punto di strozzatura della clessidra. (3) La fase
successiva consiste nella ricerca dei percorsi psicopatologici che hanno condotto la persona alla
sua condizione di sofferenza. Viene ricostruita la storia personale del paziente attraverso una
narrazione che mette in un rapporto di significatività temporale i fenomeni psichici considerati.
Questi vengono ricondotti ad uno o più punti di svolta storico-biografici, come ad esempio un
trauma o un conflitto. In ciò consiste la “diagnosi psicodinamica”, che rappresenta la terza
strozzatura della clessidra.

• Alcune precisazioni terminologiche: semeiotica, psicopatologia, nosografia e


nosologia
Con il termine “psicopatologia” si fa riferimento alla patologia psichica nel suo complesso,
dunque esso coincide con l’oggetto della clinica. Tuttavia questo termine può anche essere
usato per indicare una descrizione precisa e dettagliata dei fenomeni psichici abnormi, e in
questa accezione la psicopatologia finisce per coincidere con la semeiotica psichiatrica. [Vedi
cap. 2, paragrafo “Psicologia clinica e psicopatologia”].
La semeiotica prende in considerazione i fenomeni psichici abnormi in quanto sintomi e cioè nel
loro significato clinico, diagnostico ed eziologico, sullo sfondo di un modello interpretativo del
sintomo e del disturbo psichico che mira a individuare dati oggettivi e a ricondurli ad una
specifica entità nosografica e ad una specifica eziologia. Mentre la semeiotica si focalizza sulla
malattia, la psicopatologia si interessa al modo in cui i fenomeni psichici abnormi si collocano
nel mondo di una persona. Negli USA il termine psicopatologia viene infatti usato per indicare
“lo studio scientifico del comportamento anormale”. Nell’Europa continentale, invece, esso
indica la disciplina che isola i fenomeni mentali per poi raggruppare i fenomeni correlati su una
base puramente esperienziale; i fenomeni psichici abnormi ai quali la psicopatologia di
ascendenza jaspersiana attribuisce particolare importanza sono le esperienze dei pazienti, ciò
che è immediatamente rinvenibile nel loro campo di coscienza, ovvero ciò che viene
direttamente raccontato da loro. Il metodo della psicopatologia si fonda principalmente sulla
comprensione intesa come riattualizzazione delle esperienze del paziente attraverso l’empatia,
ed è volto a cogliere e individuare i fenomeni mentali soggettivi per organizzarli in categorie

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semantiche. Delle esperienze riportate dai pazienti si considerano soprattutto gli aspetti formali
piuttosto che gli aspetti relativi al contenuto; si ritiene infatti che i contenuti di un’esperienza
psichica possano variare in base alla storia personale, al contesto storico e culturale, mentre gli
aspetti formali rappresenterebbero elementi invarianti.
Con il termine “nosografia” si indica la descrizione delle singole malattie con finalità
esclusivamente diagnostiche, cioè pratiche e non teoretiche. La nosografia traccia i confini
delle sindromi in maniera provvisoria e convenzionale, al solo scopo di fornire i criteri per la
diagnosi empirica. La “nosologia”, invece, mira ad individuare delle entità naturali; essa rende
esplicito il sistema di concetti e teorie che supportano la propria strategia di classificazione.

• Una diagnosi illuminata dalla psicopatologia


Per capire quale contributo la psicopatologia può offrire alla diagnosi, è necessario fare una
preliminare distinzione tra psicopatologia clinica e psicopatologia fenomenologica. (1) La
psicopatologia clinica mira all’identificazione di sintomi significativi al fine di una diagnosi
nosografica. Essa non si impegna nella ricerca del senso complessivo che sta alla base
dell’insieme di esperienze psichiche abnormi del paziente, e così facendo corre due rischi: a) Il
primo rischio è quello di precipitare in uno stato crepuscolare in cui tutta l’attenzione è rivolta
soltanto verso i sintomi che si suppone abbiano un valore diagnostico e discriminatorio, mentre
vengono trascurati tutti i fenomeni psichici che connotano una certa condizione di sofferenza
mentale o un certo modo di esistenza umana patologica; b) Il secondo rischio è quello che la
psicopatologia rimanga ancorata alla griglia nosografica dominante, ostacolando così il
progresso della conoscenza psicopatologica e antropologica. (2) Per quanto riguarda la
psicopatologia fenomenologica, il suo maggiore contributo consiste in ciò che essa può dire
riguardo al senso delle esperienze umane abnormi, indipendentemente dalla loro attribuzione
nosografica.
Su un primo livello, i concetti psicopatologici descrivono le esperienze, nel senso che
riconducono esperienze dello stesso tipo, sulla base del loro aspetto formale, sotto delle
etichette universali. Su questo piano, i concetti psicopatologici hanno valore paradigmatico,
ovvero aiutano a definire il fenomeno in se stesso e a fare distinzioni tra fenomeni diversi. Su
un piano ulteriore, i concetti psicopatologici hanno un valore sintagmatico, in quanto
consentono di stabilire come un certo fenomeno è coinvolto in una struttura o in un processo.
Ad un secondo livello, i concetti psicopatologici organizzano diversi tipi di esperienze in
complessi o costrutti teoretici secondo le loro strutture di senso; questi organizzatori di senso,
detti “organizzatori psicopatologici”, sono degli schemi sintetici di comprensione, che
conferiscono una significatività unitaria a gruppi di fenomeni patologici che co-occorrono nella
stessa persona. Mentre gli organizzatori nosografici orientano la diagnosi e la prognosi, gli
organizzatori psicopatologici mirano alla comprensione delle esperienze patologiche. Il metodo
adottato per la ricerca degli organizzatori psicopatologici è quello fenomenologico, in quanto
l’obiettivo è quello di rintracciare il significato alla base della varietà dei fenomeni. A tutt’oggi
non è ancora stato compiuto un lavoro di sistematizzazione dei vari organizzatori
psicopatologici. [Leggi esempio nel libro, pag. 99-101]. Gli organizzatori psicopatologici
rappresentano dei tipi ideali, cioè dei dispositivi euristici che hanno lo scopo di guidare il
processo di conoscenza e comprensione di singole e individuali esistenze psicopatologiche.
Tuttavia, oltre a guidare la comprensione, gli organizzatori psicopatologici ne sono anche il

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risultato, in quanto la costruzione di un organizzatore psicopatologico inizia dal dettagliato


dispiegamento dell’esperienza del paziente.
La ricerca psicopatologica assume il suo valore e la sua importanza mantenendosi indipendente
da ogni preoccupazione nosografica. La psicopatologia come scienza si propone non soltanto in
quanto approccio legittimo allo studio dei disturbi mentali, ma anche come elemento
indispensabile per fare ordine nella conoscenza dei fenomeni.

• La dimensione psicodinamica della diagnosi


La diagnosi psicodinamica considera i fenomeni psicopatologici, anche i più gravi, come punto
di arrivo di un percorso; più che a categorie diagnostiche discrete, la diagnosi psicodinamica è
interessata all’analisi delle componenti in gioco in ogni condizione psicopatologica. Dunque la
dimensione psicodinamica conferisce alla diagnosi la flessibilità necessaria per poter
prospettare un progetto terapeutico mutativo. La diagnosi psicodinamica ha messo in luce
alcuni importanti “nodi epistemologici”: (1) L’attenzione deve essere rivolta alla continuità
piuttosto che alla discontinuità delle esperienze, quindi a come un sintomo può cambiare nel
tempo, a come non vi siano netti confini tra normalità e patologia né tra una sindrome e l’altra.
(2) La diagnosi va considerata come una valutazione provvisoria, soggetta a oscillazioni,
instabilità e profondi mutamenti; nel corso della maggior parte dei trattamenti psicoterapeutici
si assiste al modificarsi dello schema di riferimento diagnostico inizialmente assunto
dall’osservatore, nel senso che questo si completa, si integra, si complica o cambia
completamente. (3) La diagnosi psichiatrica non costituisce il punto di arrivo, ma il punto di
partenza del lavoro terapeutico. (4) Acquista notevole importanza la dimensione storica della
diagnosi: qualunque diagnosi non può prescindere dalla storia della persona e tenere conto
soltanto di una dimensione impersonale (biologica, pulsionale, ambientale). In ogni quadro
clinico si riattualizza una storia, un passato che rivive nella sofferenza attuale del paziente e
nelle relazioni che egli stabilisce con gli altri. Ogni colloquio con il paziente e con i suoi familiari
rappresenta un’occasione per tracciare e ripercorrere una possibile via di accesso al disturbo,
una sua chiave di lettura. Gli attuali sistemi diagnostici non includono la storia degli individui
tra gli elementi importanti ai fini della diagnosi, considerando il passato soltanto nei termini di
sintomi preesistenti di malattia o di eventi di vita stressanti. Nel rispetto dell’obiettività
ateorica, in questi sistemi non viene attribuita alcuna importanza alla storia individuale, e così
le diagnosi rimangono prive di profondità, slegate dalla storia e dal passato delle persone. Ogni
paziente viene così considerato come il “portatore” e non come l’“autore” del proprio disturbo,
e quindi viene privato del senso personale e del significato comunicativo del proprio disturbo;
in altre parole non si tiene conto del fatto che il disturbo rappresenta una forma distorta di
comunicazione di una sofferenza non esprimibile altrimenti. Considerare il paziente come
l’“autore” del proprio disturbo non significa attribuirgliene la colpa, bensì tenere conto del
contributo che egli ha dato, in modo conscio e inconscio, alla formazione del disturbo stesso.
(5) Il sintomo va concepito come una forma di comunicazione dotata di un suo senso
personale. I sintomi non vanno visti come la diretta espressione di una disfunzione cerebrale
sottostante, ma come l’espressione della vita mentale della persona e della sua sofferenza.
Dunque al sintomo va attributo il significato di una comunicazione, interna e allo stesso tempo
interpersonale, sulla propria vita mentale; tale comunicazione è distorta in quanto parziale,
deformata. Nell’avvicinarsi al sintomo, il clinico deve entrare in una relazione empatica con il
paziente, deve immedesimarsi con lui per aiutarlo a capire laddove egli non è in grado di farlo

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a causa della distorsione della comunicazione sostenuta dai suoi stessi processi psichici. Il
sintomo appare come un fenomeno complesso e variegato, come una formazione di
compromesso costruita a strati attraverso la quale nascondere e al tempo stesso svelare, un
modo per dire e non dire. (6) La diagnosi possiede un valore relazionale; l’insieme dei
fenomeni collegati alla diagnosi non appartiene soltanto al disturbo che il paziente presenta,
ma va inserito (ed acquista un senso) all’interno di una relazione nella quale i sintomi
assumono un preciso significato comunicativo. I fenomeni sui quali fondare la diagnosi non
possono essere ricavati soltanto dall’osservazione del paziente dall’esterno, ma anche da
quanto accade nel campo intersoggettivo e nella relazione specifica che si stabilisce tra
psicologo e paziente.

• La diagnosi psicodinamica: promesse e minacce


Mentre alcuni psicoanalisti collocano la diagnosi alla fine di un percorso infinito, altri hanno
sviluppato un differente approccio verso la diagnosi, a partire dal riconoscimento del suo valore
descrittivo. Essa rappresenta un livello al quale il processo diagnostico non si può fermare, ma
che ne è parte necessaria e integrante. Come ha scritto Danilo Cargnello [vedi pag. 2], il
clinico oscilla sempre tra due posizioni: l’essere-con-qualcuno e l’avere-qualcosa-di-fronte, e
cioè tra il valorizzare il sentire e conoscere l’altro nella relazione e il considerare ciò che si
osserva in termini distaccati e oggettivi. Il momento dell’oggettivazione è una parte
irrinunciabile di ogni operazione conoscitiva, ma non è sufficiente.
Nel 2005 Gabbard ha pubblicato un volume, “Psichiatria psicodinamica”, che ha avuto un
enorme successo in quanto veniva incontro alla domanda dei clinici che, arrivati ad “avere-
qualcosa-di-fronte”, percepivano il limite di questo approccio, soprattutto per quando riguarda
la formulazione di un progetto psicoterapeutico. Analogamente Nancy Mc Williams,
proseguendo il lavoro pionieristico di Kernberg sui disturbi di personalità, ha sviluppato un
accurato sistema diagnostico di carattere psicodinamico nel quale la diagnosi viene intesa
come un processo che non ha i tempi infiniti di un intero trattamento e che sin dall’inizio svolge
un ruolo importante nella formazione dell’alleanza terapeutica. Un punto di svolta è
rappresentato dalla pubblicazione dello Psychodynamic Diagnostic Manual (PDM) nel 2006, un
manuale frutto del lavoro di una task force composta dalle più prestigiose associazioni
psicoanalitiche statunitensi. Esso è stato pubblicato in Italia due anni dopo (Manuale
Diagnostico Psicodinamico). Il PDM nasce da una critica radicale ad un’eccessiva restrizione
dell’attenzione, da parte del DSM, ai sintomi osservabili, indipendentemente dal contesto più
generale di vita della persona (il suo contesto personale, storico-evolutivo, relazionale,
ambientale). Infatti, nonostante il paziente cerchi un trattamento spinto dalla propria
sofferenza soggettiva, questo aspetto non viene considerato nei tradizionali manuali
diagnostici. Un approccio alla valutazione diagnostica e al trattamento dovrebbe invece partire
proprio dalle parole dei pazienti. Per questo il PDM è strutturato in 3 assi: il primo asse è
dedicato alla diagnosi dei pattern e dei disturbi di personalità (Asse P), il secondo asse è
dedicato alla valutazione globale del funzionamento mentale (Asse M), il terzo asse è dedicato
alla valutazione dei sintomi soggettivi (Asse S). I primi due assi adottano lo schema di
riferimento classico elaborato in ambito psicodinamico da Kernberg: lungo un continuum si
distingue un livello di organizzazione di personalità normale, nevrotico e borderline; rispetto
alla teoria di Kernberg viene scartata l’organizzazione di personalità psicotica. Il terzo asse,
dedicato ai pattern sintomatici, mette al centro dell’attenzione l’esperienza soggettiva,

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basandosi sulla premessa che i sintomi non sono disturbi a sé stanti, ma espressioni esplicite
dei modi in cui i pazienti affrontano le esperienze. Nonostante ciò, l’analisi dell’esperienza
proposta da questo asse appare deludente: troppo legata alla descrizione del sintomo in terza
persona, non riesce a cogliere gli aspetti essenziali del vissuto soggettivo.

4) Strumenti per la diagnosi e la terapia: il linguaggio e la parola


• Il linguaggio: un problema per gli psicologi e gli psichiatri
Il linguaggio ricopre un ruolo molto importante nella clinica, in quanto rappresenta il principale
strumento utilizzato dagli psicologi e dagli psichiatri nella loro professione. Per tale ragione è
molto importante che il clinico abbia una sufficiente capacità di usare le parole; la formazione
del clinico dovrebbe prevedere lo studio della linguistica e della comunicazione in generale. “In
un lavoro largamente fatto di parole, il lavoratore deve sapere come usarle e deve saper
riconoscere come gli altri le usano” (Semi). Psicologi e psichiatri dovrebbero conoscere il ruolo
che il linguaggio svolge nella clinica, essere più consapevoli dei vari modi di comunicare con le
parole e saper utilizzare tecniche linguistiche specifiche qualora se ne presenti l’esigenza.

• Conoscere la lingua e la linguistica


Qualunque sia l’attività da compiere, il clinico deve avere una buona conoscenza della lingua
parlata dal paziente. Questo perché il lavoro dello specialista, dall’inquadramento diagnostico
alla terapia, è strettamente legato alla possibilità di condividere l’esperienza dell’altro
soprattutto attraverso il linguaggio. La conoscenza di una lingua non si limita ad un sapere
astratto relativo ai significati delle parole e delle regole che permettono di costruire frasi di
senso compiuto. In realtà si può sostenere di avere imparato una lingua straniera soltanto
dopo aver compiuto una sufficiente esperienza di vita nel contesto sociale, culturale e
ambientale in cui è presente un determinato codice linguistico. Le parole, le frasi, i discorsi
veicolano significati ed emozioni diversi a seconda della lingua e del luogo in cui vengono
pronunciati. Il clinico vuole conoscere i vissuti sperimentati da una persona quando, nel
comunicare le proprie esperienze, usa delle parole piuttosto che altre. La lingua racchiude la
storia e la cultura di una comunità, dunque apprendere una lingua straniera significa conoscere
una cultura diversa, fondata su una concezione del mondo e della vita più o meno differente
dalla nostra.
Ma le parole sono anche in grado di strutturare l’esperienza, mettendo a disposizione una serie
di categorie concettuali sulla base delle quali si costituirà il Sé dell’individuo. Secondo la
famosa tesi del determinismo linguistico di Sapir e Whorf, le categorie linguistiche determinano
le modalità con cui un uomo percepisce e concettualizza il mondo. La versione più debole di
questa teoria, quella del relativismo linguistico, sostiene che le differenze tra le lingue
provochino differenze nel pensiero di chi le parla.
Nell’ambito della cultura europea, Lacan, rielaborando lo strutturalismo linguistico di Saussure
(considerato il fondatore della linguistica moderna), sostiene che il linguaggio struttura la
nostra esistenza, cosicché la rete di significati in cui siamo immersi dipende dalla varietà
linguistica che contraddistingue una determinata lingua. L’uomo pensa grazie al fatto che
esistono delle categorie linguistiche che gli danno la possibilità di concepire l’esistenza delle
sue idee; dunque il pensiero è fortemente influenzato dalla lingua in cui è espresso. Le tesi
centrali dello strutturalismo sono le seguenti: a) il pensiero è strutturato dalla lingua di
appartenenza; b) lingue diverse determinano concezioni del mondo differenti; c) ogni codice

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linguistico possiede delle peculiarità culturalmente determinate; d) l’essere umano è un


prodotto della cultura di cui fa parte; e) le capacità linguistiche dell’uomo derivano
dall’ambiente in cui vive. Alcuni autori però criticano queste tesi; ad esempio, Steven Pinker,
riprendendo le teorie del suo maestro Chomsky, sostiene la posizione dell’approccio
cognitivista, secondo cui il linguaggio è un istinto specifico della specie umana che deve essere
tenuto separato da altre capacità cognitive, autonome rispetto ad esso. Il linguaggio dunque è
un mezzo per esprimere dei pensieri che esistono a prescindere dalle capacità linguistiche di un
individuo o di una determinata comunità. Questo dibattito ripropone la storica
contrapposizione tra innatisti e ambientalisti; probabilmente ognuno di questi due approcci
dice qualcosa di vero. I fattori genetici hanno un peso notevole nella determinazione delle
capacità linguistiche dell’essere umano; inoltre è molto probabile che vi siano forme di
pensiero pre-verbale ed extra-verbale che non sono legate al codice linguistico usato in una
determinata popolazione. Ma il linguaggio, oltre ad essere il mezzo, è anche l’elemento
costitutivo dei pensieri del singolo e della sua cultura di appartenenza. Dunque il rapporto tra
lingua e realtà è di reciproco scambio.
Abbiamo già detto quanto è importante che il clinico conosca la lingua del paziente. Se clinico e
paziente parlano due lingue diverse, il clinico dovrà essere cauto, fare più domande, usare frasi
semplici, aiutarsi attraverso altri canali comunicativi. Inoltre dovrà cercare di conoscere meglio
la cultura del paziente, anche recuperando notizie sulla comunità in cui è vissuto, sugli usi, i
costumi, la religione praticata, e così via. Le tematiche relative alla lingua non sono importanti
soltanto in relazione ai pazienti stranieri, ma valgono in parte anche per la questione delle
numerose sub-culture presenti in Italia, dove spesso si parla prevalentemente in dialetto. La
comprensione di un dialetto (così come di una lingua straniera) non si esaurisce nella
conoscenza del significato dei termini utilizzati, ma riguarda anche la trasmissione di un
insieme di valori e credenze legate al mondo condiviso di una determinata comunità. In casi
del genere il lavoro clinico sarà un po’ più complesso, in quanto si rende necessario un lavoro
di sintonizzazione emotiva, resa però difficoltoso dalla diversità linguistica e culturale.

• Il significato delle parole


Ognuno di noi sa, in maniera intuitiva, che dietro l’uso di determinate parole vi è sempre
un’intenzione comunicativa, che può essere interpretata più o meno correttamente
dall’interlocutore. Esiste infatti una differenza tra il significato letterale di una certa frase e il
concetto che l’individuo cerca di trasmettere in una conversazione. Per questo generalmente
nessuno risponde a quanto si dice letteralmente, ma a quello che si ritiene l’interlocutore
voglia comunicare. Dunque lo scambio linguistico si presenta come un processo continuo di
assegnazione, rifiuto e negoziazione delle intenzioni comunicative altrui. La possibilità di
fraintendersi, comune anche tra persone che si conoscono da tempo, esiste perché la
comunicazione linguistica non si basa sulla decodificazione di un “codice-linguaggio” che
veicola sempre gli stessi significati, ma sulla negoziazione in itinere del senso da dare a
determinate parole, in base alle intenzioni comunicative inferite in uno scambio linguistico
collocato nel contesto del rapporto tra i due parlanti. Le persone sono in grado di interpretare
più o meno correttamente il significato di una frase perché questa è generalmente inserita in
un determinato contesto linguistico: il contenuto del discorso che stiamo portando avanti ci
permette di riferire una frase ad uno specifico ambito semantico. Inoltre nella comunicazione
entrano in gioco anche elementi di natura extra-linguistica (es.: mimica, postura, azioni, ecc.)

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e para-linguistica (prosodia, gesticolazione, ecc.) che favoriscono la comprensione. Del


contesto linguistico fa parte anche l’ambiente nel quale si svolge la comunicazione.
Generalmente noi parliamo con persone conosciute, con cui abbiamo qualche tipo di rapporto.
Di queste persone conserviamo delle rappresentazioni le quali ci permettono di prevedere le
loro mosse. Per far sì che arrivi un certo messaggio ad una persona, in base alle
rappresentazioni che ho di lei e del rapporto che ci lega, userò alcune espressioni verbali
piuttosto che altre.
Esiste uno scarto tra le intenzioni del parlante e quello che egli riesce a dire; si parla a tal
proposito di opacità intenzionale. Il clinico può comunicare le proprie intenzioni in maniera più
o meno diretta, a seconda del paziente che ha di fronte. Con un individuo con una personalità
tendenzialmente paranoide, è preferibile utilizzare un linguaggio chiaro, diretto, che non possa
essere interpretato in senso persecutorio: è quindi necessario ridurre al minimo l’opacità
intenzionale; con un altro paziente, invece, l’utilizzo di frasi dirette potrebbe causare un
irrigidimento delle difese, ed è quindi necessario aumentare l’opacità intenzionale, usando uno
stile comunicativo meno esplicito. Lo stesso vale per le parole del paziente: il clinico deve
sapere quando cercare di ridurre l’opacità intenzionale del suo interlocutore e quando lasciare
all’altro la possibilità di comunicare in modo più indiretto. Ovviamente più si conosce un
paziente, più si è capaci di cogliere le sue intenzioni comunicative; quando si incontra un
paziente per la prima volta è necessario ridurre al minimo le possibilità di non intendersi. A tal
fine è possibile mettere in atto alcuni interventi, come ad esempio la parafrasi, che rimandano
al paziente l’essenza di ciò che ha detto chiarificando e riassumendo le sue frasi; il paziente ha
poi la possibilità di confermare o rifiutare la nostra interpretazione. In questo modo rendiamo
esplicita l’intenzione comunicativa dell’altro, evitando malintesi che possano influenzare le
ipotesi diagnostiche. Bisogna sapersi adattare a diverse modalità comunicative, tenendo anche
in considerazione la situazione clinica del paziente e gli obiettivi che si vogliono raggiungere.

• L’influenza delle parole


Lo studio del linguaggio è diviso in tre discipline: a) la sintassi si occupa delle regole che
stabiliscono come le espressioni linguistiche (parole o frasi) possono essere combinate da un
punto di vista strettamente grammaticale; b) la semantica studia il significato delle parole e
delle frasi; c) la pragmatica è lo studio del linguaggio in rapporto all’uso che ne fa il parlante in
situazioni concrete. Quindi mentre la sintassi e la semantica studiano un linguaggio asettico,
che non tiene conto delle circostanze di vita reale in cui avvengono gli scambi linguistici, la
pragmatica si occupa di un linguaggio dinamico e indissolubilmente legato al contesto
comunicativo della conversazione. La pragmatica è interessata a due ambiti di ricerca: (1) Fare
parole con le cose: questo ambito riguarda lo studio dell’influenza del contesto sulla parola. Per
interpretare correttamente il significato delle espressioni linguistiche, bisogna considerare una
serie di informazioni presenti nel contesto in cui avviene la conversazione: quindi le stesse
parole significano cose diverse in situazioni differenti. (2) Fare cose con le parole: questo
ambito riguarda lo studio dell’influenza della parola sul contesto. I parlanti, infatti, usano il
linguaggio al fine di modificare il contesto in cui avviene la conversazione. In questo senso,
pronunciare un discorso è un modo per influenzare le credenze e le azioni dell’interlocutore o
per regolare la relazione che abbiamo con lui. All’interno di questo secondo ambito, è possibile
mettere in evidenza due aspetti: (a) parlare significa agire: il proferimento linguistico può
coincidere con la messa in atto di un comportamento; si parla a tal proposito di atti linguistici.

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Mediante le parole è possibile fare molte cose: domandare, avvertire, affermare, ordinare,
minacciare, e così via; l’azione compiuta parlando si definisce atto illocutorio. (b) parlare
significa cambiare: gli atti linguistici hanno delle conseguenze psicologiche, comportamentali,
relazionali, e così via. A seconda delle cose dette e di come si dicono, l’interlocutore crederà
certe cose, proverà determinate emozioni, agirà in un certo modo. Dunque ogni persona,
parlando, influenza inevitabilmente chi ascolta. Quindi “fare parole con le cose” significa che le
frasi pronunciate possono essere considerate degli atti che esercitano un’influenza sullo stato
d’animo, le opinioni, i comportamenti, le decisioni altrui. Oltre a provocare dei cambiamenti
nell’altro, pronunciare delle parole provoca delle modificazioni anche in chi parla; è come se la
persona, ascoltandosi, venisse a conoscenza di cose nuove, che la spingono a cambiare idea su
certi fatti o a mettere in atto determinati comportamenti. Ciò avviene perché, attraverso il
linguaggio, l’essere parlante ricostruisce la propria esistenza, reinventa la propria storia, regola
le proprie emozioni, in altre parole dà una forma alle proprie esperienze cosicché queste
risultino il più possibile integrate con il proprio Sé. Questo lavoro di sistematizzazione dei
propri vissuti attraverso l’atto linguistico può rivelarsi terapeutico, in quanto potrebbe portare
al cambiamento di alcune modalità disfunzionali di essere con gli altri e con se stessi.
Attraverso il linguaggio è possibile influenzare gli altri: è sulla base di questo presupposto che
è possibile concepire la psicoterapia. Se non credessimo all’enorme potenziale della parola,
l’esistenza della figura dello psicologo non avrebbe senso. Per tale ragione bisogna fare molta
attenzione al modo in cui si parla, nonché al contenuto della comunicazione; a seconda di
come si usano le parole, si possono avere effetti diversi, più o meno voluti e più o meno
riusciti. Lo psicologo deve comunicare attraverso un linguaggio che sia capace di lasciare il
segno, così da promuovere il cambiamento di una realtà che sembrava immutabile; egli deve
strutturare un discorso efficace, un discorso che, emozionando, attragga l’attenzione dell’altro
rendendolo ricettivo al cambiamento (movere, delectare, docere). Si tratta della retorica, l’arte
di saper parlare in modo da persuadere chi ascolta; la capacità retorica è una componente
essenziale del lavoro dello psicologo. Gli approcci terapeutici in cui il terapeuta svolge un ruolo
attivo (es.: terapia strategica, ipnotica, costruttivista, ecc.) si sono interessati maggiormente
allo studio delle strutture linguistiche attraverso le quali è più facile perturbare il paziente,
indurlo a comportarsi in maniera diversa, e così via.

• Il linguaggio della relazione


Generalmente gli esseri umani stabiliscono le relazioni attraverso la parola; sebbene sia
possibile comunicare in diversi modi, il linguaggio rimane sempre la modalità elettiva di essere
con l’altro. In terapia generalmente il clinico non abbraccia o bacia il paziente per dimostrargli
che capisce cosa sta vivendo, bensì, per quanto possibile, cerca di rimanere nel campo della
parola. Alcuni interventi danno la possibilità di costruire un rapporto di fiducia con il paziente,
facendolo sentire compreso, accettato, riconosciuto.
Dunque lo sviluppo di una relazione empatica richiede anche l’uso accorto di un linguaggio
partecipe. Tale linguaggio, per essere efficace, deve possedere alcune caratteristiche.
Innanzitutto bisogna evitare il linguaggio specialistico: l’uso di termini tecnici non fa altro che
porre delle barriere che aumentano la distanza tra clinico e paziente. Non è il paziente a dover
imparare il linguaggio del clinico, ma è il clinico che deve avvicinarsi al modo di comunicare del
paziente. Questa è quella che Semi ha definito “regola del linguaggio”: “in linea di massima, il
linguaggio che si adopera durante un colloquio è quello del paziente”. A tal fine, può essere

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utile usare le parole che il paziente ha impiegato nel corso della conversazione clinica,
soprattutto quelle che hanno una forte valenza emotiva. L’impiego del lessico del paziente può
avere delle conseguenze favorevoli nella formazione della relazione terapeutica, per ben 4
ragioni: 1) il paziente si sente ascoltato (“se il terapeuta usa le mie parole vuol dire che mi sta
ascoltando, che prova interesse per quello che dico”); 2) il paziente si sente compreso (“lo
psicologo ha utilizzato proprio quelle parole che suscitano in me delle emozioni intense; questo
vuol dire che riesce a cogliere le cose che per me hanno valore, quindi è in grado di
comprendere il mio stato d’animo”); 3) il paziente si sente accettato (“il terapeuta riconosce il
mio modo di vedere le cose, aderisce alla mia concezione del mondo”); 4) il paziente si sente
contenuto (“quello che dico, le mie esperienze angoscianti, trovano un posto nel mio
terapeuta; parlare con lui mi permette di contenere la mia sofferenza, impedendole di
sopraffarmi”). Queste esperienze non vengono vissute in modo consapevole dal paziente, non
sono il frutto di una riflessione, ma nascono da un movimento emozionale che accomuna i due
interlocutori, “facendo vibrare i loro animi all’unisono” (Jaspers). È comunque importante che il
linguaggio del paziente venga adottato in maniera spontanea; quando ciò non avviene, il
paziente si rende conto dell’artificiosità del discorso. L’uso delle parole del paziente in modo
autentico avviene quando ci si identifica veramente con lui, ci si mette nei suoi panni, si prova
ciò che lui sta provando, si vede il mondo con i suoi occhi. Il rapporto tra linguaggio ed
empatia è di reciproco scambio. Un altro accorgimento consiste nel fatto che non bisogna
esagerare nella ripetizione delle parole del paziente; sarà sufficiente cogliere pochi termini,
magari una metafora utilizzata dal paziente, aspettare il momento giusto e riproporre, anche
per una sola volta, l’espressione che ci ha colpiti. Ad ogni modo è necessario cogliere i
feedback dei pazienti: alcuni potrebbero apprezzare lo stile comunicativo adottato dal clinico
mentre altri potrebbero non tollerarlo. Dunque è molto importante quello che Faimberg ha
chiamato “ascolto dell’ascolto”, cioè bisogna prestare molta attenzione a come il paziente ha
ascoltato le nostre parole, sapendosi adattare alle sue reazioni.
I fondatori della PNL hanno messo in evidenza che la relazione è favorita dal rispecchiamento
dei predicati. Il paziente può usare 3 diversi tipi di predicati: 1) Visivi (es.: “adesso mi è tutto
chiaro”, “vedo che ora mi ha capito”, “ho guardato dentro di me”, ecc.); 2) Uditivi (es.: “mi
suona male”, “è musica per le mie orecchie”, “ascolto la mia anima”, ecc.); 3) Cenestesici, cioè
relativi alle sensazioni (es.: “mi sono tolto un peso dallo stomaco”, “ho toccato con mano cosa
significa”, “ho afferrato il concetto”, ecc.). A seconda del predicato utilizzato dal paziente, il
clinico potrebbe formulare delle frasi espresse negli stessi termini.
Il clinico deve adeguarsi al vocabolario del paziente: non è utile utilizzare un linguaggio
elaborato con una persona con un basso livello di istruzione o con scarse proprietà di
linguaggio, e allo stesso modo non avrebbe senso non utilizzare un linguaggio ricercato con
una persona colta. Spesso si utilizza un linguaggio nettamente diverso da quello del proprio
interlocutore per prenderne le distanze; a tal proposito, il clinico deve essere consapevole delle
strategie comunicative che adotta, in modo da regolarne l’uso.
Bisogna prestare molta attenzione allo stile utilizzato dal paziente, alla forma del suo
linguaggio: come parla, se usa periodi lunghi o brevi, se descrive le cose in maniera molto
dettagliata, se ha un linguaggio telegrafico, se cambia improvvisamente argomento, se fa uso
di figure retoriche e di esempi, e così via.
Gli interventi che lo psicologo può utilizzare per rispecchiare il linguaggio del paziente sono
diversi; si va da semplici repliche inserite tra le frasi del paziente, alla formulazione di

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domande che ripropongono un suo termine o un suo modo di dire, alle risposte che riflettono in
maniera quasi identica le espressioni che ci hanno colpito. Un intervento molto efficace
consiste nella riformulazione, attraverso la quale lo psicologo ripete ciò che ha detto il paziente
utilizzando le sue parole, ma aggiungendo qualcosa: in questo caso si dà al paziente
l’impressione di comprendere cosa egli stia provando, di accettare la sua concezione del
mondo, ma allo stesso tempo gli vengono offerti degli elementi che fanno sì che egli possa
vedere le cose in maniera leggermente diversa. Un altro intervento importante è la
restituzione, che generalmente viene collocata alla fine del colloquio o di una serie di colloqui.
L’utilizzo delle parole, dello stile, delle metafore del paziente non deve essere considerato
come una strategia la cui applicazione garantisce lo sviluppo di un rapporto di fiducia. Bisogna
infatti possedere la capacità di stare con l’altro e di formare un’alleanza basata sulla
sensazione reciproca di essere con una persona affidabile. Se ci si identifica con il paziente, si
tende naturalmente a prendere qualcosa di lui, le sue smorfie, le sue parole, e così via.
Per il clinico non è importante solo “saper parlare”, ma anche saper tacere. Il silenzio è una
condizione essenziale nella relazione, e in alcune circostanze è l’unico modo per comunicare al
paziente il proprio rispetto. Tacere significa accogliere l’altro, ascoltarlo, dargli uno spazio in
cui possa esprimersi o un momento in cui si possa soffrire insieme. Se il clinico è ansioso di
riempire il tempo con delle parole, in quanto percepisce un vuoto, un’assenza, allora
probabilmente ciò significa che non è riuscito a sintonizzarsi con lo stato d’animo del paziente.
Il silenzio è il linguaggio delle sensazioni, della vicinanza emotiva, della comunicazione
simbiotica.

• Il linguaggio che rivela


Il linguaggio utilizzato dal paziente ci può rivelare chi abbiamo di fronte. A tal fine è utile
considerare separatamente il contenuto e la forma del discorso articolato dal paziente, in
quanto questi due aspetti della comunicazione verbale possono veicolare informazioni diverse.
Contenuto. Iniziamo con l’analizzare ciò che l’altro vuole dirci, tenendo conto del fatto che il
significato delle parole è strettamente legato al contesto in cui avviene la conversazione.
Spesso accade che il paziente arrivi dallo psicologo con una propria autodiagnosi; alcuni
pazienti potrebbero esordire con le parole “sono venuto qui perché ho avuto degli attacchi di
panico” o “soffro di depressione”, dunque parlando dei propri sintomi in termini psichiatrici,
utilizzando delle etichette che possono celare situazioni molto diverse fra loro; altri pazienti
invece potrebbero riferire i propri disturbi in termini psicologici: “non riesco più a fare l’amore
con mio marito”, o “non sono più in grado di instaurare delle relazioni mature”, e così via. Al di
là di come viene presentato il malessere, lo scopo è quello di esplorare le situazioni in cui il
paziente prova disagio e comprendere cosa significa per lui vivere determinate esperienze.
Ogni individuo, infatti, vive le proprie emozioni, anche quelle disturbanti, in maniera del tutto
peculiare. Emergono dunque due aspetti: a) Potrebbe esserci una discrepanza tra ciò che il
paziente dice di vivere (la sua autodiagnosi) e la sua esperienza soggettiva; ad esempio, il
paziente che ritiene di aver avuto un attacco di panico in realtà ha soltanto vissuto un
momentaneo stato di depersonalizzazione; b) Anche se l’autodiagnosi del paziente è corretta,
è comunque necessario che egli descriva la sua esperienza soggettiva al fine di comprendere
cosa ha provato. Anche quando il paziente presenta il proprio problema in termini psicologici è
necessario indagare il significato che assumono certe frasi quando sono pronunciate dal
paziente; ad esempio, quando il paziente dice “non sono più in grado di instaurare delle

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relazioni mature”, bisogna capire cosa per lui sia una relazione matura. Per capire il senso
peculiare che un determinato paziente dà alle sue parole è necessario assumere un
atteggiamento fenomenologico: ciò significa che il clinico deve liberare momentaneamente la
sua mente da tutti i preconcetti che conferirebbero un senso precostituito a ciò che sta dicendo
il paziente. Dunque bisogna conoscere la realtà dell’altro senza farsi influenzare da ciò che già
si sa o si immagina rispetto ad un determinato ambito dell’esperienza. Si parla a tal proposito
di epoché fenomenologica, che nella clinica si declina in una temporanea sospensione del
giudizio, che permette di mettere in evidenza i pregiudizi sulla base dei quali si filtrano le
parole altrui e di conseguenza fa sì che la conoscenza dell’altro sia condizionata in minor
misura dal proprio modo di vedere le cose. Fare epoché significa riflettere su delle questioni a
cui normalmente non si presta attenzione perché rientrano nella sfera delle conoscenze che
diamo per scontate. Si tratta di un atteggiamento deliberatamente assunto in alcuni momenti
del lavoro clinico, in particolare quando si intende conoscere a fondo l’esperienza soggettiva
dell’altro. A tal fine è necessario ricorrere ad uno strumento molto importante nella pratica
clinica: le domande. Le domande vanno formulate accuratamente in quanto il modo in cui esse
vengono elaborate definisce il campo delle possibili risposte; ciò significa che ogni domanda
contiene in sé un insieme di possibili risposte tra cui il paziente deve scegliere. Il rischio è
quello di suggerire implicitamente una risposta che, anziché svelare chi abbiamo di fronte,
rivela la nostra incapacità di dare spazio al punto di vista dell’altro. Per questo motivo è meglio
iniziare con domande molto aperte, facendo attenzione a indicare il meno possibile la via da
percorrere e a non suggerire idee preconcette che influenzino il discorso del paziente. In
alcune occasioni, però, sarà necessario essere più direttivi, porre domande che delimitano i
contenuti da indagare. Attraverso un uso accorto dell’epoché fenomenologica e delle domande
si può dare all’altro la possibilità di parlare con il suo linguaggio, e allo stesso tempo si diviene
consapevoli dei pregiudizi che si hanno sull’argomento trattato.
Forma. Assume particolare importanza il modo in cui il linguaggio del paziente si organizza o
disorganizza; la struttura del discorso rispecchia sia l’identità del parlante che le aree
conflittuali della sua esistenza. Attraverso il tipo di linguaggio utilizzato, l’altro ci comunica
molto più di quanto pensa, soprattutto nei momenti in cui il discorso si destruttura: in queste
circostanze l’individuo rivela i suoi conflitti, le emozioni intense fanno venir meno le regole
della linguistica dando vita ad un linguaggio in cui gli errori parlano per il paziente. Anche i più
piccoli errori quotidiani sono di estremo valore per la conoscenza delle dinamiche inconsce; i
lapsus e tutte le altre formazioni di compromesso sono la testimonianza dell’esistenza di forze
inconsce che usano il linguaggio allo scopo di far emergere pensieri o emozioni che sono poco
tollerati dal soggetto (o, meglio, dal suo Io). È possibile ricavare utili informazioni sul paziente
a partire da due componenti formali del discorso: (a) I sintomi del discorso: si tratta di parole,
frasi, periodi che in qualche modo risultano deformati, disorganizzati o che non si addicono
all’abituale modo di usare le parole da parte del soggetto. Attraverso i sintomi del discorso si
possono formulare ipotesi sui possibili elementi inconsci che hanno destrutturato il linguaggio
del paziente; in tal caso entrano in gioco i conflitti, le problematiche più o meno circoscritte
attivate da ciò che si stava dicendo. (b) Lo stile comunicativo: si tratta del tipico modo che il
paziente utilizza per comunicare; attraverso lo stile comunicativo del soggetto viene fuori la
sua personalità, il suo modo di essere, di costruire la realtà in cui vive, la sua organizzazione
psichica. Il modo abituale di parlare del paziente ci permette anche di ricavare delle
informazioni riguardo al suo stile difensivo o sui disturbi che presenta. Alcuni esempi: il

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linguaggio di un ossessivo comprenderà un’enorme quantità di dettagli, elementi aggiuntivi che


potrebbero anche essere omessi; una persona affetta da depressione maggiore avrà un
linguaggio caratterizzato da frasi brevi, spezzettate, che potrebbero interrompersi prima di
arrivare a fornire le informazioni richieste; e così via. Oltre allo stile comunicativo, ci sono
parole, frasi, predicati che non fanno necessariamente parte del modo abituale di parlare del
paziente, ma che possono aiutare a comprenderlo. Esistono molti vocaboli per indicare lo
stesso concetto, ma il termine usato, la forma assunta dalla frase può dare sfumature di senso
differenti a ciò che si dice (es.: “non ho reagito in modo adeguato” oppure “sono stato un
vigliacco”, ecc.). Il clinico deve saper cogliere queste sfumature, facendo attenzione a come il
paziente parla delle proprie esperienze.

• Il linguaggio perturbante
Nonostante le differenze, ogni rapporto terapeutico è caratterizzato dallo sviluppo di una
relazione che provoca qualche tipo di cambiamento, soprattutto attraverso il dialogo tra i due
membri della coppia. Come già detto, parlare equivale ad agire e ogni atto linguistico è in
grado di influenzare lo stato d’animo, le opinioni, i comportamenti e le decisioni altrui. Alcune
parole, pronunciate in determinati momenti, riescono più di altre a destabilizzare
l’organizzazione psichica di chi le ascolta, procurando dei micro-cambiamenti che inducono,
giorno dopo giorno, a cercare un senso diverso alla propria vita. Si tratta di parole-chiave che
mettono in moto un processo che permette al paziente di sperimentare nuovi modi di
concepire la realtà.
Solitamente i pazienti sono restii ad ascoltare chi vuole farli cambiare; innalzano delle barriere
per “difendersi” da ciò che il clinico potrebbe dir loro. Essi sono terrorizzati dalla possibilità di
cambiare, sperano di essere curati senza essere coinvolti nel processo terapeutico, come se lo
psicologo potesse risolvere i loro problemi magicamente. Tuttavia nessun professionista della
salute mentale ha simili poteri e quindi non si può iniziare una psicoterapia se il paziente non
ha la minima intenzione di mettersi in discussione.
Il clinico deve poi cercare di capire di quali strumenti linguistici dispone per stimolare il
cambiamento. Attraverso la perturbazione si intende far sorgere dei dubbi, stimolare la
riflessione, offrire spiegazioni diverse, suscitare la curiosità, facilitare la riformulazione di un
problema, incoraggiare a guardare le cose da altri punti di vista, e così via. Si cerca, attraverso
dei micro-interventi distribuiti nel corso del colloquio, di attivare quella parte del paziente che
ha voglia di cambiare, sostenendone lo sviluppo, senza aver fretta di risolvere la questione in
poche sedute. Micro-interventi compiuti già in fase di assessment o dalle prime sedute di
psicoterapia possono essere considerati perturbanti.
Nel corso di una psicoterapia, quando si è raggiunta una più approfondita conoscenza del
paziente, è possibile compiere dei macro-interventi, cioè indurre delle perturbazioni che
riguardano diversi aspetti della vita del paziente o che prendono in considerazione le ragioni
“profonde” del suo modo di essere. Perturbazioni di questo tipo risentono molto della variabile
tempo: bisogna scegliere il momento giusto per attuare l’intervento. Tutto dipende dal tipo di
rapporto che si è riusciti ad instaurare, dalla disponibilità della persona a mettersi in
discussione, dalla rigidità del suo assetto di personalità, dalla sua capacità di tollerare gli
interventi del clinico, e così via. Il problema relativo ai tempi giusti è stato parecchio discusso
in psicoanalisi per quanto riguarda l’interpretazione, un processo graduale e complesso
attraverso cui si cerca di mettere in evidenza il senso latente di alcuni fenomeni; questo

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intervento può essere considerato la forma principale di perturbazione attuabile in analisi. Il


rischio di un’interpretazione inappropriata o comunicata troppo presto si riduce se si permette
al paziente di partecipare attivamente alla costruzione del senso da dare alle sue esperienze:
in tal modo l’intervento dello specialista non sarà vissuto come estraneo, in quanto il paziente
sentirà che nel discorso del terapeuta c’è qualcosa che lui stesso ha contribuito a costruire.
Alcune forme comunicative sono più efficaci di altre nel determinare un cambiamento psichico.
Tra queste occupa un posto di primaria importanza la metafora, una figura retorica che
permette di comunicare qualcosa in modo indiretto e che per questo è in grado di superare le
resistenze del paziente, arrivando al cuore del problema senza allarmare le sue difese. Il
potere suggestivo della metafora non dipende dal contenuto trasmesso, ma dal modo in cui
veicola un determinato significato. Le metafore “offrono nuove possibilità di scelta, in
particolare nuovi modi di guardare le cose, e possono stimolare tutta una serie di esperienze,
credenze e idee che sono state sinora inattive nella mente di chi ascolta”; si parla a tal
proposito di una vera e propria “ristrutturazione metaforica”. Altre forme linguistiche che
possono avere un effetto suggestivo sono gli aforismi, i proverbi, le massime, i detti: si tratta
di formulazioni capaci con poche parole di rappresentare in modo chiaro situazioni umane
anche molto complesse e che risultano convincenti per chi le ascolta. Vi sono poi doppi sensi,
giochi di parole, sottintesi, allusioni, insinuazioni, che trasmettono all’interlocutore significati
poco chiari in quanto sono caratterizzati da una maggiore opacità intenzionale rispetto ad altre
forme linguistiche; queste configurazioni comunicative possono essere utili quando si vuole
comunicare un contenuto in maniera implicita perché si ritiene che il paziente non sia in grado
di tollerare interventi più diretti. Altri interventi perturbativi sono il motto di spirito o la
concretizzazione intenzionale: quando i pazienti parlano della propria situazione utilizzando
formule retoriche, ampollose, apparentemente valide, che rivelano la rigidità del loro modo di
essere, si demolisce lo stile retorico del paziente prendendo alla lettera alcune sue
affermazioni.
Le parole dello specialista assumono particolare importanza per il paziente, per questo è
necessario fare molta attenzione ai contenuti veicolati dalle espressioni linguistiche utilizzate,
così da evitare il rischio di lasciare intendere al paziente qualcosa che non si aveva l’intenzione
di comunicare. L’uso di una parola “sbagliata”, nella maggior parte dei casi, non pregiudica
nulla, ma potrebbe comunque influenzare in maniera negativa il lavoro. Dunque lo specialista
dovrebbe limitare al minimo il rischio rappresentato da certe “implicature conversazionali”
involontarie. Si può fare un uso consapevole di tali implicature per esercitare un influsso
positivo sul lavoro psicoterapico, ad esempio parlando di sfide anziché di problemi, di risorse
anziché di handicap, e così via. Vanno evitate le parole che contraddistinguono le formulazioni
aversive, cioè tutte quelle proposizioni che rievocano stati di malessere. Quanto più una
formulazione è negativa e suscita angoscia, tanto meno l’altro sarà disposto ad aderirvi; quindi
si dovrebbe utilizzare un linguaggio che mostri i vantaggi di praticare la condotta auspicata
(es.: anziché “il fumo procura cancro ai polmoni”: “in pochi giorni respirerà meglio”). Altre
formulazioni utilizzate in psicoterapia sono le cosiddette forme linguistiche immaginose, cioè
tutti gli interventi in grado di stimolare la produzione di immagini mentali; infatti, la psiche
umana riesce a lavorare meglio con le immagini che con i concetti astratti.
Tutte le tecniche linguistiche illustrate sono utili soltanto se il clinico le reinventa ogni volta nel
rapporto che stabilisce con ogni paziente, integrandole con l’attività terapeutica e adattandole
alle esigenze di una particolare relazione.

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5) Psicologia ed ermeneutica: il rapporto tra l’espressione e la comprensione umane


• Il colloquio clinico tra oggettivismo e soggettivismo
L’atteggiamento del clinico nei confronti della ricerca condotta nel colloquio può essere
influenzato da un dilemma: egli deve scegliere tra oggettivismo e soggettivismo.
Secondo la prospettiva oggettivista, che è prevalente nella nostra cultura e che coincide con
ciò che comunemente viene considerato “scientifico”, esiste una verità assoluta che può essere
conosciuta se si utilizzano i giusti mezzi. In tale prospettiva il mondo è fatto di oggetti, e la
conoscenza non è altro che la conoscenza delle proprietà di questi oggetti; l’errore è dovuto
alla componente soggettiva, cioè alle percezioni, alle emozioni, e ai pregiudizi che impediscono
di essere oggettivi. Le parole e gli oggetti hanno significati pubblici, autonomi rispetto agli
individui e ai possibili usi individuali. Dunque l’interesse dell’oggettivista consiste nello stabilire
che qualcosa è vero, in quanto egli mira a discriminare il vero dal falso.
La prospettiva soggettivista tiene in massima considerazione le sensazioni soggettive, la
coscienza estetica e morale, in quanto ciò che guida l’esistenza umana è l’intuizione, non il
ragionamento razionale. Attenersi a ciò che è “oggettivo” significa ridurre la vita
all’impersonale. La vera esperienza, secondo la prospettiva soggettivista, è sempre personale,
e per parlarne è necessario utilizzare il linguaggio dell’immaginazione: i significati delle parole
sono sempre privati.
Questi due atteggiamenti riflettono due tipiche preoccupazioni: l’oggettivismo si preoccupa di
comprendere il mondo esterno, per paura di non riuscire a dominarlo e nella speranza di poter
agire in modo vantaggioso; il soggettivismo, invece, si preoccupa di comprendere il mondo
interno, per paura della separazione dall’ambiente e nella speranza di riuscire ad attribuire
significato alle azioni.

• Il colloquio clinico tra prima e terza persona


Secondo Aristotele, i fatti della storia possono essere raccontati in due modi: possono essere
raccontati o rappresentati direttamente dagli attori-protagonisti (racconto in prima persona),
oppure possono essere raccontati da un narratore esterno (racconto in terza persona); tale
distinzione è di fondamentale importanza per la teoria della conoscenza.
La conoscenza in prima persona è la conoscenza dell’altro nella sua soggettività, una
conoscenza fondata sull’immedesimazione, sull’empatia. Secondo questo approccio la relazione
si configura come uno sforzo di comprensione basato sulla rinuncia a se stessi e
sull’assunzione del modo di pensare dell’altro. Il metodo della conoscenza in prima persona
prevede che attraverso l’osservazione e l’ascolto si raccolgano i dati forniti dal paziente e che
poi si utilizzino questi dati per ricostruire nel proprio “spazio interno” il vissuto stesso del
paziente, nel tentativo di vivere quel che il paziente sta vivendo. Questa ricostruzione però
potrebbe essere influenzata dai pregiudizi e dai vissuti del clinico, inoltre non può essere
verificata.
La conoscenza in terza persona è la conoscenza realizzata attraverso paradigmi precostituiti.
Tutte le discipline che vogliono essere “scientifiche” utilizzano un paradigma, una teoria, un
insieme di nozioni che permettono di spiegare i fenomeni; un paradigma, infatti, fornisce delle
leggi generali attraverso cui spiegare dei casi particolari. Lo psicologo che cerca di conoscere il
proprio paziente secondo una prospettiva in terza persona ricondurrà pensieri, emozioni e
comportamenti ad una teoria che possa spiegarli e che permetta di identificarne le cause. Ed è

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proprio questo il limite della conoscenza in terza persona: essa è essenzialmente una
conoscenza delle cause.
Scegliere tra conoscenza in prima o in terza persona equivale, rispettivamente, ad assumere
un atteggiamento soggettivista o oggettivista. Tuttavia allo psicologo clinico risulta evidente
che oggettivismo e soggettivismo non considerano il modo in cui comprendiamo il mondo, in
quanto entrambi gli approcci sono interessati a definire il vero e il falso; lo psicologo clinico,
invece, vuole definire il modo in cui uno specifico paziente concepisce qualcosa come vero.
Comprendere un’altra persona nel contesto di un colloquio significa capire cosa ha reso
possibile ciò che la persona ha detto, in altre parole la “condizione di possibilità”
dell’esperienza del nostro interlocutore. Tale condizione di possibilità riflette il suo mondo, la
sua cultura, la sua tradizione di riferimento, il suo rispetto per alcune autorità, il suo
linguaggio, e così via. Questa terza soluzione tra oggettivismo e soggettivismo che la
psicologia clinica fa propria non vuole rinunciare ai concetti di verità e falsità, né all’oggettività
della scienza: l’oggettività continuerà ad avere valore, ma soltanto nel contesto del sistema
concettuale di una cultura. Lo psicologo clinico non vuole imporre un senso a delle esperienze,
in quanto egli sa che il senso non può essere ricavato da una teoria; il senso delle esperienze
del paziente si trova invece nel lavoro di ricerca che si fa insieme. In questo consiste il lavoro
di interpretazione svolto dallo psicologo: una ricerca condivisa in cui gli orizzonti di due
persone si incontrano.

• Che cosa interpreta lo psicologo clinico?


Nella storia del pensiero occidentale la riflessione critica sull’interpretazione è stata definita
ermeneutica. Questo termine (dal greco hermenéia) riflette diversi significati relativi
all’esprimersi, all’interpretare, al parlare, allo scrivere e al tradurre. L’ermeneutica può essere
definita come una teoria generale della comprensione e dell’interpretazione umane, ma, più in
generale e con maggiore valenza per la psicologia clinica, può anche essere intesa come la
disciplina filosofica che si occupa di riflettere sui processi e le modalità di attribuzione di senso
al mondo umano.
Psicologia ed ermeneutica sono accomunate dal fatto che entrambe si confrontano con il
problema dell’attribuzione di senso; interpretare, infatti, significa attribuire un senso ai segni
espressi e la riflessione dello psicologo mira ad attribuire senso alle espressioni umane.
Il lavoro di interpretazione dello psicologo clinico può consistere nel riconoscimento di un solo
ed unico significato autentico delle espressioni del paziente: in questo caso è implicito il
riconoscimento della presenza di un senso e di significati oggettivi che coincidono con
l’intenzione che una persona, consapevolmente o inconsapevolmente, ha attribuito ad
un’espressione. Secondo questa concezione dell’interpretazione, la psicologia clinica deve
raccogliere sensi e intenzioni del paziente allo scopo di dare una risposta precisa alla domanda
“cosa ha voluto dire?”. Per far questo la psicologia deve spiegare, cioè deve considerare ciò
che osserva come un effetto e andare alla ricerca delle cause.
In alternativa, lo psicologo clinico può avviare il suo lavoro di interpretazione senza ritenere di
poter arrivare ad una conclusione, in quanto la definizione del significato di un’espressione non
è nota neanche a chi quell’espressione l’ha prodotta. Poiché in questo caso non ci sarebbe un
unico significato da individuare, la domanda a cui lo psicologo cerca di rispondere è “cosa
possiamo dire riguardo a ciò che ha detto?”. Per rispondere a questa domanda lo psicologo non

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può più limitarsi a spiegare, cioè non può più cercare di individuare un rapporto univoco tra
causa ed effetto.

• Come interpreta lo psicologo?


Lo psicologo clinico deve porsi alcune domande per conoscere meglio se stesso e il proprio
modo di operare, come ad esempio “durante un colloquio interpreto qualunque espressione del
paziente o trascuro qualcosa?” o “Quando interpreto, riproduco o produco il significato delle
espressioni?”. L’ermeneutica può fornire un utile contributo per riflettere su simili questioni.
Sin dalle origini, l’ermeneutica ha insegnato che l’interpretazione è necessaria anche quando il
testo da leggere è apparentemente chiaro e semplice: infatti esiste sempre una distanza tra il
testo e il lettore, uno spazio creato dal mutare delle condizioni storiche, sociali, culturali,
linguistiche, e così via. Il lavoro interpretativo mira all’attraversamento di questo spazio e alla
ricomposizione del senso generale del testo attraverso la ricostruzione del contesto in cui
l’autore l’ha scritto. La comprensione di un’espressione dipende quindi dalla capacità di
conoscere le condizioni nelle quali agisce la persona che la produce, in particolare il clima
spirituale e i riferimenti culturali; l’obiettivo consiste nella riproduzione del contenuto oggettivo
che quella persona ha voluto significare. Poiché una certa espressione rappresenta soltanto
una minima parte dell’universo contenuto nella mente di una persona, dopo aver compreso il
senso complessivo si può passare ad analizzare le singole parti, la cui comprensione rimanderà
nuovamente al senso generale in un processo infinito che viene definito “circolo ermeneutico”.
Il circolo ermeneutico è quel paradosso per cui le parti di un testo o di un’espressione possono
essere comprese soltanto sulla base dell’intero testo, ma allo stesso tempo tutto il testo può
essere compreso soltanto come insieme delle parti.

• Lo psicologo è libero nelle interpretazioni?


Le persone non sono libere nelle interpretazioni, bensì la capacità di esperienza e di
interpretazione dipende dall’appartenenza ad una comunità, ad un linguaggio e ad una cultura
i quali riempiono lo spazio, la distanza tra il soggetto che interpreta e l’oggetto interpretato.
Questo spazio non è vuoto, dunque non può essere facilmente attraversato fino a raggiungere
l’interpretazione corretta, bensì bisogna pensare ad analizzare e correggere le
precomprensioni. Nell’avvicinarsi ad un’espressione, l’uomo è sempre ed inevitabilmente
orientato: a) dalla sua struttura psicologica, la connessione strutturale, che comprende
sentimento, intelletto, volontà, e che, presenti in ogni vissuto, guidano l’uomo al
soddisfacimento dei propri obiettivi; b) dalla connessione acquisita, cioè l’insieme dei fattori
storici e culturali che agiscono in ogni persona e di cui non si è consapevoli. La
precomprensione nell’uomo è determinata dalla sua cultura, dai suoi interessi, dalle sue
aspettative, ed il senso dato ad un’espressione ne risulterà sempre e inevitabilmente
condizionato. Dunque, nel suo lavoro interpretativo, lo psicologo non può pretendere di
liberarsi dalle sue precomprensioni, ma può mettere alla prova il suo “preorientamento” nel
tentativo di giungere all’interpretazione più valida tra quelle possibili.

• Il pregiudizio nel lavoro psicologico


L’assunzione di un atteggiamento ermeneutico implica il riconoscimento di come non possa
esistere un osservatore puro, totalmente distaccato dal mondo, che conosce le cose in loro
stesse, senza pregiudizi, libero da quanto culturalmente esistente e da quanto linguisticamente

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stabilito. L’idea che la comprensione possa migliorare se ci si libera dei pregiudizi è sbagliata e
deriva da un difetto della riflessione sul significato del comprendere. La nozione di circolo
ermeneutico, com’è stata descritta da Gadamer, si fonda proprio sul pre-giudizio e sulla sua
necessità: i pregiudizi sono assolutamente necessari e soltanto in virtù di essi il processo
interpretativo può avere inizio. Avvicinarsi ad una qualunque espressione umana significa
provare ad applicare, sulla base di un pregiudizio, un’idea sul significato di ciò che si vuole
interpretare, per poi verificare se ciò che si pensa (prima di conoscerlo) dell’oggetto da
interpretare può essere provato come giusto e quindi conservato. I pregiudizi quindi non sono
elementi negativi, ma necessità culturali e psicologiche, storicamente determinate. All’uomo
non è concessa una privilegiata posizione a-storica da cui guardare e comprendere
oggettivamente le cose; egli, al contrario, è sempre “situato”, cioè si trova in una certa
situazione storica e questa sostanza storica dell’uomo include il pregiudizio quale suo elemento
costitutivo, costruito dalla tradizione, dalla cultura, dalla famiglia, ecc.. L’essere dell’uomo ha
natura storica e sociale; dunque l’interpretazione sarà sempre pregiudicata, ma allo stesso
tempo è l’insieme dei pregiudizi formati dalle tradizioni e dalle autorità a rendere possibile la
relazione di interpretazione e la comprensione.
Soggetto che interpreta e oggetto da interpretare sono e possono essere in relazione reciproca
perché si iscrivono nello stesso orizzonte, un orizzonte storico. Dunque interprete e
interpretato sono familiari, nel senso che, pur essendo distanti, sono collegati dalla storia, dallo
sviluppo della cultura, dalle tradizioni, e così via. Questo legame è stato definito da Gadamer
“storia degli effetti” e indica l’insieme delle interpretazioni che si sono succedute nel tempo,
ognuna delle quali ha influenzato la successiva. Il soggetto che interpreta è consapevole di
essere influenzato dalle interpretazioni che lo hanno preceduto e dai paradigmi interpretativi
già costituiti. Lo psicologo deve essere cosciente del fatto che viene inevitabilmente investito
dagli effetti storici: il corretto esercizio dell’ermeneutica parte dall’accettazione della
determinazione storica, delle influenze, dei pregiudizi, degli effetti, e realizza la cosiddetta
“fusione di orizzonti”.

• La verità tra lo psicologo e il paziente: il primato della domanda


Il dialogo rappresenta l’essenza della struttura relazionale dell’essere umano, e dunque
l’interpretazione è un’attività costitutiva dell’agire umano. L’uomo è sempre impegnato in un
dialogo, e anche il pensiero individuale può essere considerato come una forma di colloquio.
L’ermeneutica non mira a svelare verità nascoste, bensì a costruire un senso nuovo attraverso
il dialogo; comprendere una persona non significa scoprire ciò che non è esplicito nelle sue
parole o nei suoi comportamenti, ma trasformare noi e l’altra persona in un dialogo. Il “circolo
ermeneutico” insegna alla pratica psicologica che il tutto (la relazione tra soggetti) può essere
compreso grazie alle parti (i soggetti nella relazione) ma le parti possono essere comprese solo
grazie all’intero.
I nodi concettuali che possono legare la psicologia all’ermeneutica sono 2: (a) il primo è il
riconoscimento che la condizione di possibilità della comprensione reciproca è l’inclusione nella
stessa storia, una storia condivisa (“storia degli effetti”), perché il riconoscere l’altro dipende
dalla capacità e possibilità di includere entrambi nello stesso orizzonte, nello stesso effetto
storico; (b) il secondo è l’assimilazione dell’esperienza di verità all’esperienza estetica:
nell’esperienza estetica si presenta subito la problematica dell’interpretazione; cogliere il senso
di un’espressione umana è come essere affascinati dalla bellezza di un’opera d’arte.

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L’esperienza estetica è un’esperienza di conoscenza che mantiene nel tempo la forma del
dialogo: dinanzi all’opera d’arte non possiamo cessare di porre domande e di mantenerci in
ascolto di ciò che l’opera vuole comunicare. La comprensione dell’esistenza umana è
paragonabile allo stare in presenza di un’opera d’arte, con tutta la sua “irragionevolezza”.
Lo psicologo clinico non può esimersi dal compiere su se stesso alcuni importanti
“esperimenti”, tra cui quello di riflettere criticamente su ciò che intende per verità, in quanto
un’elaborazione dei propri strumenti può avviare un cambiamento dell’atteggiamento possibile
nel colloquio con il paziente. Un possibile esperimento consiste nella valutazione critica del
concetto di domanda. Il tipo, la struttura, la forma delle domande rappresentano le condizioni
di possibilità delle risposte del paziente. All’interno del colloquio clinico la domanda acquista
pieno valore e acquisisce una sorta di primato rispetto alla risposta, tanto che si potrebbe
affermare che la forma logica del colloquio è la domanda. Durante un colloquio si cercano le
motivazioni implicite a quanto il paziente afferma, quei presupposti che non vengono enunciati
e che ci permettono di comprendere veramente ciò che il paziente ci dice di sé; dunque
bisogna cercare le domande rispetto alle quali le affermazioni del paziente sono risposte; ogni
affermazione, infatti, trova il suo principio in un problema ed è originata da domande che non
vengono esplicitate.

• Il colloquio come racconto


Lo psicologo deve decidere in che modo considerare ciò che il paziente dice e come lo dice;
infatti la componente retorica del dialogo terapeutico è essenziale al dialogo stesso e può avere
una forte valenza terapeutica. Assume particolare rilevanza a tal proposito la riflessione sulla
narrazione. Il racconto è un’azione necessaria per rendere il tempo un “tempo umano”.
Soltanto nell’organizzazione di una narrazione il tempo si umanizza, diventando tempo vissuto,
e i contenuti del racconto possono essere armonizzati in una coerente dialettica di passato,
presente e futuro. Gli eventi diventano significativi soltanto se organizzati rispetto ad una
dimensione temporale, e l’organizzazione temporale di eventi è un racconto. La costruzione di
un racconto è un’operazione in cui ogni singolo evento può acquistare un giusto significato solo
se coerente con il contesto generale dell’intera storia in cui è inserito e, allo stesso tempo,
l’intera storia acquista un senso dalla sommatoria dei singoli eventi (circolo ermeneutico).

• Utilità dell’ermeneutica per la psicologia clinica


L’ermeneutica rappresenta per lo psicologo un’opportunità di riflessione critica. Nel rapporto
con il paziente, l’approccio ermeneutico insegna a rinunciare alla rigidità, ad abbandonare le
proprie posizioni per dare spazio all’altro e alla costruzione condivisa dei significati dei vissuti.
Il modello ermeneutico costituisce l’approccio più efficace per pensare la diversità. Lo sforzo
che bisogna compiere per comprendere la diversità di un’altra persona non indica
necessariamente che ci sia nell’altro qualcosa di nascosto da svelare, un senso segreto;
l’approccio ermeneutico suggerisce piuttosto che il senso va costruito, prodotto nella relazione.
Il primo passo per avvicinarsi alla patologia, come fa l’ermeneutica con un’opera d’arte,
consiste nel riconoscerne l’autonomia, la forza, la capacità di creare un mondo nuovo, per poi
tentare di ridurla ad un numero finito di cause e condizioni.
Vi sono però anche delle possibili obiezioni all’approccio ermeneutico ed alla sua validità. Per la
psicologia queste obiezioni possono essere raggruppate in due categorie: (1) la prima
categoria può essere descritta dalla formulazione di Habermas, secondo il quale per realizzare

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la comprensione si dovrebbe sempre mantenere un atteggiamento sospettoso e sforzarsi di


assumere un punto di vista esterno alla cultura ed alla tradizione dominanti per poter gestire
consapevolmente i pregiudizi; solo in questo modo si potrà provare a vedere le cose come
sono, in quanto esse perderanno i mascheramenti prodotti dalle ideologie. (2) Il secondo tipo
di obiezione è quello secondo cui l’ermeneutica costituisce una sorta di rinnovato
immaterialismo, nel senso che non attribuisce valore di realtà alle cose, ai fatti e agli eventi, in
quanto l’unica realtà è quella delle interpretazioni.
Al di là delle diverse prospettive, l’ermeneutica si propone come una metodologia critica per la
psicologia, un approccio che riconosce l’inesauribilità dell’oggetto da interpretare e non cerca di
ridurlo completamente a sé, ed è consapevole del fatto che una persona non può essere
spiegata totalmente nel mondo in cui si trova perché non appartiene solo al passato, ma anche
al futuro. L’ermeneutica coglie le occasioni che si presentano nel colloquio per variare le
interpretazioni e si muove tra diversi paradigmi interpretativi senza assolutizzare nessuno.

6) Il concetto di dispositivo di vulnerabilità


Con il termine dispositivo si fa qui riferimento a quei fenomeni che fanno parte dell’esistenza
umana e che ne rappresentano il fondamento. La parola vuole indicare che questi fenomeni
non sono disposti dall’uomo, bensì dispongono dell’uomo stesso. Essi costituiscono istituzioni
interne alla vita di ogni essere umano e agiscono in maniera implicita. I dispositivi fanno parte
della cultura a cui si appartiene, e quindi sono gli “a priori” tipici dell’esistenza umana in una
data cultura. Il fatto che essi non siano disposti dall’uomo non significa che limitano la sua
libertà, ma che ne tracciano i confini, la delimitano, rappresentando dei vincoli; pongono dei
problemi che devono essere affrontati e non possono essere evitati.
In questo contesto si aggiunge alla nozione di dispositivo quella di vulnerabilità; con questo
concetto si fa riferimento a quelle caratteristiche che fanno di un uomo allo stesso tempo un
essere fragile e disposto alla malattia e una persona in rapporto dialettico con se stessa e con il
mondo. Con vulnerabilità, dunque, non si intende predisposizione, ma ci si riferisce all’essere
sospesi tra salute e malattia. La nozione di dispositivo di vulnerabilità può declinarsi nel
termine “dispositivo patogeno”, con il quale si enfatizza il versante psicopatologico.
Nell’anamnesi i dispositivi di vulnerabilità indicano dove andare a cercare i punti di svolta, gli
snodi cruciali per lo svilupparsi dei quadri morbosi. Dunque essi si propongono come uno
strumento per tracciare la mappa di un percorso psicopatologico.
Tra i vari dispositivi di vulnerabilità, ci occuperemo di: conflitto, trauma, umore, coscienza.

7) Conflitto
• Introduzione
Il conflitto è un fenomeno universale nell’esistenza umana. Come fenomeno clinico, esso è
stato considerato dalla psicoanalisi come snodo patogenetico fondamentale nel percorso
psicopatologico. Il conflitto rappresenta la contrapposizione tra istanze o esigenze contrastanti;
per la clinica di matrice dinamica, è questa contrapposizione a dare origine ai sintomi. In
questo senso, dunque, il conflitto è il principio dinamico per eccellenza. Il principio dinamico si
declina in maniera duplice: (1) Esiste una dialettica tra istanze psichiche contrapposte la cui
indagine permette di comprendere l’origine e il senso dei sintomi psicopatologici in quanto
formazioni di compromesso; la patologia mentale è il risultato di un gioco di forze, della rottura
di un equilibrio, e rappresenta il tentativo di ristabilire una conciliazione tramite il

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compromesso rappresentato dal sintomo. Si parla a tal proposito di principio dinamico in senso
stretto. (2) In senso più ampio, la clinica si occupa di un altro tipo di dialettica, quella tra la
persona e i suoi conflitti, o, in una prospettiva più ampia, tra la persona e la sua vulnerabilità.
Ogni individuo, infatti, ha la possibilità di prendere posizione nei confronti dei propri conflitti. I
quadri morbosi, i percorsi psicopatologici e gli esiti della patologia dipendono dal rapporto
dialettico tra la persona e la sua vulnerabilità. Si parla a tal proposito di principio dinamico in
senso lato o principio dialettico. Secondo questo principio nessun malato è interamente tale,
bensì vi è sempre uno scarto tra il malato e la malattia, ed è proprio in questo scarto che la
persona può prendere posizione nei confronti della propria vulnerabilità.
Secondo il pensiero filosofico la condizione umana è intrinsecamente conflittuale. Viene
formulata una metafisica del conflitto, o un’ontologia della disunione, a partire dal
riconoscimento della doppia appartenenza dell’uomo, sospeso tra natura e cultura, tra pulsioni
vitali e civiltà, tra bisogno di socialità e di separatezza, tra aspirazione all’appartenenza e
all’individualità, tra rappresentazioni della propria identità diverse e contrastanti. L’esistenza
umana è però caratterizzata da un’ulteriore doppiezza, che consiste nella non-coincidenza
dell’uomo con se stesso. Questa non-coincidenza del Sé con se stesso, o “eccentricità”, è alla
base della capacità prettamente umana di auto-coscienza e di auto-riflessione, di essere
spettatore di se stesso, di potersi osservare dall’esterno. Si può parlare a tal proposito di
un’ontologia dell’eccentricità, che offre all’uomo la possibilità e il compito di prendere posizione
nei confronti di se stesso, di giudicarsi, valutarsi, e così via.

• L’eredità psicoanalitica
La nozione di conflitto psichico rappresenta un prezioso contributo della teoria psicoanalitica
per la comprensione della patologia nevrotica. La psicoanalisi considera il conflitto come
costitutivo dell’essere umano. Un polo del conflitto è rappresentato sempre dalle pulsioni
sessuali; l’altro polo, invece, cambia nel corso dell’opera freudiana. (1) In una prima fase, alla
sessualità Freud contrappone le aspirazioni dell’Io. Negli “Studi sull’isteria” egli affermava che,
man mano che ci si avvicina nel processo di cura a ricordi patogeni di natura sessuale, si
incontra una resistenza sempre maggiore; questa resistenza è l’espressione di una difesa che
l’Io oppone a ricordi inaccettabili, cioè contrari e incompatibili con le proprie aspirazioni etiche
ed estetiche. Ne “L’interpretazione dei sogni” Freud espone la cosiddetta “prima topica” o
“modello topografico”, cioè la suddivisione dell’apparato psichico in 3 sottosistemi: conscio,
pre-conscio, inconscio. Il conflitto tra le pulsioni sessuali inconsce e la coscienza rappresenta la
radice dei diversi quadri psicopatologici. (2) In una seconda fase, alle pulsioni sessuali si
contrappongono le cosiddette “pulsioni dell’Io” o “di autoconservazione”; esse sono le pulsioni
necessarie alla conservazione della vita dell’individuo, costituiscono i bisogni primari non
sessuali di un individuo. Le pulsioni di autoconservazione, a differenza di quelle sessuali,
possono essere soddisfatte soltanto da un oggetto reale; esse sono regolate dal “principio di
realtà”, mentre le pulsioni obbediscono al “principio di piacere”. (3) In una terza fase il conflitto
è tra pulsioni di vita e pulsioni di morte; le pulsioni di vita (eros) comprendono, oltre alle
pulsioni sessuali, anche le pulsioni di autoconservazione, il narcisismo, la socialità. La pulsione
di morte (thanatos) è la tendenza al ritorno alla pace dell’inorganico e si manifesta
nell’aggressività e nel sadismo. La pulsione di morte, oltre a costituire un polo del conflitto,
viene concettualizzata anche come la tendenza stessa al conflitto, come il principio della lotta e
della disunione; la pulsione di vita, invece, viene concepita come la tendenza ad unire.

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• Il conflitto e l’ansia
Secondo Freud, l’uomo è un essere costantemente in conflitto con se stesso, o meglio: egli
ospita delle istanze psichiche (pulsioni vs. difese, pulsioni in contrasto tra loro, tendenza ad
unire vs. a separare) che rappresentano delle linee di forza in perenne conflitto tra loro. Tale
conflitto genera ansia, un’emozione sgradevole che consiste in uno stato di tensione e di
allarme. L’ansia fa attivare dei meccanismi di difesa, la cui azione porta ad un compromesso
tra le parti in conflitto: queste formazioni di compromesso rappresentano in alcuni casi delle
soluzioni adattive, in altri casi sono costituite da sintomi e quadri psicopatologici.
Secondo la psicoanalisi, l’ansia ha la funzione di segnalare un pericolo proveniente
dall’inconscio. Nell’ottica psicodinamica l’ansia è la manifestazione sintomatica di un conflitto
dovuto all’incompatibilità tra un desiderio e un’ingiunzione morale, tra desiderio e realtà, tra
realtà interna e realtà esterna, e così via. (1) Freud aveva inizialmente concepito l’ansia come
un senso di inquietudine diffuso e indifferenziato che nasce da un desiderio rimosso, o come il
senso di tensione che deriva da un accumulo di pulsioni biologiche inibite (es.: nevrosi). (2)
Successivamente egli considerò l’ansia come il risultato delle minacce di punizione provenienti
dal Super-Io (es.: melancolia). (3) L’ansia è stata anche concettualizzata come un segnale
adattivo che mette in moto le difese dell’Io, il cui scopo è quello di allontanare dalla coscienza
pulsioni, sentimenti e pensieri inaccettabili. In quest’accezione l’ansia è sia al centro dello
sviluppo normale che delle deviazioni patologiche. (4) In un momento successivo l’ansia finisce
con l’indicare ogni emozione negativa: vengono così meno le differenze tra emozioni diverse
(rabbia, vergogna, ansia in senso stretto, ecc.) che scaturiscono dal conflitto. (5) Nella
letteratura psicoanalitica successiva all’opera di Anna Freud, l’accento si è spostato dal ruolo
patogeno del conflitto alla definizione delle nevrosi e dei disturbi di personalità in quanto
caratterizzati da particolari e specifici meccanismi di difesa. In quest’ottica i diversi quadri
psicopatologici possono essere differenziati sulla base dei meccanismi di difesa messi in moto
dall’ansia. Questo modo di considerare la clinica e la genesi dei quadri morbosi, in cui
assumono un ruolo prioritario i meccanismi di difesa mentre non viene data importanza alla
natura del conflitto e alle emozioni, va a scapito di una descrizione precisa di questi ultimi e
finisce con l’impoverire la caratterizzazione clinica, rendendo il percorso che conduce dal
conflitto al sintomo tendenzialmente de-soggettivizzato e impersonale. La tendenza a
caratterizzare i quadri morbosi sulla base dei meccanismi di difesa implicati va integrata quindi
con un’accurata analisi dei conflitti e delle emozioni in gioco. Un contributo in tal senso viene
fornito dalla Diagnosi Psicodinamica Operazionalizzata (OPD) che classifica, sulla base
dell’esperienza soggettiva delle interazioni conflittuali, sette tipi di conflitto persistenti nel
tempo, cioè le tensioni irrisolte che determinano il vissuto e il comportamento della persona
per lunghi periodi di tempo. I tipi di conflitto presi in considerazione sono 7: 1) Dipendenza vs.
autonomia: è il conflitto tra il bisogno dell’altro e il bisogno di essere indipendente, e
l’emozione connessa a tale conflitto è l’angoscia, dovuta all’avvicinamento o
all’allontanamento; 2) Sottomissione vs. controllo: le principali emozioni connesse a questo
conflitto sono irritazione, rabbia e paura in caso di conflitti interpersonali (sottomissione vs.
ribellione) e colpa e vergogna in caso di conflitti interni (spontaneità vs. adesione alle regole);
3) Accudimento vs. autarchia: è il conflitto tra l’utilizzare gli altri per ottenere qualcosa e
l’essere totalmente autosufficienti; le principali emozioni connesse a questo conflitto sono il
lutto prolungato e la depressione; 4) Valorizzazione del sé vs. valorizzazione dell’altro: si tratta

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dei conflitti narcisistici che ruotano attorno al tema dell’autostima; le emozioni connesse sono
la vergogna, indice della crisi dell’autostima, e la rabbia narcisistica; 5) Tendenze egoistiche
vs. tendenze pro-sociali: è il conflitto tra l’individuare la colpa in se stessi oppure negli altri; 6)
Conflitti edipico-sessuali, in cui i bisogni di natura sessuale si scontrano con istanze opposte di
diversa specie; 7) Conflitti relativi all’identità che derivano da rappresentazioni contraddittorie
del Sé: la persona assume ruoli sociali diversi e molteplici per superare l’insicurezza
fondamentale tipica di questo conflitto.

• Il conflitto e l’antropologia psicoanalitica


Per comprendere pienamente la nozione di “conflitto” in quanto dispositivo patogenetico, è
necessario inquadrarla come dispositivo antropologico.
Sin dall’inizio della psicoanalisi, il tema per eccellenza del conflitto è la contrapposizione tra
sessualità e morale: da un lato c’è il ricordo di un’esperienza sessuale infantile, dall’altro le
norme morali del soggetto. Ciò che il soggetto rifiuta è un aspetto della sua sessualità
rappresentato da un ricordo o da una fantasia traumatica infantile.
Il tema della contrapposizione tra sessualità e morale raggiunge il suo pieno sviluppo nella
concettualizzazione del complesso edipico; esso è considerato da Freud un universale
antropologico, cioè sarebbe presente in ogni epoca e cultura, e consiste nell’insieme di desideri
amorosi e ostili rivolto ai genitori e nel relativo conflitto tra desiderio sessuale e divieto. Il
conflitto edipico è la dimostrazione della congiunzione originaria tra desiderio sessuale e
divieto. Le pulsioni non sono in sintonia con le esigenze della vita individuale e della specie e
devono quindi essere dirette e modulate da un’istanza esterna per non divergere dal piano
della sopravvivenza e dell’adattamento. Ogni azione è, per la psicoanalisi, il risultato di un
conflitto tra pulsioni diverse e tra le pulsioni e l’Io cosciente. L’Io, se non vuole essere il mero
esecutore delle pulsioni al servizio dell’Es, deve regolare le pulsioni. La libertà umana è una
forma di opposizione al dominio delle pulsioni; tale liberazione avviene prevalentemente
attraverso la presa di coscienza da parte dell’Io delle proprie pulsioni.
Ad un primo ordine di costrizione, quello esercitato dalle pulsioni inconsce sull’Io, si aggiunge
un secondo ordine di fenomeni a generare tensione, non-libertà e patologia: la costrizione
esercitata sulle pulsioni dalla morale e dalla civiltà. Vi è dunque un conflitto anche tra le
pulsioni, in quanto forze originarie provenienti dalla sfera biologica e quindi dall’interno, e le
istanze “esterne” che regolano i rapporti tra l’Io e il mondo. Se le pulsioni vengono represse,
esse riaffiorano sotto forma di sintomi e nevrosi. La conquista da parte dell’Io non deve
implicare la frustrazione delle pulsioni, la loro radicale repressione, bensì la loro moderazione
al fine di instaurare un equilibrio tra l’Io e le pulsioni. A partire da questa concezione si
sviluppano due tesi, a cui corrispondo due etiche e due modelli terapeutici: 1) la prima afferma
che la persona trova la propria salute soltanto se si adegua ai modelli proposti dalla società a
cui appartiene e quindi il superamento della patologia avviene attraverso l’adattamento a tali
modelli, cioè attraverso il compromesso tra pulsioni individuali e norme sociali; 2) La seconda
tesi afferma che la salute deriva dalla libertà dai modelli imposti dalla società; in tal caso il
processo terapeutico si configura come mascheramento dei condizionamenti della società.

• Il conflitto come dispositivo antropologico


Nel corso dell’Ottocento, terminata l’epoca del primato della ragione, l’elemento corporeo
pulsionale acquista un ruolo di primo piano. Il pensiero di Freud è erede della tradizione

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promossa da Feuerbach, Kierkegaard, Schopenhauer, Nietzsche. Come questi autori, anche


Freud mette in evidenza, oltre alla natura essenzialmente conflittuale dell’esistenza umana, il
primato delle pulsioni inconsce come determinanti il comportamento umano, e dunque il
primato della corporeità sulla ragione e sullo spirito.
A partire dagli anni ’20 del Novecento, si assiste alla nascita dell’antropologia moderna, detta
non speculativa in quanto orientata da analisi empiriche, principalmente dalla biologia, dalla
medicina, dalla psicologia e dalla sociologia. Gli autori più importanti dell’antropologia
moderna, cioè Scheler, Plessner e Gehlen, continuano a focalizzarsi sulla doppia appartenenza
dell’uomo alla dimensione naturale e a quella culturale, che mette l’uomo in conflitto con se
stesso. Questi autori si sono interrogati principalmente su ciò che caratterizza l’uomo e lo
distingue dagli altri animali. Scheler caratterizza l’essere dell’uomo come la possibilità di dire
no, di sublimare le proprie pulsioni. In questo atto di sublimazione e negazione, secondo
Scheler, entra in gioco un elemento vitale che l’uomo non condivide con gli altri animali:
questo elemento è lo Spirito, ciò che caratterizza l’uomo in quanto persona. Analogamente,
Gehlen afferma che l’uomo è quell’essere in grado di “prendere posizione” rispetto alle proprie
pulsioni.
Eccesso pulsionale e difetto istintuale. Nel suo scritto “La posizione dell’uomo nel cosmo”,
Scheler descrive cinque gradi dell’esistenza umana: (1) Il primo grado è costituito dall’impulso
affettivo estatico: si tratta di un moto di tipo vegetativo e auto-conservativo che accomuna
ogni essere vivente, animale o vegetale. Si tratta di un tendere-a una fonte di piacere e di un
ritrarsi-da una fonte di dolore. (2) Il secondo grado è costituito dall’istinto; esso appare
indirizzato verso elementi dell’ambiente specie-specifici. Mentre per un animale l’istinto è molto
importante e si trova alla base di comportamenti conformi alla vita, ciò non vale per l’uomo, il
quale non può affidarsi totalmente ai propri istinti. (3) Il terzo grado della vita umana è
costituito dalla “memoria associativa”, grazie alla quale nuovi orientamenti del comportamento
risultanti dall’apprendimento vengono fissati e si trasformano in abitudini. La memoria
associativa è per l’uomo alla base della tradizione e della cultura ed essa rappresenta un
potente strumento di emancipazione dall’istinto stesso. Tra istinti e pulsioni vi sono delle
differenze sostanziali: mentre gli istinti sono regolati in se stessi e dall’interno, le pulsioni
devono essere regolate dall’esterno. L’uomo si distingue dagli altri animali in quanto
caratterizzato da un eccesso pulsionale costituzionale e da una carenza istintuale. (4) Il quarto
grado della vita umana è detto “intelligenza pratica”; si tratta di un sapere riflessivo (cioè non
istintuale) volto al raggiungimento di uno scopo. La sua caratteristica principale è la capacità di
attuare comportamenti inediti. Esso dà la possibilità di scegliere i mezzi per appagare gli
impulsi. (5) Il quinto e ultimo grado, propriamente umano, è definito da Scheler “spirito” o
“persona spirituale”; grazie ad esso l’uomo può emanciparsi dal ruolo di servitore della vita.
Capacità di inibire e sublimare le pulsioni. Lo spirito è, per Scheler, principio di negazione
della vita pulsionale. L’uomo è “colui che sa dir di no” alla realtà, annullando così la totale
sottomissione alle esigenze vitali che caratterizza l’esistenza animale, neutralizzando ogni
conflitto con il mondo, l’attrito dal quale emerge il senso di realtà. Per far ciò bisogna eliminare
quell’impulso vitale a causa del quale il mondo appare come reale, cioè come utile ai fini della
sopravvivenza; in tal modo si elimina “l’angoscia di quanto è terreno”.
Nonostante questo potere, lo spirito non possiede una forza autonoma, ma deve acquisirla
tramite un processo di trasformazione, ovvero di sublimazione, della potenza dei gradi

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inferiori. Tramite le proprie azioni, prendendo energia dalla sublimazione delle proprie pulsioni,
l’uomo può disciplinare se stesso.
Eccentricità e posizionalità. Disciplinare se stessi è una reale necessità dell’esistenza
umana. L’uomo ha come caratteristica peculiare l’essere eccentrico. Essere eccentrici significa
vivere costantemente ad una certa distanza da se stessi e dal proprio ambiente; ciò significa
che l’uomo può cogliere “da spettatore” sia la propria sfera interiore che quella esteriore, come
separate dalla propria coscienza. Ogni uomo non coincide con se stesso, e proprio in virtù dello
scarto presente tra sé e se stesso può stabilire un rapporto con se stesso. La non-coincidenza
con se stesso fa sì che l’uomo sia capace di riflessione; questa capacità riflessiva è la base
della possibilità di farsi un’idea di sé, di costruirsi una propria rappresentazione di se stesso, di
definire la propria posizione. L’uomo ha la necessità di condurre la propria vita, determinare la
propria posizione nel cosmo e nella rete delle relazioni sociali, creare una rappresentazione
della propria identità: questa è la legge dell’artificialità naturale. La necessità di costruire il
proprio mondo e la propria immagine è per l’uomo un bisogno imprescindibile.

• Conflitto e identità personale


La nozione di conflitto indica il contrasto tra istanze pulsionali-biologiche e morali-spirituali, ed
è principalmente in questa accezione che si configura nell’antropologia filosofica di Scheler e
viene utilizzata nella letteratura psicoanalitica. Tuttavia il conflitto non riguarda soltanto
l’opposizione tra pulsioni e morale, ma fa anche riferimento all’eccentricità e alla doppiezza
della condizione umana. Il termine “homo duplex” venne coniato dal filosofo francese Maine de
Biran; secondo questo autore l’uomo ha una doppia appartenenza: la prima relativa al suo
essere parte della natura, la seconda relativa al suo essere parte dell’umanità. L’essere doppi
non consiste soltanto nell’essere sospesi in bilico tra natura e cultura; l’uomo è doppio in virtù
della propria eccentricità, grazie alla quale può prendere in esame la propria esistenza,
trascendere il proprio modo di essere e interrogarsi sulla propria identità. Non soltanto l’uomo
pone domande sul proprio essere parte della natura e della cultura; egli mette anche in dubbio
la propria stessa identità. Ognuno di noi ospita in sé una parte di alterità, sotto forma di una
pulsione repressa, di una “possibilità di essere” non realizzata, di un progetto accantonato ma
mai rinnegato, di un ruolo sociale in contraddizione con ciò che si crede essere la propria
aspirazione più autentica. L’identità umana è quindi il risultato della continua dialettica con
l’alterità che alberga in noi, una dialettica tra opposti che rende evidente la nostra
fondamentale e costitutiva doppiezza. La doppiezza che caratterizza la condizione umana fa sì
che l’uomo sia perennemente in conflitto con se stesso; il conflitto può dare origine ad una
dialettica vitale e non soltanto ad un sintomo o ad un disturbo psicopatologico. Questa
dialettica coinvolge ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, l’identità egoica (quello che
pensiamo di essere) e l’identità di ruolo (il ruolo sociale che assumiamo quotidianamente), o i
diversi ruoli sociali che si assumono nelle varie circostanze della vita. Non soltanto dal conflitto
in sé, ma anche dalla crisi di questa dialettica identitaria può avere origine la patologia.

• Il volontario e l’involontario
Nel saggio intitolato “Il volontario e l’involontario”, Ricoeur formula una teoria che dimostra
l’essenza conflittuale dell’esistenza umana. (a) Tale essenza risulta radicata nel principio del
disordine e della indeterminazione dell’esistenza corporea, nell’incoerenza dei valori sociali, e
nel contrasto tra queste due sfere dell’involontario. (b) In tale saggio si cerca inoltre di

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dimostrare il rapporto dialettico tra questi strati conflittuali primordiali dell’esistenza e la sfera
del volontario, un rapporto che non è di opposizione ma di interpenetrazione e di reciprocità.
(a) Nello strato più primordiale dell’esistenza umana, che Ricoeur definisce strato
dell’involontario corporeo, caratterizzato da valori “organici” o “vitali” (fame, sete, paura, ecc.),
si manifestano necessità eterogenee, frutto di valori contrastanti. Ciò che si manifesta è
l’ambiguità della vita organica, la complessità delle tendenze organiche. Il corpo è dunque la
fonte dell’indeterminazione dell’esistenza umana e l’esistenza corporea è definita da Ricoeur
“principio di disordine e indeterminazione”. I valori del livello organico, oltre ad essere in
conflitto tra loro, sono in conflitto con i valori sociali. Questi ultimi, a loro volta, non
rappresentano un insieme coerente, ma sono in opposizione tra loro. Tutti questi valori,
organici e sociali, non sono soltanto in conflitto tra loro, ma entrano in una relazione dialettica
con l’Io. Dunque la condizione umana è caratterizzata dalla necessità e dalla possibilità di
prendere una posizione di fronte alla sfera dei valori organici e sociali.
(b) Libet ha mostrato che c’è un volontario a livello dell’involontario. Tra l’involontario e la
volontà non c’è un rapporto antitetico, essi non appartengono a due sfere distinte che non
comunicano tra loro. Al contrario, il rapporto tra volontario e involontario è di tipo chiasmatico.
La sfera del volontario può recepire o meno i valori organici e sociali; questa recettività diventa
passività nella resa e nell’alienazione. Il rapporto tra l’involontario e la volontà è di reciprocità.
La relazione circolare tra motivazione e volontà è descritta da Ricoeur attraverso due frasi: il
mio corpo è corpo-per-la-mia-volontà, e la mia volontà è progetto basato-(in parte)-sul-mio-
corpo. Le motivazioni rendono la volontà reale, la volontà conferisce alle motivazioni
significato. La dialettica tra volontario e involontario può essere sintetizzata nella formula
secondo cui la libertà umana è motivata, incarnata e contingente.

• La nozione di conflitto e il modello dialettico della patologia mentale


La nozione di conflitto e la visione dell’uomo che vi sta alla base, cioè la fondamentale
doppiezza della condizione umana e la possibilità dell’uomo di prendere posizione nei confronti
di se stesso, rappresentano il fondamento del modello dialettico e di una visione
fenomenologico-dinamica della malattia mentale. Infatti pensare ad una persona che possa
prendere posizione rispetto alla propria vulnerabilità significa introdurre una visione
autenticamente dinamica della malattia mentale, vedere la malattia mentale come la risultante
di un gioco di forze e conseguenza della rottura di un equilibrio in cui anche le vicende di vita e
l’ambiente assumono un ruolo molto importante. La fondamentale doppiezza della condizione
umana è l’origine dei comportamenti umani, dello sviluppo della personalità e della genesi dei
sintomi e dei quadri morbosi. Questa idea è stata introdotta nella psicopatologia all’inizio
dell’Ottocento da Philippe Pinel. I principi fondamentali su cui si basa la sua teoria della
malattia mentale sono: 1) inquadramento nosodromico delle varie forme morbose; 2)
parzialità della follia: nessun folle è completamente tale, ma resta sempre una parte della
persona non invasa dalla follia capace di osservare l’altra parte di sé, quella che affronta la
patologia; 3) i quadri morbosi derivano dall’interazione della persona con la sua vulnerabilità.
La dialettica tra persona e vulnerabilità permette di spiegare perché ogni paziente abbia la
propria sintomatologia che si discosta dalla sintomatologia elencata e descritta nei criteri
diagnostici. In altre parole vi sono delle differenze tra casi reali e il caso descritto nei manuali
diagnostici; le categorie diagnostiche trascurano le peculiarità dei singoli casi e le differenze tra
individui reali, peculiarità che riguardano i sintomi, le sindromi, i decorsi e gli esiti. Per quanto

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riguarda inoltre il processo terapeutico, differenziando il modo in cui la persona prende


posizione nei confronti della propria vulnerabilità diviene possibile comprendere anche gli sforzi
di guarigione e prevenzione attuati dalla persona e apprendere quali processi possono essere
rilevanti per il trattamento.

8) Trauma
• Introduzione
Il trauma svolge un ruolo determinante nell’origine e nello sviluppo dei fenomeni
psicopatologici; per questo, per comprendere tali fenomeni, è necessario ricostruire l’evento
traumatico. Mentre il dispositivo di vulnerabilità del conflitto risulta correlato alle patologie
nevrotiche, il trauma, sebbene sia nato come strumento concettuale per comprendere la
patologia isterica, ha esteso tali potenzialità fino al limite tra nevrosi e psicosi, e in particolare
nell’area del disturbo borderline di personalità e dei disturbi dissociativi.
Il concetto di trauma fu introdotto da Charcot nelle sue lezioni sull’isteria (1885). Egli aveva a
che fare con dei pazienti che avevano subito uno shock fisico (es.: infortunio sul lavoro,
incidente stradale, ecc.) e che presentavano dei sintomi neurologici (di solito una paralisi).
Attraverso degli accurati esami neurologici, Charcot mise in evidenza che il trauma fisico era
leggero o era stato assorbito, mentre i sintomi rimanevano. Inoltre i sintomi, la loro
localizzazione e la loro correlazione non potevano corrispondere ad una lesione organica del
sistema nervoso; la loro distribuzione era legata ad una sorta di “anatomia immaginaria”. A
partire da queste osservazioni Charcot elaborò la teoria secondo cui l’isteria è dovuta ad un
trauma psichico e i sintomi dell’isteria rappresentano una sindrome psicopatologica. Si passò
così da un determinismo esteriore ad un determinismo interiore. Per la sua centralità, sia
antropologica che psicopatologica, il concetto di trauma può assumere diversi significati.

• Trauma - effrazione
La parola trauma rimanda al campo della medicina, e in particolare alla chirurgia e
all’ortopedia; essa fa riferimento ad un urto esercitato su un organo o su un apparato
corporeo. In ambito psicologico questo termine è al centro di numerose metafore che fanno
pensare ad un’effrazione meccanica esercitata dall’esterno verso l’interno; la conseguenza di
questa effrazione, di quest’urto, è la penetrazione di un frammento del mondo esterno
all’interno dell’organismo urtato e il suo incistamento nell’intimo dell’organismo stesso. La
nozione psicologica di trauma, quindi, si focalizza sull’effetto che un attacco proveniente
dall’esterno ha sull’interno, e sul sequestro del “corpo estraneo” nel profondo del mondo
interno; questo corpo estraneo causa irritazione e inutili tentativi di assimilazione o espulsione.
Questa visione consta di due parti. (1) In primo luogo c’è l’idea che il trauma sia un attacco
che l’esterno compie ai danni dell’interno. Quest’idea si basa sulla teoria secondo la quale per
l’organismo tutto ciò che lo tocca dall’esterno sia un problema e, di conseguenza, un
organismo separato dall’esterno è in uno stato di perfetta stabilità e assoluta tranquillità; più
l’organismo psichico riesce a mantenersi autarchico e autosufficiente, meglio è. (2) In secondo
luogo, c’è l’idea che il trauma si incisti nell’organismo come un corpo estraneo, come una
scheggia. Effettivamente la parola “trauma” in greco significa “ferita”: l’idea originariamente
legata alla nozione di trauma psichico è che siamo portatori di una ferita risalente ad epoche
remote; questa ferita è profonda e non è visibile in quanto tale in quanto nascosta da una
cicatrice. Questa traccia inconscia costituisce un “luogo di minore resistenza” su cui andranno

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ad insistere le ferite successive. Il prototipo della ferita profonda legata al trauma è l’abuso
sessuale.
Questa accezione del trauma si basa sul principio che il frammento del mondo esterno che è
penetrato in profondità nel mondo interno condiziona il comportamento della persona. È
l’effetto permanente del trauma a dominare la condotta della persona, la quale è
inconsapevole di ciò che l’ha assoggettata.

• Trauma - mortificazione (del desiderio)


Un’altra interpretazione del trauma risale agli anni 1915-17, quando Freud, in “Introduzione
alla psicoanalisi”, scriveva: “Se (questi traumi) fanno parte della realtà, tanto meglio; se la
realtà non li ha forniti, allora vengono elaborati in base ad accenni e completati con la
fantasia”. Nell’accezione del trama come mortificazione del desiderio, il trauma si realizza
quando un elemento del mondo interno (es.: bisogno, desiderio, pulsione) si scontra con la
realtà; l’elemento che si realizza nel mondo esterno, anziché sommergere la persona, fa
emergere qualcosa dal suo mondo interno, qualcosa che si scontra con la realtà. Questo
“qualcosa” che emerge dal mondo interno può essere un bisogno o un desiderio, non
necessariamente di natura sessuale. Il trauma è quindi la frustrazione di un bisogno, la
mortificazione di un desiderio. In questo caso il prototipo del trauma è l’abbandono (es.:
separazione precoce, ospedalizzazione infantile, incomprensione del mondo adulto), in quanto
il bisogno fondamentale di un essere umano è quello di avere vicino a sé una persona da cui ci
si sente protetti. Sono quindi possibili diversi percorsi patogenetici a partire dal trauma-
mortificazione, alla cui origine si trova il vissuto del mancato riconoscimento di un proprio
bisogno, l’esperienza dell’assenza di empatia da parte dell’altro riguardo ad un proprio stato
mentale, o la mancata conferma della stessa propria esistenza o diritto ad esistere. A causa di
questi eventi possono svilupparsi degli stati dissociativi. Tra le figure paradigmatiche del
trauma Laing inserisce la disconferma: con questo termine si fa riferimento al comportamento
con il quale l’adulto comunica al bambino che le sue emozioni e il senso che questo attribuisce
ad un evento sono insensati o irrilevanti. Il bambino diverrà così diffidente verso la realtà della
propria esperienza e sarà vulnerabile ad esperienze dissociative.
Dunque la nozione di trauma come mortificazione del desiderio mette in rilievo la
patogeneticità del rapporto interpersonale. Ad essere traumatico è il modo in cui un elemento
del mondo interno non trova accoglienza, corrispondenza, comprensione nel mondo esterno. Al
centro del trauma si colloca l’altro, il rapporto con l’altro (non soltanto la sessualità) e il modo
in cui viene vissuto il comportamento altrui.

• Trauma – emersione (di senso)


Negli “Studi sull’isteria” (1895), Freud racconta il caso di Emma, una paziente che subisce un
abuso sessuale durante l’infanzia, mentre si trova in un negozio, da parte del proprietario.
Questo evento, e in particolare il suo contenuto erotico, rimane latente per Emma finché non
avviene un secondo evento che rievoca il contenuto sessuale dell’episodio infantile; tale
secondo evento consiste nelle risate dei commessi di un negozio riguardo al suo abito e nel
commento di uno di loro. Il secondo evento, di per sé insignificante, assume un carattere
traumatogeno in quanto riattualizza, rende presente il contenuto sessuale dell’esperienza
infantile. Dopo il secondo evento, Emma sviluppa una fobia. Per tale ragione si può definire il

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primo evento “traumatico” e il secondo “traumatogeno”, nel senso che il secondo genera il
senso traumatico del primo.
Quando un bambino subisce un abuso sessuale o assiste ad una scena che per un adulto ha
una precisa connotazione sessuale, ciò che rimane nella sua memoria somiglia ad un insieme
di esperienze corporee, un complesso di emozioni tra loro contrastanti (es.: attrazione e paura,
eccitazione e repulsione) prive di una connotazione semantica precisa, esperienze senza un
nome. Questo nome verrà loro attribuito soltanto successivamente, quando un secondo
evento, in sé anodino, riattualizza l’evento primario; dunque l’evento viene ridefinito
retrospettivamente in una chiave di senso traumatica. L'evoluzione della sessualità favorisce il
fenomeno dell’après-coup (dopo il fatto), avendo il soggetto accesso, dopo la pubertà, alla
capacità di cogliere la connotazione sessuale d’una esperienza vissuta, che fa risuonare après-
coup in lui il significato d’una scena vissuta in passato e che era rimasta per lui senza un
significato particolare. Del primo evento resta una traccia mnesica episodica, cioè a-semantica,
non narrativamente organizzata, non integrata in una storia coerente, finché il secondo evento
non lo rende presente. Il secondo evento non deve essere anch’esso traumatico, cioè doloroso
o violento, anzi, spesso esso ha anche dei connotati positivi; esso ha carattere traumatogeno
soltanto in quanto si situa su un terreno reso vulnerabile dal primo, e va a insistere su una
ferita pre-esistente.

• Trauma – ripetizione
Il trauma tende alla ripetitività, cioè ogni persona tende a riprodurre all’infinito il proprio
trauma. Dopo il primo trauma, la persona perpetra una risposta ripetitiva, e lo fa in modo
inconsapevole (cioè non essendo consapevole del nesso tra ciò che sta facendo e ciò che le è
accaduto in passato) e involontariamente. La ripetizione dell’evento traumatico è solo
apparentemente frutto dell’attività della persona, ma in realtà la persona ripete il trauma
perché non è capace di fare altrimenti, cioè non è in grado di mettere in scena gli stessi attori
ma cambiando il copione.
La ripetizione, piuttosto che favorire una trasformazione, si caratterizza come una coazione a
ripetere. La ripetizione non è “utile” in quanto si tratta di una riedizione che si attua senza il
ricordo del trauma originario, e soprattutto senza il ricordo del suo senso. È una ripetizione
senza reminiscenza, quindi automatica, meccanica. L’assenza di ricordo e di riesame critico
rende impossibile qualunque elaborazione del trauma e dunque il suo superamento.
Sono possibili due letture del trauma-ripetizione: (1) La prima chiama in causa il cosiddetto
“istinto di morte” o “di quiete”, cioè la tendenza a ridurre gli stimoli: secondo questa lettura, la
ripetizione può essere intesa come il tentativo di ridurre lo stimolo rappresentato dal trauma,
fino ad azzerarlo: l’essere nuovamente passati attraverso il trauma, e l’essere rimasti indenni,
rappresenterebbe per i pazienti la testimonianza della propria resilienza; (2) Una seconda
lettura fa riferimento al concetto di “modelli operativi interni”: un’esperienza traumatica può
formare un modello operativo interno “insicuro”, caratterizzato da aspettative di rifiuto o
trascuratezza; queste aspettative, come nel meccanismo delle profezie che si auto-avverano,
contribuiscono al realizzarsi di situazioni reali di rifiuto o trascuratezza, contribuendo alla
ripetizione di uno schema di relazione di natura traumatica.

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• Trauma – alterità
Generalmente una persona attribuisce un senso ad un evento, ad un oggetto, al
comportamento altrui sulla base delle proprie esperienze passate. I fatti della nostra vita
acquistano un significato sulla base di quanto ci è già accaduto, in quanto normalmente
riconosciamo in ogni nuovo evento una familiarità con qualcosa di già noto, ed è sulla base di
questa familiarità tra i due che lo comprendiamo. L’avvenimento traumatico non rispetta
questa regola del già noto, bensì, al contrario, ha il carattere della novità assoluta, della “prima
volta” (Strauss), della radicale alterità. Ciò che è nuovo nell’esperienza traumatica non è
l’evento stesso, ma il senso che l’esperienza assume. Il trauma costituisce l’incontro con
qualcosa di totalmente diverso rispetto a quanto si è già sperimentato e quindi rispetto a
quanto ci si aspetta; qualcosa che non è assimilabile a quanto già noto e per questo non è
integrabile nella propria soggettività.
Come dice Lacan nel “Seminario sull’etica”, il trauma è la “cosa” (Chose), cioè un oggetto
senza nome, un fatto non dicibile, che non può essere colto dalle nostre categorie linguistiche,
e che dunque non è classificabile nel registro delle cose che hanno senso. A tal proposito,
Lacan ha proposto il neologismo “ex-timità” (ex-timité) per indicare la caratteristica opposta
all’intimità (alla familiarità) che connota l’evento traumatico. Il trauma è ciò che non si può
integrare nella propria “storia di vita”, cioè ciò che non trova un posto nella propria identità
narrativa.

• Trauma – chiave/serratura
Assume notevole importanza il rapporto tra evento e vulnerabilità, cioè tra la struttura
psicologica della persona e la qualità dell’evento. Un evento, infatti, per essere traumatico,
deve colpire la persona nel suo punto debole. In questo caso non si parla più di eventi o
accadimenti esterni, bensì di esperienze personali. Con “esperienza” si intende il modo
personale di vivere un determinato evento. Un evento si trasforma in un’esperienza traumatica
in virtù della sua capacità di agire come una chiave nella sua serratura.
Parlando delle “reazioni patologiche”, Jaspers sottolinea l’importanza che determinati eventi
hanno per la persona, il loro valore in rapporto al perturbamento emotivo che provocano. Nelle
reazioni patologiche sussiste da un lato un legame tra l’esperienza vissuta e la personalità, e
dall’altro un legame ancora più stretto tra l’esperienza traumatica e i contenuti psicopatologici
(es.: emozioni, pensieri); questi legami rendono lo stato reattivo comprensibile.
Ernst Kretschmer ha messo in evidenza l’importanza di una certa struttura di personalità nello
scatenarsi di uno stato psicopatologico dinnanzi ad un certo tipo di evento che ha la
caratteristica di mettere in crisi in modo specifico quel tipo di personalità. Egli ha descritto le
persone “sensitive”: esse sono fragili, ma anche ambiziose e ostinate; sono ipersensibili e si
sottopongono continuamente al vaglio della propria coscienza. Ciò dà vita a dei sentimenti di
insufficienza. Questi soggetti soffrono di bassa autostima ma si sentono anche sottovalutati
dagli altri. Il trauma che agisce da evento-chiave è un’esperienza umiliante, soprattutto a
seguito di fallimenti morali o sessuali. La vita affettiva del sensitivo dopo il trauma appare
dominata da un senso di umiliante vergogna che conduce alla “proiezione affettiva”: il
sensitivo, il quale vede il mondo esterno soltanto attraverso il suo stato affettivo, riconduce a
se stesso tutto ciò che vede e sente, e finisce per convincersi che la sua vergogna è
pubblicamente nota.

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• Trauma – life event


A partire dalla fine degli anni Sessanta, soprattutto nei paesi anglosassoni, si iniziarono a
studiare le correlazioni statistiche tra life events e depressione. I risultati di queste ricerche,
sin dall’inizio significativi, evidenziarono che il numero di eventi stressanti che avvengono nei
sei mesi precedenti un episodio depressivo è circa tre volte più elevato del numero di eventi
stressanti che caratterizzano la vita delle persone che non vanno incontro a depressione.
Tra gli studi classici sui rapporti tra life events e schizofrenia ricordiamo quello di Jacobs e
Myers (1976): gli eventi stressanti possono peggiorare gli scompensi acuti, ma non hanno un
ruolo nella genesi della patologia. Gli eventi più correlati ai sintomi acuti della schizofrenia sono
un cambiamento di ruolo sociale o una défaillance della rete sociale, ad esempio un’alta
emotività espressa nell’ambito familiare.
Di particolare importanza sono gli studi relativi a due patologie: il disturbo post-traumatico da
stress e il disturbo da depersonalizzazione. (1) Davidson e Foa mettono in evidenza numerosi
fattori estranei all’evento traumatico che influenzano lo sviluppo di un disturbo post-traumatico
da stress: a) vulnerabilità genetica alle patologie psichiche; b) esperienze negative o
traumatiche infantili; c) tratti di personalità; d) altri eventi stressanti recenti; e) caratteristiche
del sistema di supporto; f) recente abuso di alcol; g) locus of control esterno vs. interno. (2)
Simeon e Abugel sostengono che il trauma svolge un ruolo importante nello sviluppo delle
sindromi da depersonalizzazione. In particolare, gli abusi emotivo, fisico e sessuale
caratterizzano in particolare l’anamnesi delle persone affette da disturbo da personalizzazione
e le distinguono in maniera statisticamente significativa dai soggetti sani. Questi due esempi
permettono di evidenziare che il rapporto tra life events e disturbo psichico non è inquadrabile
in termini puramente quantitativi (tanti eventi, tanta probabilità di ammalarsi); questo
rapporto dipende invece da fattori di ordine qualitativo: l’anamnesi biologica, la struttura di
personalità, la storia di vita, patologie concomitanti, le caratteristiche intrinseche del tipo di
trauma.

• Trauma – situazione
Nell’accezione “trauma – life event”, viene trascurato il ruolo attivo della persona nella co-
costituzione dell’evento stesso; questo aspetto si trova al centro della concezione “trauma –
situazione”. Ogni persona può incontrare in linea di principio ogni tipo di evento, ma
effettivamente va incontro soltanto alle situazioni che la caratterizzano. Il modo di essere di
una persona, la sua configurazione antropologica, il suo modo di intendere la vita e di
impostare le relazioni con gli altri, la gerarchia dei suoi valori la conducono a trovarsi
all’interno dei rapporti tipici per quella persona. La nozione di trauma – situazione, dunque,
problematizza il ruolo della persona nella costituzione dell’evento traumatico, un ruolo che è
attivo in quanto la persona concorre attivamente a creare la situazione, ma che è anche
passivo in quanto non c’è alcuna intenzione o volontà da parte dell’individuo di creare la
situazione stessa; si tratta, invece, di un non poter essere altrimenti, di un non poter fare in
altro modo.
La nozione di trauma – situazione mette in evidenza una nuova concettualizzazione di ciò che
nell’evento è traumatico: l’evento, che la persona stessa ha contribuito a creare, è traumatico
in quanto in esso e tramite esso la persona acquista consapevolezza e viene a contatto con la
propria incapacità ad essere e agire in modo diverso. Ciò che è traumatico è lo scoprire che
nelle diverse situazioni che caratterizzano la propria esistenza è inscritto un destino, lo scoprire

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che esse rispecchiano una sorta di “programma etico” che contribuisce al realizzarsi delle
situazioni patogene e che si attiva indipendentemente dalla propria volontà.

• Trauma – rivelazione
L’evento rappresenta dunque anche un momento di verità: il trauma è la rivelazione del
proprio sé oggettivato, reso visibile in una situazione esterna. Lo specchio della situazione
esterna rende visibile, consente di accedere ad un’esperienza di sé più autentica, allo
svelamento di aspetti di sé fin qui non accessibili alla coscienza. Il trauma – specchio
rappresenta la situazione limite in cui alla disperazione e al dolore dovuto allo scontro con la
propria labilità e debolezza si accompagna la serena rivelazione e la contemplazione della
propria condizione vulnerabile. La persona è posta di fronte alla propria vulnerabilità, in
condizione di riflettere su di essa.
Il trauma – rivelazione mostra un profilo apparentemente opposto, ma in realtà
complementare, rispetto a quello del trauma – alterità: mentre nel trauma – alterità l’evento è
caratterizzato dall’ex-timità, nel trauma – rivelazione esso è riconosciuto e accolto nel suo
carattere di carnale intimità.

• Trauma, senso e temporalità


Il trauma può essere spiegato seguendo una logica naturalistica, dunque attraverso delle
connessioni diacroniche del tipo causa-effetto, oppure può essere inserito all’interno di una
dimensione sincronica di ispirazione fenomenologico-ermeneutica ed essere spiegato
attraverso delle connessioni di senso, delle relazioni reciproche tra i vari fenomeni che si
distribuiscono nel passato, nel presente e nell’anticipazione del futuro. (1) Secondo la prima
lettura, un trauma passato serve a spiegare uno stato psicopatologico attuale, laddove
“spiegare” significa attribuire a qualcosa una causa. La spiegazione consiste nella ricerca a
ritroso dell’origine di un certo fenomeno: trovare la spiegazione di un fenomeno attuale in un
fatto che è avvenuto nel passato. Il trauma remoto è la causa della patologia presente.
Dunque i principi basilari su cui si fonda questa lettura sono: a) si cerca di spiegare il presente
tramite il passato; b) il passato è la causa efficiente di ciò che accade nel presente; c) la linea
del tempo scorre unidirezionalmente dal passato al presente. (2) Se anziché all’ordine
esplicativo delle cause si considera l’ordine comprensivo del senso, la situazione cambia
completamente. Un evento esercita un certo effetto su di me perché in esso colgo un certo
significato. Secondo questa seconda lettura, il presente retroagisce sul passato: finché la
persona non incontra il secondo evento traumatogeno, il primo evento non acquista il suo
significato traumatico. Senza l’evento presente, che attribuisce ad esso uno specifico
significato, l’evento passato è un altro evento. Dunque il senso traumatico di un evento
emerge più in una dimensione sincronica che diacronica. È la relazione tra il primo evento e il
secondo a generare il senso traumatico della vicenda.
Nel processo della narrazione, il senso dell’evento viene iscritto nella direzione che va dal
presente (il presente della relazione terapeutica) al passato; nella narrazione, il passato è letto
alla luce del presente. Questa ri-attribuzione di senso al passato è possibile perché il passato
non esiste più, esso esiste solo in quanto memoria. Il senso dei fenomeni si genera tramite
una sintesi tra passato, presente e futuro; infatti non soltanto il passato influenza la
comprensione del futuro, ma anche il futuro, ciò che ci si aspetta, retroagisce sul senso
dell’esperienza passata. Questo è anche il modo in cui si genera il senso nella cura: nella

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sincronia tra le esperienze passate, quelle presenti e le aspettative verso il futuro così come si
attualizzano nella relazione terapeutica.

9) L’umore e i suoi disturbi


• Archeologia della nozione di “umore”
Nella psicopatologia contemporanea, un’alterazione dell’umore è considerata primaria in
numerose condizioni morbose, tra cui il disturbo maniaco-depressivo o i disturbi d’ansia.
Questa concezione ha origini antiche ma in età moderna può essere fatta risalire all’opera
ottocentesca dello psichiatra Jean Paul Falret, tra i primi a sostenere che il disturbo che genera
la depressione è la tristezza e che tutti i sintomi della depressione devono essere considerati
come epifenomeni.
Nonostante la centralità della nozione di umore in psicopatologia, la sua definizione rimane
problematica e l’uso che ne viene fatto negli studi clinici non si discosta molto da quanto
affermavano più di duemila anni fa i medici greci del periodo classico: secondo la teoria
umorale un eccesso di bile nera, che normalmente è fredda e secca, causa una malattia fredda
e secca come la melancolia. A tal proposito si può constatare come, ancora oggi, la stessa
parola “umore” venga utilizzata sia per riferirsi ad un fenomeno psichico (uno stato d’animo)
che ad un’entità materiale (un fluido corporeo). Ciò conduce a pensare che un disturbo
dell’umore sia determinato in primo luogo da un’alterazione del milieu biologico, la quale
provoca, secondariamente, delle alterazioni psichiche. Queste alterazioni psichiche, a loro
volta, condizionano il comportamento e la percezione. L’umore è una tonalità pervasiva e
sostenuta che è esperita internamente e che può influenzare marcatamente tutti gli aspetti del
comportamento e della percezione del mondo di una persona.

• Emozioni, umori, affetti


La concettualizzazione dell’umore, nonché di concetti affini quali quelli di “emozioni” e “affetti”,
appare spesso inadeguata; è quindi necessario dare una coerente definizione di queste nozioni.
Le emozioni sono forze dinamiche che ci guidano nelle nostre interazioni con l’ambiente. La
parola “emozione” deriva dal latino ex-movere (muovere da) e indica la motivazione al
movimento. Dunque le emozioni sono stati funzionali che motivano e possono produrre
movimento. In quanto tendenze a muoversi in un certo modo, le emozioni si organizzano
attorno a coppie di opposti con valenze dinamiche e posturali (es.: avvicinamento vs.
allontanamento, coinvolgimento vs. evitamento, ecc.).
Affetti e umori sono tipi diversi di emozione: l’affetto è un’emozione connessa a fenomeni che
ne costituiscono la motivazione, mentre l’umore è un’emozione che non possiede per la
persona questo legame esplicito con un fenomeno che la motiva. Dunque gli umori sono vissuti
come immotivati, non sono focalizzati su un singolo oggetto, quindi sono non intenzionali, più
inarticolati e si prolungano nel tempo; gli affetti, invece, hanno per la persona che li prova una
spiegazione, sono vissuti come motivati da qualcosa, sono focalizzati su un oggetto e quindi
sono intenzionali, articolati e hanno durata più breve. Dunque si può dire, ad esempio, che
l’ansia è un umore, mentre la paura è un affetto.

• Per una coreografia delle emozioni: ansia, paura e angoscia


L’ansia è l’emozione che contraddistingue la risposta ai rischi e alle sfide a cui gli esseri umani
sono esposti. Nella letteratura psicologica e filosofica possono essere rinvenute tre prospettive

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sull’ansia: 1) Nell’ottica psicodinamica, l’ansia è un segnale di un pericolo proveniente


dall’interno, in particolare dall’inconscio; 2) Nell’ottica biologico-evolutiva, l’ansia è la reazione
fisiologico-comportamentale messa in atto dall’organismo a scopo adattativo-evolutivo di
fronte alle minacce dell’ambiente; 3) Nell’ottica delle filosofie dell’esistenza, l’ansia è la
rivelazione emotiva della condizione umana, è lo stato in cui l’essere è consapevole del suo
possibile non-essere, della sua finitudine.
Abbiamo già detto che la paura è la risposta ad un fenomeno che viene riconosciuto come sua
motivazione; si tratta quindi di un’esperienza intenzionale, nel senso che la persona che ha
paura è attenta ad un fenomeno di cui ha paura. L’ansia invece è un’esperienza non
intenzionale, cioè priva di una motivazione esplicita. Le differenze tra ansia e paura possono
essere comprese maggiormente ricorrendo ad uno schema descrittivo che si propone di
delineare una coreografia delle emozioni; tale schema può essere esteso anche all’angoscia.

Paura Ansia Angoscia


Nella paura mi sento Quando sono in ansia Nell’angoscia mi sento
portato all’indietro mi sento sospeso sopra immobilizzato e
lontano da ciò che mi un abisso interiore. Il costretto a subire
minaccia; in questo Sé è vissuto come privo passivamente un’azione
Direzione
ritirarmi, allo stesso di fondo, e per questo esterna che mi chiude
del
tempo mi ritraggo in il movimento avvertito in me stesso,
movimento
me stesso divenendo è un precario essere- strozzandomi.
sempre più piccolo. Il sospeso sopra l’abisso
mio Sé ha un fondo che del mio Sé.
si ritira con me.
La paura nel suo L’ansia nel suo essere Nell’angoscia il tempo
arretrare si muove con sospesa è un tremore, mi stringe un cerchio
Tempo del uno scatto improvviso. oscilla e sussulta. attorno e mi isola dal
movimento futuro, confinandomi in
un presente eterno che
ricalca il passato.
Nella paura il mondo mi Nell’ansia il mondo si Attorno a me, il mondo
viene incontro ritrae da me, diviene assume la forma di un
minaccioso. rarefatto. Si tratta di un angolo in cui sono
L’oggetto che mi vuoto senza direzione, stretto, serrato. Il
Movimento minaccia, mentre io mi omogeneo e distante. mondo si stringe
del mondo ritraggo in me stesso, La terra su cui poggio i attorno a me
sembra invadere tutto il piedi diviene sottile e si opprimendomi e
mio campo percettivo, apre in una voragine. impedendomi ogni
dominandolo. movimento, tranne che
un indietreggiamento.

• La dialettica tra umori e affetti


La persona non è soltanto passiva e recettiva nei confronti delle proprie emozioni, ma può
assumere un atteggiamento attivo nei loro confronti. Infatti l’uomo, a differenza degli altri
animali, si interroga sull’origine delle proprie emozioni e se è in preda ad un umore (emozione

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immotivata e non focalizzata) cerca di trasformarlo in un affetto (emozione motivata e


focalizzata). È questo uno degli aspetti più caratteristici dell’esistenza umana: i nostri umori ci
sorprendono, ci stupiscono e sollecitano la nostra riflessione. Esiste una dialettica tra umori e
affetti: un umore può trasformarsi in un affetto quando la persona, interrogandosi sulla sua
origine, trova una motivazione. Questa dialettica, però, può imboccare delle “false strade”: è
quanto accade paradigmaticamente nelle fobie, nella melancolia e nel disturbo borderline di
personalità. (a) Fobie [Umore → Affetto]  Non sempre la trasformazione di un umore in
affetto permette alla persona di accedere ad una maggiore conoscenza di sé. Nello sviluppo di
una fobia, infatti, questa trasformazione imbocca una falsa strada lungo la quale la persona
perde contatto con la propria storia di vita e con una coerente narrativa. Secondo la definizione
classica, una fobia è un affetto patologico: un’ansia immotivata (umore) si trasforma in nella
paura (affetto) per un oggetto o una situazione specifici. Questa circoscrizione dell’ansia su un
oggetto specifico ha valore difensivo, in quanto ha lo scopo di rendere “manipolabile”
un’emozione che, in quanto inarticolata, sarebbe impossibile da controllare e da arginare. (b)
Melancolia [Affetto → Umore]  Gli affetti possono trasformarsi in umori, perdendo così il
proprio legame con le circostanze che li hanno generati. Ciò accade nella melancolia, che si
realizza come una reazione di lutto che si prolunga nel tempo. Nel lutto il legame tra l’evento
traumatico della perdita e lo stato emotivo è mantenuto: la persona è triste, ha perso interesse
nel suo lavoro, le sue pulsioni vitali sono ridotte, ma essa è sempre consapevole che queste
reazioni sono una conseguenza della perdita subita. Nella melancolia, invece, il legame tra lo
stato emotivo e il suo oggetto intenzionale è solo apparentemente mantenuto; come scriveva
Freud, il melancolico sa chi ha perso, ma non sa cosa ha perso con lui. Il melancolico è
tormentato da un umore, un’emozione priva di un chiaro e distinto oggetto intenzionale; egli
non è in grado di collocare la perdita del suo oggetto in una narrativa coerente perché non gli è
chiara la natura stessa di ciò che ha perduto. Nella melancolia i fenomeni tipici del lutto si
intensificano. Il distacco dalle abituali cure quotidiane, che nel lutto ha la funzione di lasciar
spazio al processo di separazione dall’oggetto perduto, nella melancolia si slega da questo
processo, perde un’esplicita connessione con l’accaduto e investe ogni aspetto del mondo,
prima di tutto la stessa persona del melancolico che rimane priva di ogni spinta pulsionale alla
vita. (c) Disturbo borderline di personalità [Umore ↔ Affetto]  L’ultimo caso paradigmatico di
dialettica tra umori e affetti è rappresentato dalla cronica oscillazione tra disforia (umore) e
rabbia (affetto) nella patologia borderline. La disforia è l’umore di fondo nei pazienti
borderline; esso si esprime nel tipico modo di questi pazienti di percepire se stessi e gli altri:
sia il proprio Sé, sia l’altro sono indefiniti agli occhi del borderline. Il paziente borderline non sa
cosa pensare dell’altro, e all’incertezza riguardo l’identità dell’altro, riguardo al senso delle sue
azioni e alle sue intenzioni, corrisponde un sentimento di indefinitezza del proprio Sé. La
disforia è quindi l’umore che corrisponde all’indefinitezza. Questa emozione non riesce a creare
delle salienze, cioè a selezionare dettagli significativi nel comportamento dell’altro che gli
permettano di definirlo, di capire se è affidabile o meno, se mi riconosce o meno in quanto
persona degna di attenzione, cura, simpatia e amore. L’umore disforico nel paziente borderline
è però sempre in bilico, pronto a ribaltarsi nell’affetto rabbia. L’altro è vissuto come irritante
(“disforizzante”) in quanto indefinibile, e questa irritazione è sempre pronta a trasformarsi in
un sentimento di rabbia verso l’altro. È sufficiente che l’altro compia un qualsiasi gesto che
faccia pensare al paziente borderline ad un abbandono (es.: che non risponda ad una chiamata
o ad un messaggio, che sia poco attento durante una conversazione) affinché la disforia si

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tramuti in rabbia. L’altro diviene la motivazione, l’oggetto intenzionale dell’emozione che


caratterizza il borderline: egli diviene cattivo e persecutorio. Nel momento in cui la disforia si
trasforma in rabbia l’altro diviene improvvisamente definito, e il Sé, di conseguenza, diviene
più coerente. Si tratta però di una definizione e di una coesione che durano poco: in poco
tempo la rabbia torna ad essere disforia.

• Il temperamento nell’ottica psicobiologia e in quella psicodinamica


A volte un umore può prolungarsi nel tempo senza spiegazione e diventare una disposizione
permanente (un tratto temperamentale) del tono emotivo fondamentale di una persona. (a) In
un’ottica psicobiologica, il temperamento viene definito come una disposizione prossima alle
basi pulsionali, affettive ed emotive dell’individuo. Questo concetto si riferisce tradizionalmente
agli aspetti costituzionali di una persona, cioè a quell’emozione di base che condiziona la
reattività di un individuo. Con la nozione di “carattere”, invece, ci si riferisce all’insieme di
strategie difensive a cui si fa ricorso per adattare la propria disposizione temperamentale alle
vicissitudini ambientali. La psicopatologia contemporanea individua quattro tipi fondamentali di
temperamento: ciclotimico, ipertimico, distimico, disforico; talvolta a questi quattro tipi se ne
aggiunge un quinto, detto ansioso. Da un lato il temperamento può essere considerato come
un dispositivo antropologico che serve a descrivere la base biologica della personalità. Tuttavia
i termini utilizzati per indicare i temperamenti fondamentali sono di chiara matrice
psicopatologica, cioè indicano delle deviazioni abnormi, e non semplici declinazioni
dell’emotività di base delle persone. Per tale ragione spesso il temperamento nell’ottica
psicobiologica viene equiparato ad una manifestazione sottosoglia (anche se adattiva) di un
disturbo affettivo; allo stesso tempo viene concettualizzato come un fattore di vulnerabilità che
predisporrebbe allo sviluppo di episodi di malattia conclamata. (b) In un’ottica psicologico-
dinamica, il temperamento può essere definito “un’abitudine interpretativo-emotiva che si
prolunga nel tempo”, cioè la tendenza a vivere le cose in un certo modo, risultato delle
esperienze passate; si tratta di un pattern durevole di emozioni che si costruisce a partire dal
sedimentarsi dell’umore. La trasformazione dell’umore nel rispettivo tratto temperamentale
avviene implicitamente e senza il coinvolgimento volontario della persona; sulla base del
temperamento si stabiliscono poi delle vie preferenziali tra un certo tipo di situazioni e certe
azioni.
• A che cosa servono le emozioni? Emozioni e circumscription
Secondo il neurobiologo Damasio la funzione biologica delle emozioni è duplice: (a) In primo
luogo esse ci permettono di selezionare il comportamento più idoneo per una certa situazione.
Ad esempio, di fronte ad una situazione di pericolo un animale può fuggire, lottare, fare il
morto, ecc.; anche gli esseri umani mettono in atto automaticamente queste reazioni
“primitive”, anche se mitigate “dalla ragione e dalla saggezza”. (2) La seconda funzione
biologica delle emozioni è quella di regolare lo stato interno dell’organismo (distribuzione del
flusso sanguigno, pressione arteriosa, frequenza cardiaca, ritmo respiratorio, stato di tensione
muscolare, ecc.) per prepararlo ad uno specifico comportamento. Le emozioni quindi fanno
parte dei meccanismi di regolazione omeostatica funzionali a mantenere l’integrità
dell’organismo di fronte a stimoli e situazioni esterne. Dunque le emozioni sono strettamente
connesse alla selezione, per lo più implicita ed automatica, di un comportamento. Per ragioni
relative alla sopravvivenza, in alcune circostanze si ha la necessità di saltare in modo
immediato a delle conclusioni a partire da un numero limitato di informazioni; in uno stato di

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dubbio, grazie al prevalere di una specifica emozione si opta per un’azione piuttosto che per
un’altra. Il dispositivo della riflessione è quindi bilanciato dal dispositivo dell’agire sulla base di
cortocircuiti emotivi. Le emozioni svolgono un ruolo fondamentale nel trasformare l’ambiente,
da un luogo in cui ogni stimolo è recepito come equivalente, in un mondo, cioè in una
sequenza di situazioni in cui percepiamo alcuni dettagli come rilevanti per i nostri scopi, e in
quanto tali attraenti o repellenti, piacevoli o spiacevoli, buoni o cattivi, determinando di
conseguenza il nostro agire, cioè i nostri movimenti (avvicinamento vs. allontanamento, ecc.).
Solo se l’ambiente viene circoscritto dalle emozioni l’azione diviene possibile.

• Emozioni ed enactment
In assenza di emozioni, il mondo appare irreale e distante, privo di interesse e di senso. In una
condizione di apatia, le cose che mi circondano mi appaiono come una mera collezione di
oggetti inutilizzabili, privi di rapporto con la vita, privi di una funzione. Di questi oggetti, in
assenza di emozioni che mi legano ad essi, ho una pura conoscenza teorica, non una
conoscenza pragmatica (enacted, legata alle mie possibilità e necessità di azione) data dalla
necessità di utilizzarli ai fini pratici della soddisfazione di un bisogno della realizzazione di un
progetto. Il mio corpo, in assenza di emozione, non inerisce a questi oggetti, non struttura e
organizza le mie possibilità di usare questi oggetti.
Se un’emozione è la motivazione a compiere un certo movimento, e non ci sono emozioni, non
c’è alcuna motivazione al movimento, dunque all’azione. L’assenza di motivazione all’azione fa
sì che le cose si trasformino da utensili in meri oggetti (ob-jectum). Affinché una cosa sia per
me un utensile è necessario che io senta la pulsione a muovermi per utilizzarlo in vista di un
certo scopo, o ad allontanarmi da esso per la pericolosità: le emozioni selezionano alcune, e
non altre, possibilità di movimento; l’assenza di emozioni non ne seleziona alcuna, lasciandomi
in balia di un ambiente incomprensibile e di una conoscenza puramente teorica del mondo. In
presenza di emozioni l’ambiente si dispone attorno a me come un campo caratterizzato da
salienze: alcuni dettagli attirano la mia attenzione, altri passano inosservati. Dunque le
emozioni determinano la mia recettività, cioè la mia sensibilità a cogliere certi aspetti del
mondo in quanto più dotati di senso e altri come meno significativi. Essere recettivi significa
rispondere involontariamente a qualcosa che mi ha impressionato; dunque la recettività si
colloca a metà strada tra il volontario e l’involontario, tra percezione e movimento.
Alcuni autori ipotizzano che il significato che attribuiamo alle cose dipende dalle nostre
possibilità di movimento. Il rapporto di implicazione tra percezione e movimento è
bidirezionale: il senso percepito implica il movimento, ma, allo stesso tempo, la possibilità di
movimento implica il senso. In altre parole, noi percepiamo di una cosa ciò che essa ci
permette di fare in rapporto al nostro corpo.
Le emozioni ci situano nel mondo, lasciandoci aperte certe e non altre possibilità di azione.
Esse ostacolano la comprensione “oggettiva” e l’azione “razionale”, in quanto la prima è in
realtà una conoscenza puramente teorica e quindi non applicabile, e la seconda è in realtà una
non-azione, in quanto implica il rimanere nel dubbio, nell’irrisolutezza, nella riflessione.
Abbiamo detto che in assenza di emozioni si ha la perdita del contatto vitale con la realtà;
senza emozioni non riusciamo ad afferrare il senso delle cose, ad usarle per le nostre necessità
vitali. Questa perdita di contatto con il mondo caratterizza l’esistenza schizofrenica e
l’esistenza delle persone ossessive. In questi casi, la patologia delle emozioni è uno squilibrio
tra emozioni e riflessività, a svantaggio delle prime; prevale dunque la riflessione e una

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conoscenza puramente speculativa. Ma la patologia delle emozioni può evidenziarsi anche


come predominio delle emozioni sulle facoltà riflessive: è ciò che accade quando viene meno la
capacità di articolare le emozioni con le situazioni e con la storia di vita, cioè quando si cessa di
utilizzare le emozioni come strumento per comprendere se stessi e la propria posizione rispetto
ad una data situazione. La patologia delle emozioni rappresenta una sproporzione tra l’entità
dell’emozione stessa e la capacità della persona di riflettere sul rapporto di tale emozione con
la salienza con cui è correlata, ma anche l’incapacità di riflettere sul rapporto tra l’emozione e
la propria identità. Quando un’emozione è troppo forte offusca la mia capacità di riflessione,
cioè la mia capacità di usare l’emozione stessa per capire come mi colloco rispetto a quella
cosa. La mia capacità riflessiva è insufficiente per rintracciare l’oggetto intenzionale della mia
emozione: in questi casi, la patologia delle emozioni è in senso stretto un disturbo dell’umore,
cioè un disturbo caratterizzato dalla presenza di emozioni prive di un oggetto intenzionale
esplicito.

• Emozioni e attunement
Gli esseri umani devono essere in grado di ricavare informazioni rilevanti riguardo alla propria
collocazione nello spazio delle relazioni sociali, e le emozioni svolgono un ruolo molto
importante a tal proposito. Il fenomeno che rende possibile la socialità è definito affect
attunement (sintonizzazione affettiva). L’attunement è un ponte tacito, pre-verbale e pre-
riflessivo che lega la vita emotiva delle persone. La comprensione delle azioni altrui si basa
sulla riproduzione, involontaria e implicita, di ciò che l’altro prova nel compiere quella certa
azione.
Il prerequisito della comprensione delle azioni altrui sarebbe appunto la simulazione
dall’interno delle azioni stesse; questa simulazione è basata sull’intercorporeità, cioè sul
trasferimento immediato dello schema corporeo. L’intercorporeità rappresenta l’immediato
legame percettivo attraverso il quale noi riconosciamo gli altri esseri in quanto simili a noi. Alla
base di questo fenomeno c’è l’identificazione patica con il corpo dell’altro. Il vincolo percettivo
tra me e l’altro è basato sulla possibilità di identificarsi con il corpo altrui attraverso un legame
percettivo immediato. La base biologica di questi fenomeni va ricercata nell’azione di una
popolazione di neuroni, chiamati “neuroni specchio”, che si attivano sia quando viene attuata
una particolare azione, sia quando si osserva un altro individuo compierla.
I disturbi dell’attunement caratterizzano, ancora una volta, la condizione schizofrenica. I
disturbi nell’area dei rapporti tra emozioni e intersoggettività sono due: a) da un lato, le
persone schizofreniche denunciano il proprio sentirsi distaccati dagli altri e dal mondo esterno;
b) dall’altro lato, queste persone si sentono invase dagli altri, e ciò potrebbe essere dovuto ad
un eccesso di emozioni legato alla presenza delle altre persone. Riguardo la primo punto,
emerge il sentimento di estraneità di fronte al mondo sociale e la mancanza di una base
implicita e spontanea per i propri comportamenti sociali; così le persone schizofreniche tentano
di supplire a questa mancanza di base di sintonizzazione tramite la scoperta, o la costruzione,
di un algoritmo esplicito, elaborato a partire da osservazioni sul mondo, da applicare in via
riflessiva per condursi nelle interazioni sociali. Si assiste dunque ad un disperato tentativo di ri-
sintonizzazione con gli altri. Riguardo al secondo punto, la persona schizofrenica si sente
sommersa da un’alluvione di emozioni suscitate dalla presenza di altre persone. Gli altri sono
vissuti come opprimenti, asfissianti; nei casi più gravi, le persone schizofreniche si sentono
invase dagli altri, controllate. La presenza altrui provoca sensazioni di irrigidimento, di

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congelamento, nonché una serie di abnormi sensazioni somatiche (cenestopatie, sensazioni di


sofferenza riferita erroneamente dal soggetto a una funzione somatica o ad un organo); a non
essere riconosciuta è la natura emozionale di tali sensazioni corporee. Esse vengono piuttosto
interpretate come disturbi che rimandano ad una malattia somatica, oppure vengono attribuite
alle intenzioni malevole e persecutorie degli altri ed elaborate quindi in chiave paranoide.

• Persona, emozioni e coscienza di sé


Assume particolare importanza, in psicologia, il rapporto tra le emozioni e la conoscenza di sé.
Mentre negli altri animali le emozioni sono risposte finalizzate all’adattamento, negli esseri
umani esse sono anche legate al problema dell’identità personale. Per un essere umano
l’esistenza non implica soltanto la lotta per la sopravvivenza e la riproduzione, ma anche la
necessità di definirsi e capire che tipo di persona si è. Il sentimento di appartenenza delle
proprie esperienze ed azoni ad un nucleo organizzatore (il sé), il sentimento di continuità nel
tempo e di delimitazione del sé dal mondo esterno, la definizione del proprio sé in termini di
aspirazioni e progetti sono bisogni fondamentali per un essere umano. Le emozioni hanno un
ruolo di primaria importanza in questa ricerca della propria identità. Le emozioni che proviamo,
infatti, ci danno il senso di quanto la nostra identità coincida con l’azione che stiamo
compiendo o con la situazione a cui stiamo partecipando.
La funzione delle emozioni è quindi quella di “fornire un servizio di informazioni all’individuo
come essere senziente”. L’emozione mi informa che quella è una mia azione nel senso etico del
termine: non soltanto essa è compiuta da me, ma fa parte della mia identità. Le mie emozioni
sono dunque indici dell’appartenenza etica di un’azione al mio sé. L’emozione mi informa in
modo pre-verbale e pre-concettuale: io sento un movimento che mi avvicina a me stesso, che
ristabilisce o rafforza la mia intimità con me stesso. In altri casi, le mie emozioni non danno
vita a sentimenti di intimità, ma di estraneità da me stesso, di inquietudine; fanno sorgere in
me domande, dubbi, incertezze rispetto al modo in cui agisco nel mondo. Le mie emozioni
possono quindi portarmi a interrogarmi riguardo alla mia identità, a mettere in discussione
l’immagine che mi ero creato di me.
Dunque la riflessione sulle emozioni che provo quando compio un’azione rappresenta la via
regia per la conoscenza di me stesso. A volte mi riconosco nelle mie azioni, e in questo caso le
mie emozioni mi fanno sentire un tutt’uno con me stesso; a volte però le emozioni che provo
nel compiere un’azione hanno un effetto perturbante: in questo caso le mie emozioni mi fanno
capire che sono una persona diversa da quella che ha compiuto quell’azione. La riflessione
sulle emozioni permette di ristabilire la giusta distanza tra sé e le proprie emozioni, la distanza
che permette di articolare il senso di un’emozione, e il senso personale dell’azione a cui
l’emozione si accompagna. L’articolazione tematica delle emozioni in una struttura narrativa è
il modo più efficace per compiere questa riflessione.

10) Disturbi della coscienza


• La coscienza come dispositivo antropologico
Vigilanza. Nel linguaggio comune, un uomo si definisce cosciente se è consapevole dei propri
pensieri, sentimenti, percezioni, volizioni. Questa accezione del termine “coscienza” coincide
con la nozione neuropsicologica di vigilanza, che indica l’essere svegli. Strettamente connessa
alla vigilanza è la lucidità, cioè la capacità di disporre delle proprie facoltà percettive, cognitive,
mnesiche, ecc. Nello stato vigile e lucido, una persona si volge in modo attivo e coerente verso

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un’altra persona o un oggetto ed è pronta all’azione. La vigilanza viene meno fisiologicamente


nel sonno, si modifica nella trance e può alterarsi qualitativamente e quantitativamente in vari
stati psicopatologici e psico-organici.
Coscienza morale. In italiano la parola coscienza si riferisce sia alla coscienza cosiddetta
teoretica che a quella morale: il primo significato mette in luce il conoscersi, il secondo il
giudicarsi. Ad ognuno di questi due significati corrisponde un campo di indagine filosofica e
psicopatologica: da un lato il campo di coscienza in cui si danno e si organizzano le esperienze,
dall’altro la sfera dei valori su cui si basano le azioni in cui si articola l’esistenza. Nel primo
campo, lo studio della coscienza consiste nell’analisi della corrente di esperienze vissute alla
ricerca del modo in cui la coscienza stessa si appropria delle esperienze, mentre nel secondo
l’indagine riguarda la struttura dei valori della persona.
La proprietà fondamentale della coscienza: l’intenzionalità. Nella filosofia della mente e
in fenomenologia, il termine coscienza si riferisce alla coscienza fenomenica o alla coscienza di
sé (o autocoscienza). La proprietà fondamentale della coscienza, in questo ambito, è costituita
dal suo essere sempre diretta verso qualcosa: questa caratteristica fondamentale della vita
psichica è detta intenzionalità. L’intenzionalità è la direzionalità della mente sui propri oggetti.
Dunque la coscienza è sempre coscienza di qualcosa, essa è sempre orientata, rivolta ad un
oggetto. Il concetto di intenzionalità non si riferisce all’avere delle intenzioni, dei propositi da
realizzare. Essa, piuttosto, deve essere compresa a partire dal verbo latino “intendere”, che
significa “tendere verso”.
Esistono due forme fondamentali di intenzionalità: a) in senso stretto, l’intenzionalità è definita
come la caratteristica della coscienza di essere sempre diretta oltre se stessa verso un
oggetto; b) in senso più ampio, l’intenzionalità è definita come apertura verso l’altro. Esistono
atti della coscienza che, pur non avendo un oggetto intenzionale esplicito, sono comunque
dotati di intenzionalità come apertura; è il caso degli umori che, pur essendo privi di un
oggetto intenzionale, svelano un certo modo di essere del mondo che rende possibile un certo
modo di dirigersi verso le cose.
Coscienza fenomenica. La coscienza fenomenica consiste nell’essere puramente
consapevoli del mondo (inclusi noi stessi). Tale tipo di coscienza possiede tre proprietà: (1)
Trasparenza: i contenuti dell’esperienza sono dati alla nostra coscienza fenomenica in maniera
diretta e immediata, non tramite la mediazione di stati mentali: noi non vediamo attraverso i
nostri stati mentali, e non vediamo i nostri stati mentali. Ad esempio: una persona che vede un
albero si sente immediatamente in contatto con esso e non ha l’impressione di percepirlo
attraverso la mediazione di una rappresentazione mentale dell’albero stesso e grazie ad un
processo mentale e neurologico che rende possibile la percezione stessa. (2) Prospettiva: la
coscienza fenomenica è dotata di un carattere prospettico, nel senso che ad ogni esperienza è
indissolubilmente connesso il punto di vista della persona che sta facendo quell’esperienza.
Dunque l’esperienza è sempre esperienza di qualcuno. (3) Presenza: quando vedo un albero, lo
percepisco come presente esattamente adesso, non come un ricordo o un’anticipazione del
futuro.
Coscienza di sé. La coscienza di sé o autocoscienza consiste nell’essere consapevoli di
sé nel momento in cui si è consapevoli del mondo. Ogni qualvolta si è coscienti di un oggetto
(coscienza fenomenica) si è indissolubilmente coscienti di se stessi in quanto coscienti di
quell’oggetto. L’integrazione tra percezione e coscienza è la base per essere un sé. La
dissociazione tra percezione e coscienza è considerata l’essenza dell’esperienza schizofrenica.

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Per comprendere meglio questo aspetto, è necessario distinguere tra due livelli della coscienza
di sé: la coscienza di sé minima e la coscienza di sé narrativa.
Coscienza di sé minima (pre-riflessiva, ipseità). L’attributo “minima” si riferisce alla
priorità rispetto a qualsiasi altro livello di coscienza di sé. Si tratta di una coscienza di sé: a)
immediata, cioè non raggiunta per inferenza o a partire da criteri; b) non osservativa, in
quanto non ha origine da una percezione oggettivante di sé, cioè non è mediata da alcun atto
percettivo; c) pre-riflessiva, in quanto anteriore e indipendente da un qualsiasi atto di
coscienza riflessiva, cioè da una riflessione del sé su se stesso; d) non-concettuale e non-
linguistica, nel senso che non è una rappresentazione di sé mediata linguisticamente né
narrativamente; e) non-tematizzata, cioè implicita e silente. La coscienza di sé minima è
all’origine del modo di darsi delle esperienze e azioni come esperienze e azioni “in prima
persona”, cioè vissute come proprie.
Secondo lo psicologo dello sviluppo Rochat, i neonati, anche prima di sviluppare un’immagine o
un concetto di sé, sentono di essere il punto di origine delle proprie percezioni, azioni, pensieri,
sentimenti, ecc. Stern, a partire dalle sue ricerche sulla coscienza di sé del neonato, ha
descritto tre esperienze fondamentali proprie del neonato alla base del suo senso di essere un
sé: a) self-agency, cioè il senso di essere l’origine delle proprie azioni e non di quelle altrui; b)
self-coherence, cioè il senso di essere un’unità fisica non frammentata, con confini precisi; c)
self-history, cioè il senso di continuità della propria esistenza.
Le caratteristiche fondamentali della coscienza di sé minima sono il sentimento di meità
(ownership) e di attività (agency): il sentimento di meità è il senso implicito di essere il titolare
di quell’esperienza o azione, cioè il senso che quell’esperienza o azione è mia, mentre il
sentimento di attività è il senso implicito di essere l’iniziatore di quella data azione o atto
psichico.
Coscienza di sé narrativa. La coscienza di sé riflessiva, che si manifesta nella coscienza di
sé narrativa, presuppone un tipo di autocoscienza pre-riflessiva come sua condizione di
possibilità. L’autocoscienza riflessiva è esplicita, relazionale, mediata, concettuale e
oggettualizzante. A differenza della coscienza di sé pre-riflessiva, è un modo di comprendere
se stessi mediato dalla riflessione. Essa si configura quindi come una conoscenza di sé, in
quanto si tratta di un modo di raccontare (a se stessi) la propria storia, di strutturare
narrativamente la propria esistenza.

• Coscienza e inconscio
Alcuni fenomeni su cui poggia la struttura della coscienza sono impliciti o inconsci. Il confine
tra inconscio e coscienza e le definizioni stesse del concetto di coscienza e inconscio hanno
subito in questi anni un’ampia revisione ad opera della filosofia della mente, della
fenomenologia, delle neuroscienze e della psicoanalisi.
Secondo il modello topografico elaborato da Freud, l’inconscio è costituito dall’insieme dei
contenuti psichici rimossi. Questi contenuti rimangono attivi ed emergono attraverso i sintomi,
nei sogni, nelle paraprassie, nelle libere associazioni, nei motti di spirito, e così via. Dopo
l’introduzione del modello strutturale, vengono collocati nell’inconscio anche i meccanismi di
difesa e il Super-Io, costituito dalla coscienza morale.
Recentemente lo psicoanalista e neurobiologo Mancia ha proposto la distinzione tra due tipi di
inconscio: (1) Il primo, detto inconscio dinamico, coincide con i contenuti inconsci prodotti
dalla rimozione. Tale ambito dell’inconscio sarebbe connesso alla memoria esplicita o

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dichiarativa, avrebbe carattere autobiografico e simbolico e sarebbe verbalizzabile. Esso


dovrebbe formarsi a partire dal secondo anno di vita in quanto richiede l’integrità di aree
cerebrali che maturano soltanto in questa fase (es.: il lobo temporale mediale, l’ippocampo).
La memoria esplicita o dichiarativa comprende la memoria semantica (engrammi di fatti) e la
memoria episodica (engrammi di eventi). (2) Il secondo, detto inconscio non-dinamico, non è
prodotto dalla rimozione; esso sarebbe connesso alla memoria implicita o non-dichiarativa, che
si sviluppa prima del secondo di vita; la memoria implicita rappresenta il repertorio delle
esperienze pre-verbali precoci che hanno contribuito “all’organizzazione di rappresentazioni
affettive delle figure più significative dello sviluppo del bambino e di fantasie e difese rispetto a
delusioni, frustrazioni e traumi che il bambino ha incontrato nel suo impatto con la realtà”. La
memoria implicita o non-dichiarativa consta fondamentalmente della cosiddetta memoria
procedurale, la quale consiste in una serie di schemi senso-motori impliciti, cioè di risposte
motorie (procedure) a stimoli sensoriali che si basano sull’uso implicito delle esperienze
predominanti nel passato. Tra le manifestazioni principali della memoria procedurale vi sono
quindi gli “usi” particolari del corpo come la postura, il modo di muoversi, l’espressività
facciale, e così via. Esempi di memoria procedurale possono essere considerati i modelli
operativi interni, gli stili di attaccamento, le rappresentazioni di interazioni generalizzate, ecc.

• I disturbi della coscienza come dispositivi di vulnerabilità


Abbiamo distinto tre tipi di inconscio: (a) Il primo, quello dinamico, è il repertorio delle
significazioni rimosse delle azioni; questo ambito è quello specifico della patologia nevrotica
(conflitto). (b) Il secondo, quello non-dinamico, è il fondamento di procedure e schemi senso-
viscero-motori, cioè emotivi, che si attivano automaticamente. Le patologie relative a
quest’ambito consistono dei disturbi dell’umore (umore). (c) Il terzo, la coscienza di sé minima
o pre-riflessiva, è fondamento della prospettiva di prima persona, e condizione di possibilità
della coscienza di sé riflessiva e narrativa. Le patologie relative a questo ambito sono costituite
dai disturbi dell’area schizofrenica e maniaco-depressiva e dalle personalità liquide.
Alterazioni della vigilanza. Le principali alterazioni quantitative della vigilanza sono: a)
l’obnubilamento: lieve diminuzione della vigilanza e della lucidità; b) la sonnolenza: riduzione
delle azioni spontanee e della risposta gli stimoli e tendenza ad addormentarsi; c) il sopore:
assenza di vigilanza da cui la persona può essere risvegliata a fatica; d) il coma: assenza di
vigilanza da cui non è possibile risvegliare la persona. Si tratta di condizioni causate da
malattie cerebrali come le intossicazioni o i traumi cerebrali, stati epilettici e post-epilettici,
disturbi circolatori o di ossigenazione dell’encefalo, patologia infiammatoria o neoplastica
dell’encefalo.
Le principali alterazioni qualitative della vigilanza sono: (a) Lo stato crepuscolare: esso è
caratterizzato da un restringimento dello stato di coscienza che si focalizza su determinati
oggetti esterni e soprattutto su determinati vissuti, seguito da una totale amnesia
sull’accaduto; possono presentarsi anche delle illusioni percettive. L’umore è generalmente
ansioso. Se si escludono le cause organiche, la principale condizione psicopatologica in cui si
riscontra lo stato crepuscolare sono i gravi stati di panico in personalità immature o istrioniche.
(b) Lo stato oniroide: esso è uno stato simile al sogno, ma “ad occhi aperti”; è caratterizzato
da uno stato stuporoso dal quale emergono esperienze allucinatorie e fantastiche che la
persona vive con intensa partecipazione emotiva. Escludendo, anche in questo caso, l’eziologia
organica, si ritiene si tratti di stati psicotici reattivi e per lo più transitori. (c) L’amenza è un

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raro stato di profondo disorientamento spazio-temporale e di incoerenza motoria,


accompagnato da allucinazioni e da uno stato d’animo perplesso. Si trova in quadri ad eziologia
organica o di gravissime patologie psichiche, soprattutto in fase di esordio.
Schizofrenia. La concettualizzazione della schizofrenia come un disturbo della coscienza è
avvenuta ad opera della psicopatologia fenomenologica. Lo stesso concetto di “schizofrenia” si
basa su un’ipotetica dissociazione del sé. Minkowski, Blankenburg, Kimura ed altri autori hanno
contribuito alla comprensione del disturbo basale della schizofrenia come un disturbo della
coscienza di sé pre-riflessiva. Il disturbo più tipico è costituito dalla perdita della meità delle
esperienze.
Nella schizofrenia la coscienza di sé pre-riflessiva è turbata, mentre la coscienza riflessiva è
accentuata; il disturbo della coscienza di sé pre-riflessiva consiste nel fatto che un fenomeno
che prima si svolgeva in modo implicito ora non lo è più, ed emerge come oggetto esplicito di
coscienza. Le proprietà fondamentali della coscienza fenomenica sono alterate: (a)
Trasparenza: Normalmente, nel percepire la realtà, noi ci sentiamo direttamente in contatto
con essa, e non siamo coscienti dei processi mentali che rendono possibile la nostra
rappresentazione della realtà stessa. Non avviene lo stesso per una persona schizofrenica, che
può diventare cosciente della propria immagine della realtà, e vivere se stessa come l’autore di
una serie di atti mentali normalmente impliciti che costituiscono la realtà. Da un lato la
persona schizofrenica perde il carattere di trasparenza della conoscenza fenomenica, dall’altro
si esaspera il carattere di riflessività rispetto agli atti mentali. La conseguenza è che la realtà
appare come irreale e il sé viene concepito come il meccanismo che produce la realtà stessa.
(b) Prospettiva: Nell’esperienza delle persone schizofreniche, viene meno anche l’essere
prospettico dell’esperienza, cioè il sentimento che l’esperienza è sempre esperienza di
qualcuno. Di conseguenza viene meno anche il senso di meità dell’esperienza stessa. (c)
Presenza: normalmente, io e il mondo siamo presenti fisicamente nello stesso momento l’uno
di fronte all’altro; le persone schizofreniche, invece, possono vivere se stesse come spiriti
disincarnati.
Melancolia. La condizione maniaco-depressiva rimanda ad un disturbo della coscienza di sé
narrativa; essa è caratterizzata dall’arrestarsi della dialettica, interna all’essere-se-stessi, tra
sé e altro-da-sé. Ognuno di noi definisce se stesso non soltanto in base a ciò che è già stato,
ma anche in base a ciò che non è e potrebbe o vorrebbe essere. Dunque l’identità umana è
caratterizzata dalla dialettica tra un nucleo invariante nel tempo del proprio sé (essere-lo-
stesso) e la proiezione del proprio sé nell’evoluzione esistenziale (essere-se-stesso), che
prevede l’integrazione nel sé dell’altro-da-sé, cioè di nuove possibilità rispetto al già stato. Il
melancolico non vive l’altro da sé come una possibilità verso cui protendersi, ma come un
“nulla” da cui mettersi al riparo, come un buco nero che potrebbe annientare un’identità
incerta. Il melancolico non tollera l’evento-alterità, cioè l’avvenimento che non rispetta la
regola del già noto, in quanto non coglie in esso un’occasione per conoscere un altro aspetto di
sé, bensì una minaccia alla sua identità. Così l’esistenza melancolica rimane confinata
nell’essere-lo-stesso; si assiste ad un irrigidimento della dialettica identitaria che si radicalizza
al polo della staticità.
Personalità “liquide” e disturbi alimentari. Recentemente è emerso un nuovo tipo di
disturbo della coscienza di sé: quello che si caratterizza per un comportamento alimentare
abnorme e per una profonda alterazione del senso di essere un sé e del vissuto corporeo.

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Nell’epoca post-moderna è venuto progressivamente meno in ciascuno di noi un principio


interno di coerenza, un sentimento interno di appartenenza. In questo contesto, caratterizzato
dalla crisi della coscienza “egocentrata”, viene meno l’Io inteso come polo di identità che si
pone al di sopra delle singole esperienze e le organizza spontaneamente in un insieme
coerente dotato di un senso. Il sociologo Zigmunt Bauman, per definire la condizione post-
moderna, ha introdotto la metafora dell’“identità liquida”. Per le persone liquide, i vissuti non si
organizzano spontaneamente attorno ad un centro di gravità narrativa, non ineriscono all’Io.
L’essere-situati nel corpo e nel mondo non sono garanzie di identità e di stabilità, ma compiti
da rinnovare ad ogni istante. Le personalità liquide vivono alla giornata, rifuggendo da
qualsiasi definizione “solida” del proprio sé. Tale metamorfosi sociale della coscienza di sé si fa
portatrice di una mutazione psicopatologica che vede in primo piano, come patologia della
post-modernità, i disturbi del comportamento alimentare. La definizione di questi disturbi sulla
base di rilievi puramente comportamentali (la condotta alimentare) è fuorviante; è invece più
utile focalizzare il disturbo della coscienza corporea. Queste persone hanno un legame molto
debole con il proprio corpo: non riescono a definirne le dimensioni se non attraverso
misurazioni oggettive, come il peso o la taglia; si sentono staccate dal proprio corpo e
percepiscono il proprio corpo come formato da parti sconnesse tra loro. Non riescono a leggere
le proprie emozioni come indici affidabili per definire se stesse. Dunque il corpo non può
costituire per loro la base sicura per definire la propria identità.
Allo stesso tempo, si assiste in queste persone ad un’iper-identificazione con il proprio corpo in
quanto “simulacro della propria identità”; si tratta però di una coscienza indiretta, che si
realizza attraverso l’intermediazione dell’altro. È l’essere oggetto dello sguardo altrui che fa
sentire queste persone qualcuno o qualcosa, che le sottrae alla depersonalizzazione. Per
queste persone il problema dell’identità si riduce all’essere corpo visibile.
Il corpo non è sentito in prima persona: queste persone dicono di non appartenersi, di non
vivere il proprio corpo come “proprio”; descrivono una dissociazione tra corpo e mente.
L’identità prende corpo tramite il relazionarsi con l’altro: solo l’essere visto dagli altri conferisce
sostanza al sé. Si potrebbe parlare a tal proposito di una concezione estetica (fondata sul
vedere), che rende comprensibile l’enfasi sulla forma corporea che caratterizza queste
persone: modellando il proprio corpo, pensano di poter modellare il proprio sé, tentano cioè di
definire la propria identità definendo il proprio corpo.

• La coscienza come realtà condenda


La coscienza non è un datum, un dono della natura. Essa è una realtà condenda, in continua
costruzione. Come scriveva De Martino, “la costituzione fondamentale dell’esserci non è
l’essere-nel-mondo, ma il doverci essere-nel-mondo. Questo “doverci essere” non è un dato
biologico su cui si può far conto, ma un ethos, un dato culturale che dobbiamo rinnovare
continuamente, per non correre il rischio di perdere la coscienza.
Il nucleo primordiale della coscienza di sé che si costituisce nelle primissime fasi della vita
richiede la presenza di cure, di relazioni precoci, di legami affettivi adeguati. Questa è
probabilmente l’unica fase della nostra vita in cui il senso di essere un sé non dipende da se
stessi. Il fallimento nello sviluppo di questa forma matriciale di coscienza è il nucleo di
vulnerabilità a partire dal quale hanno origine le patologie più gravi. La costituzione dei livelli
più complessi di coscienza di sé richiede un lavoro continuo di conciliazione dei conflitti, di

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