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formulazione di una diagnosi. La diagnosi in psicologia clinica non coincide con la diagnosi in
senso medico; essa deve sicuramente comprendere la diagnosi psichiatrica, ma non può
limitarsi ad essa, bensì deve prendere in considerazione una serie di altri elementi che non
riguardano più il disturbo ma le caratteristiche della persona nella quale il disturbo si presenta.
Per tale ragione la diagnosi in psicologia clinica si configura come un processo di valutazione
globale del disturbo, della persona e del rapporto tra persona e disturbo; tale processo è
denominato assessment.
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descrizione e trattamento dei vari disturbi mentali classificati nel DSM; accanto ai disturbi
mentali, generalmente in questi manuali vengono presi in considerazione altri ambiti
problematici: i disturbi psicologici nell’arco di vita, la psicopatologia del bambino,
dell’adolescente e dell’anziano, la psicopatologia familiare, le teorie della personalità, e così
via; 5) Una quinta area comprende la psicoterapia, sia in generale che nelle sue varie
declinazioni; 6) Una sesta area è rappresentata da una miscellanea che comprende temi
specifici come psicosomatica, psicologia della salute, interventi sull’ambiente e sulla comunità,
psicologia della riabilitazione, ecc..
I manuali generalmente prendono in considerazione il versante applicativo della disciplina, ma
la psicologia clinica, oltre che una professione, è anche una disciplina scientifica, sebbene il
versante della ricerca sia meno presente nei manuali tradizionali. Nell’analisi e nella
discussione del singolo caso, comunque, la dimensione della ricerca clinica e quella della
professione clinica devono trovare un’integrazione, a vantaggio del trattamento del paziente.
A chi lo psicologo clinico applica “competenze, metodi di ricerca, strumenti di
indagine, tecniche di intervento”? Generalmente l’intervento in psicologia clinica si rivolge
al singolo individuo, il cosiddetto “caso clinico”; questo individuo sta vivendo una crisi
fisiologica legata alla normale evoluzione vitale, oppure presenta una sofferenza mentale che
ha assunto una propria struttura tanto da configurarsi come un vero e proprio disturbo nei
termini di un sistema diagnostico. Altre volte, invece, l’intervento in psicologia clinica si rivolge
a: a) coppie che vivono una condizione di sofferenza della relazione, uno stato conflittuale o
una vera e propria deriva della relazione in senso patologico; si va da crisi di coppia più o
meno fisiologiche a manifestazioni di sofferenza della coppia legate all’emersione di una
patologia; b) famiglie all’interno delle quali si è verificata una crisi, o vi è una sofferenza che
può avere molteplici cause, tra cui la presenza di una grave patologia (mentale o fisica) in uno
dei suoi membri; c) gruppi di pazienti, gruppi di familiari di pazienti, gruppi di operatori di
diverso tipo, come ad esempio personale che lavora in reparti in cui il carico di lavoro
psicologico è impegnativo e che ha bisogno di rielaborare le forti emozioni vissute per
contenere gli effetti di burn-out, o personale che lavora a stretto contatto con patologie
psichiatriche gravi o croniche, personale che lavora in residenze per anziani, e così via.
Dove? Uno psicologo clinico può prestare la propria opera in diversi contesti: (a) Egli
può lavorare in privato, nel suo studio o ambulatorio, a contatto con pazienti che hanno deciso
di rivolgersi direttamente a lui; in questo senso la pratica privata pre-seleziona i pazienti, sulla
base della motivazione alla cura o dell’esplicita richiesta di aiuto. Per tale motivo, in questo
contesto lo psicologo clinico incontrerà situazioni cliniche di minore gravità le quali, dopo una
fase di assessment iniziale, possono essere avviate verso una psicoterapia formalizzata. (b) Lo
psicologo clinico può lavorare come dipendente del Servizio Sanitario Nazionale, nell’ambito dei
servizi pubblici, svolgendo un’ampia gamma di funzioni cliniche: valutazioni diagnostiche,
certificazione, prevenzione, cura. Questo tipo di collocazione generalmente implica un lavoro
integrato con altri servizi, operatori o istituzioni (es.: medici, assistenti sociali, comunità,
scuole, ecc.). Lavorare in un setting pubblico permette al clinico di venire in contatto con le
patologie psichiatriche più gravi, e quindi con le terribili conseguenze che queste patologie
hanno sull’affettività, sul funzionamento sociale e sul destino del paziente e della sua famiglia.
(c) Lo psicologo clinico può lavorare in case famiglia, centri diurni, comunità o comunque in
strutture deputate alla presa in carico e al trattamento di patologie gravi e a lungo termine. Il
lavoro in tali strutture intermedie metterà lo psicologo clinico a confronto con dei gravi
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soggetto non è neanche consapevole. Questa eventualità è più frequente nell’ambito delle
patologie gravi di tipo psicotico nelle quali il soggetto vive chiuso dentro un modo
psicopatologico e ha chiuso i rapporti con la comunità dei sani; in questi casi è preferibile
rivolgersi ad una struttura pubblica, dove il gruppo di lavoro può mettere in atto varie modalità
di avvicinamento al paziente.
Per quanto riguarda le motivazioni del terapeuta, l’obiettivo a cui egli mira è quello di alleviare
la sofferenza umana e di migliorare la qualità della vita. Nello specifico, l’intervento clinico
verso situazioni di crisi para-fisiologica avrà come scopo la comprensione dei motivi alla base
della crisi e l’esplorazione della possibilità di ri-negoziare un nuovo equilibrio. L’intervento
clinico indirizzato a situazioni di patologia psichiatrica avrà invece lo scopo di ridurre la
sofferenza soggettiva e di esplorare possibilità adattive migliori di quelle realizzate dal sintomo
patologico.
Come? Il clinico lavora generalmente a stretto contatto con il singolo paziente, applica
ad esso le competenze, conoscenze ed esperienze che ha acquisito nel suo iter formativo. Tali
conoscenze derivano non soltanto dal patrimonio teorico-clinico che la psicologia clinica come
disciplina ha sviluppato nel corso del tempo, ma anche dall’integrazione di queste conoscenze
con l’esperienza maturata sul campo. Via via che il clinico si trova a fare diretta esperienza
delle situazioni che ha incontrato sui libri, andrà ristrutturando le sue conoscenze e la sua
pratica, recuperando i contenuti teorici da un punto di vista diverso da quello con il quale si
approcciava ad essi da studente. Ogni caso clinico rappresenta un’occasione privilegiata per
rivedere il proprio patrimonio di conoscenze nonché per ulteriori approfondimenti conoscitivi.
Nella professione dello psicologo clinico le teorie e i modelli di riferimento svolgono un ruolo
molto importante. Al termine della sua formazione universitaria, e quindi in una fase ancora
iniziale per la sua formazione professionale, il clinico deve compiere una scelta che
condizionerà la sua intera carriera: deve scegliere una particolare teoria di riferimento e quindi
una particolare scuola di specializzazione post-laurea. Tale scelta viene spesso fatta senza
poter ancora disporre di una conoscenza sufficientemente vasta del campo, soprattutto del
versante empirico-operativo. La scelta dell’indirizzo teorico condizionerà pesantemente il modo
di fare clinica dello psicologo; è auspicabile che gli non ceda alla tentazione di “murarsi” dentro
il proprio indirizzo teorico-conoscitivo, sottraendosi così alla riflessione critica e al confronto
con altre prospettive.
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paziente; egli deve trovare il modo di regolare la propria distanza dal paziente. Tale
regolazione è influenzata però da una serie di variabili, alcune delle quali sono strettamente
personali. Ammesso che il clinico abbia avuto una buona formazione teorica, tale formazione
deve andare incontro ad un processo di lenta e progressiva deformazione, processo che si
verifica quanto egli entra a contatto con i pazienti reali. Questa deformazione è strettamente
legata alle caratteristiche di personalità del clinico, per tale ragione non bisogna considerare il
tirocinio soltanto come un’esperienza di formazione professionale, ma anche un’occasione di
formazione personale.
Il clima culturale dominante nella clinica psichiatrica, caratterizzato dall’egemonia del DSM,
non facilita il primo contatto con la clinica: le descrizioni dall’esterno, utili in ambito di
oggettivazione e di ricerca, sono solo parzialmente utili nell’esperienza diretta con il paziente:
ad esempio, il clinico può sapere tutto dei criteri DSM per la diagnosi di una certa patologia,
ma non essere in grado di mettersi in relazione con il paziente. La conoscenza dei criteri
diagnostici è necessaria ma non sufficiente; è altrettanto fondamentale acquisire delle
conoscenze che mettano il clinico in grado di rappresentarsi il mondo dell’altro, le
caratteristiche dell’atmosfera psicologica e relazionale nella quale l’altro vive.
Il processo di formazione-deformazione, come già detto, inizia con il tirocinio. Il suo punto di
arrivo è costituito dallo stile personale che ogni clinico sviluppa nel suo lavoro, nel corso di
molti anni, e rappresenta il prodotto di un progressivo e duraturo processo di assimilazione-
accomodamento tra le caratteristiche di personalità del clinico e gli strumenti di carattere
teorico.
L’esperienza di contatto con la clinica che avviene attraverso il tirocinio permette allo psicologo
di capire se si sente di dedicare alla clinica la sua vita professionale o se invece preferisce
operare in settori in cui le variabili in gioco sono note e controllabili. Nella clinica le variabili
controllabili sono difficili da trovare, e l’enorme quantità di variabili (personali, relazionali,
storiche, culturali, sociali) che entrano in gioco travolge gli schemi ordinati nei quali, da
studenti, si organizza il sapere.
Il tirocinio rappresenta l’occasione privilegiata per cominciare a fare esperienza di due aspetti
cruciali della clinica: a) il coinvolgimento personale nel contatto con la patologia mentale; b) il
coinvolgimento in un gruppo di lavoro multi professionale che si occupa di patologia mentale. Il
contatto con la clinica è anche contatto con se stessi; emerge la paura che la follia dell’altro sia
anche propria, ovvero che la follia sia “contagiosa”: lo stato mentale dell’altro si trasmette
anche a noi, nella misura in cui ci impegniamo nella relazione con lui. Nella follia vediamo in
azione negli altri forze di cui non conoscevamo neanche l’esistenza; una volta che tali forze si
sono manifestate negli altri, possiamo pensarle come qualcosa che non è estraneo nemmeno a
noi. Queste forze hanno a che vedere con l’indebolimento del confine che separa la realtà dal
mondo della fantasia, fatto di sogni, deliri, idee ossessive, e così via. Non è raro che i
tirocinanti siano messi in crisi o spaventati dall’esperienza che fanno del tirocinio. Quest’ultimo,
infatti, costituisce un’esperienza che non si può fare senza l’adeguata “attrezzatura” né
tantomeno da soli; a tal proposito, i tutor hanno il ruolo di integrare i vari aspetti
dell’esperienza formando un insieme coerente e strutturato, in modo da favorire la formazione.
Senza questa cornice formativa il tirocinio può diventare una vera e propria esperienza
traumatica. Il tirocinante non deve farsi carico del paziente, ma viene comunque a contatto
con la sofferenza mentale, con situazioni di gruppo, con i pazienti, con i loro familiari, e con le
angosce e le difficoltà dei curanti. Egli inoltre è ad alto livello di esposizione; giovane, aperto,
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curioso, sensibile, spesso viene “catturato” dalla clinica e fatto oggetto di interesse da parte dei
pazienti, soprattutto se coetanei. Il tutoraggio o la supervisione sono quindi fondamentali in
quanto fanno sì che la deformazione si realizzi senza traumi e senza rischi.
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diversi aspetti, come l’intelligenza, la personalità, e così via) attraverso strumenti quantitativi,
come i test psicometrici. Dunque essa può essere considerata una delle componenti storiche
della grande famiglia della psicologia clinica, cioè un sottoinsieme della psicologia clinica
specializzato in uno specifico settore di ricerca e di applicazione clinica, in stretto rapporto con
un altro sottoinsieme della psicologia clinica, ovvero la psicometria. Recentemente è emerso
un nuovo modello basato sul concetto di “clinimetria”: mentre la psicometria è un’area della
psicologia interessata allo sviluppo di metodi il più possibile accurati per la misurazione delle
variabili psicologiche, la clinimetria si sviluppa nell’area della clinica allo scopo di guidare e
spronare lo psicologo ad esprimere i propri giudizi nella valutazione dei fenomeni clinici a livello
diagnostico, prognostico e terapeutico, secondo una coerenza clinica oltre che statistica.
• Psicologia clinica e psicologia medica
Con il termine “psicologia medica” si fa riferimento a quella parte della psicologia clinica che ha
sviluppato particolari competenze applicate alla medicina. La psicologia medica: (a) Ha
l’obiettivo di integrare la preparazione del medico e del personale sanitario con competenze di
carattere psicologico relative alla psicologia della malattia e del rapporto medico-paziente;
infatti la psicologia del malato e le modalità di reazione alla malattia non possono essere
escluse da una presa in carico complessiva della persona malata. L’intervento del medico può
essere fortemente condizionato dalle variabili psicologiche e psicopatologiche. (b) Pone al
centro del suo interesse il rapporto medico-paziente, sia a livello individuale che a livello del
gruppo familiare o del gruppo curante. In tal senso si occupa di diverse questioni, ad esempio:
i processi psicologici che si mettono in moto all’interno della famiglia di un malato; il modo in
cui la famiglia affronta la morte imminente di una persona cara; i processi psicologici che si
attivano nell’èquipe curante di fronte alla malattia o alla morte; i processi psicologici che si
attivano nei gruppi di lavoro che si occupano di situazioni cliniche particolari, ad esempio
pazienti cancerosi terminali o pazienti in rianimazione, e così via. Sin dagli anni ’70 è stato
sottolineato come questi processi psicologici possiedano una funzione difensiva nei confronti
della morte, e come spesso essi si traducano in condotte di distanziamento e di
frammentazione dell’intervento, così da ridurre al minimo l’impatto dell’angoscia sul singolo
operatore. (c) Favorisce la diffusione delle conoscenze e delle competenze psicologiche nel
personale sanitario, attraverso una funzione di educazione, guida e addestramento all’ascolto
delle implicazioni psicologiche della malattia.
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con la psicologia dinamica: il campo psicodinamico è molto più ampio di quello psicoanalitico.
La psicologia dinamica, secondo Dazzi e De Coro, consiste in “un insieme ampio e variegato di
assunti teorici e di modelli di intervento clinico, che risultano solo in minima parte
sovrapponibili o convergenti tra loro”.
La psicologia dinamica si configura quindi come una particolare psicologia clinica che, a partire
dalla “dinamica” dei fenomeni psichici, interviene su di essi in un processo terapeutico mediato
dalla relazione. Dal punto di vista della definizione degli insegnamenti nei Corsi di Laurea in
Psicologia, la psicologia dinamica comprende le competenze scientifico-disciplinari che
considerano da un punto di vista psicodinamico e psicogenetico le rappresentazioni del Sé, i
processi intrapsichici e le relazioni interpersonali; essa comprende anche le competenze
relative alle applicazioni di queste conoscenze all’analisi e al trattamento del disagio psichico e
delle psicopatologie. Così intesa, la psicologia dinamica si configura come un ambito,
particolarmente esteso e rilevante, della grande area della psicologia clinica.
La psicologia dinamica ha sempre influenzato la psicopatologia, cioè la disciplina che si propone
di comprendere il senso delle esperienze, dei comportamenti e delle espressioni umane
abnormi. La psicopatologia dinamica è caratterizzata da modelli “dialettici” secondo i quali
sintomi, sindromi e decorsi psicopatologici hanno origine dall’interazione tra due componenti:
vulnerabilità e persona. I sintomi non si presentano sin dall’inizio come tali, ma sono il
prodotto di un percorso psicopatologico che conduce ai quadri conclamati della clinica.
Alcuni modelli dialettici in psicopatologia hanno un’ispirazione fenomenologica, e non derivano
dalla tradizione psicoanalitica. Essi sono alla base della psicopatologia del patologico
(Minkowski) [vedi fine paragrafo successivo].
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come ogni parola sia in un certo senso un “farmaco” e di come ogni farmaco abbia bisogno di
essere sostenuto da una relazione fatta di parole.
La labilità dei confini tra psicologia clinica e psichiatria deriva dal fatto che queste due
discipline condividono in parte lo stesso oggetto di studio: una parte della psicologia clinica si
occupa dello stesso oggetto di studio della psichiatria (la clinica dei disturbi mentali, cioè
diagnosi, prognosi e trattamento). Tuttavia, se da un lato la psicologia clinica e la psichiatria
condividono lo stesso oggetto di studio, dall’altro si differenziano per l’ampiezza delle aree
applicative e per il metodo utilizzato.
Ampiezza del campo di applicazione. Mentre la psichiatria si occupa soltanto dei disturbi
mentali codificati dai moderni sistemi diagnostico-nosografici, la psicologia clinica ha un campo
di applicazione più ampio, in quanto si occupa di tutta una serie di evenienze che non
appartengono al novero dei disturbi mentali. Si tratta di manifestazioni problematiche
individuali o gruppali che possono avere sviluppi clinici e che sono legate a specifiche tappe del
ciclo di vita; tali fenomeni critici spesso si risolvono da soli, ma a volte possono innescare un
malessere tale da motivare una richiesta di aiuto o da diventare il punto di partenza per uno
scompenso psicopatologico. Rientrano nell’ambito delle competenze psicologico-cliniche anche i
fenomeni di carattere genericamente depressivo che non sono sufficientemente gravi da
soddisfare i criteri diagnostici del DSM, così come tutte quelle situazioni di carattere
problematico, di generico disagio o di conflitto che necessitano di essere approfondite e risolte.
Sono oggetto della psicologia clinica anche le conseguenze psicologiche di vicende a carattere
traumatico. L’intervento dello psicologo clinico può esplicarsi in campo informativo,
educazionale o preventivo, oppure nell’area delle patologie neurologiche, della loro valutazione
e riabilitazione.
Modello medico e metodo clinico. Qualsiasi prescrizione medica si rende possibile soltanto
all’interno di una relazione; ogni medico deve essere consapevole delle implicazioni
psicologiche del suo operare e degli effetti psicologici dei suoi interventi. Nonostante questo,
però, la psichiatria (in quanto scienza medica) adotta il modello medico tradizionale, il quale
postula l’esistenza di disturbi clinici codificati di cui descrive i sintomi, indaga le cause
(eziologia), studia il decorso e la prognosi, progetta la cura.
Analogamente, lo psicologo clinico non può prescindere dal sapere psichiatrico, deve conoscere
la classificazione dei disturbi mentali, deve saper fare una diagnosi psichiatrica, deve
conoscere le modalità di intervento tipiche della psichiatria e avere delle conoscenze basilari di
psicofarmacologia. Tuttavia l’approccio psicologico clinico ai disturbi mentali si basa sul metodo
clinico; questo metodo, oltre a prendere in considerazione la malattia e i suoi sintomi, dà
importanza al ruolo svolto dalla persona e si basa sul rapporto interpersonale.
La dimensione storico-narrativa occupa un posto rilevante nel metodo clinico: ciò significa che,
in psicologia clinica, non è importante soltanto delineare il quadro attuale delle condizioni del
paziente, ma anche una storia più o meno articolata del percorso interiore e di vita che ha
condotto il paziente ad assumere quella particolare posizione. La storia di cui si occupa la
psicologia clinica non è l’anamnesi medica, cioè la storia dei sintomi, della malattia, degli
episodi pregressi, ma la storia di vita della persona. In tale storia sono presenti tutti gli eventi,
tutti gli snodi problematici, le esperienze del paziente, ed è in tale storia che va rintracciata
l’origine del disturbo.
L’adozione del metodo clinico comporta anche una differente prospettiva sulla diagnosi. In
psicologia clinica non vengono presi in considerazione soltanto i sintomi, ma anche la storia
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della persona e il rapporto tra la persona e la sua malattia. Per questo in psicologia clinica al
termine diagnosi, di stampo strettamente medico, si preferisce il termine assessment. La
diagnosi psicologico-clinica richiede generalmente più tempo rispetto alla diagnosi nosografica
psichiatrica, per questo lo psicologo deve essere consapevole dell’opportunità di predisporre un
setting formalizzato nel quale avviare un vero e proprio processo diagnostico. Al termine di
questo percorso il clinico formulerà una valutazione riassuntiva e illustrerà al paziente le
possibili indicazioni terapeutiche. Attraverso il processo di assessment si tenta non soltanto di
delineare la natura del problema, ma anche di identificare punti deboli e punti forti del
problema, di individuare i fattori che hanno fatto sì che qualcosa non andasse per il verso
giusto; si tratta quindi di una valutazione che tiene conto anche delle eventuali risorse del
soggetto e non considera il disturbo soltanto sotto il profilo del deficit.
La psicologia clinica è una psicologia del patologico, nel senso che, anziché considerare la
patologia mentale come l’espressione di un disturbo biologico, introduce una dimensione
psicologica anche nel mondo della patologia. Quindi la psicologia clinica non si occupa soltanto
della patologia dello psicologico, cioè non si limita a descrivere le deviazioni dalla norma del
funzionamento psicologico normale, ma è anche una psicologia del patologico, la cui funzione è
quella di elaborare dei modelli del funzionamento mentale nella patologia che servano da guida
per il trattamento. Il versante clinico della psicologia comprende la psicologia clinica e la clinica
psicologica: mentre la psicologia clinica è l’analisi dei problemi della vita interiore effettuata
attraverso il metodo clinico, la clinica psicologica è una terapia condotta con mezzi psichici
(cioè una psicoterapia).
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psicologia clinica ha fatto propri gli insegnamenti della psicoanalisi, a partire dall’attenzione
verso il mondo interiore dell’individuo che oggi la contraddistingue.
La psicoanalisi però può anche essere considerata come una specifica psicologia clinica. Infatti
il termine “psicoanalisi” ha un quadruplice significato: a) la psicoanalisi è un procedimento per
l’indagine dei processi psichici inconsci ai quali non è possibile accedere in altri modi; b) la
psicoanalisi è un metodo terapeutico per il trattamento dei disturbi mentali; c) la psicoanalisi è
una disciplina scientifica costituita da una serie di conoscenze psicologiche; d) la psicoanalisi è
un movimento scientifico al quale appartengono le persone che esercitano la professione di
psicoanalista.
La conoscenza dei contributi della psicoanalisi, fondati sull’attenzione al singolo individuo, al
mondo interno, alla relazione, alle nozioni di inconscio, conflitto, meccanismi di difesa,
transfert, controtransfert, e così via, rimane patrimonio irrinunciabile per ogni psicologo clinico.
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La diagnosi non va considerata come un male in se stesso, bensì questa va inserita all’interno
di un processo diagnostico, il quale può essere rappresentato come una tripla clessidra. (1) La
prima fase consiste in una dettagliata descrizione dei fenomeni clinici, in particolare le
esperienze e i comportamenti del paziente in esame. Questa descrizione dovrebbe condurre
all’individuazione di una serie di fenomeni psichici abnormi che hanno valore di sintomi, e
tramite questi ad una sintesi ipotetica e provvisoria che può essere definita “diagnosi
descrittiva o nosografica”; questa corrisponde al primo punto di strozzatura della clessidra. (2)
La diagnosi descrittiva è seguita da un’ulteriore indagine finalizzata a recuperare il senso che i
fenomeni clinici hanno per quella persona, nel suo mondo e nel contesto delle sue relazioni.
Dunque in questa fase avviene un’accurata indagine delle caratteristiche dell’essere-nel-mondo
del paziente (il suo modo di vivere il tempo, lo spazio, le altre persone, il proprio corpo, ecc.).
Questa fase può essere definita ermeneutica in quanto va alla ricerca dell’organizzatore di
senso complessiva delle esperienze e delle azioni della persona sofferente. Attraverso la ricerca
del senso (cioè degli organizzatori psicopatologici) i singoli fenomeni e sintomi perdono il
carattere caotico e disparato e assumono un carattere coerente, in quanto facenti parte di un
insieme dotato di una struttura. Questo processo può essere definito “diagnosi psicopatologico-
fenomenologica” e rappresenta il secondo punto di strozzatura della clessidra. (3) La fase
successiva consiste nella ricerca dei percorsi psicopatologici che hanno condotto la persona alla
sua condizione di sofferenza. Viene ricostruita la storia personale del paziente attraverso una
narrazione che mette in un rapporto di significatività temporale i fenomeni psichici considerati.
Questi vengono ricondotti ad uno o più punti di svolta storico-biografici, come ad esempio un
trauma o un conflitto. In ciò consiste la “diagnosi psicodinamica”, che rappresenta la terza
strozzatura della clessidra.
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semantiche. Delle esperienze riportate dai pazienti si considerano soprattutto gli aspetti formali
piuttosto che gli aspetti relativi al contenuto; si ritiene infatti che i contenuti di un’esperienza
psichica possano variare in base alla storia personale, al contesto storico e culturale, mentre gli
aspetti formali rappresenterebbero elementi invarianti.
Con il termine “nosografia” si indica la descrizione delle singole malattie con finalità
esclusivamente diagnostiche, cioè pratiche e non teoretiche. La nosografia traccia i confini
delle sindromi in maniera provvisoria e convenzionale, al solo scopo di fornire i criteri per la
diagnosi empirica. La “nosologia”, invece, mira ad individuare delle entità naturali; essa rende
esplicito il sistema di concetti e teorie che supportano la propria strategia di classificazione.
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a causa della distorsione della comunicazione sostenuta dai suoi stessi processi psichici. Il
sintomo appare come un fenomeno complesso e variegato, come una formazione di
compromesso costruita a strati attraverso la quale nascondere e al tempo stesso svelare, un
modo per dire e non dire. (6) La diagnosi possiede un valore relazionale; l’insieme dei
fenomeni collegati alla diagnosi non appartiene soltanto al disturbo che il paziente presenta,
ma va inserito (ed acquista un senso) all’interno di una relazione nella quale i sintomi
assumono un preciso significato comunicativo. I fenomeni sui quali fondare la diagnosi non
possono essere ricavati soltanto dall’osservazione del paziente dall’esterno, ma anche da
quanto accade nel campo intersoggettivo e nella relazione specifica che si stabilisce tra
psicologo e paziente.
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basandosi sulla premessa che i sintomi non sono disturbi a sé stanti, ma espressioni esplicite
dei modi in cui i pazienti affrontano le esperienze. Nonostante ciò, l’analisi dell’esperienza
proposta da questo asse appare deludente: troppo legata alla descrizione del sintomo in terza
persona, non riesce a cogliere gli aspetti essenziali del vissuto soggettivo.
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Mediante le parole è possibile fare molte cose: domandare, avvertire, affermare, ordinare,
minacciare, e così via; l’azione compiuta parlando si definisce atto illocutorio. (b) parlare
significa cambiare: gli atti linguistici hanno delle conseguenze psicologiche, comportamentali,
relazionali, e così via. A seconda delle cose dette e di come si dicono, l’interlocutore crederà
certe cose, proverà determinate emozioni, agirà in un certo modo. Dunque ogni persona,
parlando, influenza inevitabilmente chi ascolta. Quindi “fare parole con le cose” significa che le
frasi pronunciate possono essere considerate degli atti che esercitano un’influenza sullo stato
d’animo, le opinioni, i comportamenti, le decisioni altrui. Oltre a provocare dei cambiamenti
nell’altro, pronunciare delle parole provoca delle modificazioni anche in chi parla; è come se la
persona, ascoltandosi, venisse a conoscenza di cose nuove, che la spingono a cambiare idea su
certi fatti o a mettere in atto determinati comportamenti. Ciò avviene perché, attraverso il
linguaggio, l’essere parlante ricostruisce la propria esistenza, reinventa la propria storia, regola
le proprie emozioni, in altre parole dà una forma alle proprie esperienze cosicché queste
risultino il più possibile integrate con il proprio Sé. Questo lavoro di sistematizzazione dei
propri vissuti attraverso l’atto linguistico può rivelarsi terapeutico, in quanto potrebbe portare
al cambiamento di alcune modalità disfunzionali di essere con gli altri e con se stessi.
Attraverso il linguaggio è possibile influenzare gli altri: è sulla base di questo presupposto che
è possibile concepire la psicoterapia. Se non credessimo all’enorme potenziale della parola,
l’esistenza della figura dello psicologo non avrebbe senso. Per tale ragione bisogna fare molta
attenzione al modo in cui si parla, nonché al contenuto della comunicazione; a seconda di
come si usano le parole, si possono avere effetti diversi, più o meno voluti e più o meno
riusciti. Lo psicologo deve comunicare attraverso un linguaggio che sia capace di lasciare il
segno, così da promuovere il cambiamento di una realtà che sembrava immutabile; egli deve
strutturare un discorso efficace, un discorso che, emozionando, attragga l’attenzione dell’altro
rendendolo ricettivo al cambiamento (movere, delectare, docere). Si tratta della retorica, l’arte
di saper parlare in modo da persuadere chi ascolta; la capacità retorica è una componente
essenziale del lavoro dello psicologo. Gli approcci terapeutici in cui il terapeuta svolge un ruolo
attivo (es.: terapia strategica, ipnotica, costruttivista, ecc.) si sono interessati maggiormente
allo studio delle strutture linguistiche attraverso le quali è più facile perturbare il paziente,
indurlo a comportarsi in maniera diversa, e così via.
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utile usare le parole che il paziente ha impiegato nel corso della conversazione clinica,
soprattutto quelle che hanno una forte valenza emotiva. L’impiego del lessico del paziente può
avere delle conseguenze favorevoli nella formazione della relazione terapeutica, per ben 4
ragioni: 1) il paziente si sente ascoltato (“se il terapeuta usa le mie parole vuol dire che mi sta
ascoltando, che prova interesse per quello che dico”); 2) il paziente si sente compreso (“lo
psicologo ha utilizzato proprio quelle parole che suscitano in me delle emozioni intense; questo
vuol dire che riesce a cogliere le cose che per me hanno valore, quindi è in grado di
comprendere il mio stato d’animo”); 3) il paziente si sente accettato (“il terapeuta riconosce il
mio modo di vedere le cose, aderisce alla mia concezione del mondo”); 4) il paziente si sente
contenuto (“quello che dico, le mie esperienze angoscianti, trovano un posto nel mio
terapeuta; parlare con lui mi permette di contenere la mia sofferenza, impedendole di
sopraffarmi”). Queste esperienze non vengono vissute in modo consapevole dal paziente, non
sono il frutto di una riflessione, ma nascono da un movimento emozionale che accomuna i due
interlocutori, “facendo vibrare i loro animi all’unisono” (Jaspers). È comunque importante che il
linguaggio del paziente venga adottato in maniera spontanea; quando ciò non avviene, il
paziente si rende conto dell’artificiosità del discorso. L’uso delle parole del paziente in modo
autentico avviene quando ci si identifica veramente con lui, ci si mette nei suoi panni, si prova
ciò che lui sta provando, si vede il mondo con i suoi occhi. Il rapporto tra linguaggio ed
empatia è di reciproco scambio. Un altro accorgimento consiste nel fatto che non bisogna
esagerare nella ripetizione delle parole del paziente; sarà sufficiente cogliere pochi termini,
magari una metafora utilizzata dal paziente, aspettare il momento giusto e riproporre, anche
per una sola volta, l’espressione che ci ha colpiti. Ad ogni modo è necessario cogliere i
feedback dei pazienti: alcuni potrebbero apprezzare lo stile comunicativo adottato dal clinico
mentre altri potrebbero non tollerarlo. Dunque è molto importante quello che Faimberg ha
chiamato “ascolto dell’ascolto”, cioè bisogna prestare molta attenzione a come il paziente ha
ascoltato le nostre parole, sapendosi adattare alle sue reazioni.
I fondatori della PNL hanno messo in evidenza che la relazione è favorita dal rispecchiamento
dei predicati. Il paziente può usare 3 diversi tipi di predicati: 1) Visivi (es.: “adesso mi è tutto
chiaro”, “vedo che ora mi ha capito”, “ho guardato dentro di me”, ecc.); 2) Uditivi (es.: “mi
suona male”, “è musica per le mie orecchie”, “ascolto la mia anima”, ecc.); 3) Cenestesici, cioè
relativi alle sensazioni (es.: “mi sono tolto un peso dallo stomaco”, “ho toccato con mano cosa
significa”, “ho afferrato il concetto”, ecc.). A seconda del predicato utilizzato dal paziente, il
clinico potrebbe formulare delle frasi espresse negli stessi termini.
Il clinico deve adeguarsi al vocabolario del paziente: non è utile utilizzare un linguaggio
elaborato con una persona con un basso livello di istruzione o con scarse proprietà di
linguaggio, e allo stesso modo non avrebbe senso non utilizzare un linguaggio ricercato con
una persona colta. Spesso si utilizza un linguaggio nettamente diverso da quello del proprio
interlocutore per prenderne le distanze; a tal proposito, il clinico deve essere consapevole delle
strategie comunicative che adotta, in modo da regolarne l’uso.
Bisogna prestare molta attenzione allo stile utilizzato dal paziente, alla forma del suo
linguaggio: come parla, se usa periodi lunghi o brevi, se descrive le cose in maniera molto
dettagliata, se ha un linguaggio telegrafico, se cambia improvvisamente argomento, se fa uso
di figure retoriche e di esempi, e così via.
Gli interventi che lo psicologo può utilizzare per rispecchiare il linguaggio del paziente sono
diversi; si va da semplici repliche inserite tra le frasi del paziente, alla formulazione di
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domande che ripropongono un suo termine o un suo modo di dire, alle risposte che riflettono in
maniera quasi identica le espressioni che ci hanno colpito. Un intervento molto efficace
consiste nella riformulazione, attraverso la quale lo psicologo ripete ciò che ha detto il paziente
utilizzando le sue parole, ma aggiungendo qualcosa: in questo caso si dà al paziente
l’impressione di comprendere cosa egli stia provando, di accettare la sua concezione del
mondo, ma allo stesso tempo gli vengono offerti degli elementi che fanno sì che egli possa
vedere le cose in maniera leggermente diversa. Un altro intervento importante è la
restituzione, che generalmente viene collocata alla fine del colloquio o di una serie di colloqui.
L’utilizzo delle parole, dello stile, delle metafore del paziente non deve essere considerato
come una strategia la cui applicazione garantisce lo sviluppo di un rapporto di fiducia. Bisogna
infatti possedere la capacità di stare con l’altro e di formare un’alleanza basata sulla
sensazione reciproca di essere con una persona affidabile. Se ci si identifica con il paziente, si
tende naturalmente a prendere qualcosa di lui, le sue smorfie, le sue parole, e così via.
Per il clinico non è importante solo “saper parlare”, ma anche saper tacere. Il silenzio è una
condizione essenziale nella relazione, e in alcune circostanze è l’unico modo per comunicare al
paziente il proprio rispetto. Tacere significa accogliere l’altro, ascoltarlo, dargli uno spazio in
cui possa esprimersi o un momento in cui si possa soffrire insieme. Se il clinico è ansioso di
riempire il tempo con delle parole, in quanto percepisce un vuoto, un’assenza, allora
probabilmente ciò significa che non è riuscito a sintonizzarsi con lo stato d’animo del paziente.
Il silenzio è il linguaggio delle sensazioni, della vicinanza emotiva, della comunicazione
simbiotica.
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relazioni mature”, bisogna capire cosa per lui sia una relazione matura. Per capire il senso
peculiare che un determinato paziente dà alle sue parole è necessario assumere un
atteggiamento fenomenologico: ciò significa che il clinico deve liberare momentaneamente la
sua mente da tutti i preconcetti che conferirebbero un senso precostituito a ciò che sta dicendo
il paziente. Dunque bisogna conoscere la realtà dell’altro senza farsi influenzare da ciò che già
si sa o si immagina rispetto ad un determinato ambito dell’esperienza. Si parla a tal proposito
di epoché fenomenologica, che nella clinica si declina in una temporanea sospensione del
giudizio, che permette di mettere in evidenza i pregiudizi sulla base dei quali si filtrano le
parole altrui e di conseguenza fa sì che la conoscenza dell’altro sia condizionata in minor
misura dal proprio modo di vedere le cose. Fare epoché significa riflettere su delle questioni a
cui normalmente non si presta attenzione perché rientrano nella sfera delle conoscenze che
diamo per scontate. Si tratta di un atteggiamento deliberatamente assunto in alcuni momenti
del lavoro clinico, in particolare quando si intende conoscere a fondo l’esperienza soggettiva
dell’altro. A tal fine è necessario ricorrere ad uno strumento molto importante nella pratica
clinica: le domande. Le domande vanno formulate accuratamente in quanto il modo in cui esse
vengono elaborate definisce il campo delle possibili risposte; ciò significa che ogni domanda
contiene in sé un insieme di possibili risposte tra cui il paziente deve scegliere. Il rischio è
quello di suggerire implicitamente una risposta che, anziché svelare chi abbiamo di fronte,
rivela la nostra incapacità di dare spazio al punto di vista dell’altro. Per questo motivo è meglio
iniziare con domande molto aperte, facendo attenzione a indicare il meno possibile la via da
percorrere e a non suggerire idee preconcette che influenzino il discorso del paziente. In
alcune occasioni, però, sarà necessario essere più direttivi, porre domande che delimitano i
contenuti da indagare. Attraverso un uso accorto dell’epoché fenomenologica e delle domande
si può dare all’altro la possibilità di parlare con il suo linguaggio, e allo stesso tempo si diviene
consapevoli dei pregiudizi che si hanno sull’argomento trattato.
Forma. Assume particolare importanza il modo in cui il linguaggio del paziente si organizza o
disorganizza; la struttura del discorso rispecchia sia l’identità del parlante che le aree
conflittuali della sua esistenza. Attraverso il tipo di linguaggio utilizzato, l’altro ci comunica
molto più di quanto pensa, soprattutto nei momenti in cui il discorso si destruttura: in queste
circostanze l’individuo rivela i suoi conflitti, le emozioni intense fanno venir meno le regole
della linguistica dando vita ad un linguaggio in cui gli errori parlano per il paziente. Anche i più
piccoli errori quotidiani sono di estremo valore per la conoscenza delle dinamiche inconsce; i
lapsus e tutte le altre formazioni di compromesso sono la testimonianza dell’esistenza di forze
inconsce che usano il linguaggio allo scopo di far emergere pensieri o emozioni che sono poco
tollerati dal soggetto (o, meglio, dal suo Io). È possibile ricavare utili informazioni sul paziente
a partire da due componenti formali del discorso: (a) I sintomi del discorso: si tratta di parole,
frasi, periodi che in qualche modo risultano deformati, disorganizzati o che non si addicono
all’abituale modo di usare le parole da parte del soggetto. Attraverso i sintomi del discorso si
possono formulare ipotesi sui possibili elementi inconsci che hanno destrutturato il linguaggio
del paziente; in tal caso entrano in gioco i conflitti, le problematiche più o meno circoscritte
attivate da ciò che si stava dicendo. (b) Lo stile comunicativo: si tratta del tipico modo che il
paziente utilizza per comunicare; attraverso lo stile comunicativo del soggetto viene fuori la
sua personalità, il suo modo di essere, di costruire la realtà in cui vive, la sua organizzazione
psichica. Il modo abituale di parlare del paziente ci permette anche di ricavare delle
informazioni riguardo al suo stile difensivo o sui disturbi che presenta. Alcuni esempi: il
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• Il linguaggio perturbante
Nonostante le differenze, ogni rapporto terapeutico è caratterizzato dallo sviluppo di una
relazione che provoca qualche tipo di cambiamento, soprattutto attraverso il dialogo tra i due
membri della coppia. Come già detto, parlare equivale ad agire e ogni atto linguistico è in
grado di influenzare lo stato d’animo, le opinioni, i comportamenti e le decisioni altrui. Alcune
parole, pronunciate in determinati momenti, riescono più di altre a destabilizzare
l’organizzazione psichica di chi le ascolta, procurando dei micro-cambiamenti che inducono,
giorno dopo giorno, a cercare un senso diverso alla propria vita. Si tratta di parole-chiave che
mettono in moto un processo che permette al paziente di sperimentare nuovi modi di
concepire la realtà.
Solitamente i pazienti sono restii ad ascoltare chi vuole farli cambiare; innalzano delle barriere
per “difendersi” da ciò che il clinico potrebbe dir loro. Essi sono terrorizzati dalla possibilità di
cambiare, sperano di essere curati senza essere coinvolti nel processo terapeutico, come se lo
psicologo potesse risolvere i loro problemi magicamente. Tuttavia nessun professionista della
salute mentale ha simili poteri e quindi non si può iniziare una psicoterapia se il paziente non
ha la minima intenzione di mettersi in discussione.
Il clinico deve poi cercare di capire di quali strumenti linguistici dispone per stimolare il
cambiamento. Attraverso la perturbazione si intende far sorgere dei dubbi, stimolare la
riflessione, offrire spiegazioni diverse, suscitare la curiosità, facilitare la riformulazione di un
problema, incoraggiare a guardare le cose da altri punti di vista, e così via. Si cerca, attraverso
dei micro-interventi distribuiti nel corso del colloquio, di attivare quella parte del paziente che
ha voglia di cambiare, sostenendone lo sviluppo, senza aver fretta di risolvere la questione in
poche sedute. Micro-interventi compiuti già in fase di assessment o dalle prime sedute di
psicoterapia possono essere considerati perturbanti.
Nel corso di una psicoterapia, quando si è raggiunta una più approfondita conoscenza del
paziente, è possibile compiere dei macro-interventi, cioè indurre delle perturbazioni che
riguardano diversi aspetti della vita del paziente o che prendono in considerazione le ragioni
“profonde” del suo modo di essere. Perturbazioni di questo tipo risentono molto della variabile
tempo: bisogna scegliere il momento giusto per attuare l’intervento. Tutto dipende dal tipo di
rapporto che si è riusciti ad instaurare, dalla disponibilità della persona a mettersi in
discussione, dalla rigidità del suo assetto di personalità, dalla sua capacità di tollerare gli
interventi del clinico, e così via. Il problema relativo ai tempi giusti è stato parecchio discusso
in psicoanalisi per quanto riguarda l’interpretazione, un processo graduale e complesso
attraverso cui si cerca di mettere in evidenza il senso latente di alcuni fenomeni; questo
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proprio questo il limite della conoscenza in terza persona: essa è essenzialmente una
conoscenza delle cause.
Scegliere tra conoscenza in prima o in terza persona equivale, rispettivamente, ad assumere
un atteggiamento soggettivista o oggettivista. Tuttavia allo psicologo clinico risulta evidente
che oggettivismo e soggettivismo non considerano il modo in cui comprendiamo il mondo, in
quanto entrambi gli approcci sono interessati a definire il vero e il falso; lo psicologo clinico,
invece, vuole definire il modo in cui uno specifico paziente concepisce qualcosa come vero.
Comprendere un’altra persona nel contesto di un colloquio significa capire cosa ha reso
possibile ciò che la persona ha detto, in altre parole la “condizione di possibilità”
dell’esperienza del nostro interlocutore. Tale condizione di possibilità riflette il suo mondo, la
sua cultura, la sua tradizione di riferimento, il suo rispetto per alcune autorità, il suo
linguaggio, e così via. Questa terza soluzione tra oggettivismo e soggettivismo che la
psicologia clinica fa propria non vuole rinunciare ai concetti di verità e falsità, né all’oggettività
della scienza: l’oggettività continuerà ad avere valore, ma soltanto nel contesto del sistema
concettuale di una cultura. Lo psicologo clinico non vuole imporre un senso a delle esperienze,
in quanto egli sa che il senso non può essere ricavato da una teoria; il senso delle esperienze
del paziente si trova invece nel lavoro di ricerca che si fa insieme. In questo consiste il lavoro
di interpretazione svolto dallo psicologo: una ricerca condivisa in cui gli orizzonti di due
persone si incontrano.
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può più limitarsi a spiegare, cioè non può più cercare di individuare un rapporto univoco tra
causa ed effetto.
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stabilito. L’idea che la comprensione possa migliorare se ci si libera dei pregiudizi è sbagliata e
deriva da un difetto della riflessione sul significato del comprendere. La nozione di circolo
ermeneutico, com’è stata descritta da Gadamer, si fonda proprio sul pre-giudizio e sulla sua
necessità: i pregiudizi sono assolutamente necessari e soltanto in virtù di essi il processo
interpretativo può avere inizio. Avvicinarsi ad una qualunque espressione umana significa
provare ad applicare, sulla base di un pregiudizio, un’idea sul significato di ciò che si vuole
interpretare, per poi verificare se ciò che si pensa (prima di conoscerlo) dell’oggetto da
interpretare può essere provato come giusto e quindi conservato. I pregiudizi quindi non sono
elementi negativi, ma necessità culturali e psicologiche, storicamente determinate. All’uomo
non è concessa una privilegiata posizione a-storica da cui guardare e comprendere
oggettivamente le cose; egli, al contrario, è sempre “situato”, cioè si trova in una certa
situazione storica e questa sostanza storica dell’uomo include il pregiudizio quale suo elemento
costitutivo, costruito dalla tradizione, dalla cultura, dalla famiglia, ecc.. L’essere dell’uomo ha
natura storica e sociale; dunque l’interpretazione sarà sempre pregiudicata, ma allo stesso
tempo è l’insieme dei pregiudizi formati dalle tradizioni e dalle autorità a rendere possibile la
relazione di interpretazione e la comprensione.
Soggetto che interpreta e oggetto da interpretare sono e possono essere in relazione reciproca
perché si iscrivono nello stesso orizzonte, un orizzonte storico. Dunque interprete e
interpretato sono familiari, nel senso che, pur essendo distanti, sono collegati dalla storia, dallo
sviluppo della cultura, dalle tradizioni, e così via. Questo legame è stato definito da Gadamer
“storia degli effetti” e indica l’insieme delle interpretazioni che si sono succedute nel tempo,
ognuna delle quali ha influenzato la successiva. Il soggetto che interpreta è consapevole di
essere influenzato dalle interpretazioni che lo hanno preceduto e dai paradigmi interpretativi
già costituiti. Lo psicologo deve essere cosciente del fatto che viene inevitabilmente investito
dagli effetti storici: il corretto esercizio dell’ermeneutica parte dall’accettazione della
determinazione storica, delle influenze, dei pregiudizi, degli effetti, e realizza la cosiddetta
“fusione di orizzonti”.
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L’esperienza estetica è un’esperienza di conoscenza che mantiene nel tempo la forma del
dialogo: dinanzi all’opera d’arte non possiamo cessare di porre domande e di mantenerci in
ascolto di ciò che l’opera vuole comunicare. La comprensione dell’esistenza umana è
paragonabile allo stare in presenza di un’opera d’arte, con tutta la sua “irragionevolezza”.
Lo psicologo clinico non può esimersi dal compiere su se stesso alcuni importanti
“esperimenti”, tra cui quello di riflettere criticamente su ciò che intende per verità, in quanto
un’elaborazione dei propri strumenti può avviare un cambiamento dell’atteggiamento possibile
nel colloquio con il paziente. Un possibile esperimento consiste nella valutazione critica del
concetto di domanda. Il tipo, la struttura, la forma delle domande rappresentano le condizioni
di possibilità delle risposte del paziente. All’interno del colloquio clinico la domanda acquista
pieno valore e acquisisce una sorta di primato rispetto alla risposta, tanto che si potrebbe
affermare che la forma logica del colloquio è la domanda. Durante un colloquio si cercano le
motivazioni implicite a quanto il paziente afferma, quei presupposti che non vengono enunciati
e che ci permettono di comprendere veramente ciò che il paziente ci dice di sé; dunque
bisogna cercare le domande rispetto alle quali le affermazioni del paziente sono risposte; ogni
affermazione, infatti, trova il suo principio in un problema ed è originata da domande che non
vengono esplicitate.
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7) Conflitto
• Introduzione
Il conflitto è un fenomeno universale nell’esistenza umana. Come fenomeno clinico, esso è
stato considerato dalla psicoanalisi come snodo patogenetico fondamentale nel percorso
psicopatologico. Il conflitto rappresenta la contrapposizione tra istanze o esigenze contrastanti;
per la clinica di matrice dinamica, è questa contrapposizione a dare origine ai sintomi. In
questo senso, dunque, il conflitto è il principio dinamico per eccellenza. Il principio dinamico si
declina in maniera duplice: (1) Esiste una dialettica tra istanze psichiche contrapposte la cui
indagine permette di comprendere l’origine e il senso dei sintomi psicopatologici in quanto
formazioni di compromesso; la patologia mentale è il risultato di un gioco di forze, della rottura
di un equilibrio, e rappresenta il tentativo di ristabilire una conciliazione tramite il
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compromesso rappresentato dal sintomo. Si parla a tal proposito di principio dinamico in senso
stretto. (2) In senso più ampio, la clinica si occupa di un altro tipo di dialettica, quella tra la
persona e i suoi conflitti, o, in una prospettiva più ampia, tra la persona e la sua vulnerabilità.
Ogni individuo, infatti, ha la possibilità di prendere posizione nei confronti dei propri conflitti. I
quadri morbosi, i percorsi psicopatologici e gli esiti della patologia dipendono dal rapporto
dialettico tra la persona e la sua vulnerabilità. Si parla a tal proposito di principio dinamico in
senso lato o principio dialettico. Secondo questo principio nessun malato è interamente tale,
bensì vi è sempre uno scarto tra il malato e la malattia, ed è proprio in questo scarto che la
persona può prendere posizione nei confronti della propria vulnerabilità.
Secondo il pensiero filosofico la condizione umana è intrinsecamente conflittuale. Viene
formulata una metafisica del conflitto, o un’ontologia della disunione, a partire dal
riconoscimento della doppia appartenenza dell’uomo, sospeso tra natura e cultura, tra pulsioni
vitali e civiltà, tra bisogno di socialità e di separatezza, tra aspirazione all’appartenenza e
all’individualità, tra rappresentazioni della propria identità diverse e contrastanti. L’esistenza
umana è però caratterizzata da un’ulteriore doppiezza, che consiste nella non-coincidenza
dell’uomo con se stesso. Questa non-coincidenza del Sé con se stesso, o “eccentricità”, è alla
base della capacità prettamente umana di auto-coscienza e di auto-riflessione, di essere
spettatore di se stesso, di potersi osservare dall’esterno. Si può parlare a tal proposito di
un’ontologia dell’eccentricità, che offre all’uomo la possibilità e il compito di prendere posizione
nei confronti di se stesso, di giudicarsi, valutarsi, e così via.
• L’eredità psicoanalitica
La nozione di conflitto psichico rappresenta un prezioso contributo della teoria psicoanalitica
per la comprensione della patologia nevrotica. La psicoanalisi considera il conflitto come
costitutivo dell’essere umano. Un polo del conflitto è rappresentato sempre dalle pulsioni
sessuali; l’altro polo, invece, cambia nel corso dell’opera freudiana. (1) In una prima fase, alla
sessualità Freud contrappone le aspirazioni dell’Io. Negli “Studi sull’isteria” egli affermava che,
man mano che ci si avvicina nel processo di cura a ricordi patogeni di natura sessuale, si
incontra una resistenza sempre maggiore; questa resistenza è l’espressione di una difesa che
l’Io oppone a ricordi inaccettabili, cioè contrari e incompatibili con le proprie aspirazioni etiche
ed estetiche. Ne “L’interpretazione dei sogni” Freud espone la cosiddetta “prima topica” o
“modello topografico”, cioè la suddivisione dell’apparato psichico in 3 sottosistemi: conscio,
pre-conscio, inconscio. Il conflitto tra le pulsioni sessuali inconsce e la coscienza rappresenta la
radice dei diversi quadri psicopatologici. (2) In una seconda fase, alle pulsioni sessuali si
contrappongono le cosiddette “pulsioni dell’Io” o “di autoconservazione”; esse sono le pulsioni
necessarie alla conservazione della vita dell’individuo, costituiscono i bisogni primari non
sessuali di un individuo. Le pulsioni di autoconservazione, a differenza di quelle sessuali,
possono essere soddisfatte soltanto da un oggetto reale; esse sono regolate dal “principio di
realtà”, mentre le pulsioni obbediscono al “principio di piacere”. (3) In una terza fase il conflitto
è tra pulsioni di vita e pulsioni di morte; le pulsioni di vita (eros) comprendono, oltre alle
pulsioni sessuali, anche le pulsioni di autoconservazione, il narcisismo, la socialità. La pulsione
di morte (thanatos) è la tendenza al ritorno alla pace dell’inorganico e si manifesta
nell’aggressività e nel sadismo. La pulsione di morte, oltre a costituire un polo del conflitto,
viene concettualizzata anche come la tendenza stessa al conflitto, come il principio della lotta e
della disunione; la pulsione di vita, invece, viene concepita come la tendenza ad unire.
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• Il conflitto e l’ansia
Secondo Freud, l’uomo è un essere costantemente in conflitto con se stesso, o meglio: egli
ospita delle istanze psichiche (pulsioni vs. difese, pulsioni in contrasto tra loro, tendenza ad
unire vs. a separare) che rappresentano delle linee di forza in perenne conflitto tra loro. Tale
conflitto genera ansia, un’emozione sgradevole che consiste in uno stato di tensione e di
allarme. L’ansia fa attivare dei meccanismi di difesa, la cui azione porta ad un compromesso
tra le parti in conflitto: queste formazioni di compromesso rappresentano in alcuni casi delle
soluzioni adattive, in altri casi sono costituite da sintomi e quadri psicopatologici.
Secondo la psicoanalisi, l’ansia ha la funzione di segnalare un pericolo proveniente
dall’inconscio. Nell’ottica psicodinamica l’ansia è la manifestazione sintomatica di un conflitto
dovuto all’incompatibilità tra un desiderio e un’ingiunzione morale, tra desiderio e realtà, tra
realtà interna e realtà esterna, e così via. (1) Freud aveva inizialmente concepito l’ansia come
un senso di inquietudine diffuso e indifferenziato che nasce da un desiderio rimosso, o come il
senso di tensione che deriva da un accumulo di pulsioni biologiche inibite (es.: nevrosi). (2)
Successivamente egli considerò l’ansia come il risultato delle minacce di punizione provenienti
dal Super-Io (es.: melancolia). (3) L’ansia è stata anche concettualizzata come un segnale
adattivo che mette in moto le difese dell’Io, il cui scopo è quello di allontanare dalla coscienza
pulsioni, sentimenti e pensieri inaccettabili. In quest’accezione l’ansia è sia al centro dello
sviluppo normale che delle deviazioni patologiche. (4) In un momento successivo l’ansia finisce
con l’indicare ogni emozione negativa: vengono così meno le differenze tra emozioni diverse
(rabbia, vergogna, ansia in senso stretto, ecc.) che scaturiscono dal conflitto. (5) Nella
letteratura psicoanalitica successiva all’opera di Anna Freud, l’accento si è spostato dal ruolo
patogeno del conflitto alla definizione delle nevrosi e dei disturbi di personalità in quanto
caratterizzati da particolari e specifici meccanismi di difesa. In quest’ottica i diversi quadri
psicopatologici possono essere differenziati sulla base dei meccanismi di difesa messi in moto
dall’ansia. Questo modo di considerare la clinica e la genesi dei quadri morbosi, in cui
assumono un ruolo prioritario i meccanismi di difesa mentre non viene data importanza alla
natura del conflitto e alle emozioni, va a scapito di una descrizione precisa di questi ultimi e
finisce con l’impoverire la caratterizzazione clinica, rendendo il percorso che conduce dal
conflitto al sintomo tendenzialmente de-soggettivizzato e impersonale. La tendenza a
caratterizzare i quadri morbosi sulla base dei meccanismi di difesa implicati va integrata quindi
con un’accurata analisi dei conflitti e delle emozioni in gioco. Un contributo in tal senso viene
fornito dalla Diagnosi Psicodinamica Operazionalizzata (OPD) che classifica, sulla base
dell’esperienza soggettiva delle interazioni conflittuali, sette tipi di conflitto persistenti nel
tempo, cioè le tensioni irrisolte che determinano il vissuto e il comportamento della persona
per lunghi periodi di tempo. I tipi di conflitto presi in considerazione sono 7: 1) Dipendenza vs.
autonomia: è il conflitto tra il bisogno dell’altro e il bisogno di essere indipendente, e
l’emozione connessa a tale conflitto è l’angoscia, dovuta all’avvicinamento o
all’allontanamento; 2) Sottomissione vs. controllo: le principali emozioni connesse a questo
conflitto sono irritazione, rabbia e paura in caso di conflitti interpersonali (sottomissione vs.
ribellione) e colpa e vergogna in caso di conflitti interni (spontaneità vs. adesione alle regole);
3) Accudimento vs. autarchia: è il conflitto tra l’utilizzare gli altri per ottenere qualcosa e
l’essere totalmente autosufficienti; le principali emozioni connesse a questo conflitto sono il
lutto prolungato e la depressione; 4) Valorizzazione del sé vs. valorizzazione dell’altro: si tratta
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dei conflitti narcisistici che ruotano attorno al tema dell’autostima; le emozioni connesse sono
la vergogna, indice della crisi dell’autostima, e la rabbia narcisistica; 5) Tendenze egoistiche
vs. tendenze pro-sociali: è il conflitto tra l’individuare la colpa in se stessi oppure negli altri; 6)
Conflitti edipico-sessuali, in cui i bisogni di natura sessuale si scontrano con istanze opposte di
diversa specie; 7) Conflitti relativi all’identità che derivano da rappresentazioni contraddittorie
del Sé: la persona assume ruoli sociali diversi e molteplici per superare l’insicurezza
fondamentale tipica di questo conflitto.
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inferiori. Tramite le proprie azioni, prendendo energia dalla sublimazione delle proprie pulsioni,
l’uomo può disciplinare se stesso.
Eccentricità e posizionalità. Disciplinare se stessi è una reale necessità dell’esistenza
umana. L’uomo ha come caratteristica peculiare l’essere eccentrico. Essere eccentrici significa
vivere costantemente ad una certa distanza da se stessi e dal proprio ambiente; ciò significa
che l’uomo può cogliere “da spettatore” sia la propria sfera interiore che quella esteriore, come
separate dalla propria coscienza. Ogni uomo non coincide con se stesso, e proprio in virtù dello
scarto presente tra sé e se stesso può stabilire un rapporto con se stesso. La non-coincidenza
con se stesso fa sì che l’uomo sia capace di riflessione; questa capacità riflessiva è la base
della possibilità di farsi un’idea di sé, di costruirsi una propria rappresentazione di se stesso, di
definire la propria posizione. L’uomo ha la necessità di condurre la propria vita, determinare la
propria posizione nel cosmo e nella rete delle relazioni sociali, creare una rappresentazione
della propria identità: questa è la legge dell’artificialità naturale. La necessità di costruire il
proprio mondo e la propria immagine è per l’uomo un bisogno imprescindibile.
• Il volontario e l’involontario
Nel saggio intitolato “Il volontario e l’involontario”, Ricoeur formula una teoria che dimostra
l’essenza conflittuale dell’esistenza umana. (a) Tale essenza risulta radicata nel principio del
disordine e della indeterminazione dell’esistenza corporea, nell’incoerenza dei valori sociali, e
nel contrasto tra queste due sfere dell’involontario. (b) In tale saggio si cerca inoltre di
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dimostrare il rapporto dialettico tra questi strati conflittuali primordiali dell’esistenza e la sfera
del volontario, un rapporto che non è di opposizione ma di interpenetrazione e di reciprocità.
(a) Nello strato più primordiale dell’esistenza umana, che Ricoeur definisce strato
dell’involontario corporeo, caratterizzato da valori “organici” o “vitali” (fame, sete, paura, ecc.),
si manifestano necessità eterogenee, frutto di valori contrastanti. Ciò che si manifesta è
l’ambiguità della vita organica, la complessità delle tendenze organiche. Il corpo è dunque la
fonte dell’indeterminazione dell’esistenza umana e l’esistenza corporea è definita da Ricoeur
“principio di disordine e indeterminazione”. I valori del livello organico, oltre ad essere in
conflitto tra loro, sono in conflitto con i valori sociali. Questi ultimi, a loro volta, non
rappresentano un insieme coerente, ma sono in opposizione tra loro. Tutti questi valori,
organici e sociali, non sono soltanto in conflitto tra loro, ma entrano in una relazione dialettica
con l’Io. Dunque la condizione umana è caratterizzata dalla necessità e dalla possibilità di
prendere una posizione di fronte alla sfera dei valori organici e sociali.
(b) Libet ha mostrato che c’è un volontario a livello dell’involontario. Tra l’involontario e la
volontà non c’è un rapporto antitetico, essi non appartengono a due sfere distinte che non
comunicano tra loro. Al contrario, il rapporto tra volontario e involontario è di tipo chiasmatico.
La sfera del volontario può recepire o meno i valori organici e sociali; questa recettività diventa
passività nella resa e nell’alienazione. Il rapporto tra l’involontario e la volontà è di reciprocità.
La relazione circolare tra motivazione e volontà è descritta da Ricoeur attraverso due frasi: il
mio corpo è corpo-per-la-mia-volontà, e la mia volontà è progetto basato-(in parte)-sul-mio-
corpo. Le motivazioni rendono la volontà reale, la volontà conferisce alle motivazioni
significato. La dialettica tra volontario e involontario può essere sintetizzata nella formula
secondo cui la libertà umana è motivata, incarnata e contingente.
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8) Trauma
• Introduzione
Il trauma svolge un ruolo determinante nell’origine e nello sviluppo dei fenomeni
psicopatologici; per questo, per comprendere tali fenomeni, è necessario ricostruire l’evento
traumatico. Mentre il dispositivo di vulnerabilità del conflitto risulta correlato alle patologie
nevrotiche, il trauma, sebbene sia nato come strumento concettuale per comprendere la
patologia isterica, ha esteso tali potenzialità fino al limite tra nevrosi e psicosi, e in particolare
nell’area del disturbo borderline di personalità e dei disturbi dissociativi.
Il concetto di trauma fu introdotto da Charcot nelle sue lezioni sull’isteria (1885). Egli aveva a
che fare con dei pazienti che avevano subito uno shock fisico (es.: infortunio sul lavoro,
incidente stradale, ecc.) e che presentavano dei sintomi neurologici (di solito una paralisi).
Attraverso degli accurati esami neurologici, Charcot mise in evidenza che il trauma fisico era
leggero o era stato assorbito, mentre i sintomi rimanevano. Inoltre i sintomi, la loro
localizzazione e la loro correlazione non potevano corrispondere ad una lesione organica del
sistema nervoso; la loro distribuzione era legata ad una sorta di “anatomia immaginaria”. A
partire da queste osservazioni Charcot elaborò la teoria secondo cui l’isteria è dovuta ad un
trauma psichico e i sintomi dell’isteria rappresentano una sindrome psicopatologica. Si passò
così da un determinismo esteriore ad un determinismo interiore. Per la sua centralità, sia
antropologica che psicopatologica, il concetto di trauma può assumere diversi significati.
• Trauma - effrazione
La parola trauma rimanda al campo della medicina, e in particolare alla chirurgia e
all’ortopedia; essa fa riferimento ad un urto esercitato su un organo o su un apparato
corporeo. In ambito psicologico questo termine è al centro di numerose metafore che fanno
pensare ad un’effrazione meccanica esercitata dall’esterno verso l’interno; la conseguenza di
questa effrazione, di quest’urto, è la penetrazione di un frammento del mondo esterno
all’interno dell’organismo urtato e il suo incistamento nell’intimo dell’organismo stesso. La
nozione psicologica di trauma, quindi, si focalizza sull’effetto che un attacco proveniente
dall’esterno ha sull’interno, e sul sequestro del “corpo estraneo” nel profondo del mondo
interno; questo corpo estraneo causa irritazione e inutili tentativi di assimilazione o espulsione.
Questa visione consta di due parti. (1) In primo luogo c’è l’idea che il trauma sia un attacco
che l’esterno compie ai danni dell’interno. Quest’idea si basa sulla teoria secondo la quale per
l’organismo tutto ciò che lo tocca dall’esterno sia un problema e, di conseguenza, un
organismo separato dall’esterno è in uno stato di perfetta stabilità e assoluta tranquillità; più
l’organismo psichico riesce a mantenersi autarchico e autosufficiente, meglio è. (2) In secondo
luogo, c’è l’idea che il trauma si incisti nell’organismo come un corpo estraneo, come una
scheggia. Effettivamente la parola “trauma” in greco significa “ferita”: l’idea originariamente
legata alla nozione di trauma psichico è che siamo portatori di una ferita risalente ad epoche
remote; questa ferita è profonda e non è visibile in quanto tale in quanto nascosta da una
cicatrice. Questa traccia inconscia costituisce un “luogo di minore resistenza” su cui andranno
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ad insistere le ferite successive. Il prototipo della ferita profonda legata al trauma è l’abuso
sessuale.
Questa accezione del trauma si basa sul principio che il frammento del mondo esterno che è
penetrato in profondità nel mondo interno condiziona il comportamento della persona. È
l’effetto permanente del trauma a dominare la condotta della persona, la quale è
inconsapevole di ciò che l’ha assoggettata.
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primo evento “traumatico” e il secondo “traumatogeno”, nel senso che il secondo genera il
senso traumatico del primo.
Quando un bambino subisce un abuso sessuale o assiste ad una scena che per un adulto ha
una precisa connotazione sessuale, ciò che rimane nella sua memoria somiglia ad un insieme
di esperienze corporee, un complesso di emozioni tra loro contrastanti (es.: attrazione e paura,
eccitazione e repulsione) prive di una connotazione semantica precisa, esperienze senza un
nome. Questo nome verrà loro attribuito soltanto successivamente, quando un secondo
evento, in sé anodino, riattualizza l’evento primario; dunque l’evento viene ridefinito
retrospettivamente in una chiave di senso traumatica. L'evoluzione della sessualità favorisce il
fenomeno dell’après-coup (dopo il fatto), avendo il soggetto accesso, dopo la pubertà, alla
capacità di cogliere la connotazione sessuale d’una esperienza vissuta, che fa risuonare après-
coup in lui il significato d’una scena vissuta in passato e che era rimasta per lui senza un
significato particolare. Del primo evento resta una traccia mnesica episodica, cioè a-semantica,
non narrativamente organizzata, non integrata in una storia coerente, finché il secondo evento
non lo rende presente. Il secondo evento non deve essere anch’esso traumatico, cioè doloroso
o violento, anzi, spesso esso ha anche dei connotati positivi; esso ha carattere traumatogeno
soltanto in quanto si situa su un terreno reso vulnerabile dal primo, e va a insistere su una
ferita pre-esistente.
• Trauma – ripetizione
Il trauma tende alla ripetitività, cioè ogni persona tende a riprodurre all’infinito il proprio
trauma. Dopo il primo trauma, la persona perpetra una risposta ripetitiva, e lo fa in modo
inconsapevole (cioè non essendo consapevole del nesso tra ciò che sta facendo e ciò che le è
accaduto in passato) e involontariamente. La ripetizione dell’evento traumatico è solo
apparentemente frutto dell’attività della persona, ma in realtà la persona ripete il trauma
perché non è capace di fare altrimenti, cioè non è in grado di mettere in scena gli stessi attori
ma cambiando il copione.
La ripetizione, piuttosto che favorire una trasformazione, si caratterizza come una coazione a
ripetere. La ripetizione non è “utile” in quanto si tratta di una riedizione che si attua senza il
ricordo del trauma originario, e soprattutto senza il ricordo del suo senso. È una ripetizione
senza reminiscenza, quindi automatica, meccanica. L’assenza di ricordo e di riesame critico
rende impossibile qualunque elaborazione del trauma e dunque il suo superamento.
Sono possibili due letture del trauma-ripetizione: (1) La prima chiama in causa il cosiddetto
“istinto di morte” o “di quiete”, cioè la tendenza a ridurre gli stimoli: secondo questa lettura, la
ripetizione può essere intesa come il tentativo di ridurre lo stimolo rappresentato dal trauma,
fino ad azzerarlo: l’essere nuovamente passati attraverso il trauma, e l’essere rimasti indenni,
rappresenterebbe per i pazienti la testimonianza della propria resilienza; (2) Una seconda
lettura fa riferimento al concetto di “modelli operativi interni”: un’esperienza traumatica può
formare un modello operativo interno “insicuro”, caratterizzato da aspettative di rifiuto o
trascuratezza; queste aspettative, come nel meccanismo delle profezie che si auto-avverano,
contribuiscono al realizzarsi di situazioni reali di rifiuto o trascuratezza, contribuendo alla
ripetizione di uno schema di relazione di natura traumatica.
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• Trauma – alterità
Generalmente una persona attribuisce un senso ad un evento, ad un oggetto, al
comportamento altrui sulla base delle proprie esperienze passate. I fatti della nostra vita
acquistano un significato sulla base di quanto ci è già accaduto, in quanto normalmente
riconosciamo in ogni nuovo evento una familiarità con qualcosa di già noto, ed è sulla base di
questa familiarità tra i due che lo comprendiamo. L’avvenimento traumatico non rispetta
questa regola del già noto, bensì, al contrario, ha il carattere della novità assoluta, della “prima
volta” (Strauss), della radicale alterità. Ciò che è nuovo nell’esperienza traumatica non è
l’evento stesso, ma il senso che l’esperienza assume. Il trauma costituisce l’incontro con
qualcosa di totalmente diverso rispetto a quanto si è già sperimentato e quindi rispetto a
quanto ci si aspetta; qualcosa che non è assimilabile a quanto già noto e per questo non è
integrabile nella propria soggettività.
Come dice Lacan nel “Seminario sull’etica”, il trauma è la “cosa” (Chose), cioè un oggetto
senza nome, un fatto non dicibile, che non può essere colto dalle nostre categorie linguistiche,
e che dunque non è classificabile nel registro delle cose che hanno senso. A tal proposito,
Lacan ha proposto il neologismo “ex-timità” (ex-timité) per indicare la caratteristica opposta
all’intimità (alla familiarità) che connota l’evento traumatico. Il trauma è ciò che non si può
integrare nella propria “storia di vita”, cioè ciò che non trova un posto nella propria identità
narrativa.
• Trauma – chiave/serratura
Assume notevole importanza il rapporto tra evento e vulnerabilità, cioè tra la struttura
psicologica della persona e la qualità dell’evento. Un evento, infatti, per essere traumatico,
deve colpire la persona nel suo punto debole. In questo caso non si parla più di eventi o
accadimenti esterni, bensì di esperienze personali. Con “esperienza” si intende il modo
personale di vivere un determinato evento. Un evento si trasforma in un’esperienza traumatica
in virtù della sua capacità di agire come una chiave nella sua serratura.
Parlando delle “reazioni patologiche”, Jaspers sottolinea l’importanza che determinati eventi
hanno per la persona, il loro valore in rapporto al perturbamento emotivo che provocano. Nelle
reazioni patologiche sussiste da un lato un legame tra l’esperienza vissuta e la personalità, e
dall’altro un legame ancora più stretto tra l’esperienza traumatica e i contenuti psicopatologici
(es.: emozioni, pensieri); questi legami rendono lo stato reattivo comprensibile.
Ernst Kretschmer ha messo in evidenza l’importanza di una certa struttura di personalità nello
scatenarsi di uno stato psicopatologico dinnanzi ad un certo tipo di evento che ha la
caratteristica di mettere in crisi in modo specifico quel tipo di personalità. Egli ha descritto le
persone “sensitive”: esse sono fragili, ma anche ambiziose e ostinate; sono ipersensibili e si
sottopongono continuamente al vaglio della propria coscienza. Ciò dà vita a dei sentimenti di
insufficienza. Questi soggetti soffrono di bassa autostima ma si sentono anche sottovalutati
dagli altri. Il trauma che agisce da evento-chiave è un’esperienza umiliante, soprattutto a
seguito di fallimenti morali o sessuali. La vita affettiva del sensitivo dopo il trauma appare
dominata da un senso di umiliante vergogna che conduce alla “proiezione affettiva”: il
sensitivo, il quale vede il mondo esterno soltanto attraverso il suo stato affettivo, riconduce a
se stesso tutto ciò che vede e sente, e finisce per convincersi che la sua vergogna è
pubblicamente nota.
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• Trauma – situazione
Nell’accezione “trauma – life event”, viene trascurato il ruolo attivo della persona nella co-
costituzione dell’evento stesso; questo aspetto si trova al centro della concezione “trauma –
situazione”. Ogni persona può incontrare in linea di principio ogni tipo di evento, ma
effettivamente va incontro soltanto alle situazioni che la caratterizzano. Il modo di essere di
una persona, la sua configurazione antropologica, il suo modo di intendere la vita e di
impostare le relazioni con gli altri, la gerarchia dei suoi valori la conducono a trovarsi
all’interno dei rapporti tipici per quella persona. La nozione di trauma – situazione, dunque,
problematizza il ruolo della persona nella costituzione dell’evento traumatico, un ruolo che è
attivo in quanto la persona concorre attivamente a creare la situazione, ma che è anche
passivo in quanto non c’è alcuna intenzione o volontà da parte dell’individuo di creare la
situazione stessa; si tratta, invece, di un non poter essere altrimenti, di un non poter fare in
altro modo.
La nozione di trauma – situazione mette in evidenza una nuova concettualizzazione di ciò che
nell’evento è traumatico: l’evento, che la persona stessa ha contribuito a creare, è traumatico
in quanto in esso e tramite esso la persona acquista consapevolezza e viene a contatto con la
propria incapacità ad essere e agire in modo diverso. Ciò che è traumatico è lo scoprire che
nelle diverse situazioni che caratterizzano la propria esistenza è inscritto un destino, lo scoprire
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che esse rispecchiano una sorta di “programma etico” che contribuisce al realizzarsi delle
situazioni patogene e che si attiva indipendentemente dalla propria volontà.
• Trauma – rivelazione
L’evento rappresenta dunque anche un momento di verità: il trauma è la rivelazione del
proprio sé oggettivato, reso visibile in una situazione esterna. Lo specchio della situazione
esterna rende visibile, consente di accedere ad un’esperienza di sé più autentica, allo
svelamento di aspetti di sé fin qui non accessibili alla coscienza. Il trauma – specchio
rappresenta la situazione limite in cui alla disperazione e al dolore dovuto allo scontro con la
propria labilità e debolezza si accompagna la serena rivelazione e la contemplazione della
propria condizione vulnerabile. La persona è posta di fronte alla propria vulnerabilità, in
condizione di riflettere su di essa.
Il trauma – rivelazione mostra un profilo apparentemente opposto, ma in realtà
complementare, rispetto a quello del trauma – alterità: mentre nel trauma – alterità l’evento è
caratterizzato dall’ex-timità, nel trauma – rivelazione esso è riconosciuto e accolto nel suo
carattere di carnale intimità.
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sincronia tra le esperienze passate, quelle presenti e le aspettative verso il futuro così come si
attualizzano nella relazione terapeutica.
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dubbio, grazie al prevalere di una specifica emozione si opta per un’azione piuttosto che per
un’altra. Il dispositivo della riflessione è quindi bilanciato dal dispositivo dell’agire sulla base di
cortocircuiti emotivi. Le emozioni svolgono un ruolo fondamentale nel trasformare l’ambiente,
da un luogo in cui ogni stimolo è recepito come equivalente, in un mondo, cioè in una
sequenza di situazioni in cui percepiamo alcuni dettagli come rilevanti per i nostri scopi, e in
quanto tali attraenti o repellenti, piacevoli o spiacevoli, buoni o cattivi, determinando di
conseguenza il nostro agire, cioè i nostri movimenti (avvicinamento vs. allontanamento, ecc.).
Solo se l’ambiente viene circoscritto dalle emozioni l’azione diviene possibile.
• Emozioni ed enactment
In assenza di emozioni, il mondo appare irreale e distante, privo di interesse e di senso. In una
condizione di apatia, le cose che mi circondano mi appaiono come una mera collezione di
oggetti inutilizzabili, privi di rapporto con la vita, privi di una funzione. Di questi oggetti, in
assenza di emozioni che mi legano ad essi, ho una pura conoscenza teorica, non una
conoscenza pragmatica (enacted, legata alle mie possibilità e necessità di azione) data dalla
necessità di utilizzarli ai fini pratici della soddisfazione di un bisogno della realizzazione di un
progetto. Il mio corpo, in assenza di emozione, non inerisce a questi oggetti, non struttura e
organizza le mie possibilità di usare questi oggetti.
Se un’emozione è la motivazione a compiere un certo movimento, e non ci sono emozioni, non
c’è alcuna motivazione al movimento, dunque all’azione. L’assenza di motivazione all’azione fa
sì che le cose si trasformino da utensili in meri oggetti (ob-jectum). Affinché una cosa sia per
me un utensile è necessario che io senta la pulsione a muovermi per utilizzarlo in vista di un
certo scopo, o ad allontanarmi da esso per la pericolosità: le emozioni selezionano alcune, e
non altre, possibilità di movimento; l’assenza di emozioni non ne seleziona alcuna, lasciandomi
in balia di un ambiente incomprensibile e di una conoscenza puramente teorica del mondo. In
presenza di emozioni l’ambiente si dispone attorno a me come un campo caratterizzato da
salienze: alcuni dettagli attirano la mia attenzione, altri passano inosservati. Dunque le
emozioni determinano la mia recettività, cioè la mia sensibilità a cogliere certi aspetti del
mondo in quanto più dotati di senso e altri come meno significativi. Essere recettivi significa
rispondere involontariamente a qualcosa che mi ha impressionato; dunque la recettività si
colloca a metà strada tra il volontario e l’involontario, tra percezione e movimento.
Alcuni autori ipotizzano che il significato che attribuiamo alle cose dipende dalle nostre
possibilità di movimento. Il rapporto di implicazione tra percezione e movimento è
bidirezionale: il senso percepito implica il movimento, ma, allo stesso tempo, la possibilità di
movimento implica il senso. In altre parole, noi percepiamo di una cosa ciò che essa ci
permette di fare in rapporto al nostro corpo.
Le emozioni ci situano nel mondo, lasciandoci aperte certe e non altre possibilità di azione.
Esse ostacolano la comprensione “oggettiva” e l’azione “razionale”, in quanto la prima è in
realtà una conoscenza puramente teorica e quindi non applicabile, e la seconda è in realtà una
non-azione, in quanto implica il rimanere nel dubbio, nell’irrisolutezza, nella riflessione.
Abbiamo detto che in assenza di emozioni si ha la perdita del contatto vitale con la realtà;
senza emozioni non riusciamo ad afferrare il senso delle cose, ad usarle per le nostre necessità
vitali. Questa perdita di contatto con il mondo caratterizza l’esistenza schizofrenica e
l’esistenza delle persone ossessive. In questi casi, la patologia delle emozioni è uno squilibrio
tra emozioni e riflessività, a svantaggio delle prime; prevale dunque la riflessione e una
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• Emozioni e attunement
Gli esseri umani devono essere in grado di ricavare informazioni rilevanti riguardo alla propria
collocazione nello spazio delle relazioni sociali, e le emozioni svolgono un ruolo molto
importante a tal proposito. Il fenomeno che rende possibile la socialità è definito affect
attunement (sintonizzazione affettiva). L’attunement è un ponte tacito, pre-verbale e pre-
riflessivo che lega la vita emotiva delle persone. La comprensione delle azioni altrui si basa
sulla riproduzione, involontaria e implicita, di ciò che l’altro prova nel compiere quella certa
azione.
Il prerequisito della comprensione delle azioni altrui sarebbe appunto la simulazione
dall’interno delle azioni stesse; questa simulazione è basata sull’intercorporeità, cioè sul
trasferimento immediato dello schema corporeo. L’intercorporeità rappresenta l’immediato
legame percettivo attraverso il quale noi riconosciamo gli altri esseri in quanto simili a noi. Alla
base di questo fenomeno c’è l’identificazione patica con il corpo dell’altro. Il vincolo percettivo
tra me e l’altro è basato sulla possibilità di identificarsi con il corpo altrui attraverso un legame
percettivo immediato. La base biologica di questi fenomeni va ricercata nell’azione di una
popolazione di neuroni, chiamati “neuroni specchio”, che si attivano sia quando viene attuata
una particolare azione, sia quando si osserva un altro individuo compierla.
I disturbi dell’attunement caratterizzano, ancora una volta, la condizione schizofrenica. I
disturbi nell’area dei rapporti tra emozioni e intersoggettività sono due: a) da un lato, le
persone schizofreniche denunciano il proprio sentirsi distaccati dagli altri e dal mondo esterno;
b) dall’altro lato, queste persone si sentono invase dagli altri, e ciò potrebbe essere dovuto ad
un eccesso di emozioni legato alla presenza delle altre persone. Riguardo la primo punto,
emerge il sentimento di estraneità di fronte al mondo sociale e la mancanza di una base
implicita e spontanea per i propri comportamenti sociali; così le persone schizofreniche tentano
di supplire a questa mancanza di base di sintonizzazione tramite la scoperta, o la costruzione,
di un algoritmo esplicito, elaborato a partire da osservazioni sul mondo, da applicare in via
riflessiva per condursi nelle interazioni sociali. Si assiste dunque ad un disperato tentativo di ri-
sintonizzazione con gli altri. Riguardo al secondo punto, la persona schizofrenica si sente
sommersa da un’alluvione di emozioni suscitate dalla presenza di altre persone. Gli altri sono
vissuti come opprimenti, asfissianti; nei casi più gravi, le persone schizofreniche si sentono
invase dagli altri, controllate. La presenza altrui provoca sensazioni di irrigidimento, di
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Per comprendere meglio questo aspetto, è necessario distinguere tra due livelli della coscienza
di sé: la coscienza di sé minima e la coscienza di sé narrativa.
Coscienza di sé minima (pre-riflessiva, ipseità). L’attributo “minima” si riferisce alla
priorità rispetto a qualsiasi altro livello di coscienza di sé. Si tratta di una coscienza di sé: a)
immediata, cioè non raggiunta per inferenza o a partire da criteri; b) non osservativa, in
quanto non ha origine da una percezione oggettivante di sé, cioè non è mediata da alcun atto
percettivo; c) pre-riflessiva, in quanto anteriore e indipendente da un qualsiasi atto di
coscienza riflessiva, cioè da una riflessione del sé su se stesso; d) non-concettuale e non-
linguistica, nel senso che non è una rappresentazione di sé mediata linguisticamente né
narrativamente; e) non-tematizzata, cioè implicita e silente. La coscienza di sé minima è
all’origine del modo di darsi delle esperienze e azioni come esperienze e azioni “in prima
persona”, cioè vissute come proprie.
Secondo lo psicologo dello sviluppo Rochat, i neonati, anche prima di sviluppare un’immagine o
un concetto di sé, sentono di essere il punto di origine delle proprie percezioni, azioni, pensieri,
sentimenti, ecc. Stern, a partire dalle sue ricerche sulla coscienza di sé del neonato, ha
descritto tre esperienze fondamentali proprie del neonato alla base del suo senso di essere un
sé: a) self-agency, cioè il senso di essere l’origine delle proprie azioni e non di quelle altrui; b)
self-coherence, cioè il senso di essere un’unità fisica non frammentata, con confini precisi; c)
self-history, cioè il senso di continuità della propria esistenza.
Le caratteristiche fondamentali della coscienza di sé minima sono il sentimento di meità
(ownership) e di attività (agency): il sentimento di meità è il senso implicito di essere il titolare
di quell’esperienza o azione, cioè il senso che quell’esperienza o azione è mia, mentre il
sentimento di attività è il senso implicito di essere l’iniziatore di quella data azione o atto
psichico.
Coscienza di sé narrativa. La coscienza di sé riflessiva, che si manifesta nella coscienza di
sé narrativa, presuppone un tipo di autocoscienza pre-riflessiva come sua condizione di
possibilità. L’autocoscienza riflessiva è esplicita, relazionale, mediata, concettuale e
oggettualizzante. A differenza della coscienza di sé pre-riflessiva, è un modo di comprendere
se stessi mediato dalla riflessione. Essa si configura quindi come una conoscenza di sé, in
quanto si tratta di un modo di raccontare (a se stessi) la propria storia, di strutturare
narrativamente la propria esistenza.
• Coscienza e inconscio
Alcuni fenomeni su cui poggia la struttura della coscienza sono impliciti o inconsci. Il confine
tra inconscio e coscienza e le definizioni stesse del concetto di coscienza e inconscio hanno
subito in questi anni un’ampia revisione ad opera della filosofia della mente, della
fenomenologia, delle neuroscienze e della psicoanalisi.
Secondo il modello topografico elaborato da Freud, l’inconscio è costituito dall’insieme dei
contenuti psichici rimossi. Questi contenuti rimangono attivi ed emergono attraverso i sintomi,
nei sogni, nelle paraprassie, nelle libere associazioni, nei motti di spirito, e così via. Dopo
l’introduzione del modello strutturale, vengono collocati nell’inconscio anche i meccanismi di
difesa e il Super-Io, costituito dalla coscienza morale.
Recentemente lo psicoanalista e neurobiologo Mancia ha proposto la distinzione tra due tipi di
inconscio: (1) Il primo, detto inconscio dinamico, coincide con i contenuti inconsci prodotti
dalla rimozione. Tale ambito dell’inconscio sarebbe connesso alla memoria esplicita o
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