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 Klio 2018; 100(3): 825–876

Chantal Gabrielli*
Violenza e giustificazione del delitto politico
a partire dai Gracchi
https://doi.org/10.1515/klio-2018-0131

Riassunto: Il tragico epilogo delle vicende graccane non lasciò indifferente la


classe dirigente romana. La violenza e il ricorso legittimo ad essa furono oggetto
di un’articolata riflessione storiografica presso le élites. La violenza (vis nelle
fonti latine, bia nelle fonti greche) diventò parametro interpretativo della storia
politica dell’ultimo secolo della res publica. La rilevanza del problema influenzò
profondamente la successiva riflessione storiografica, suscitando interesse anche
nella storiografia moderna.

Summary: The murders of the Gracchi did not leave the Roman ruling class indif-
ferent. Violence (vis in Latin sources, bia in Greek sources) became the subject
of an important historiographical reflection and was used as an interpretative
parameter of political history of the last century BC. The relevance of the problem
deeply influenced the following historiographical reflection and rose much inter-
est in modern historiography.

Keywords: Violenza, Lessico politico, Tirannicidio, Gracchi, Cesare

Quid fuit in Graccho, quem tu, Catule, melius meministi …


„Quo me miser conferam?
quo vertam?
In Capitoliumne?
at fratris sanguine redundat.
An domum?
matremne ut miseram lamentantemque videam et abiectam?“
Cicerone, de oratore, 3.214

*Kontakt: Chantal Gabrielli, Florenz, E-Mail: chantal.gabrielli@unifi.it

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Con la presente indagine viene analizzato sul piano storiografico il fenomeno


della violenza politica dai Gracchi a Cesare escludendo il periodo tra Mario e
Silla.1 Il tragico epilogo della attività tribunizia di Tiberio e Gaio Gracco costituì
indubbiamente un evento traumatico della storia politica della tarda repubblica,
che non lasciò indifferente la classe dirigente romana. Varie ragioni spinsero gli
antichi a percepire le vicende graccane come un momento di rottura: era la prima
volta che si ricorreva all’impiego delle armi nell’agone politico per eliminare
dei magistrati e, aspetto non secondario, l’uso della violenza si era manifestato
all’interno dell’aristocrazia senatoria. Dopo i Gracchi seguì un periodo di aspri
conflitti e la coesione della nobilitas venne profondamente incrinata. La violenza
e il ricorso legittimo ad essa divennero oggetto di un’articolata riflessione storio-
grafica presso le élites che a sua volta si tradusse in una periodizzazione della
storia repubblicana e in una definizione delle posizioni interne a quelle stesse
élites,2 ma anche di un affinamento degli strumenti giuridici, sia di diritto pub-
blico che privato.3 Con la misura ‚eccezionale‘ del senatus consultum ultimum
venne sancito per la prima volta nel 121 a. C. l’intervento armato dei consoli contro
cittadini dichiarati hostes publici4 e questo inedito strumento venne utilizzato più
volte nel corso del I secolo a. C. La regolamentazione dell’impiego della violenza
avverrà con le leges de vi e probabilmente, già a partire dall’epoca sillana,5 la vio-

1 Non è stato preso in considerazione il periodo tra Mario e Silla, quando la violenza in politica
degenera in guerra civile e nel fenomeno delle proscrizioni, aspetti entrambi che richiedono una
trattazione che esula dall’ambito prettamente storiografico di questa ricerca. Sulle atrocità delle
proscrizioni rimando comunque ai lavori di Hinard 1984, 295–311 e Jal 1961, 475–501; in generale
Lintott 1992, 9–27.
2 A titolo esemplificativo: Cic. Catil. I.4; Phil. 8.4.14; Sall. Iug. 16.2; App. civ. I.113–120; Plut. C.
Gracchus, 35–38 (14–17).
3 Cic. Caecin. 2.5: vis ea quae iuri maxime est adversaria; cfr. Cic. Caecin. 11.33: nec iuri quicquam
tam inimicum quam vis; Cic. leg. 3.18.42: nihil tam contrarium iuri et legibus, nihil minus civile et
humanum, quam, composita et costituta re publica, quidquam agi per vim; Cic. Sest. 42.91: Vim
volumus exstingui, ius valeat necesse est, id est iudicia, quibus omne ius continetur; iudicia displi-
cent aut nulla sunt, vis dominetur necesse est. Sul tema vd. Labruna 1992, 268ss.; Pugliese 1963,
563–581.
4 Dell’ampia bibliografia sul SCU mi limito a segnalare: Barbagallo 1900; Rödl 1969; von
Ungern-Sternberg 1970 e la recensione al testo di Crifò 1970, 420–434; Guarino 1970, 281–294;
Duplà Ansuategui 1990; Duplà Ansuategui 1990a, 75–80; Allély 2012.
5 L’emanazione di una lex Cornelia de vi nell’81 a. C. in realtà è molto dubbia sebbene, intorno
agli anni 80’, iniziassero ad essere promulgate varie leggi per regolamentare singoli atti di vio-
lenza politica. Le prime leges de vi (Lutatia e Plautia) definirono la violenza contro lo stato (vis
contra rem publicam) un crimen: nella fattispecie tutti quegli atti che sembravano incrinare
le basi istituzionali della res publica, minare la sicurezza pubblica, ed avere natura sediziosa.
Infine seguì una legislazione, di datazione incerta anche se l’ipotesi più plausibile sembra pro-

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lenza venne definita un crimen.6 Attraverso una specifica legislazione, di effica-


cia controversa,7 vennero, comunque, imposti dei limiti al ricorso indiscriminato
della violenza e alla presenza di armi in luoghi pubblici8.
Tralasciando in questo contesto l’incidenza del fenomeno sul piano norma-
tivo, l’indagine si focalizza primariamente sulla definizione di vis, a partire dai
Gracchi, come parametro interpretativo della storia politica dell’ultimo secolo
della res publica. Maggiore attenzione verrà poi rivolta alla teorizzazione, sul
piano concettuale e storiografico, della giustificazione della violenza armata e
alla legittimazione del delitto politico; la riflessione sulla liceità di alcuni com-
portamenti violenti raggiungerà il suo culmine ideologico con l’assassinio di
Cesare.

Storicizzare la violenza
Nel ripensamento di natura etico-politica che seguì gli eventi graccani, gli antichi
posero per la prima volta la violenza come criterio distintivo dell’interpreta-
zione del passato, la collocarono nella propria storia, definendola un elemento
di cesura. La rilevanza del problema, come vedremo, influenzò profondamente
la successiva riflessione storiografica di epoca imperiale, suscitando interesse
anche nella storiografia moderna. Si deve a Lintott9 la prima indagine sistema-
tica sulle origini della violenza nel mondo romano. Lo studioso inglese, ripren-
dendo un tema caro al suo maestro Sherwin-White,10 dimostrò come la tradizione
romana avesse tollerato, se non incoraggiato, la violenza nelle dispute tanto poli-
tiche quanto private (vim vi repellere licet) e come la legge riconoscesse legittimo
l’uso della forza da parte di privati (purchè boni viri), quali garanti della libertas,

pendere per l’epoca cesariana piuttosto che augustea, contro la violenza armata in ambito pub-
blico e privato (lex Iulia de vi publica et privata). Per fonti e letteratura vd. Balzarini 1993, 836ss.
6 Sul problema della repressione della vis nel diritto penale romano vd. Pugliese 1939; Vitzthum
1966; Longo 1967; Ebert 1968; Cossa 2008. Sulla tutela dei cittadini e la lotta contro l’esercizio
della violenza tra privati vd. Brélaz 2007.
7 Per un’analisi sui processi de vi e il loro esito giudiziario vd. Alexander 1990, 111–115, 119–120,
128, 130, 132, 134, 151–155, 159–160, 162–163, 165, 167–168, 179; cfr. anche in generale Gruen 1968.
8 Gravava, in sostanza, sulle manifestazioni di violenza in luoghi pubblici e affollati anche il
rischio dell’incolumità dei cittadini, che invece andava tutelato, in mancanza ancora a Roma di
un apparato addetto alla sicurezza e al mantenimento dell’ordine pubblico: Nippel 1984, 25–27;
Nippel 1995, 60ss.; Nippel 2002.
9 Lintott 1999.
10 Sherwin-White 1956.

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qualora la res publica si dimostrasse inadeguata a garantirla. Il fenomeno della


violenza viene descritto analiticamente attraverso una corposa documentazione
(terminologia politica, concetti giuridici, fatti istituzionali, vicende politiche)
sia in rapporto alla giustizia popolare ed al diritto sia alle forme che la violenza
assunse come strumento politico nonchè alle modalità di repressione che generò.
Un limite di questo lavoro consiste però nell’aver trascurato la riflessione sto-
riografica antica e le cause dell’ingresso della vis nella lotta politica della tarda
repubblica. In questo ambito pare, infatti, riduttiva l’insistenza dell’autore uni-
camente sulla sostanziale incapacità („moral failure“) della classe dirigente
repubblicana a mantenere quella costruzione politica che le aveva garantito fino
a quel momento onori e vantaggi, incapacità che si misurava nell’aver scelto di
impiegare la violenza come mezzo politico e nel non averne saputo controllare la
diffusa e irresponsabile applicazione.11 Seguì poi il saggio di Schuller sul ruolo
della violenza nella prassi politica della tarda repubblica con particolare atten-
zione al SCU e alla legislazione de vi;12 ma sono stati soprattutto alcuni studi sulla
storiografia antica e in particolare sulle interpretazioni che gli antichi hanno dato
del loro passato in relazione alla decadenza del sistema repubblicano a rivolgere
nuovamente attenzione alla questione dell’esercizio della violenza armata in
politica.13
Su origine e cause del declino del sistema politico repubblicano vennero date
spiegazioni distinte e varie soluzioni dal punto di vista cronologico.14 La tradi-
zione antica aveva elaborato una periodizzazione incentrata su due elementi
considerati essenziali: la trasformazione della società romana dovuta al suo
rapido arricchimento nel corso del II secolo a.  C. (e conseguente rilassamento
dei costumi) e la rottura della coesione della classe dirigente con l’approfondirsi
delle distanze sociali per effetto della politica graccana.15 Un’interpretazione
storiografica faceva, dunque, combaciare l’inizio della decadenza con il venir
meno del metus hostilis, fatto che ovviamente si legava alla caduta di Cartagine.16
Una decadenza morale, originata sia da fattori economico-sociali che da cause
esterne (accresciuta ricchezza e potenza politica), aveva dunque portato ad uno
scatenarsi delle ambizioni personali e ad un radicalizzarsi della vita politica.
Nella documentazione antica si venne configurando una spiegazione etico-po-
litica della crisi della res publica destinata a divenire canonica: la vis diventò

11 Lintott 1999, 1–5, 204–208.


12 Schuller 1974/1975.
13 Da ultimo Wiseman 2009, 33–57, 90ss., 107–210.
14 Ferrary 1982.
15 Clemente 1990, spec. 235–240; Gabba 1990.
16 La Penna 1978, spec. 77ss.

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un concetto negativo nella interpretazione del passato, ad essa si attribuì l’ever-


sione del mos maiorum e si legò alla nozione di decadenza, affiancando (e quasi
sostituendo) i concetti di metus hostilis e luxuria. La violenza venne storicizzata
e le fonti antiche concordemente indicarono nelle Gracchanae seditiones l’inizio
della periodizzazione storiografica sulla violenza. Quest’ultima indicazione, su
cui ritorneremo, solleva varie questioni in merito sia alla natura delle fonti di
cui disponiamo (purtroppo frammentarie e per lo più antigraccane) sia all’indivi-
duazione e ricostruzione dei livelli interpretativi del concetto di violenza con una
serie di varianti di non facile determinazione.17
La costruzione della memoria del passato rappresentava un’operazione
tutt’altro che neutrale ma di grande rilevanza politica e ideologica, spesso sog-
getta a falsificazioni da parte delle élites protagoniste delle vicende politiche
che venivano narrate, la cui massima preoccupazione consisteva nella creazione
del consenso intorno al presente e nella diffusione all’interno della comunità
civica di una memoria collettiva fondata su valori condivisi e modelli di riferi-
mento, che l’aristocrazia senatoria doveva costantemente dimostrare di seguire
per garantirsi l’appoggio della volontà popolare.18 La capacità di governare
della classe dirigente veniva misurata non tanto dalla volontà di attuare un pro-
gramma politico determinato quanto dal sapere soddisfare un preciso modello
di virtù civica e contribuire a definire un codice comportamentale rispettoso
del mos (l’attacco ai Gracchi, come vedremo riflesso in parte della storiogra-
fia, era incentrato per lo più sulle modalità attuative della loro linea politica
contrarie al mos piuttosto che sul contenuto della stessa). Questo evoca impor-
tanti aspetti sui principali vettori della trasmissione del passato, sul problema
dell’omogeneità ideologica all’interno della classe dirigente nonché sui criteri di

17 Sull’uso del termine seditio con riferimento ai Gracchi vd. oltre. A titolo esemplificativo: Sall.
hist. I fr. 12; Cic. inv. I.91: quodsi non P. Scipio Corneliam filiam Ti. Graccho collocasset atque ex
ea duos Gracchos procreasset, tantae seditiones natae non essent. Aug. civ. 2.21 (= Sall. hist. I fr.
17): Eo quippe tempore disputatur, quo iam unus Gracchorum occisus fuit, a quo scribit seditiones
graves coepisse Sallustius; cfr. anche Aug. civ. 3.24.
18 È stata ribadita la natura essenzialmente oligarchica del sistema politico romano da
Hölkeskamp 2004, che ha riproposto su nuove basi argomentative la tesi centrale di Meier (Meier
1966). In esso viene radicalmente confutata l’ipotesi di Millar (Millar 1998; Millar 2002) che la
repubblica romana fosse connotata da tratti di democrazia, dato che il totale controllo della
scena politica era mantenuto da una élite, che manipolava per il raggiungimento di fini politici
personali la volontà popolare. Del vivo interesse suscitato dal volume ne è esempio la tavola
rotonda organizzata, nell’ottobre del 2005, presso l’Istituto Italiano per la Storia Antica e coor-
dinata dal Prof. A. Giardina, i cui interventi di J.-M. David, A. Yakobson, G. Zecchini e la replica
dello stesso K.-J. Hölkeskamp sono stati pubblicati in Ricostruzioni di una repubblica, Studi Sto-
rici 47.2, 2006, 317–404.

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selezione del materiale nella formazione delle stesse tradizioni familiari.19 Alla
luce di queste considerazioni la concettualizzazione di vis va interpretata come
una complessa stratificazione di filoni storiografici finemente connessi fra loro
e individuabili non solo nella annalistica, in quanto genere letterario privile-
giato per la trasmissione del passato, ma anche in altre tipologie di documenta-
zione, altrettanto importanti. La possibilità di riscontrare valutazioni e giudizi
sull’operato graccano in fonti diverse da quelle storiografiche testimonia pie-
namente il fatto che la riflessione sulla liceità o meno della violenza compiuta
sui tribuni fosse un tema non più confinabile all’ambito ristretto della contesa
politica ma fosse ormai diventato oggetto di interesse quotidiano e argomento
diffuso tanto da permeare altre forme di dibattito poi confluite nella documenta-
zione.20
Uno degli aspetti essenziali della riflessione storiografica sulla questione
graccana riguardava appunto la natura della violenza praticata e la possibilità, in
sostanza, di scegliere se avallare o condannare un nuovo modus che rompeva gli
schemi usuali della tradizionale prassi politica romana. Ovviamente il rapporto
fra questa elaborazione ideologica e l’azione politica dei gruppi dominanti diede
luogo a contraddizioni sempre più evidenti. All’esercizio della violenza armata,
senza esclusioni di colpi, ricorsero, infatti, sia ‚popolari‘ che ‚ottimati‘. La for-
mazione del concetto storiografico di violenza va, dunque, inserita all’interno di
un processo di ripensamento del passato capace di preservare da ogni critica il
modus della pars politica che si rappresentava, tenendo conto che la registra-
zione degli avvenimenti che costellarono l’ultimo secolo dell’epoca repubblicana
rifletteva la contrapposizione politica fra populares e optimates interna all’ari-
stocrazia senatoria. Questo ha portato ad una lettura dualistica degli episodi di
violenza politica degli anni graccani e postgraccani ed alla conseguente possi-
bilità di individuare due tendenze principali della storiografia antica, incentrate
soprattutto nella azione dei tribuni della plebe, senza che si debbano escludere
casi non riconducibili all’una o all’altra tendenza. Si correrebbe, altrimenti, il
rischio di appiattire la riflessione antica in un automatismo basato sulla contrap-
posizione tra chi prese le difese dell’operato graccano (orientamento ‚popolare‘)
e chi ne condannava i contenuti e le modalità di espressione (orientamento ‚otti-
mate‘). Oltre a tale constatazione va aggiunto che è la tradizione storiografica di
parte ottimate quella ad essere maggiormente attestata; in essa (e non solo, come
vedremo) l’esercizio della violenza veniva reputato una pratica tipica dei popo-

19 Sul tema della memoria e delle tradizioni familiari vd. Treggiari 2003; Baroin 2010.
20 Sulla retorica e la pratica degli esercizi oratori come occasione di confronto su situazioni
giudiziarie o politiche contemporanee rimando al mio recente lavoro Gabrielli 2015.

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lari.21 Era però difficile sostenere a oltranza tale peculiarità, dato che gli assas-
sinii politici di Tiberio e Gaio Gracco furono opera della vis ottimate; pertanto
troviamo registrata in una parte della storiografia antica (di stampo ottimate) una
elaborazione pubblicistica con la quale si condannavano i due tribuni e, di conse-
guenza, si rendeva la violenza di una nobilitas insorta a mano armata compatibile
con la legge e legittimata dal mos.22

L’emergere della violenza in epoca graccana e i


limiti della documentazione
La documentazione di cui disponiamo presenta purtroppo forti limiti, dato che
le fonti coeve al periodo graccano sono quasi del tutto perdute. Scarne sono le
testimonianze della storiografia romana fra II e I secolo a.  C.23. Gli Annales di
Gaio Fannio contenevano una oratio contra Ti. Gracchum pronunciata da Quinto
Cecilio Metello Macedonico nel 133 a. C.,24 mentre dell’opera storica di Celio Anti-
patro ci è giunto un frammento sui due tribuni.25 Le Historiae di Sallustio sono
frammentarie26 e di Livio possediamo solo le periochae su quegli anni. Anche
per quanto riguarda l’autobiografia non si sono conservate le memorie di Marco
Emilio Scauro, Publio Rutilio Rufo, Quinto Lutazio Catulo e dello stesso Lucio
Cornelio Silla27.
Lacunoso è pure lo stato dell’oratoria politica:28 sono note personalità coeve
che presero posizione di relativa vicinanza alla politica graccana (C.  Papirio
Carbone29) o in contrasto (oltre ai già menzionati C. Fannio e Q. Cecilio Metello

21 Duplà 1985.
22 Sulla trasmissione delle vicende dell’ultimo secolo della repubblica nella storiografia latina
vd. le annotazioni di metodo di De Vivo 1998, 9–62.
23 La consultazione dei frammenti è possibile in Peter 1906. Recentemente Cornell 2013.
24 Malcovati 1976, I, 107; Peter 1906, I, fr. 5, 140. Vd. Ferrary 1983.
25 Vd. Peter 1906, I, fr. 50, 174 (la collocazione del frammento rimane però incerta).
26 La Penna – Funari 2015.
27 Segnalo che una ricostruzione della autobiografia sillana in base alla testimonianza di Plu-
tarco è presente in Behr 1993.
28 I frammenti degli oratori di età graccana sono raccolti in Malcovati 1976, I.
29 A Papirio Carbone si poteva rinfacciare di aver difeso il collega L. Opimio (120 a. C.), per la
morte di Gaio Gracco, con tale motivazione: C. Carbo consul, nihil de C. Gracchi nece negabat, sed
id iure pro salute patriae factum esse dicebat (Malcovati 1976, I, 154); ma è pur vero che in più di
un’occasione sulla morte di Tiberio aveva espresso parole di profondo rammarico: quod Ti. Grac-
chi mortem saepe in contionibus deplorasti (Malcovati 1976, I, 241).

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Macedonico, Tito Annio Lusco, P.  Cornelio Scipione Emiliano Africano,


Q.  Pompeio, L.  Calpurnio Pisone Frugi, Q.  Elio Tuberone). Inoltre sappiamo
che non poche orazioni vennero pronunciate da chi, all’indomani della morte
dei tribuni, ne condannava o assolveva la fine del mandato (merita ricordare il
tribuno P. Decio, accusatore del console Opimio per la morte di Gaio Gracco), per
non parlare poi degli stretti collaboratori dei Gracchi (come M. Fulvio Flacco) e
degli altri populares.
L’utilizzo, per quanto possibile, di altre tipologie di testimonianze suppli-
sce in parte questa carenza documentaria. In primo luogo, il teatro rappresenta
un’importante fonte di informazione sulla società e sul clima politico contempo-
raneo. A buon diritto la Roma repubblicana (e imperiale) è definita una ‚cultura
dello spettacolo‘; ed è ben nota, nella storiografia moderna, l’„efficacia perfor-
mativa“ degli spettacoli teatrali, le cui rappresentazioni aumentarono conside-
revolmente proprio negli ultimi secoli della repubblica.30 Il teatro costituiva uno
dei tanti contesti culturali a disposizione della società romana, dove era possi-
bile creare e rinnovare di fronte alla comunità civica una „coscienza di unità,
di appartenenza e di specificità“, capace non solo di determinare „l’identità e la
coerenza di una società“ in quel momento, ma soprattutto di trasmettere questa
coscienza da una generazione all’altra,31 di riprodurre quella società e, aggiun-
gerei, di autolegittimare un sistema politico essenzialmente aristocratico. A tal
fine la produzione di Accio, coevo agli eventi Graccani, ci interessa in modo par-
ticolare. Nonostante la frammentarietà delle sue opere e l’oggettiva difficoltà
a tracciarne l’orientamento politico sulla base del tenore delle battute dei suoi
personaggi, molti sono gli aspetti, anche di natura biografica, che ci portano a
delineare per Accio un profilo antigraccano, sprezzante verso il vulgus e filoari-
stocratico.32 Mi limito solo a sottolineare che il tragediografo aveva composto la
praetexta Brutus in onore di Decio Giunio Bruto Calleco,33 politico che in più di
un’occasione aveva mostrato la sua avversione al programma graccano e nel 121
a. C. partecipò insieme al console Opimio alla repressione sull’Aventino. A Decio
il poeta era legato da forti legami clientelari, era il suo patrono a Roma, ed è pro-
babile che ne condividesse l’indirizzo politico. Nelle tragedie acciane troviamo
riflessi i toni della polemica antitirannica postgraccana.34 La rappresentazione di

30 Hölkeskamp 2006; cfr. Noè 1988, 65ss.; Dupont 1985, 17ss.; Flower 2004.
31 Tambiah 2002, 213.
32 Tema ampiamente trattato nell’articolo di Bilinski 1958, 28–46.
33 Malcovati 1976, I, 159.
34 Seguo, in questa sede, l’edizione critica dei frammenti di Accio di Dangel 1995, con utili
tavole delle concordanze fra le varie edizioni dei frammenti (401ss.). Da segnalare anche l’edi-
zione di D’Antò 1980; mentre per una traduzione (non sempre condivisibile!) delle opere acciane

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episodi del mito greco, incentrati prevalentemente intorno alle lotte condotte da
usurpatori e tiranni contro i re legittimi, fino all’instaurazione di governi tiran-
nici sanguinari e crudeli, permise ad Accio di creare un parallelismo con la realtà
contemporanea segnata da tumulti popolari e dissidi per la conquista del potere
(dapprima le violente lotte politico-sociali di epoca graccana e poi gli scontri
armati sotto Silla e Mario).35 Nei frammenti di alcune tragedie (Astyanax, Epigoni,
Tereus) il termine vis presenta l’accezione di ‚violenza politica‘ e appare una
caratteristica propria del vulgus.36 Nel Brutus con la celebrazione di Giunio Bruto
che aveva scacciato il re Tarquinio da Roma e instaurato la repubblica, il poeta
volle non solo glorificare il difensore della libertà, ma prendere le difese dell’ari-
stocrazia nella sua lotta contro i tribuni della plebe ed i capipopolo sospettati di
tendere al regnum. In un frammento dell’Eurisace,37 si parla dell’usurpatore che
turbat vulgum contro il regnante legittimo, e si dà una valutazione del popolo che
discidia amans scindere, indiscutibile riflesso del contemporaneo clima politico
a Roma. Il tragediografo ebbe così modo di mettere in scena le dure battaglie ide-
ologiche che si combattevano nei comizi e nel foro, di cogliere l’opportunità di
esprimere le proprie convinzioni politiche, usando il teatro come strumento di
propaganda ottimate, certo di avere un pubblico partecipe, attento e sensibile ai
suoi messaggi politici.38 Accio continuò ad essere un autore di riferimento per la
tradizione ottimate: è ben noto l’utilizzo strumentale del verso multae insidiae
sunt bonis nell’ambito dei contrasti fra optimates e populares descritti nella Pro
Sestio di Cicerone.39

vd. Resta Barrile 1969. Sulla figura del tiranno nelle tragedie acciane è fondamentale La Penna
1979; sulla posizione politica di Accio vd. La Penna 1979a, 118–119.
35 Sul ruolo del tragediografo nel dibattito politico postgraccano vd. il mio recente contributo
Gabrielli in stampa.
36 Vd. fr. I Dangel (Astyanax): qui nostra per vim patria populavit bona; fr. II Dangel (Epigoni): Et
nonne Argivos fremere bellum et velle vim vulgus vides; fr. V Dangel (Tereus): Video ego te, mulier,
more multarum utier / ut vim contendas tuam ad maiestatem viri. Per un commento sui frammenti
vd. Bilinski 1958, 30–31; su vis in Accio vd. anche De Rosalia 1982, s.  v. vis, 185.
37 Fr. XXVI Dangel.
38 Il pubblico romano intuiva le intenzioni dei poeti e reagiva vivacemente alle generalizzazioni
dei problemi politici che riguardavano le questioni romane di allora. Sono ben note le reazioni
del pubblico, specie nei confronti di singole scene e anche di singole battute, su cui vd. Abbott
1907.
39 Fr. VIII Dangel: vigilandum est semper multae insidiae sunt bonis. Cic. Sest. 48.102; vd. anche
Cic. Planc. 24.59; Sest. 44.96ss. Quale efficace sprone a tenere desta la coscienza politica propria
e delle generazioni più giovani (ut nos et nostros liberos ad laborem et laudem excitaret), il rie-
cheggiamento di quel monito risponde ad una specifica finalità: Cicerone utilizza il contenuto
ideologico del vocabolo bonus, per sviluppare meglio il concetto di optimas, attingendo ad una

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Un’altra fonte importante è Lucilio, che visse in pieno gli anni della crisi
graccana e ricordava nelle Saturae la difficoltà di vivere in un’epoca segnata
da continue lotte e dissidi politici: populusque patresque  … insidias facere, ut
si hostes sint omnibus omnes.40 L’opera luciliana avvertita, talvolta in maniera
troppo meccanica, quale espressione di un sentimento politico antigraccano,
proprio dell’entourage scipionico di cui il poeta faceva parte, in realtà per la sua
frammentarietà impone invece una certa cautela nel formulare una propensione
politica in tale direzione.41 Piuttosto la sensibilità critica luciliana investiva l’in-
tera realtà contemporanea. Egli sentiva come prioritaria l’esigenza di praticare la
vera virtus e ricercare l’equilibrio e la moderazione in politica, evitando gli eccessi
nelle passioni private (condanna della cupidigia e bramosia di ricchezze) come
nelle attività pubbliche.42 In Lucilio paiono non esserci differenze sostanziali fra
le strategie politiche di popolo e senato, la sua sembra piuttosto una posizione
mediana fra i due schieramenti opposti. Per il poeta popolo e senato mostravano
atteggiamenti simili e analoghi approcci alla politica. Entrambi simulavano di
essere composti da viri boni, documentavano subdolamente le proprie ragioni,
cercavano di superarsi a vicenda nell’adulazione e reciprocamente si tendevano
agguati. Nel frammento 1228–36 M ogni pars politica appariva essere nemica
all’altra, il foro risultava un luogo di inganni, ipocrisie e teatro di un’intollerabile
brutalità.
Ben altro tenore ha ovviamente la rielaborazione dei moti graccani e del
successivo sviluppo della storia repubblicana in testi di tendenza popolare. Il
Liber ad Pomponium di Gaio Gracco rappresenta uno dei (pochi) esempi di una
tradizione favorevole. Il libello trattava l’attività politica del fratello Tiberio,
ne valorizzava l’ispirazione romana e tradizionale delle riforme, ma è andato

tradizione ottimate autorevole a lui antecedente anche se maturata in ambienti più marginali
rispetto al gioco politico.
40 Lucil. 1229, 1234 M. Di recente su Lucilio come fonte per ricostruire il clima politico di quegli
anni vd. Mazzoli 2009. Per un’edizione critica dei frammenti di Lucilio Marx 1904–1905.
41 Rifiutando qualsiasi forma di impegno politico, Lucilio, ricco proprietario terriero di origine
italica, aveva preso le distanze dalle disposizioni del programma graccano che prevedevano un
maggiore coinvolgimento degli Italici nelle attività politiche e nelle opportunità di arricchimento
come gli appalti. Ben noto è il suo diniego dei publica: Lucil. 671–2 M: publicanus vero ut Asiae
fiam, ut scriptuarius, / pro Lucilio, id ego nolo, et uno hoc non muto omnia. Per un commento al
contesto politico (gli anni cruciali di Tiberio Gracco) in cui si inserisce questo frammento auto-
biografico e la necessità di mostrare maggiore cautela nel formulare con eccessiva categoricità
nei confronti di Lucilio una dipendenza politica da Scipione Emiliano vd. Clemente 1985, 48–49;
cfr. anche La Penna 1979a, 119.
42 Lucil. 1326–38 M: sulla centrale importanza di questo frammento per la ricostruzione dell’i-
deologia politica luciliana insiste nel suo saggio Zucchelli 1977, 126–128.

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Violenza e giustificazione del delitto politico a partire dai Gracchi   835

perduto quasi interamente. Il testo rappresentava una pubblica smentita dell’ac-


cusa, indubbiamente mossa dall’opposizione antigraccana e rivolta a Tiberio, di
essere stata influenzato nelle sue scelte dallo stoicismo.43 Dalle orazioni di Gaio
è, comunque, possibile ritrovare tracce evidenti di una ferma condanna della
barbara uccisione del fratello44 e di una strenua difesa del suo operato su piani
diversi (ne difese la validità del programma politico e ne sostenne la profonda
religiosità in contrapposizione all’accusa di empietà e di neglegentia auspicio-
rum).45 Parte degli argomenti su cui poggiava l’arringa di Gaio confluì poi nella
storiografia prograccana e venne usata dai successivi populares per rafforzare le
basi ideologiche della loro politica.46 In questa letteratura di stampo ‚popolare‘
è piuttosto la violenza della nobilitas ad essere denunciata. Si tratta comunque
di contesti frammentari, dove non sempre è facile individuare l’orientamento
politico di un autore; è ben noto il caso del poeta Porcio Licino, i cui frammenti,
secondo l’analisi di Gabba,47 potrebbero rivelare una tendenza popolare, di
chiara derivazione graccana.

43 Peter 1906, I, CLXXIX s., 119; Malcovati 1976, I, 174–198. Sull’attività oratoria di Tiberio Gracco:
Malcovati 1976, I, 145–152; Cic. Brut. 103, 125. Cfr. David 1983, 103–116.
44 C.  Sempronius Gracchus fr. 17 Malcovati = Charisius, Ars grammatica, 2.240 Keil (313
Barwick): pessimi Tiberium fratrem meum optimum interfecerunt.
45 Sulla irreligiosità di Tiberio nelle fonti letterarie vd. Sordi 1986, 130–132. A testimonianza
di quanto ampia fosse la polemica sul disprezzo degli auspicia e l’accusa di empietà rivolta
a Tiberio basti ricordare che fonti prograccane insistono sulla pietà religiosa di Tiberio e del
padre (Plut. Tib. Gracchus, 6.6; App. civ I.12.54; Rhet. Her. 4.68); mentre in Cicerone è raccolta
una tradizione ottimate che fa risalire addirittura a Tiberio Gracco padre l’accusa di neglegentia
auspiciorum (Cic. nat. deor. 2.4; div. I.17.33; 2.35.74, contra Plut. Tib. Gracchus, I.4–5). In Giulio
Ossequente è palese la connessione fra la neglegentia auspiciorum, di cui si è macchiato Tiberio il
giorno della sua morte, e l’accusa di empietà. Anche l’anonimo autore del de Viris illustribus (64)
si muove nella stessa direzione, lasciando intendere che la tragica uccisione del tribuno fosse
l’ovvia conseguenza di quegli adversa auspicia che Tiberio aveva trascurato.
46 Fra gli studi più significativi relativi alla complessa tradizione storiografica sui Gracchi si
segnalano quelli condotti da Sordi 1978, 299–330 (In Plutarco e Appiano, fonti principali sul tri-
bunato di Tiberio, viene combinata una tradizione favorevole, risalente forse al fratello Gaio, con
una o più versioni ostili, anch’esse vicine nel tempo ai fatti narrati, eco immediata della propa-
ganda e delle polemiche che seguirono l’azione del tribuno); Sordi 1981, 124–130 (Incentrata sul
discorso di Tiberio, pronunciato in difesa del proprio operato e riportato in Plut. Tib. Gracchus,
15, l’analisi mostra l’autenticità del discorso e dell’attribuzione a Tiberio dell’affermazione della
sovranità popolare in esso contenuta, e ne attribuisce la trasmissione ad una tradizione ostile al
tribuno); Sordi 1986, 125–136 (Considerando per lo più Plut. Tib. Gracchus, 8.4; 17.4; 15.20.3–4;
Val. Max. 4.7.1; Cic. Lael. 11.37, Sordi rileva una difficoltà nell’accertare la reale influenza dello
stoicismo su Tiberio).
47 Gabba 1953.

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836   Chantal Gabrielli

Particolare attenzione va rivolta alla Rhetorica ad Herennium, anonimo48


manuale scolastico scritto fra l’88/86 e l’82 a. C.49. Il testo, dedicato a un espo-
nente della famiglia plebea e filomariana degli Herennii (Gaio) e nato come replica
al divieto del 92 a. C. dei censori Lucio Licinio Crasso e Gneo Domizio Enobarbo50
di tenere scuola e quindi di trasmettere per via orale un sapere tecnico,51 riveste
un certo interesse, testimoniando posizioni fuori dai consueti canoni antigrac-
cani. La presenza di exempla della recente storia repubblicana (133–88 a. C.) in
chiave tendenzialmente popularis,52 come l’uccisione di Tiberio Gracco, rendono
questo trattato degno di nota; anche se dobbiamo presupporre che l’interpreta-
zione dei fatti ivi narrati sia ovviamente filtrata attraverso il linguaggio dell’ora-
toria e presenti il punto di vista del suo anonimo autore favorevole ai populares e

48 Per una edizione critica del testo in lingua italiana vd. Calboli 1969; si segnala dello stesso
autore anche una traduzione dal latino: Calboli 1969a. Sembrano ormai superate le ipotesi che
identificavano l’auctor o in Cicerone, il cui testo giovanile de inventione presenta una sostanziale
affinità di contenuto con la Rhetorica (si è pensato ad una fonte comune, forse un manuale di
retorica in latino improntato alla dottrina del retore greco Ermagora di Temno, attivo intorno
alla metà del II secolo a. C.), o in Cornificio, retore ed etimologo del I secolo a. C. (Quint. inst.
3.1.19–21). In merito all’attribuzione a Cicerone della Rhetorica vd. Alessio 2000). Per ulteriori
proposte di datazione e attribuzione dell’opera vd. Adamik 1998; Cancelli 1993. Sull’individua-
zione di Cornificio come autore del manuale vd. Calboli 1963–1964. Posizione critica nei con-
fronti dell’attribuzione a Cornificio, e certamente non sostenibile in toto per i quattro libri della
Rhetorica, mostra Pérez Castro 1999.
49 Diversamente Achard 1989, XIII, XXIIss., propone di datare il manuale, sulla base della rico-
struzione della vita del suo anonimo autore, agli anni immediatamente anteriori alla dittatura
sillana (tra l’84 e l’83 a. C.).
50 Valore fortemente ideologico è riconosciuto all’ordine di chiudere le scuole di retorica dove
rhetores Latini insegnavano l’eloquenza in latino (famosa era quella di orientamento popularis
di Plozio Gallo) in Gabba 1953, 262, 267–268; mentre Pernot 2006, 104–108, parla di una misura
repressiva per così dire paradossale, perché attuata da un grande oratore, L. Licinio Crasso, che
però non esita a farsi promotore di una iniziativa di reazione aristocratica contro uno strumento
politico popularis.
51 Insiste sulla percezione del manuale come una sorta di ideale modello di strategia retorica –
per esempio nell’uso mirato delle sententiae – per il civis Romanus che nutrisse aspirazioni poli-
tiche Sinclair 1993, 567.
52 Numerosi sono i riferimenti alle vicende graccane (4.2; 4.7; 4.22; 4.42; 4.38; 4.46; 4.67; 4.68–
69); talvolta con versioni diverse (e ‚filodemocratiche‘ per seguire Calboli 1969, 41 come nel caso
della ribellione da parte dei Fregellani, nel 125 a.  C., che nella Rhetorica (4.13) sembra sorta
spontaneamente, mentre altrove è attribuita a Gaio Gracco (cfr. Plut. C. Gracchus, 3 (24).1; Vir.
ill. 65.2). Inoltre in Rhet. Her. I.21 (e 2.17); I.24; I.25; 2.45, si allude a episodi cruenti (tumulti e
processi) o a interventi legislativi della storia repubblicana in relazione a Saturnino, Norbano
e Sulpicio Rufo, (quest’ultimo avrebbe lasciato lo schieramento ottimate per quello filomariano
vd. Calboli 1969, 41 nt. 71; Cancelli 1992, 380 nt. 92, 27–29).

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Violenza e giustificazione del delitto politico a partire dai Gracchi   837

ai mariani.53 La stessa descrizione degli ultimi attimi di vita del tribuno, peraltro
nel testo funzionale alla comprensione della figura retorica della demonstratio,54
è in linea con la vulgata,55 anche se, rispetto a versioni poco favorevoli ai Gracchi,
presenta alcune interessanti puntualizzazioni, come quella sulla religiosità del
tribuno che la storiografia ottimate, invece, negava. Tiberio, dopo aver incitato i
suoi sostenitori a spezzare gli sgabelli e a brandirli come armi, mentre invoca gli
dei, viene raggiunto da un assassino sprezzante della sua condizione di orante.56
Sull’impegno politico dei Gracchi l’autore del trattato esprime un giudizio di
merito del tutto positivo.57 È evocata la sollecitudine di Tiberio nel governo dello
stato (rem publicam administrantem), mentre Gaio Gracco è indicato come uomo
sommamente devoto alla res publica (virum rei publicae amantissimum). È altresì
vero che il testo riflette giudizi non sempre contrari alla politica ottimate.58 E
questo si spiega con la natura stessa del testo, che in quanto manuale di retorica
riprendeva voci, opinioni, punti di vista contrapposti già esistenti in seno alla
società e al dibattito politico. Specificatamente sui Gracchi e i graccani non si
nasconde talvolta un certo disappunto,59 mentre si ammette che la legge frumen-
taria del tribuno popularis Lucio Saturnino nel 100 a.  C. fosse contraria all’in-
teresse della res publica (adversus rem publicam).60 Fermo restando, dunque,
che la natura di questo manuale deve suggerire prudenza nella valutazione del
peso effettivo che aveva la diversità di giudizio in esso presente è indubbio che
offra un esempio, destinato peraltro a rimanere uno dei pochi, della polemica
storiografica postgraccana. Nel trattato troviamo una valutazione delle vicende

53 Che il testo rivelasse una tendenza democratica e popolare già Marx 1894 (che contiene ampi
Prolegomena, 1–180) 141–153, seguito poi da Calboli 1963–64, 57–102; Calboli 1969, 34–42. Com-
menta i passi che denotano una tendenza popularis von Ungern-Sternberg, 1973, 152ss.
54 Sull’importanza di evidenziare l’efficacia oratoria capace ‚di mettere davanti agli occhi‘ ciò
che descrive (Rhet. Her. 4.68: res ante oculos esse videatur) cfr. Rhet. Her. 4.62: ante oculos ponit;
e 4.69. Non è escluso che la descrizione dell’assassinio del tribuno rappresentasse in realtà l’u-
tilizzo di un esercizio declamatorio sull’argomento, vd. i contributi di Calboli Montefusco 2005,
spec. 44–45; Calboli 2005, spec. 64ss., e Martin 2005.
55 Plut. Tib. Gracchus, 17–19; App. civ. I.68–70; Val. Max. 3.2.17; Vell. 2.3; Oros. 5.9.1–3; Vir. ill.
65.67; Liv. per. 68.7.
56 Rhet. Her. 4.68: Cum Graccus deos inciperet precari.
57 Diversamente su altri populares; su Druso, per esempio, non esita a riportare una simili-
tudine svalutativa, definendolo: ut si quis Drusum Graccum Numitoremque obsoletum <dicat>
(Rhet. Her. 4.46).
58 Rhet. Her. 4.45; vd. 4.47 (i magistrati sono subordinati al senato).
59 Rhet. Her. 4.38.
60 Rhet. Her. I.21. Cancelli 1992, 270 nt. 34, nel suo commento dà una lettura tecnico-giuridica
del gesto del senato, giudicandolo una „condanna condizionale preventiva, come un ‚interdetto‘
ipotetico proibitorio“.

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graccane proiettata a soppesare non la portata eversiva dell’azione politica dei


due tribuni quanto la gravità della loro uccisione: è l’atrocità ottimate ad essere
denunciata, la barbarie di un gesto che non trova legittimità alcuna, neppure giu-
ridica. Per l’autore della Rhetorica agiva la radicata convinzione che non esisteva
alcun diritto (ius) cui far riferimento per giustificare il sangue sparso dei concit-
tadini,61 in chiara polemica con la formula dello iure caesus.62 Per suffragare la
convinzione dell’infondatezza di tale legittimazione il testo allineava una sorta di
tragico corteo di tribuni-martiri.63 Tiberio e Caio Gracco, Saturnino,64 Marco Livio
Druso e Sulpicio Rufo formano una lunga teoria di vittime,65 accomunati dal fatto
di essere stati tutti barbaramente uccisi.
Da tale eterogeneo quadro documentario è stato possibile individuare
alcune principali direttrici che il tema della vis ha assunto nel pensiero politico
romano e colmare, seppure parzialmente, la carenza documentaria della storio-
grafia post-graccana. Questa storiografia perduta è confluita almeno in parte
nella storiografia di età imperiale (Velleio Patercolo, Plutarco, Appiano, Lucio
Anneo Floro, Dione Cassio), la cui valutazione rappresenta tuttavia un problema
soprattutto per quanto attiene alla possibile reinterpretazione dei concetti legati
al fenomeno della vis. Per quanto riguarda il I secolo a. C. possediamo le opere
di Cicerone e Sallustio. La storiografia antica impone, dunque, un’analisi a più
livelli di particolare complessità. Cicerone e Sallustio sono contemporanei ad una
situazione nella quale la violenza è diventata una patologia del sistema politico,
che essi vivono in prima persona; entrambi, in modo caratteristico per l’intera
tradizione storiografica romana, proiettano nel passato le condizioni presenti,
elaborando una revisione della storia di Roma secondo l’ideologia e gli interessi
contemporanei. Attinsero a tradizioni e interpretazioni storiografiche precedenti
e proposero una riflessione sui mutamenti in corso dove il passato veniva allo

61 Rhet. Her. 4.22; cfr. 4.42; anche Plut. Tib. Gracchus, 20.1.
62 Rhet. Her. 4.22. Vd. Zecchini 1997, 46–47.
63 Rhet. Her. 4.31.
64 Sulle accuse di regnum rivolte a Saturnino vd. Flor. epit. 2.4.4 (3.16.4): regem ex satellibus suis
se appellatum laetus accepit; Oros. 5.17.6: contio domi suae […] ibique ab aliis rex, ab aliis impera-
tor est appellatus; sul ricorso del tribuno alla vis vd. Liv. per. 69: non minus violenter tribunatum
quam petierat gessit.
65 Rhet. Her. 4.31: Hic unum nomen in commutatione casuum volutatum est. Plura nomina casi-
bus conmutatis hoc modo facient adnominationem: „Tiberium Graccum rem publicam admini-
strantem prohibuit indigna nex diutius in eo commorari. Gaio Gracco similis occisio est oblata,
quae virum rei publicae amantissimum subito de sinu civitatis eripuit. Saturninum fide captum
malorum perfidia <per> scelus vita privavit. Tuus, o Druse, sanguis domesticos parietes et voltum
parentis aspersit. Sulpicio, qui paulo ante omnia concedebant, eum brevi spatio non modo vivere,
sed etiam sepelire prohibuerunt.

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Violenza e giustificazione del delitto politico a partire dai Gracchi   839

stesso tempo reinterpretato, idealizzato e attualizzato, e ogni elemento di rottura


o di discontinuità (come i Gracchi) era tendenzialmente negativo.
In Sallustio prevaleva un atteggiamento critico sulla storiografia romana in
generale, anche se, nella prefazione delle Historiae, lodava la veritas di G. Fannio,
nel quale forse vedeva un graccano moderato dopo il suo allontanamento da Gaio
Gracco nel 122 a. C. Mostrava, inoltre, riserve verso i filoni gentilizi dell’annali-
stica e, non meno importanti, riserve verso l’annalistica legata alle fazioni, un
ambito storiografico sviluppatosi dall’età dei Gracchi in poi.66 La riflessione dello
storico sulla violenza è frutto di una percezione pessimistica dello sviluppo della
politica, e si inserisce all’interno di un ragionamento generale sulla disgrega-
zione politica, sulla preoccupazione per l’affermarsi della luxuria (individuata già
dalla prima annalistica come fattore principale della decadenza) e i suoi effetti
devastanti sulla società romana. Come è noto, la distruzione di Cartagine, nel
146 a.  C., segna per Sallustio l’inizio della decadenza politica e rappresenta il
momento di cesura nella storia istituzionale. All’interno, dunque, di un palese
processo degenerativo di natura morale, Sallustio riconosce all’operato graccano
un ruolo di svolta. Ai due tribuni rimprovera un haud satis moderatus animus, cioè
in sostanza il carattere sedizioso dell’azione politica più che il loro programma,
li critica per non aver serbato la giusta misura (modus), quella qualità morale
che, invece, determina il buon esito nell’amministrare la res publica. Il ritratto
dell’uomo politico perfetto doveva presentare una sintesi di virtù (il modus
appunto) e modestia.67 I Gracchi tentarono di perseguire il bonum ideale,68 ma
adottarono nella prassi politica un mezzo sbagliato (malo more). Questo suscitò,
al tempo stesso, nella nobilitas (ottimate) una reazione miope e violenta che lo
storico non esitò a condannare duramente.69 Sallustio trasmette il nucleo essen-
ziale di quella tradizione popularis moderata secondo la quale i Gracchi, pur
attaccabili nei modi (la violenza cui ricorsero) e nei tempi (le contingenze poli-
tiche resero velleitarie le loro proposte), rimanevano un modello di riferimento.
Anche per Cicerone i due tribuni, ampiamente evocati nelle sue opere, rap-
presentarono un parametro interpretativo da impiegare per comprendere le

66 La Penna 1963; da ultimo Estèves 2007.


67 Sappiamo che modus e modestia erano i tratti peculiari della perfetta res publica ciceroniana
(nel II libro del de re publica; cfr. Aug. civ. 2.21).
68 Seguo l’ipotesi di Catalano 1969, 115–127, che interpreta il termine bono come bonum ideale,
sulla base del passo di Floro (epit. 2.2.3 [3.14.3]), dove Tiberio Gracco è qualificato aequo et bono
ductus.
69 Sall. Iug. 42.2–4: Et sane Gracchis cupidine victoriae haud satis moderatus animus fuit. Sed
bono vinci satius est quam malo more iniuriam vincere. Igitur ea victoria nobilitas ex lubidine sua
usa multos mortalis ferro aut fuga extinxit plusque in relicuom sibi timoris quam potentiae addidit.

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840   Chantal Gabrielli

ragioni della violenza politica nella storia contemporanea del I secolo a. C.70. In
particolare l’orazione Pro Sestio e il trattato politico de re publica offrono interes-
santi spunti di indagine sul concetto di vis in relazione alle vicende graccane.71
Cicerone utilizza l’operato graccano come termine di confronto con la situazione
politica del proprio tempo e come occasione di riflessione critica sui cambiamenti
profondi che già si avvertivano nel sistema repubblicano. Così nella Pro Sestio le
convulse vicende politiche contemporanee, dove i processi de vi erano all’ordine
del giorno,72 furono occasione per delineare nell’ambito dei contrasti fra optima-
tes e populares una rivendicazione dei meriti passati della res publica.73 Nell’ar-
ringa Cicerone anticipa il contenuto programmatico del suo pensiero politico che
va maturando più compiutamente nel de re publica, valorizzando la potenza ordi-
natrice del diritto, unica capace di contrastare la forza distruttrice della violenza
(vim volumus extingui, ius valeat necesse est).74 Allo stesso tempo traccia anche
i caratteri distintivi dei populares e optimates:75 i primi agivano in favore della
moltitudo, mentre i secondi finalizzavano le loro azioni al bene della res publica.
Così era ovvio che le finalità della lex agraria di Tiberio Gracco e della lex fru-
mentaria di Gaio avessero mostrato come gli interessi e le aspirazioni della parte
popolare divergessero dall’interesse supremo della res publica.76 Rispetto all’e-
poca graccana la situazione politica era però ulteriormente cambiata: multae insi-
diae sunt bonis ammoniva Cicerone, riecheggiando, come già evocato, un verso

70 Sottolinea il carattere altalenante del giudizio ciceroniano sui due tribuni Gaillard 1975; men-
tre parla di una disincantata strumentalizzazione ciceroniana dell’esempio graccano Béranger
1972, anche se poi non ha alcuna difficoltà ad ammettere che in fondo „Cicéron se mostre hostile
aux Gracques pour mieux affirmer son appartenance au parti sénatorial“ (732).
71 Le orazioni ciceroniane, specialmente la Pro Caecina e la Pro Tullio, costituiscono un’impor-
tante testimonianza per ricostruire l’accezione giuridica di vis.
72 Nel 56 a. C. Sestio era stato accusato di broglio e violenza e dietro ai suoi accusatori si muo-
veva Clodio, che a sua volta, in quello stesso anno all’inizio del suo mandato come edile, aveva
accusato Milone de vi per aver usato una schiera di gladiatori, nel 55 a. C., durante un comizio,
in favore di Cicerone. Per ulteriore documentazione letteraria e indicazioni più dettagliate sul
processo a Sestio vd. Alexander 1990, 132 nr. 271. Sull’accusa de vi mossa a Milone cfr. Cic. fam.
I.5b.1; ad Q. fr 2.3.2; 2.3.4; 2.6.1–2; har. esp. 46; Sest. 42.90; 44.95; D. C. 39.18–19; Plut. Pompeius,
48.7. Per un commento sull’episodio vd. Lintott 1999, 214; Vanderbroeck 1987, 252–253. Recente-
mente David 2013.
73 Cfr. anche Cic. rep. 2.23. Più propriamente la coppia popolari-ottimati alla luce delle analisi
condotte su base terminologica da Strasburger 1939, 773ss., e poi da Taylor 1968, sarebbe stato
appannaggio esclusivo di Cicerone; mentre Sallustio avrebbe usato altre coppie: senatori-plebe
o nobiltà-popolo. Sull’influenza della politologia greca per la formazione di tali dualismi vd.
Zecchini 2009, 111.
74 Cic. Sest. 42.92.
75 Cic. Sest. 44.96ss.
76 Cic. Sest. 48.103.

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Violenza e giustificazione del delitto politico a partire dai Gracchi   841

di Accio.77 Una prassi ormai consolidata nell’agone politico alla metà del I secolo
a. C. era vedere homines seditiosi ac turbulenti che, abbandonato il sistema delle
elargizioni, assoldavano milizie di facinorosi al fine di condizionare l’esito delle
decisioni prese dalla plebe radunata nei comizi (chiara allusione a Clodio).78 Ora
non c’era nessuno che avrebbe pensato che i Gracchi o Saturnino o qualsiasi altro
dei veteres populares avessero mai pagato uomini senza scrupoli per manipolare
un’assemblea. Ed è qui evidente che per l’oratore il vero violento, il vero sedizioso
è Clodio, non certo i Gracchi il cui modo di agire poteva non essere condiviso ma
indubbiamente era legittimo.79 I due tribuni con i loro sostenitori avevano costi-
tuito una forza politica che si basava su un reale (e non prezzolato!) consenso,
ben diversamente dalla realtà politica della metà del I secolo a. C., dove la res
publica appariva in balia della demagogia degli estremisti popolari e delle turbo-
lente masse urbane.80 Nel de re publica, come già accennato, l’esercizio della vis
è invece percepito come fonte di negazione del potere normativo (imperiumque
nostrum ad vim a iure traduxerit), un attacco all’assetto tradizionale repubbli-
cano, attraverso incitamenti alla violenza in luoghi pubblici e persino omicidi.
Cicerone pone la tradizione con le sue forme politiche istituzionalmente ricono-
sciute (patriis […] institutis et moribus)81 come unica possibilità per contrastare
quella novitas attribuita esclusivamente ai Gracchi ma ormai diventata una prassi
ricorrente ovvero l’impiego di mezzi violenti nella contesa politica.82

77 Cic. Sest. 48.102; anche nella Pro Plancio, 24.59, Cicerone cita questi versi, facendo intendere
che era a tutti noto il loro contesto, non reputa neanche necessario dare un nome al loro autore,
ma si limita a ribadirne la validità nel presente storico. È probabile che il richiamo ad Accio (fr.
VIII Dangel) rimandasse implicitamente ad una tradizione aristocratica antigraccana autorevole
e a lui antecedente.
78 Cic. Sest. 49.104: Itaque homines seditiosi ac turbulenti, quia nulla iam largitione populum
Romanum concitare possunt, quod plebs perfuncta gravissimis seditionibus ac discordiis otium
amplexatur, conductas habent contiones, neque id agunt ut ea dicant aut ferant, quae illi velint
audire qui in contione sunt. Sed pretio ac mercede perficiunt ut, quicquid dicant, id illi velle audire
videantur. Cfr. Sest. 50.106. Clodio non sarebbe altro che un falso popularis: Noè 1988, 53–54.
79 Cic. Sest. 49.105: Num vos existimatis Gracchos aut Saturninum aut quemquam illorum vete-
rum qui populares habebantur, ullum umquam in contione habuisse conductum?
80 Sulla Pro Sestio e in generale sul pensiero politico di Cicerone rinvio al fondamentale volume
di Lepore 1954, e al successivo contributo Lepore 1990. Sul rapporto fra plebe urbana e Saturnino
vd. Schneider 1982/1983.
81 Cic. rep. II.
82 Cic. rep. I.19.31 (divisione della res publica in due fazioni dopo la morte di Tiberio); cfr. inoltre
Aug. civ. 2.21; Cic. rep. 3.29.41 (accusa rivolta a Tiberio di aver tenuto un comportamento ingiusto
verso gli alleati e i popoli di diritto latino nella gestione dell’eredità di Attalo III); Cic. rep. 6.11.11
(la res publica è perturbata dai piani del tribuno Tiberio).

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Infine è possibile disporre di ampia documentazione di età imperiale e tar-


doimperiale, come i Facta et Dicta memorabilium di Valerio Massimo, la Biblio-
teca di Diodoro che, per la larga parte della narrazione che qui interessa mag-
giormente, deriva dalle Storie di Posidonio,83 le biografie di Plutarco84 o le Guerre
civili di Appiano, ma il tema della violenza politica riaffiora anche in Velleio
Patercolo, Dione Cassio,85 Floro, Agostino, Orosio. Sono autori di un certo rilievo
in quanto utilizzano spesso fonti perdute e per questo consentono, se non con
molta cautela, di ricostruirne l’interpretazione sulla vis. Le fonti principali di età
imperiale rimangono Plutarco e Appiano, autori greci per i quali si pone il pro-
blema semantico del rapporto tra vis e bia (sostanzialmente corrispondenti) e
stasis, verosimilmente più assimilabile a seditio: un problema che naturalmente
non può prescindere dalla sensibilità e dall’usus scribendi dei singoli autori. Un
altro fattore da tenere presente è quello dei generi storiografici: la narrazione, la
monografia, l’annalistica, le storie generali, la biografia, con i problemi di uso,
manipolazione e rielaborazione dei materiali che ciascuno di essi poneva. Casi
che in genere si ritengono acquisiti della „Quellenforschung“ sono il rapporto
di derivazione di Plutarco dalla seconda annalistica e di Appiano dalle perdute
storie di Asinio Pollione, in una linea che probabilmente abbraccia a tratti anche
Velleio Patercolo.
La chiave di lettura tipica della storiografia romana, ovvero il contrasto tra
senato e popolo, legata a sua volta agli stereotipi classici greci degli ὀλίγοι e
del δῆμος è particolarmente congeniale ad Appiano.86 Lo storico greco inizia le
Guerre Civili87 dicendo che a Roma, prima dei Gracchi, c’era stato un costante
conflitto tra senato e popolo, uno scontro tra boule e demos. Anche Dione Cassio
adotta il medesimo contrasto boule-demos come principale chiave di lettura per
la storia della tarda repubblica; mentre in Plutarco i Gracchi appaiono come
demagoghi in balia degli umori della plebe, del popolo (demos).88 La caratte-
ristica principale dei due tribuni, che sembra, a mio avviso, talvolta delinearsi
nelle vite plutarchee, consiste nella ricerca di una giustificazione etica dell’e-
sercizio della violenza nella prassi politica, che trovava fondamento ideologico
nei precetti filosofici platonici.89 Il parallelismo con i due re spartani, Agide e

83 Su Posidonio: Malitz 1983. Per ulteriore bibliografia vd. nel testo ntt. 95–96.
84 Un’utile rassegna di lavori dedicati alle vite dei Gracchi è presente in Scardigli 1986.
85 Lintott 1997.
86 App. civ. I.2.1–2; I.2.4; I.6.24; sui passi vd. Gabba 1958, 3ss., nonché Gabba 1956, 56 (per sotto-
lineatura del motivo della violenza nell’opera appianea).
87 App. civ. I.1.1.
88 Pelling 1986, 159–187.
89 Plat. polit. 293a ss.; 293d; leg. I.627e; 4.711b; 5.735d ss.; rep. 6.492e; 501a; 8.541a.

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Violenza e giustificazione del delitto politico a partire dai Gracchi   843

Cleomene, trova la sua spiegazione in quest’ottica. Le misure adottate dai due


monarchi, ovvero il γῆς ἀναδασμός e la χρεῶν ἀποκοπή, furono indubbiamente
provvedimenti rivoluzionari, destabilizzanti per l’ordine sociale e quindi condan-
nabili per le conseguenze che potevano suscitare ma al tempo stesso necessari
per riformare lo stato, riportandolo all’antico ordine (il mito della costituzione
spartana di Licurgo).90 Analogamente i Gracchi furono animati dallo stesso desi-
derio positivo di rinnovamento del sistema politico, ristabilendo equilibrio in una
res publica ormai segnata da marcate sperequazioni economiche e da disparità di
diritti politici fra nuove e vecchie componenti della società romana.

La giustificazione della violenza: alcune costanti


della storiografia ottimate (adfectatio regni, iure
caesus, stasis)
Come anticipato, per avallare l’assassinio dei Gracchi, fu necessario postulare un
valido supporto ideologico e accettare la violenza, in determinate circostanze,
quale soluzione praticabile dei conflitti. Si innescò, pertanto, un processo di auto-
legittimazione di un’aggressione compiuta per la prima volta verso un nemico
interno.91 Sappiamo bene come „il diritto di tracciare il confine tra coercizione
legittima (ammissibile) e coercizione illegittima (non ammissibile) sia il princi-
pale obiettivo di tutte le lotte per il potere“.92 Attraverso uno sforzo concettuale,
non privo di contraddizioni e forzature, venne, dunque, teorizzata una biparti-
zione netta tra vis praticabile, e quindi legalmente ammissibile, e vis illecita, e
pertanto punibile. Resta ovvio che, secondo questo schema concettuale, la vio-
lenza degli ottimati rientrasse nella prima tipologia, mentre quella dei popolari
nella seconda. L’aristocrazia romana, confrontata col problema di una prassi
(l’impiego della violenza armata) che metteva radicalmente in discussione non
solo i metodi ma la stessa capacità di funzionamento e di sopravvivenza delle
istituzioni repubblicane, reagì con decisione e con strumenti in parte nuovi. Nel
processo di rielaborazione del concetto di vis i Romani finirono per attingere a
categorie politiche già ampiamente utilizzate e sviluppate nella cultura greca;
da essa mutuarono proprio il concetto di iure caesus riconducibile alla categoria

90 Marasco 1981, 46ss.


91 Walzer 2009.
92 Bauman 2006, VIII.

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del dikaios phonos, a cui associarono sia la tematica del tirannicidio che la teoria
della stasis della città e origine della spaccatura della compagine politica.

Adfectatio regni

Ciascun cittadino era importante „per“ e „nella“ civitas ma non poteva rompere
l’equilibrio fra la propria personale ambizione e il bene della res publica. In base a
tale postulato l’adfectatio regni costituiva l’accusa rivolta verso il politico che vio-
lasse tale principio e tentasse di imporre una tirannia. La morte di Tiberio Gracco
era stata giustificata sulla base del principio che anche un privato, nel caso spe-
cifico Scipione Nasica Serapione, potesse assumere la difesa della res publica
minacciata da un grave pericolo; proprio la storiografia antica ci fa compren-
dere come tale azione fosse assai contrastata, e oggetto di dura polemica. L’ef-
feratezza di quel delitto non lasciò indifferenti le coscienze dei contemporanei.
Lucilio allude alla ferocia dimostrata dalla fazione degli ottimati nell’uccisione di
Tiberio Gracco e dei suoi sostenitori, e alla mancanza di pietà verso il tribuno, la
cui salma venne fatta gettare nel Tevere,93 sebbene il fratello Gaio l’avesse richie-
sta per gli onori funebri.94 La stessa dimensione religiosa dell’azione di Scipione,
pontefice massimo, non valse a fare accettare un atto che gli oppositori defini-
rono violento e non legittimo. Le fonti concordemente ne riconoscono la respon-
sabilità quale principale istigatore dell’azione punitiva nei confronti di Tiberio,
ma Nasica viene additato come assassino solo nella Rhetorica ad Herennium e
nella Biblioteca di Diodoro,95 la cui derivazione dalle Storie di Posidonio,96 come

93 Lucil. 691 M: nullo honore, < here>dis fletu <nullo>, nullo funere. Seguo qui Zucchelli 1977, 120 e
n. 126. Il riferimento a Tiberio Gracco venne proposto dal Marx 1904–5, II, 250–251. Lucilio sferra
un attacco in piena regola contro il senato, rimproverandogli i suoi delitti: Lucil. 690 M: proferam
ego iam vester ordo scelera quae in se admiserit. Per una rassegna critica delle problematiche del
periodo vd. Badian 1962; Badian 1972; Bernstein 1978.
94 Sul truce episodio vd. Plut. Tib. Gracchus, 20; App. civ. I.16; Oros. 5.9.3.
95 Testo di riferimento per la ricostruzione delle vicende graccane è stata la raccolta antologica
compiuta da Botteri 1992. Su Diodoro vd. anche Botteri  – Raskolnikoff 1979 e 1983. Cfr. Diod.
34/35.25.1 = Posid. fr. 111 b Jacoby dove si attribuisce a Gaio Gracco la volontà di distruggere l’a-
ristocrazia e di instaurare la democrazia, sul frammento vd. Nicolet 1983. Il carattere ‚rivoluzio-
nario‘ della politica di Gaio Gracco diventò un topos nella storiografia francese del XVII° e XVIII°
secolo come ha rivelato nel suo studio Raskolnikoff 1983.
96 Rhet. Her. 4.68: iste; Diod. 34/35.33.6–7. Per un confronto fra le due fonti vd. le osservazioni di
Rödl 1969. Su Diodoro vd. il commento di Botteri 1992, 59–60; l’idea del movimento e della turbo-
lenza presente nella metafora marina (Rhet. Her. 4.68; cfr. 4.28.38 e Cic. Brut. 103) investe tutta la
tematica tradizionale dei tribunati graccani (Diod. 34/35.25.1 = Posid. fr. 111b Jacoby) in Raskol-
nikoff – Botteri 1980. Sulla trama narrativa della Rhetorica quale esempio di manipolazione dei

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Violenza e giustificazione del delitto politico a partire dai Gracchi   845

già rilevato, è accertata.97 Il contrasto stridente fra il tribuno e il suo aguzzino, nel
testo della Rhetorica, è stato interpretato come palese riverbero della controversia
sorta all’indomani di quel delitto.98 Sappiamo che la quaestio istituita contro i
graccani99 si svolse l’anno successivo alla morte del tribuno; ad essa partecipò Sci-
pione, diventando il maggiore bersaglio dei popolari, specialmente di M. Fulvio
Flacco.100 Nella Rhetorica Tiberio è presentato come un uomo coraggioso (vir
fortissimus), la cui nobiltà d’animo, dignità e compostezza (insita virtute) non
vennero mai meno neppure davanti alla morte – colpito alla tempia mortalmente
cadde in silenzio –; mentre Nasica, macchiato di sangue dopo il delitto, pensa
di aver compiuto una nobile impresa (quasi facinus praeclarissimum fecisset).101
Siamo ben lontani dalla versione ottimate di un pontefice che, con la toga avvolta
sul capo (capite velato),102 si fa promotore di un’azione risoluta, seppur violenta,
contro un avversario politico, il cui omicidio viene presentato come il gesto finale
e liberatorio di un rito sacro,103 l’immolazione di una vittima sacrificale! Da una
parte Tiberio inerme che aspetta immobile che gli venga inferto il colpo mortale,
dall’altra, in netto contrasto, la scompostezza del pontefice: dalla bocca schiuma
(ex ore spumans) tutta la sua scelleratezza e spira crudeltà dal profondo del petto
(ex infimo pectore). Martin offre un’accurata analisi del lessico impiegato nella

fatti in funzione dell’ideologia popularis che voleva rappresentare vd. le acute osservazione di
Martin 2005, 88, 106–108.
97 Cfr. Sacks 1990, 211–212.
98 Calboli 1969, 436 n. 310; spec. 321 n. 94. Non mancano discrepanze con il racconto plutarcheo
(Plut. Tib. Gracchus, 17–19) e appianeo (civ. I.68–70), su cui vd. il commento di Gabba 1958, 51–53
e Scardigli 1979, 61–73.
99 Plut. Tib. Gracchus, 20.
100 Plut. Tib. Gracchus, 21.4.
101 L’utilizzo del vocabolo facinus, racchiudendo in sé per la sua natura di vox media un signi-
ficato ambivalente, conferisce alla frase maggiore drammaticità.
102 App. civ. I.68; Plut. Tib. Gracchus, 19.5. Sulla dibattuta questione del caput velatum vd.
Gabba 1958, 51–52; e recentemente il contributo di Linderski 2002, che sottolinea la sacralità
del gesto e il contrasto di poteri magistratuali fra pontificato e tribunato. Linderski interpreta
l’assassinio di Tiberio come una consecratio compiuta da un pontifex maximus, ma questa spie-
gazione in chiave religiosa della morte del tribuno non convince Wiseman 2009, 185–187, che
usa, a mio avviso troppo debolmente, come principale argomento l’assenza di tale sottolinea-
tura dell’aspetto religioso (argumentum e silentio) nelle opere ciceroniane. L’oratore (Catil. I.3;
Mil. 72; Tusc. 4.51; Brut. 103; off. I.109; Phil. 8.13) infatti, aveva presentato Nasica non come un
pontefice che uccide l’homo sacer Tiberio, ma come privatus che salvava la res publica da chi
(Tiberio Gracco) stava tentando di destabilizzarne le fondamenta costitutive con l’imposizione di
un nuovo regnum. A titolo esemplificativo vd. Cic. Brut. 212; Planc. 36.88.
103 Vd. Earl 1963, 118–119. L’interpretazione che si compia una sorta di gesto sacrificale parrebbe
trovare conferma nel fatto che C.  Villius, uno dei sostenitori più agguerriti di Tiberio Gracco,
venne condannato a morte secondo il rituale del parricidio (cfr. Plut. Tib. Gracchus, 20.5).

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narrazione della morte del tribuno, ed evidenzia come la scelta dei vocaboli attui
una ‚deformazione storica‘ dei fatti per fini puramente ideologici.104 Nel ritratto di
Nasica hanno la meglio mostruosità, animalità e sacrilegio, mentre nei confronti di
Tiberio assistiamo ad „une volonté de hiératisation du personnage, afin d’en faire
une absolute victime de la violence adverse – une sorte, si l’on peut dire, d’Iphigénie
politique“.105 Contrapposta a questa descrizione malevola di Scipione abbiamo la
posizione di Cicerone che invece ne valorizzò l’iniziativa; questa interpretazione
della storia repubblicana in termini ottimati ha pesantemente influenzato la lette-
ratura successiva106 come meglio dettaglio nelle pagine successive. In Quintiliano
compare un interessante commento sull’uccisione del tribuno che parrebbe essersi
generato all’interno di un gruppo influente della stessa aristocrazia senatoria con-
trario all’uso della violenza da parte di un privatus.107 L’autore metteva in guardia
sulle distorsioni dei racconti storici, spesso poco veritieri quanto più appartene-
vano al passato. Si sarebbe trattato con molta probabilità di una versione alterata
dei fatti frutto del lavoro di alcuni optimates in disaccordo con la vicenda del 132
a.  C., desiderosi che simili azioni, qualora si ripresentassero in futuro, avessero
una facciata costituzionale e fossero compiute da un magistrato.108 A distanza di
dieci anni dalla morte di Tiberio, per stroncare il tentativo di Gaio Gracco, il senato
emanò il senatus consultum ultimum, con tale provvedimento la violenza venne
legittimata ed esorcizzati gli aspetti eversivi contrari al mos. Il senato, infatti,
come istituzione aveva preso su di sé il compito di difendere la res publica anche
con le armi, e a tal fine poteva servirsi di chiunque volesse agire agli ordini del
magistrato. Il SCU definiva l’avversario come hostis, il che autorizzava l’azione
armata. L’espediente mostra a pieno come l’uso della violenza avesse in sostanza
ridefinito il ruolo stesso del governo senatorio.109 Nonostante tutto, questo
strumento normativo rimase sempre oggetto di polemiche e di difficile gestione.

104 Martin 2005, 85–96.


105 Martin 2005, 89.
106 Cic. Sest. 44.95ss.; off. I.76; cfr. I.109; II.43. Due generazioni più tardi, Velleio Patercolo
e Valerio Massimo definivano il tribuno un nemico della repubblica (Val. Max. 4.7.1: inimicus
patriae; 7.2.6b: Ti. Gracchum tribunum plebis, agrariam legem promulgare ausum, morte multavit;
9.4.3; Vell. 2.3.2; 2.6.1), mentre Lucano collocava entrambi i fratelli nel Tartaro (Lucan. 6.778–99;
cfr. I.266–71).
107 Quint. inst. 5.13.24: quae si vetera erunt, fabulosa dicere licebit, si indubia, maxime quidam
dissimilia: […] ut, si Nasica post occisum T. Gracchum defendatur exemplo Ahalae, […] Maelium
regni adfectatorem fuisse, a Graccho leges modo latas esse populares, Ahalam magistratum equi-
tum fuisse, Nasicam privatum esse dicatur.
108 Lintott 1970, 17–18.
109 Lintott 1999, 149–174; Lintott 1999a, 89–93. Cfr. Bonnefond-Coudry 1989. Interessanti anno-
tazioni in Lowrie 2007, 31–55.

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Violenza e giustificazione del delitto politico a partire dai Gracchi   847

La pena capitale, come unica soluzione per contrastare e superare il pericolo


della adfectatio regni, non fu accettata all’unanimità nella società romana; del
resto, già in passato, con Tarquinio il Superbo la condanna all’esilio si era dimo-
strata un’adeguata sanzione contro la degenerazione del sistema politico romano
in tirannide. Le fonti ci dimostrano che i tirannicidi non vennero assolti di fronte
alla collettività. Scipione Nasica, nonostante il tentativo di conferire alla sua
azione criminale l’aspetto rituale di un sacrificio (consecratio),110 venne comun-
que accusato di aver ucciso un tribuno della plebe (magistrato peraltro munito
di sacrosanctitas)111 e denunciato inoltre di essere un tiranno egli stesso.112
Per evitare che subisse un’azione legale, Nasica venne allontanato da Roma e
mandato in Asia alla fine dello stesso 133 o agli inizi del 132 a. C., in pratica una
sorta di velato esilio, cui fece seguito la morte, dopo pochi mesi, a Pergamo.113
Analoga sorte toccherà a L. Opimio, che, nel 121 a. C., con il supporto del SCU
aveva causato la morte di Gaio Gracco, Fulvio Flacco e un alto numero di loro
sostenitori.114 A nulla valse il suo sforzo propagandistico, per commemorare la
ritrovata armonia fra i cittadini dopo la morte degli insorti, con l’erezione nel
foro di un tempio consacrato a Concordia.115 Questo fatto riuscì solo a far indi-
gnare ulteriormente la plebe, che, a detta di Plutarco, percepì la costruzione del
santuario come offensiva, tanto che in risposta, sul luogo dove i tribuni erano
stati uccisi, si iniziò a portare offerte. Su pressione popolare alla fine del 120 a. C.
Opimio subì un processo, colpevole, secondo il tribuno della plebe Decio, di aver
ucciso impunemente dei cittadini romani.116 Al processo il console sfuggì all’in-
criminazione, valendosi del fatto che aveva agito in base ai poteri illimitati con-
cessi dal SCU; ma successivamente accusato di essere stato corrotto da Giugurta
durante l’ambasceria nel 116 a. C., venne condannato anch’egli all’esilio. Con le
morti di Saturnino e Glaucia le cose andarono diversamente. Il principale respon-
sabile in quel caso era stato Mario, che all’epoca era troppo potente per essere
portato in tribunale. Anche in questo caso è Plutarco a fornirci alcune indicazioni
preziose: quelle morti avevano reso Mario così impopolare presso la plebs e una
parte della nobilitas, da portarlo a non presentarsi alla censura per paura di un’u-
miliante sconfitta.117 In realtà la fine di Saturnino non era stata dimenticata, e

110 Linderski 2002, 339–366.


111 Plut. Tib. Gracchus, 21.4–5.
112 Plut. Tib. Gracchus, 21.2–3; Val. Max. 5.3.2e; Cic. rep. 1.6.
113 Plut. Tib. Gracchus, 21.3; Val. Max. 5.3.2e; Cic. Flacc. 75.
114 Plutarco parla di 3.000 graccani trucidati (C. Gracchus, 39 [18].1).
115 Recentemente vd. Pina Polo 2017.
116 In sostanza senza il regolare svolgimento di un processo e relativa condanna. Il testo della
epitome liviana (Liv. per. 61) suona così: quod indemnatos cives in carcerem coniecisset.
117 Plut. Marius, 30.5–6.

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dopo più di 30 anni, nel 63 a. C., venne portato in tribunale Gaio Rabirio, con l’ac-
cusa di aver materialmente ucciso il tribuno della plebe.118 Uno dei punti di forza
su cui Cicerone costruì la sua difesa verteva nel sostenere la validità del senatus
consultum ultimum, quale misura di emergenza usata contro altri cittadini. Alla
fine del dibattimento Rabirio non venne dichiarato colpevole, non perché non lo
fosse (e quindi fosse stata riconosciuta legittima la sua azione in base al SCU), ma
per un vizio di forma nelle procedure processuali.

Iure caesus

Una delle costanti storiografiche dai Gracchi a Cesare presentava gli optimates
come i veri difensori della res publica. A questi spettava il merito di aver lottato
in difesa della libertas dei Romani contro la minaccia del giogo della tirannia;
se gli ottimati praticarono la violenza, lo fecero solo perché costretti dalle circo-
stanze ovvero in risposta (e pertanto legittimamente) ai sistemi violenti (quindi
illegittimi) perseguiti dai populares. Dall’altro canto questi ultimi ricorsero senza
scrupoli alla vis pur di raggiungere i propri fini e furono incolpati di aspirare al
regnum; la lotta intrapresa contro di loro costituiva dunque un bellum iustum.119
Quali destabilizzatori del sistema politico sarebbero stati eliminati nel pieno
della legalità, iure caesi appunto.120 L’accusa di parare regnum rivolta a Tiberio
aveva offerto il pretesto per ucciderlo.121 In Floro troviamo l’espressione quasi iure
oppressus est, forse riverbero di una fonte popolare moderata e non radicale.122
Valerio Massimo narra che il tribuno Gneo Carbone chiese a Publio Cornelio Sci-
pione Africano Emiliano, al ritorno dalla distruzione della città di Numanzia, di
commentare la morte di Tiberio. E questi, invece di ricorrere a parole compas-
sionevoli sulla brutale uccisione del proprio cognato, la definì, facendosi porta-

118 Vd. nel testo nt. 212.


119 Ramelli 2002.
120 Per una ricostruzione storiografica sulla tradizione dello iure caesus ricca di fonti e docu-
mentazione a riguardo vd. Wiseman 2009, 177–210 (ch. IX. The Ethics of Murder).
121 Cito a riguardo alcune delle fonti antiche più significative: Sall. Iug. 31.7: Occiso Ti. Graccho,
quem regnum parare aiebant, in plebem Romanam quaestiones habitae sunt; Cic. Planc. 36.88:
aut, si minus fortes, attamen tam iusti, quam P. Mucius, qui arma, quae privatus P. Scipio ceperat,
ea Ti. Graccho interempto iure optimo sumpta esse defendit; Cic. Lael. 41: Ti. Gracchus regnum
occupare conatus est, vel is quidem regnavit paucos menses.
122 Flor. epit. 2.2.7 (3.14.7): Caedes a foro coepit, Inde cum in Capitolium profugisset plebemque
ab defensionem salutis suae manu caput tangens hortaretur, praebuit speciem regnum sibi et dia-
dema poscentis, atque ita duce Scipione Nasica, concitato in arma populo, quasi iure oppressus
est.

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Violenza e giustificazione del delitto politico a partire dai Gracchi   849

voce di un giudizio senza dubbio condiviso da una parte della nobilitas, un atto
totalmente legale: At si iure eum caesum videri respondit. Nel de viris illustribus
troviamo conferma di questo dialogo. Gracco avrebbe meritato quella morte
cruenta in conseguenza del suo male agire: Ob res gestas superbus Gracchum iure
caesum videri respondit.123 Negli excerpta liviani vi è un accenno a quella drastica
risposta. Il contesto cambia leggermente ed ha come protagonista il tribuno della
plebe Carbone, mentre tenta di presentare una proposta di legge che consentisse
la rielezione al tribunato in deroga alle leges annales. Scipione, con un discorso
severissimo, si oppose alla legge, e in tale frangente dichiarò che l’eliminazione
di Tiberio a lui sembrava legittima: in qua dixit Ti. Gracchum iure caesum videri.124
Nella biografia plutarchea sul tribuno troviamo eco di questi episodi.125 Scipione
avrebbe rischiato l’esilio, minando profondamente l’affetto popolare nei suoi con-
fronti, perchè a Numanzia commentò la notizia della morte di Tiberio citando la
frase pronunciata da Atena, nel poema omerico, per chiosare l’uccisione di Egisto:
„Muoia così anche un altro che intenda agire in quel modo‟.126 Lo stesso riferi-
mento testuale si trova anche in un frammento diodoreo, forse testimonianza di
un’invenzione saggiamente costruita dalla propaganda antigraccana e risalente
a Posidonio.127 Diodoro e Plutarco sono gli unici portavoce di questa tradizione
per così dire ‚epica‘ che lungi dal creare una σύνκρισις fra Egisto e Tiberio allude
certamente alla polemica sulla legittimità di certi omicidi ‚scomodi‘; purtroppo la
biografia plutarchea dell’Africano, che avrebbe contenuto probabilmente simili
particolari, è andata perduta.
Con Gaio Gracco, pur mantenendosi lo stesso supporto ideologico di con-
danna, il contesto dove si esplica la violenza è diverso. Il tribuno, riconosciuto
hostis publicus anche se cittadino, perse il diritto d’appello (ius provocationis),
venne ucciso senza processo, ma comunque sempre iure caesus, perché avendo
attentato alla res publica questa sua colpa era equiparata all’adfectatio regni.
In questa prospettiva i Gracchi e quanti fra i populares ne seguirono l’esempio
politico negli anni successivi diventarono le principali vittime di una trasmis-
sione del passato ideologica e largamente tendenziosa. L’accusa di perseguire
l’instaurazione di un regime tirannico, attraverso la conquista del consenso con

123 Alla turbolenta reazione del popolo troviamo una riposta più completa rispetto alla ver-
sione di Valerio Massimo: […] obstrepente populo: Taceant, inquit, quibus Italia noverca, non
mater est! (Vir. ill. 58.8).
124 Liv. per. 59: Cum Carbo tribunus plebis rogationem tulisset, ut eundem tribunum plebis, quo-
tiens vellet, creare liceret, rogationem eius P. Africanus gravissima oratione dissuasit; in qua dixit
Ti. Gracchum iure caesum videri. <C.> Gracchus contra suasit rogationem, sed Scipio tenuit.
125 Plut. Tib. Gracchus, 21.7–9.
126 Hom. Od.  1.47.
127 Diod. 34/35.7.3.

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850   Chantal Gabrielli

programmi politici che favorivano gli interessi di ampie fasce della popolazione
e le istanze di nuovi gruppi sociali emergenti, continuò a permanere nella storia
politica tardorepubblicana, e, come un filo rosso, unì a vario titolo i Gracchi,
Fulvio Flacco, Apuleio Saturnino, Servilio Glaucia, i catilinari, Clodio e Cesare.
Proporre leggi che favorissero ripartizioni più eque di agro pubblico fra i cives
Romani o mirassero all’abolizione dei debiti potevano costituire palesi indicatori
di una pericolosa politica a favore della plebs. Contro questi politici ‚popolari‘,
presentati come demagoghi e aspiranti tiranni, l’aristocrazia ottimate rinnovò
una polemica che era già stata svolta in termini analoghi in Grecia.128 Seguendo
l’efficace semplificazione di Vanderbroek,129 infatti, la caratterizzazione in nega-
tivo del demagogos si fondava essenzialmente su tre elementi – „flattery of the
people, causing sedition, aiming at personal power‟ – che ritroviamo variamente
impiegati per definire l’attività politica di molti populares della tarda repubblica.

Stasis

Nell’Atene democratica l’uccisione di un tiranno era considerata al pari di


un dovere civico e pertanto era auspicabile che tale gesto fosse sentito come
necessario e perseguito, di conseguenza, da qualunque cittadino. Il tirannici-
dio veniva addirittura percepito come un’azione terapeutica, un sovvertimento
politico (stasis) che non poteva che portare beneficio, dato che andava a garan-
tire il mantenimento del solo governo allora auspicabile e cioè la democrazia.130
Il notissimo concetto di stasis, in quanto motore di cambiamento istituzionale
in relazione alla pratica della violenza nella politica, fu oggetto di risemantiz-
zazione nella tradizione antica, così „le thème de la cité qui se divise en deux,
obsession constante de la polis grecque classique, n’est pas absent des réflexions
politiques romaines“.131 Cicerone, nel primo libro del de re publica, parla di una
divisione esistente a Roma, fondata anche su antinomie violente fra le fazioni,
dopo la morte di Tiberio Gracco,132 mentre Ita omnia in duas partis abstracta sunt,

128 Fraccaro 1914, 135ss.; Béranger 1935; Sirago 1956, 202ss.


129 Vanderbroeck 1987 dedica varie appendici (C, D, E, 268–273) all’immagine negativa del
demagogos nella tradizione antica.
130 Interessante interpretazione del tirannicidio in Ober 2003.
131 Botteri 1989, 94. L’analisi di D’Huys 1987, basandosi esclusivamente sulla storiografia greca,
considerava la storia dei Greci e dei Romani in sostanza una Kriegsgeschichte; del resto già
Momigliano 1972 rilevava come la guerra nelle società antiche fosse percepita un elemento di
cambiamento connesso all’idea greca di movimento/sovvertimento (kinesis).
132 Cic. rep. I.19.31: Mors Tiberii Gracchi et iam ante tota illius ratio tribunatus divisit populum
unum in duas partes.

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 Violenza e giustificazione del delitto politico a partire dai Gracchi   851

res publica, quae media fuerat, dilacerata è il celebre commento sallustiano sulla
realtà postgraccana.133 Con parole simili a quelle di Sallustio si esprime Diodoro,
in un frammento pervenutoci su Tiberio Gracco,134 dove allude allo scontro
violento (βιαίως) fra δύο μέρη, cioè due parti, registrando anch’egli una vera e
propria rottura della coesione della classe dirigente romana. A Roma Varrone, la
cui tradizione è confluita in Floro,135 attribuisce a Gaio Gracco la divisione della
città, bicipitem civitatem fecit;136 ma l’immagine della civitas bicefala trova una
corrispondenza più stretta nella sfera religiosa.137 L’interpretazione divinatoria
del fenomeno del bicefalismo e il suo esplicito richiamo alla politica sembra rife-
rirsi al mito eziologico dell’Urbe; Roma riscrive la sua fondazione mitica all’in-
segna del fratricidio, metafora privilegiata della stasis.138 Nel mito dei gemelli la
proliferazione di coppie, di ‚doppi‘, viene considerata una forma di mimetismo
della violenza: fin dalle origini, nel ciclo leggendario di Roma attraverso la lettura
di Livio, la regalità romulea si sarebbe fondata sulla combinazione di violenza
e sacro.139 La violenza iniziale, quella del fratricidio originario, è interpretata
dunque, come nei miti cosmogonici, violenza fondatrice e civilizzatrice.140 Nel
de divinatione di Cicerone la nascita di una creatura a due teste è interpretata
come presagio di sedizione popolare: si puella nata biceps esset, seditionem in
populo.141 Analogo valore paradigmatico assume il presagio nel Liber Prodigio-
rum di Giulio Ossequente, epitomatore di Livio, dove viene collocato proprio
nell’anno del tribunato di Gaio Gracco: vitulus biceps natus. Tumultus in urbe fuit.
C. Gracchus leges ferens.142 Del resto a Gaio Dionigi di Alicarnasso143 attribuisce
la distruzione dell’armonia della res publica, consapevole che la concordia (nel
testo greco il termine usato è harmonia invece del consueto homonoia) era durata
a Roma 630 anni dalla sua fondazione e sarebbe, dunque, finita nel 122/121 a. C.
Alla luce di quest’ultima documentazione raccolta pare, inoltre, emergere che,
all’interno della consolidata periodizzazione che individuava nei Gracchi l’inizio
della violenza politica a Roma, è rintracciabile, già in fonti di I secolo a. C., una

133 Sall. Iug. 41.5.


134 Diod. 34/35.6.2.
135 Cfr. Nicolet 1980, spec. 28, 41–43; Nicolet 1983a.
136 Varro, vita pop. Rom. fr. 114 Riposati = Nonius, p. 728 L; Flor. epit. 2.5.3 (3.17.3): Iudiciaria
lege Gracchi diviserant populum Romanum et bicipitem ex una fecerant civitatem.
137 Botteri – Raskolnikoff 1983, 82.
138 Botteri 1989, 91, 94.
139 Liv. I.6–7. Johner 1996, 248ss.
140 Su questo aspetto vd. recentemente Meurant 2002.
141 Cic. div. I.121.
142 Obseq. 31.
143 Dion. Hal. ant. 2.11.2–3.

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divergenza nell’attribuire all’uno o all’altro fratello l’ingresso della vis e la rottura


della coesione della classe dirigente romana.

Il lessico della violenza


Il termine latino vis con il corrispettivo greco βία assume un ruolo centrale nel
processo di codificazione di uno specifico lessico sulla violenza,144 anche se la
risemantizzazione ideologica del vocabolo da un’accezione iniziale del tutto
‚neutrale‘ più vicina al concetto di ‚forza‘ che a quello di ‚violenza‘ ha avuto
scarso rilievo negli studi di Weische e di Hellegouarc’h sulla terminologia politica
in epoca repubblicana;145 il lemma violentia, invece, pur legato a vis dalla stessa
radice latina,146 appare di rado nelle fonti storiche147 e in quelle giuridiche, dove
il suo impiego risulta accertato solo a partire dall’età tardoclassica.148
Al termine vis vanno affiancandosi altre parole-chiave. Di indiscussa
valenza ideologica sono il vocabolo seditio e l’aggettivo derivato seditiosus,
entrambi paiono specializzarsi con riferimento ai Gracchi in modo uniforme.

144 Per i molteplici significati che vis assume nelle fonti vd. Forcellini 1965, s.  v. vis, 1011–1012.
145 Vis è assente nella selezione dei vocaboli più ricorrenti e determinanti per la descrizione
della crisi istituzionale della fine della repubblica di Weische 1966. In Hellegouarc’h 1963, per-
cepiamo la stessa mancanza, sebbene attenuata da alcune sporadiche citazioni sul ruolo pub-
blicistico giocato dal termine vis (309 nt. 6, 313). Anche in un recente volume sul lessico politico
nei secoli III e II a. C. di Pignatelli 2008, 21–27, l’indagine lemmatica non comprende le voci vis
e violentia.
146 Ernout – Meillet 1967, 740.
147 L’accezione di violentia rientra nel concetto greco di βία per Forcellini 1965, s.  v. violen-
tia, 1001. In Livio (Packard 1968, 1205) il termine violentia è meno ricorrente di vis (1218–1220;
1196–1198; 1158–1161): solo dieci attestazioni (4.50.2; 3.50.9; 34.51.5; 3.41.8; 3.41.2; 44.30.5; 2.32.5;
8.33.19; 3.39.4; 3.48.1). In un caso solo (4.50.2: Itaque cum fremitus aperte esset, et quaestor P. Sex-
tius eadem violentia coerceri putaret seditionem posse qua mota erat), nel testo liviano, violentia
compare insieme al vocabolo seditio in un contesto storico decisamente indicativo: il questore
Publio Sestio, di fronte al malcontento suscitato dall’arroganza di un tribuno militare con potere
consolare, dichiara che la sedizione potesse essere domata con la stessa forza che l’aveva susci-
tata, richiamando il principio del vim vi repellere. L’episodio si concluse poi con lo scoppio del
tumulto e atti di violenza fisica verso il questore, costretto così a ritirarsi. In Sallustio (Rapsch –
Najock – Nowosad 1991, 1312) violentia ricorre due volte, ma in contesti avulsi dal nostro campo
di indagine. Anche nella produzione letteraria ciceroniana è attestato raramente il vocabolo, da
segnalare, comunque due passi delle Filippiche (6.3.6: novi violentiam, novi impudentiam, novi
audaciam; 12.11.26: novi hominis furorem, novi effrenatam violentiam).
148 Balzarini 1993, 830, la cui trattazione si limita al concetto di vis considerata antigiuridica
dall’ordinamento romano, nel corso della sua multiforme esperienza storica, e alla conseguente
predisposizione di strumenti processuali, di natura privata o pubblica, volti a sanzionarla.

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Violenza e giustificazione del delitto politico a partire dai Gracchi   853

Una lista di tribuni della plebe seditiosi149 venne elaborata dalla storiografia
ottimate, fortemente orientata a sottolineare il valore negativo dell’esempio
graccano e dei populares che perseguirono in politica il modus seditiosus dei
due fratelli.150 „Une véritable dynastie de séditieux dont les Gracques, sont, en
quelque sorte, les fondateurs“ la definisce Gaillard,151 commentando la costante
presenza nei testi ciceroniani dell’espressione seditiosi homines in riferimento ai
due tribuni.152 Seditiosis omnibus restitit, quem numquam ulla vis, ullae minae,
ulla invidia labefecit dirà Cicerone sul padre di Marco Scauro, ammirandone la
capacità di aver saputo fronteggiare le agitazioni politiche fin dai tempi di Gaio
Gracco.153 Nelle Periochae i Gracchi sono dipinti come gli eversori dell’ordine
pubblico: di seditio154 si parla quando Tiberio cerca di farsi eleggere nuovamente
tribuno. Ci sono anche altri casi in cui l’attività dei Gracchi e dei loro sosteni-
tori è definita nell’epitome liviana in maniera ostile. I triumviri nominati per la
distribuzione delle terre, nel 133 a. C., ovvero Fulvio Flacco, Gaio Gracco e Gaio
Papirio Carbone, avrebbero causato disordini (una comune accezione di sedi-
tiones),155 e non è escluso che ciò avvenisse proprio in merito ai provvedimenti
di esproprio delle terre da loro adottati. E dopo la morte di Publio Scipione, le
sommosse provocate dai triumviri (seditiones triumvirales) esplosero più vio-
lentemente;156 mentre lo stesso tribunato di Gaio Gracco è definito seditiosus.157
Ancora alla fine del IV inizi V secolo d. C. Giulio Ossequente esprime sull’atti-
vità politica di Gaio Gracco un giudizio analogo. Interessato a sottolineare la
consequenzialità fra eventi prodigiosi e fatti della politica romana, l’epitomatore
non esita a ricordare come l’improvvisa esplosione del vulcano Etna, nel 126
a. C., altro non fosse che una predizione funesta dei tumulti (seditio) che sareb-
bero poco dopo scoppiati a Roma durante i due tribunati di Gaio Gracco (123 e
122 a. C.).158 E poi per l’anno 124 a. C. (in realtà 123 a. C.) Ossequente menziona la
manifestazione di gravi disordini (tumultus) a Roma in seguito alle proposte di

149 Cfr. la definizione di vis tribunicia presente nella retorica politica: Cic. leg. 3.26; Sall. hist.
3 fr. 48.12. Cfr. Millar 1998, 58–59. Vd. inoltre le fonti segnalate da Hellegouarc’h 1963, 531–532.
150 Wiseman 2009, 33–57, 90ss., 107–210; e ancora prima Lintott 1970, 12–29.
151 Gaillard 1975, 506, vd. anche 507.
152 Cic. Catil. I.3; I.4; I.29; 4.4; dom. 82; Sest. 101, 105; har. esp. 41, 43; Phil. 8.14.
153 Cic. Sest. 47.101.
154 Liv. per. 58.7.
155 Liv. per. 59.15. Per una ricostruzione della carriera di Flacco e del movimento graccano in
Plut. C. Gracchus, 10–18 cfr. Reiter 1978.
156 Liv. per. 59.19.
157 Liv. per. 61.4.
158 Obseq. 29: quod prodigium aruspicum responso seditionem, quae <brevi> post tempore
patuit, portendit.

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legge presentate da Gaio.159 In Floro,160 forse riverbero della tradizione liviana,


ai Gracchi e in generale al tribunato della plebe vengono rivolte parole di con-
danna. Nella sua epitome il termine seditio definisce non solo l’attività destabiliz-
zante dei due fratelli, ma anche quella dei successivi tribuni della plebe, Apuleio
Saturnino e Livio Druso.161 Anche Lucio Ampelio individua il periodo dai Gracchi
a Silla come una sequenza continua di rivolte che terminano nel sangue.162 Nel
suo Liber Memorialis dedica un intero capitolo (26) alle seditiones in urbe;163 ne
enumera in tutto quattro e nomina i loro attori responsabili: Tiberio Gracco in
primo luogo, seguito dal fratello Gaio,164 Apuleio Saturnino insieme a Glaucia e
infine Livio Druso.
In fonti greche di età imperiale il vocabolo seditio165 (e talvolta anche tumul-
tus) viene tradotto con il termine στάσις, con la stessa connotazione peggiorativa
di alterazione pericolosa dell’ordine costituito. Così in Appiano, che offre nell’in-
cipit delle Guerre Civili l’esempio più pregnante di periodizzazione della violenza,
le occasioni di staseis si moltiplicarono dopo il tribunato di Tiberio;166 mentre in
Plutarco167 quel tribunato fu la stasis che per prima introdusse a Roma il conflitto
armato, arrecò sangue e morte tra i cittadini. Appiano continua precisando che,
per un lungo lasso di tempo dal primo conflitto armato (ἔργον ἔνοπλον) perpetrato
da Coriolano negli anni 491–488 a. C. fino all’uccisione di Tiberio Gracco nel 132
a. C., nessun’arma venne introdotta in un’assemblea né si verificarono uccisioni
intestine: ξίφος δὲ οὐδὲν πω παρενεχθὲν ἐς ἐκκλησίαν οὐδὲ φόνον ἔμφυλον.168
Dopo l’uccisione di Tiberio, i cittadini senza alcun indugio ricorsero sempre più
spesso all’uso delle armi (ἐγχειρίδια πολλάκις φερόντων) ed alla eliminazione
fisica di avversari. Nella visione appianea, l’esercizio della violenza quale uso
minaccioso delle armi e del loro potere „persuasivo“, capace di conquistare un

159 Obseq. 31.
160 Flor. epit. 2.1.1 (3.13.1): Seditionum omnium causas tribunicia potestas excitavit, quae spe-
cie quidem plebis tuendae, cuius in auxilium comparata est, re autem dominationem sibi adqui-
rens, studium populi ac favorem agrariis, frumentariis, iudiciariis legibus aucupabatur. Cfr. I.47.8
(3.12.8); 2.2–5 (3.14–17).
161 Flor. epit. 2.2.1 (3.14.1): Primam certaminum facem <Ti.> Gracchus accendit.
162 Ampel. 26; 19.3–4.
163 Cfr. Flor. epit. 2.2–5 (3.14–17).
164 Sull’attività politica dei Gracchi poco prima Ampelio aveva già espresso analogo giudizio:
19.3: Tiberius Gracchus […] hic est Gracchorum qui in tribunatu cum agrariis legibus seditiones
excitarent interfecti sunt.
165 Questa l’ipotesi di Botteri 1989, 87–100.
166 App. civ. I.2; I.27.121.
167 Plut. Tiberius Gracchus, 20.1.
168 App. civ. I.2.4; I.2.5. Per un’analisi delle fonti antiche sull’episodio di Coriolano vd. Noè 1979.

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Violenza e giustificazione del delitto politico a partire dai Gracchi   855

potere assoluto altrimenti non raggiungibile, rappresenta il filo conduttore della


politica romana nell’ultimo secolo a.  C. Tale stadio di continua conflittualità
politica, dai Gracchi a Cesare, verrà superato dai Romani grazie al governo di un
uomo solo (monarchia) e al ripristino della concordia politica (omonoia) sotto il
Principato.169 Quando lo storico greco descrive l’occupazione da parte di Tiberio
del tempio del Campidoglio dove si stava svolgendo la votazione, ne parla come
un gesto suggerito dalle contingenze del momento. Il precipitare della situazione
inasprì poi gli animi e spinse un gruppo di graccani a ripiegare sull’uso di armi,
nella fattispecie verghe e bastoni strappati dalle mani dei circostanti apparito-
ri.170 Nelle intenzioni del tribuno forse l’impiego di strumenti di aggressione non
era stato contemplato e premeditato, ma fu il degenerare della situazione a dare
agli eventi una piega sanguinosa.
I riflessi della polemica, sorta nel I secolo a. C., sull’uso della violenza e delle
armi nella politica si registrano anche nelle contemporanee opere sallustiane.171
Il discorso del console Marco Emilio Lepido, contenuto nelle Historiae172 e pro-
nunciato agli inizi del 78 a. C., è in gran parte intessuto dei luoghi comuni che
risuonano in tutte le concioni dei populares ed hanno una lontana origine grac-
cana.173 Esso presenta analogie con le orazioni di Memmio,174 Licinio Macro175 e
Catilina,176 quali la fine delle discordie civili e il desiderio di instaurare la pace e
la difesa della libertas. In queste ultime arringhe è messo in luce il solco aperto
tra i pauci, che hanno accentrato potere e ricchezze, e gli strati più bassi e
sempre più indigenti della società. Licinio Macro nel suo discorso cerca di dare

169 App. civ. I.2.5–6.24.


170 App. civ. I.15.65; per Briscoe 1974, Tiberio avrebbe goduto di un appoggio maggiore della
nobilitas rispetto a Scipione.
171 La Penna 1963, spec. 213, 241.
172 Sall. hist. I fr. 55. La caratterizzazione di Marco Emilio Lepido, come capo popolare, sovver-
sivo e facinoroso, rientra nei tipici stereotipi filonobiliari vd. Labruna 1975; nonchè la recensione
al libro di Clavel-Leveque 1981.
173 Il console Lepido (Sall. hist. I fr. 55.16) ironizza sulle accuse che Silla gli avrebbe rivolto,
appellandolo seditiosus, e sul fatto che il dittatore avesse spesso mascherato crimini e parricidi
con termini come ‚pace‘ e ‚concordia‘ (Sall. hist. I fr. 55.24: nisi forte specie concordiae et pacis,
quae sceleri et parricidio suo nomina indidit). Silla non avrebbe fermato le ostilità fino a quando il
potere legislativo e giudiziario appartenuto fino a quel momento al popolo romano non sarebbe
passato nelle sue mani. E quindi tutto ciò che viene interpretato come pace e concordia (Sall.
hist. I fr. 55.25: pax et composita), Lepido avverte, non è altro che il sovvertimento e la distruzione
della res publica.
174 Sall. Iug. 31.1; 31.9; 31.20.
175 Sall. hist. 3 fr. 48.6.
176 Sall. Catil. 20.7ss.: Nam postquam res publica in paucorum potentium ius atque dicionem
concessit.

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alla plebe una sua dignità, insistendo sul peso e la forza politica che può avere,
ma non invoca l’esercizio della violenza. Licinio, infatti, pur essendo conscio
che in tanti frangenti della storia repubblicana la plebe ha dovuto scontrarsi
in armi per rivendicare i suoi diritti,177 non va consigliando la rivolta armata e
tanto meno la secessione,178 tende piuttosto a incrementare un uso moderato
delle possibilità di lotta che si offrono alla plebe, mostrando in questo palesi
somiglianze con le parole di Memmio.179 Anche lì non troviamo esortazioni
ad usare le armi contro le ingiustizie, né esaltazioni sul ricorso alla violenza o
alla secessione (Nihil vi, nihil secessione opus est).180 Nel Bellum Iugurthinum
ricorre per due volte il vocabolo ferrum, che per metonimia rimanda all’impiego
di uno strumento di offensiva militare, per l’eliminazione dalla scena politica
di un avversario della fazione opposta: nobilitas […] primo Tiberium, dein […]
Gaium […] cum M.  Fulvio Flacco ferro necaverat e nobilitas […] multos morta-
lis ferro […] extinxit.181 Nel de civitate Dei Agostino riporta un frammento delle
Historiae di Sallustio, nel quale l’uccisione di uno dei Gracchi era indicata come
un momento di forte rottura.182 Nella sequenza del testo ricostruito delle Histo-
riae, al suddetto frammento su Tiberio e Gaio ne seguirebbe un altro,183 altret-
tanto pregnante sui moti graccani, durante i quali i contrasti politici degenera-
rono in scontro armato. In esso si allude al ritorno dell’antica consuetudine di
basare ogni diritto sulla forza delle armi (il plurale di vis con tutta la sua pre-
gnanza semantica): Et relatus inconditae olim vitae mos, ut omne ius in viribus
esset.184 La legge del più forte impone un quadro di disordine istituzionale e
di violenza, evocando un contesto da guerra civile. Ad un clima analogo rin-
viano nella Pharsalia di Lucano sintagmi molto simili: mensuraque iuris // Vis
erat;185 così come Bella […] civilia // iusque datum sceleri canimus;186 dove è chiara
la sottomissione del diritto, della legalità e quindi della giustizia alla violenza ed

177 Sall. hist. I fr. 55.1: quotiens a patribus armata plebs secessisset utique vindices paravisset
omnis iuris sui tribunos plebis.
178 Sall. hist. I fr. 55.17: non arma neque secessionem […] censebo.
179 Sall. Iug. 31.18: Vindicandum in eos, qui hosti prodiere rem publicam, non manu neque vi;
31.6: Neque ego vos hortor […] uti contra iniurias armati aetis; cfr. anche 31.17; 31.27.
180 Sall. Iug. 31.6; cfr. inizio del discorso di Licinio Macro dove si allude forse alla sua opera
storiografica; manca però il richiamo alle lotte dei Gracchi che ricorre invece subito dopo in Sall.
Iug. 31.7.
181 Sall. Iug. 42.1; 42.4.
182 Aug. civ. 2.21 (= Sall. hist. I fr. 17). Vd. nel testo nt. 17.
183 Seguo l’ipotesi ricostruttiva di Pecere 1978, 132–136.
184 Sall. hist. I fr. 18.
185 Lucan. I.175–6.
186 Lucan. I.1–2.

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Violenza e giustificazione del delitto politico a partire dai Gracchi   857

alla forza delle armi.187 Valutazioni dello stesso segno e analogie lessicali sem-
brano apparire dal confronto con un passo di Velleio Patercolo sull’assassinio
di Tiberio: Hoc initium in urbe Roma civilis sanguinis gladiorumque impunitatis
fuit. Inde ius vi obrutum potentiorque habitus prior, discordiaeque civium antea
condicionibus sanari solitae ferro diiudicatae.188 In Velleio il ricorso alle armi è
esplicito e la presenza del vocabolo ferro rimanda immediatamente a quelle lotte
sanguinose che accompagnarono le agitazioni graccane.189 Simili annotazioni
sono riscontrabili anche nella sintetica rassegna che di quei cruciali episodi ci ha
lasciato Agostino:190 Neque enim legibus et ordine potestatum, sed turbis armoru-
mque conflictibus nobiles ignobilesque necabantur. Il fallito tentativo dei Gracchi,
cui il frammento sallustiano (18) alluderebbe, doveva essere nelle Historiae al
centro di una riflessione non più sorretta dalla speranza di un possibile sbocco
positivo delle guerre civili e rifletterebbe piuttosto una preoccupazione legalitaria
costante nello storico, di condanna della rivolta armata che snaturava la lotta
politica, spostandola dal terreno dello ius e della lex a quello dell’arbitrio e della
violenza.191
Uno dei punti di accusa rivolto ai Gracchi ruotava intorno alla definizione di
illegalità.192 La deposizione del collega Marco Ottavio da parte di Tiberio veniva
reputata un’azione contraria alla legge: ἔργον οὐ νόμινον.193 E l’oratore Tito Annio
Lusco proprio su quel comportamento sfidava Tiberio a sostenere di aver tolto
legittimamente (ἐκ τῶν νόμων ἠτιμωκέναι194) i suoi diritti ad un collega che era
persona sacra e inviolabile in base a una lex sacrata.195 Quell’azione, secondo
una tradizione antigraccana, sarebbe stata ispirata dal pensiero del filosofo
Blossio di Cuma, e denuncerebbe una concezione del potere del tutto estranea
alla tradizione romana: Tiberio avrebbe agito contro il mos dei Romani, facendo
deporre un magistrato scelto dal popolo. Anche la proposta di Gracco di candi-
darsi nuovamente a tribuno risulta inammissibile giuridicamente, una forzatura

187 È molto plausibile, ed in questo concordo con Pecere 1978, 132–136, che il suddetto fram-
mento delle Historiae vada connesso al frammento 17 sui Gracchi e non al truce periodo sillano
delle proscrizioni, come è stato sostenuto da alcuni esegeti.
188 Vell. 2.3.3.
189 Posizioni analoghe in App. civ. I.1.5; I.17.72. Su questi passi vd. Gabba 1958, 54.
190 Aug. civ. 3.24.
191 Sall. hist. 3 fr. 48.17 (discorso di Licinio Macro); Sall. Iug. 31.6 (discorso di Memmio).
192 Interessanti osservazioni sulla natura illegale dell’operato graccano letto alla luce delle
vicende della rivoluzione francese in De Sanctis 1921.
193 Plut. Tib. Gracchus, 11.4. Ben radicata e precedente al tribunato era la discordia fra i due
tribuni: Epstein 1983.
194 Plut. Tib. Gracchus, 14.5. Cfr. Liv. per. 58. Vd. Malcovati 1976, 104.
195 Von Ungern-Sternberg 1986. Cfr. Fraccaro 1914, 142–145.

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normativa.196 Siamo di fronte alla definizione di una violenza contro le istitu-


zioni, e conseguentemente contro tutto ciò che tutela le istituzioni. La violenza
(βία) è un atto che travalica lo ius, il nomos che regola il vivere quotidiano e garan-
tisce un equilibrio ad ogni forma di vita consociata fra uomini. Vis ea quae iuri
maxime est adversaria, afferma Cicerone nella Pro Caecina.197 La deposizione
di Ottavio198 fu presentata dall’opposizione (ed apparve realmente ad una parte
dell’opinione pubblica romana), non solo come avvenuta per vim (nonostante
la regolare votazione), ma anche, e soprattutto, come un atto sacrilego, contra
fas collegii, come dice Floro.199 Quando Appiano200 affronta nuovamente la que-
stione agraria, descrive gli stati d’animo delle avverse fazioni coinvolte nella
riforma graccana. Se da una parte vi era chi osannava Tiberio con parole di stima,
c’era dall’altra parte, invece, chi andava dicendo in città che, una volta il tribuno
fosse ritornato ad essere un cittadino qualunque, non avrebbe avuto di che ral-
legrarsi, per aver oltraggiato una carica sacra ed inviolabile e per aver suscitato
una tale controversia in Italia. Molto forte è l’utilizzo del verbo ὑβρίζω per definire
il livello di arroganza e la gravità dell’azione graccana. Da una parte è chiaro il
rimando alla ὕβρις, cioè quella tracotanza e insolenza nei comportamenti che
osavano avere gli eroi tragici contro dei e uomini in violazione delle leggi divine
e umane; dall’altra la definizione del subbuglio suscitato da Tiberio col termine
στάσις, come abbiamo visto, implicava un’azione politicamente sovvertente. Nel
suo giudizio sull’evoluzione della prassi politica della tarda repubblica Appiano
sottolinea come la gestione del potere abbia lasciato sempre più campo ad una
violenza sfrenata e ad un vergognoso disprezzo delle leggi e della giustizia (nel
testo greco compare il termine ὕβρις τε ἄκοσμος, ovvero una tracotanza oltre i
limiti, un’insolenza senza misura).201 La vis/βία supera lo ius/νόμος e rompe il
naturale equilibrio delle cose. Il comportamento dei Gracchi fu violento (βίαιος),

196 App. civ. I.14.60.


197 Cic. Caecin. 2.5.
198 Obseq. 70: abrogaverunt autem hi: Lucius Iunius Brutus consul Tarquinio Collatino, Tib. Grac-
chus M. Octavio […] Cn. Cinna tr. pl. P. Marullo; D. C., 46.49. Offre palese testimonianza dell’ampio
dibattito che in ambito giuridico si svolse in epoca graccana sulla illegalità della deposizione di
un collega la storia di Collatino e le differenti versioni della sua (forzata o volontaria) rinuncia
al consolato nella plutarchea vita di Publicola (7.4). In realtà il testo conterrebbe molti esempi
della tradizione storiografica della tarda repubblica (Gracchi, Saturnino, Sulpicio Rufo, Druso,
Silla, Catilina, Cesare) secondo Affortunati – Scardigli 1992 (con ampio repertorio documentario
e bibliografico).
199 Flor. epit. 2.2.5 (3.14.5). Cfr. Sordi 1986, 135.
200 App. civ. I.13.57.
201 App. civ. I.2.5–5.23.

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Violenza e giustificazione del delitto politico a partire dai Gracchi   859

dice Plutarco,202 i due tribuni andarono ‚oltre la misura‘ (τὸ ἄγαν).203 Che la poli-
tica graccana fosse determinata dal superamento del limite è un tema ben noto
nella tradizione storiografica di epoca repubblicana. Nel giudizio sallustiano sui
Gracchi,204 come verrà ulteriormente evidenziato, l’oltrepassare una misura nella
prassi politica, quel loro haud satis moderatus animus era stato il vero motivo di
rottura con il mos maiorum, la causa che aveva incrinato i rapporti con parte della
nobilitas. La deposizione di Ottavio fu un’innovazione di singolare importanza,
provocò turbamento, ma il voto del popolo ne sancì la validità. Il gesto di Tiberio
assunse un ruolo paradigmatico nella storia tardorepubblicana, l’opinione pub-
blica lo aveva avallato, facendone un precedente accettabile e soggetto ad essere
arricchito di nuovi significati.205. La novitas dell’iniziativa graccana era stata
accettata e inglobata nell’alveo del mos. Altri in seguito lo imitarono e ne modi-
ficarono il senso, come A.  Gabinio nel 67 a.  C. contro L.  Trebellio. Ben diversa
conclusione ebbe invece il successivo tentativo di rielezione dello stesso Gracco.
In quel caso l’innovazione venne respinta provocando come reazione la morte
violenta del suo promotore, dopo un dibattito in senato sul comportamento da
tenersi.

I Gracchi e il cesaricidio in Cicerone


Con il cesaricidio, come già accadde in epoca postgraccana, si impose l’esigenza
di fronte alla comunità civica di giustificare a livello ideologico e storiografico un
delitto politico. La formula ottimate dello iure caesus, reimpiegata nel dibattito
politico dopo il 44 a. C., rinnovò la sua pregnanza concettuale.206 Le Idi di marzo
vennero inserite nel solco della tradizione romana quale esempio finale di una
lunga teoria di morti legittime (dai Gracchi a Cesare) e Cicerone ne fu il principale
divulgatore.207

202 Plut. Ag. 2.3.


203 Più propriamente avverbio con il significato di ‚troppo‘ in Chantraine 1968, s.  v. ἀγα-, 5.
204 Sall. Iug. 42.2–3.
205 David 2006.
206 Sulle aspirazioni tiranniche di Cesare e la teoria dello iure caesus vd. Canfora 2006, 152–155,
297–309, 359–367; Zecchini 2001, 11–34 (Cap. I. Cesare tra dittatura perpetua e adfectatio regni);
Strasburger 1990, 224–225.
207 Ancora nel 46 a. C. durante la stesura del de legibus e l’orazione Pro Marcello Cicerone si
illudeva che fosse possibile una collaborazione tra il popularis Cesare e il senato, attraverso una
riconciliazione fra gli ordines sotto la guida di un clemente e moderato dictator, che rinunciava
alla vendetta personale e assolveva l’intera classe dirigente ottimate. I fatti del 45 a. C. in Spa-
gna infransero ogni illusione: nelle epistole di quell’anno l’oratore iniziò a tacciare il governo di

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L’oratore si trovò ad operare in un contesto culturale in cui era ormai una


consuetudine gettare discredito su personaggi pubblici nei dibattiti e nelle
invettive politiche attraverso l’accusa di tirannia, accusa che ovviamente doveva
ancora produrre un certo effetto nel pubblico e fra i lettori.208 Il trionfo sul
tiranno notificava la preservazione della tradizionale aristocratica res publica.
Come logica conseguenza, nel pensiero politico ciceroniano, compito precipuo
della nobilitas, e quindi del gruppo dei boni, era quello di individuare eventuali
futuri tiranni e la modalità migliore per eliminarli. Solo se i tiranni fossero stati
abbattuti dai boni, la civitas poteva rigenerarsi, dirà l’oratore nel de re publi-
ca.209 Ed è chiaro che chiunque agisse contro i fundamenta rei publicae dovesse
essere considerato un tiranno, mentre chi liberava la comunità da un tiranno era
un eroe, uno che agiva per il bene pubblico.210 Nell’accusa di tirannia vi erano
anche gravi implicazioni di natura morale: al tiranno erano imputati numerosi
vizi come insania, furor, libido, che lo assimilavano ad una bestia. Descrivere
il tiranno come un uomo che aveva raggiunto il culmine dell’abiezione non
era solo un mero esercizio retorico, ma piuttosto un elemento peculiare che la
cultura romana, come abbiamo visto, aveva mutuato dal mondo greco.211 Lo
stesso Cicerone nel diffondere la teoria della legittimità del tirannicidio, e della
conseguente assoluzione dei tirannicidi,212 rafforzò le sue argomentazioni,
attingendo al pensiero filosofico greco e soprattutto ai testi platonici (Gorgia, La
repubblica, Epistola VII).213 Tarquinio il Superbo viene presentato come un uomo
depravato, un re romano caratterizzato come un tiranno greco, il cui dispotico

Cesare come regnum (Cic. Att. 13.37) e nel Cato, uscito sempre nello stesso periodo, dichiarò che
sotto il dispotico regime cesariano non poteva vivere un uomo moralmente inattaccabile come
Catone Uticense. Nel 44 a. C. l’oratore incita il cesaricidio per poi approvarlo soddisfatto, lamen-
tando, in due epistole del 43 a. C., di non essere stato contattato dagli stessi cesaricidi per parte-
cipare di persona alla congiura (Cic. fam. 10.28.1; 12.4.1). Infine le sue ultime opere filosofiche (de
gloria, de amicitia, de officiis), scritte fra 44 e 43 a. C., gli serviranno per giustificare quell’omici-
dio. Già alla fine del 50 e comunque nel 49 a. C. era maturata in Cicerone la consapevolezza che
Cesare stava agendo come un vero tiranno secondo Gildenhard 2006.
208 Dunkle 1967.
209 Cic. rep. I.68: quos (tiranni) si boni oppresserunt, ut saepe fit, recreatur civitas.
210 Cic. de orat. 2.169.
211 Per un’ampia panoramica sull’evoluzione che hanno avuto i concetti di tirannide e di tiran-
nicidio dai tempi antichi ai nostri giorni vd. Turchetti 2001, sull’impiego del concetto nel mondo
romano specificatamente in epoca repubblicana vd. 141–164.
212 Emblematico è il caso di Gaio Rabirio, che Cicerone aveva difeso, nel 63 a. C., per aver assas-
sinato il tribunus plebis Saturnino. Punto forte della difesa era stato sostenere che il crimine era
legittimato perché compiuto a beneficio della res publica, dal momento che Saturnino era stato
incolpato di voler instaurare un potere personale. Cfr. Cic. Rab. perd. 3; 6.19.
213 Plat. Gorg. 470d – 471a; Ep. 7.326c–d (brani che concernono la tirannia); rep. 562d – 563d

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Violenza e giustificazione del delitto politico a partire dai Gracchi   861

governo spinse ad abolire la monarchia e a stabilire l’institutio libertatis.214 Da


quel momento i cittadini romani non avrebbero più tollerato l’imposizione di un
regnum a Roma. E questo diventò la base argomentativa cui l’oratore si appigliò
per condannare tutti i successivi aspiranti tiranni.215 Nelle sue opere è riscon-
trabile un ampio e variegato lessico al riguardo: dai tradizionali termini latini
dominus e dominatio, rex e regnum, a tyrannus, quest’ultimo impiegato con
inusuale frequenza.216 Anzi è proprio il vocabolo tyrannus a suscitare ulteriore
curiosità, dal momento che per quanto ricorra frequentemente nelle orazioni
ciceroniane per definire molti dei suoi avversari politici (Verre, Catilina, Clodio
e Marco Antonio), è significativo che nelle opere filosofiche e nell’epistolario l’o-
ratore restringa il suo uso quasi esclusivamente a Cesare217 e occasionalmente a
Tarquinio il Superbo, exemplum di tiranno per eccellenza.218 Parimenti Cicerone
adottò dal greco anche il termine ‚tirannicida‘ nella forma latinizzata di tyran-
noctonus,219 che usò sempre con riferimento agli assassini di Cesare.
Un altro aspetto della complessa operazione storiografica condotta per rendere
ammissibile il tirannicidio implicò la manipolazione del passato di Roma arcaica
e la strumentalizzazione di personalità di V–IV secolo a. C. coinvolte nella lotta
politica fra patres e plebs. L’oratore collegò fra loro Spurio Cassio, Spurio Melio
e Marco Manlio Capitolino,220 creò un trittico di antichissimi exempla maiorum221
di adfectatio regni, per enfatizzare quanto fosse costantemente presente nella
storia di Roma il rischio di tirannia222 e li associò frequentemente ai Gracchi.223

(viene attribuita l’origine della tirannia a un eccesso di libertà nei regimi democratici), quest’ul-
timo passo è utilizzato da Cicerone (rep. I.66). Cfr. Turchetti 2001, 150.
214 A Tarquinio Cicerone attribuisce analoga tipologia di caratteri: Cic. rep. 2.45; 2.47–48.
215 Sirago 1956, 179–225.
216 È lo stesso Cicerone (rep. 2.49) a informarci che tyrannus è equivalente di iniustus rex:[…]
tiranni, nam hoc nomen Greci regis iniusti esse voluerunt; mentre dominus è sinonimo di tyrannus:
hic est enim dominus populi, quem greci tyrannum vocat (rep. 2.47). Vd. Sirago 1956, 195–197, e
soprattutto Büchner 1952; Turchetti 2001, 147–150.
217 Cic. Phil. 2.34 (Cesare era un rex e il suo governo un regnum); 2.90; 2.96; 2.117; off. I.112;
2.23; Att. 7.20.2; 8.2.4; 10.1.3; 10.4.2; 10.8.6; 10.12a.1; 14.5.2; 14.6.2; 14.9.2; 14.14.2 e 4; 14.17.6; 15.20.2;
16.14.1; fam. 12.1.2. Vd. Béranger 1935, 85–94.
218 Per la documentazione letteraria si rimanda alle fonti segnalate da Pina Polo 2006, 73 e ntt.
4–9.
219 Cic. fam. 12.22.2; Att. 14.6.2; 14.15.1; 14.21.3; 16.15.3.
220 Pina Polo 2006, 87.
221 Panitschek 1989; Martin 1990.
222 A titolo esemplificativo Cic. rep. 2.49: itaque et Spurius Cassius et M. Manlius et Spurius Mae-
lius regnum occupare voluisse dicti sunt; dom. 101; Phil. 2.87; 2.114.
223 Per un’analisi del fenomeno rintracciabile nelle fonti vd. Lintott 1970, 12–29. Famoso è il
brano della prima Catilinaria (I.2–4), dove Cicerone menziona accanto a Nasica e Tiberio Gracco,

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La triade ciceroniana avrà fortuna, venendo poi adottata da autori come Valerio
Massimo, Floro e Ampelio.224 Sorvolo sulla storicità dei tre personaggi,225 le cui
vicende sono note attraverso la tradizione storiografica di età augustea, soprat-
tutto Livio e Dionigi di Alicarnasso.226 Sappiamo che aspirarono al regno (la frase
ricorrente è regnum appetere o regnum occupare) e per questo vennero giustiziati:
Spurio Cassio nel 485 a. C., Spurio Melio nel 439 a. C. e Marco Manlio Capitolino
nel 384 a. C.227 Dalle fonti sono presentati come demagoghi, che acquisirono una
certa posizione di rilievo nella scena politica, favorendo indiscriminatamente la
plebs. Tale caratterizzazione (plasmata con gli attributi tipici dei politici popula-
res di I secolo a. C.) si ascrive unanimemente a storici di parte ottimate di epoca
graccana,228 che retroproiettavano nel passato semileggendario di Roma le pro-
blematiche del presente. Tale tradizione storiografica confluì in Cicerone, che
„accolse molti degli spunti elaborati in senso apologetico già dagli oligarchici
antigraccani, i due Spurii divennero la controfigura di Tiberio Gracco e l’esem-
pio più tipico di iure caesi per aspirazione alla tirannide“.229 Uno dei maggiori
sospettati di questa manipolazione storiografica è ritenuto lo storico L. Calpur-

Servilio Ahala contro Spurio Melio, Opimio contro Gaio Gracco e Fulvio Flacco, per poi finire
con Mario e Valerio contro Saturnino e Servilio Glauca. La menzione degli aspiranti tiranni e dei
relativi assassini doveva funzionare come monito esplicito a Catilina sull’esito della sua inizia-
tiva politica.
224 Flor. epit. I.17.7 (I.26.7); Val. Max. 6.3.1 a–b; Ampel. 27.2.4. Cfr. invece il ‚dittico‘ di Quintiliano
(5.9.13). Vd. Bessone 1983.
225 C’è chi ammette, come Lintott 1970, 12–29, che i racconti su i tre personaggi in epoca grac-
cana vennero modificati in qualche dettaglio, ma che in sostanza le loro vicende possono rite-
nersi plausibili. Cornell 1986, individua elementi tardorepubblicani nella storia di Sp. Melio, ma
esclude che l’intero racconto sia interamente il prodotto di un lavoro di manipolazione da parte
degli annalisti. Vi sono poi autori che mostrano totale scetticismo sull’autenticità dei racconti su
Cassio, Melio e Manlio, così Wiseman 1983, che di nuovo segnala, nel recente Wiseman 2009, 183,
l’inserimento massiccio di anacronismi in quei racconti attribuibile a storici di II e I secolo a. C.
226 L’episodio di Spurio Melio, assassinato nel 439 a.  C. da Servilio Ahala, è riportato in Liv.
4.13–16 e Dion. Hal. ant. 12.1–4; il caso di Spurio Cassio è conosciuto tramite Liv. 2.41 e Dion. Hal.
ant. 8.69–80, mentre la vicenda di Manlio Capitolino è nota solo in Livio (6.11; 6.14–20). Per ulte-
riori fonti su i tre personaggi rimando a Wiseman 2009, 183 nt. 39; Jaeger 1993.
227 Le vicende dei tre presunti tiranni sono state oggetto di continua riflessione da parte della
storiografia moderna, in particolare segnalo con ampia bibliografia i contributi di Chassignet
2001 e Vigourt 2001; più recentemente Smith 2006.
228 Di pari passo a questa operazione storiografica risale in quegli anni, molto probabilmente
nel 109 a. C., l’ubicazione nel tempio di Fides a Roma delle statue dei tirannicidi fatte venire da
Atene dall’ottimate Emilio Scauro, secondo l’ipotesi plausibile di Pina Polo 2006, 92. Fu, dunque,
un’operazione congiunta, pianificata dalla factio degli ottimati, e condotta sul piano ideologico,
iconografico e storiografico, al fine di legittimare l’assassinio dei Gracchi.
229 Berti 1989, 57 nt. 70.

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Violenza e giustificazione del delitto politico a partire dai Gracchi   863

nio Pisone Frugi,230 che nei suoi Annales deve avere rimaneggiato il racconto di
Spurio Cassio a scopi propagandistici;231 così si dica di Cincio Alimento per i rac-
conti su Spurio Melio, e di Claudio Quadrigario riguardo a Manlio Capitolino per
l’elaborazione del topos della Manliana seditio.232 In questo schema ideologico
nato in ambiente ottimate si rilegge il passato per argomentare che le uccisioni
dei Gracchi furono in sostanza delle azioni patriottiche. Il passato diventa fun-
zionale per suffragare una determinata interpretazione dei fatti contemporanei,
e precisamente per invocare il tirannicidio come una necessità politica.233 Una
posizione analoga già emergeva nella polemica storiografica di età sillana che
conobbe pamphlet antimonarchici che investirono la stessa figura del fondatore
Romolo.234 Come reazione al motivo propagandistico che faceva di Silla il nuovo
Romolo, è dato ritrovare in una storiografia di intonazione democratica (forse
risalente a Licinio Macro, sia pure dubitativamente) la raffigurazione del primo re
romano come un tiranno insopportabile (almeno nell’ultima fase del suo regno),
la cui uccisione, ad opera probabilmente degli stessi senatori, veniva legittimata
proprio in virtù dell’instaurazione di un potere assoluto.235
I nomi dei tre demagoghi, come abbiamo già rilevato, vengono spesso asso-
ciati dall’oratore ai Gracchi e Saturnino,236 mentre C. Servilio Ahala, l’uccisore di

230 Pina Polo 2006, 84; Chassignet 2001, 89.


231 Richiamava già sull’intento moralistico ricoperto in generale dalla storiografia romana, ma
particolarmente evidente nell’uso per i Gracchi di una tradizione di exempla di aspiranti tiranni
tratti dalla storia di Roma arcaica Berti 1989. Di Calpurnio Pisone si segnala in particolare, per la
connessione con i Gracchi, il fr. 37 Malcovati: (la statua) quam apud aedem Telluris statuisset sibi
Sp. Cassius, qui regnum adfectaverat etiam conflatam a censoribus. La fusione della statua di Spu-
rio Cassio, classico esempio di ‚culto della personalità‘, suona, in Pisone, come ammonimento a
non celebrare eccessivamente personaggi della classe dirigente romana con simili onori, lui che
era stato testimone della degenerazione di simili atteggiamenti con l’adfectatio regni di Tiberio
Gracco (Berti 1989, 57).
232 Con questa prospettiva i contributi di Valvo 1980; 1980a; 1983.
233 Basti il rimando al de re publica (2.46) dove Cicerone esalta le gesta del primo privatus
L. Giunio Bruto, grazie al quale fu possibile espellere da Roma il re Tarquinio il Superbo e instau-
rare la repubblica. Cfr. Cic. off. 3.6.32.
234 Sosteneva a ragione la datazione all’età sillana dell’opuscolo romuleo, da cui derivavano
i capp. 7–29 del libro II dell’opera storica di Dionigi da Alicarnasso Gabba 2000, 103–108; ipo-
tizzava invece di riportare all’epoca di Cesare il pamphlet e di attribuirne la stesura a un retore
greco Pohlenz 1924.
235 Dionys. II, 11; Plut. Sulla, 24.3; Cic. S.  Rosc. 22; 131; 137; 139 (Silla rigeneratore del suo
popolo); Sall. hist. I.55.5: scaevos ille Romulus; sull’equazione Romolo-tiranno: Plut. Rom. XXVI–
XXVII; Dionys. II.56; Liv. I.16.4. Cfr. Gabba 2000, 104–105, 105 nt. 131.
236 Cic. Catil. I.3; Att. 2.24.2; Mil. 8.72; Phil. 2.87.

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Sp. Melio, è presentato come l’avo e il modello ispiratore di Cassio e Bruto.237 Nella


seconda Philippica Cicerone notava, però, una differenza fra i tre presunti tiranni
del passato, uccisi per il sospetto di aspirare a un potere personale,238 propter
suspicionem regni adpetendi sunt necati, e Cesare, il solo che era stato eliminato
per l’effettivo esercizio di un regnum:239 hi (gli assassini di Cesare) primum cum
gladiis non in regnum adpetentem, sed in regnantem impetum fecerunt.240 L’assun-
zione ufficiale della dittatura perpetua da parte di Cesare (14 febbraio)241 e la sua
ostentata rinuncia del nomen regium nel ben noto episodio della tentata incoro-
nazione ad opera di Antonio durante i Lupercalia del 44 a. C. (15 febbraio)242 ne
avevano deciso la fine alle successive Idi di marzo. Fino infatti al gennaio del 44 il
potere di Cesare si fondava sul consolato e sulla dittatura decennale conferitagli
nel 46. L’equilibrio politico venne frantumandosi con l’assunzione del titolo di dit-
tatore perpetuo. La nuova dittatura, in quanto dittatura non a tempo, risultava una
contraddizione in termini e rappresentava il completo stravolgimento dell’antica
magistratura repubblicana; inoltre „non era più né rei gerendae causa né rei publi-
cae constituendae, indicava il potere assoluto e vitalizio tout court, in altre parole
la sostanza del regnum senza il nome“.243 L’estraneità di questo nuovo regime al
mos maiorum fu evidente ai contemporanei e non tutte le parti politiche in gioco
furono in grado di accettare quella drastica rottura con la tradizione romana.
Nel de officiis,244 scritto dopo la morte del tiranno-Cesare,245 l’attualità delle
Idi di marzo domina il trattato e Cicerone ne moltiplica le allusioni per esorciz-

237 Plut. Brut. I.2; Cic. Phil. 2.26; Att. 13.40.1. Ahala compare anche nelle monete di Bruto
(Sydenham 1952, nos. 90.7).
238 Merita attenzione il saggio di Vigourt 2001a sul valore criminale riconosciuto all’atto di aspi-
rare al regnum attraverso principalmente gli exempla di Spurio Cassio, Spurio Melio e Manlio
Capitolino.
239 Di dominatio parla Svetonio nella sua biografia sul dittatore: Suet. Iul. 30.5: usum occasione
rapiendae dominationis. „Il termine dominatio è ben più che ‚potere‘, è quasi tirannide (nel senso
dell’esperienza greca di età classica)“, dichiara Canfora 2006, 153 nt. 5, 306. Svetonio (Iul. 76.1)
tornerà di nuovo a usare il vocabolo nel commentare il cesaricidio, avendo come fonte probabil-
mente Asinio Pollione: abusus dominatione et iure caesus existimetur.
240 Cic. Phil. 2.114; 13.2: nam quid ego de proximo dicam cuius acta defendimus, auctorem ipsum
iure caesum fatemur? Cfr. Liv. 4.15.4 (spem regni concepere); 6.20.5 (cupiditas regni); Val. Max.
5.8.2 (adfectatio regni). Analoga terminologia si ritrova nelle opere ciceroniane: Cic. dom. 101
(regnum adpetere); Phil. 2.114. (regnum adpetentem); Mil. 72 (suspicio regni adpetendi); Cato, 56
(regnum ad petentem).
241 Liv. per. 116; Plut. Caesar, 57.1.
242 Nic.Dam. Aug. 20.69–21.72–73; Liv. per. 116; Plut. Caesar, 61.1–6; D. C. 44.11.2–3.
243 Zecchini 2001, 33.
244 Cic. off. I.76. Vd. Zecchini 1997a, spec. 62–63.
245 Vd. sul tema Cairns – Fantham 2003, spec. l’articolo di Raaflaub 2003.

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Violenza e giustificazione del delitto politico a partire dai Gracchi   865

zare il fantasma del dittatore, l’unico popularis che seppe instaurare una sorta di
regnum,246 e rendere omaggio all’azione dei tirannicidi, attraverso l’esaltazione
di Scipione Nasica. Già nel 46, nel Brutus, l’oratore scriveva che Tiberio era stato
ucciso dalla stessa res publica, riconoscendo come legittima l’iniziativa del citta-
dino Nasica:247 egli aveva riportato la libertà (restitutio libertatis) e saputo vendi-
care la repubblica (vindicatio rei publicae). Nel de officiis l’assassinio perpetrato
da Scipione nel paragone con la distruzione della città di Numanzia ad opera
dell’Africano sembra guadagnarci in termini di beneficio apportato all’equili-
brio della res publica, sebbene vi sia la coscienza che quanto accadde si compì vi
manuque.248 Quell’azione, precisa Cicerone, sentendo la necessità di addurre una
spiegazione plausibile, non rientrava solo nella ragione politica, ma riguardava
anche quella militare, in quanto fu compiuta con la forza delle armi; ma appunto
quest’uso della forza avvenne di comune accordo fra i cives per un obiettivo a
favore della comunità. La figura del privatus avrebbe incarnato la saggezza poli-
tica (propria degli ottimati) che sola, in una lotta di fazioni, poteva proteggere la
città dalla crisi. I Gracchi compromisero l’esistenza stessa della res publica, le loro
leggi agrarie ne fecero vacillare le fondamenta. Era necessario individuare un
princeps, non per regnare, ma per assicurare la salvezza dello stato, un uomo che
nelle tempeste della politica sapesse governare il timone dello stato: un princeps
che fosse gubernator e rector rei publicae. L’azione del privatus e quella del prin-
ceps erano della stessa natura: entrambi si regolavano su uno ius immanente che
era la norma morale e politica della città, la garanzia della sua sopravvivenza,
l’essenza stessa della sua salvezza.249
Nel de re publica viene data particolare enfasi all’attività politica di Lucio
Giunio Bruto che abbatte Tarquinio il Superbo, il tiranno, ed è quindi primus nella
storia di Roma che possa dirsi auctor e princeps.250 In lui Cicerone vede la figura
dell’optimus civis, che anche al di fuori di una potestas e degli ordines abbia l’au-
ctoritas di un capo, cosciente del compito politico e primo nel prendere l’inizia-

246 Per un interessante approccio alla discussione sull’impatto delle Idi di marzo nella storia
politica romana vd. il volume di Gotter 1996.
247 Cic. Brut. 103: propter turbulentissimum tribunatum […] ab ipsa re publica est interfectus; 212.
248 Cic. off. I.76: nec plus Africanus, singularis et vir et imperator, in exscindenda Numantia rei
publicae profuit quam eodem tempore P. Nasica privatus, cum Ti. Gracchum interemit; quamquam
haec quidem res non solum ex domestica est ratione (attingit etiam bellicam, quoniam vi manuque
confecta est), sed tamen id ipsum est gestum consilio urbano sine exercitu. Cic. Brut. 107: illum
Scipionem, quo duce privato Ti. Gracchus occisus est. Cic. dom. 91: Sed publicam causam contra
vim armatam sine publico praesidio suscipere nolui, non quo mihi P. Scipionis, fortissimi viri, vis
in Ti. Graccho, privati hominis, displiceret […] Cfr. Cic. Planc. 88; Brut. 212; Tusc. 4.51; Catil. I.3.
249 Gaillard 1975, 526–527.
250 Cic. rep. 2.25 (46).

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tiva. La sua condizione di privato investe Bruto di una sorta di diritto superiore a
quello proprio delle leggi, capace di far ristabilire una costituzione calpestata e
infranta. Solo uomini saggi, capaci di governare e mediare gli istinti, riusciranno
a dare un notevole contributo affinché la res publica rimanga salda.251 Ritorna
così il motivo già espresso nella Pro Sestio:252 l’affermazione del diritto, naturale
e civile, su violenza e forza bruta.
L’eliminazione dei nemici della res publica, accusati di aspirare al regnum,
veniva giustificata in nome della libertas tanto che Scipione Nasica era chiamato
vindex libertatis.253 L’accezione di actus vindicandi seu ulciscendi254 è attestata a
quanto pare solo in Cicerone che fa largo uso del verbo vindicare. Al verbo si lega
etimologicamente il vocabolo vindicatio, termine classificato, al pari dello ius
naturae, come uno dei principi insiti nell’uomo e legati alla sua stessa natura, già
nell’opera giovanile de inventione. Attraverso la vindicatio l’uomo ergeva una bar-
riera solida e riconosciuta contro violenza e ingiustizia, sia tutelando la propria
incolumità fisica e morale (difesa e punizione) che ricorrendo a sanzioni.255 Nel
Brutus il verbo vindicare ha la particolare accezione di ‚riscattare, affrancare‘
la repubblica dalla tirannide di Tiberio Gracco: P. Scipione, qui ex dominatu Ti.
Gracchi privatus in libertatem rem publicam vindicavit;256 mentre, nel de officiis, si
parla di reprimere i perversi attentati del tribuno: in P. Scipione Nasica, contraque
patrem eius, illum qui Ti. Gracchi conatus perditos vindicavit.257 Con il de officiis,
dove il tirannicidio veniva celebrato come atto di suprema devozione alla patria,
è chiaro che Cicerone aveva perso definitivamente il ruolo, fino a quel momento
ricoperto, di equilibrato esponente della pars ottimate che aveva cercato in ogni
modo di superare e mediare le contraddizioni di un sistema politico ormai in
crisi, e si era adeguato alla perdente logica ottimate di difesa della propria posi-
zione di predominio politico attraverso l’uccisione degli avversari.258 Del resto era
ormai evidente, come Cicerone scrisse in una lettera nell’ottobre del 44 a. C., che

251 Ripresa dell’immagine platonica della biga alata guidata dall’auriga in „Fedro“ 246–247a;
253d–255b.
252 Cic. Sest. 42.91.
253 Cic. Brut. 212; cfr. Cic. off. I.109: P. Scipio Nasica […] qui Ti. Gracchi conatus perditos vindi-
cavit.
254 Forcellini 1965, s.  v. vindicatio, 997.
255 Cic. inv. 2.66: vindicationem, per quam vim et contumeliam defendendo aut ulciscendo pro-
pulsamus a nobis et a nostris, qui nobis esse cari debent, et per quam peccata punimur; analoga
affermazione, ma più sintetica in Cic. inv. 2.161: vindicatio, per quam vis aut iniuria et omnino
omne quod obfuturum est defendendo aut ulciscendo propulsatur.
256 Cic. Brut. 212.
257 Cic. off. I.109.
258 Per l’importanza politica di quest’ultima produzione filosofica ciceroniana vd. Gabba 1979.

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la violenza si combatteva con pari violenza: quid enim est quod contra vim sine vi
fieri possit?259
Il cesaricidio aveva portato via l’ultima illusione che la res publica potesse
ancora avere una possibilità di recupero. Le amare considerazioni di un cesariano
convinto come Sallustio nel suo Bellum Iugurthinum, scritto nel 40 a. C. a pochi
anni di distanza dalle Idi di marzo, gettano piena luce sull’ormai desolante clima
politico romano. Oltre alla condanna dell’uso della violenza nella prassi politica
reputata esecrabile quanto il ricorso alla secessione,260 lo storico si richiama al
rumor che aleggiava intorno a Tiberio, presunto tiranno.261 E poco dopo, allu-
dendo alla teoria dello iure caesus, finisce quasi per ironizzare: Sed sane fuerit
regni paratio plebi sua restituere; quicquid sine sanguine civium ulcisci nequitur,
iure factum sit.262 Ribadendo nuovamente la necessità di astenersi dalla violenza
e dall’uso delle armi, a Sallustio263 non resta che esortare i cittadini a rispettare le
leggi, cercando la giustizia solo attraverso processi regolari che condannassero i
veri colpevoli dell’inarrestabile declino della res publica.

Conclusioni
Con questa indagine si è voluto delineare i tratti essenziali di un fenomeno che ha
profondamente segnato la storia dell’ultimo secolo della res publica, ovvero l’im-
piego sistematico della violenza armata nell’agone politico per un lasso di tempo
che inizia con i Gracchi e finisce con la morte di Cesare. A seguito dell’assassi-
nio dei due tribuni della plebe la violenza viene storicizzata e inizia una nuova
periodizzazione della storia tardorepubblicana. Particolare attenzione è stata
dunque rivolta a individuare come le fonti antiche abbiano recepito e rielaborato
l’emergere della violenza politica in epoca graccana. Nonostante i limiti di una
documentazione spesso non del periodo, lacunosa e frammentaria, è stato possi-
bile individuare alcune costanti di un’approfondita riflessione orientata in parte
a giustificare la violenza compiuta e a legittimare l’eliminazione di un avversario
politico. La vis diventò un concetto mutevole e complesso, e molto peso ha avuto
nella coeva riflessione storiografica sull’uso della violenza la battaglia ideologica

Cic. off. 2.12.43: Tiberius enim Gracchus P. f. tam diu laudabitur dum memoria rerum Romanarum
manebit at eius filii nec vivi probabantur bonis et mortui numerum optinent iure caesorum.
259 Cic. fam. 12.3.1.
260 Sall. Iug. 31.6.
261 Sall. Iug. 31.7: Occiso Ti. Graccho, quem regnum parare aiebant.
262 Sall. Iug. 31.8.
263 Sall. Iug. 31.18.

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fra optimates e populares che ha fortemente caratterizzato la storia politica del I


secolo a. C. e che indubbiamente ha permeato poi la storiografia successiva.

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