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L'amore non uccide. Femminicidio e discorso pubblico: cronaca, tribunali,


politiche

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Pina Lalli
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L’AMORE NON UCCIDE
Femminicidio e discorso pubblico:
cronaca, tribunali, politiche

A CURA DI
PINA LALLI

SOCIETÀ EDITRICE IL MULINO


INDICE

Introduzione, di Pina Lalli p. 7

I. Omicidi con vittima femminile e femmi-


nicidi: itinerari di ricerca, di Pina Lalli 21

II. Per un’analisi quantitativa del femminici-


dio: una proposta di definizione operativa,
di Lorenzo Todesco 61

III. La cronaca nera si tinge di rosa: il femmi-


nicidio da parte del partner, di Pina Lalli,
Chiara Gius e Michela Zingone 71

IV. Questioni di prossimità. Il femminicidio


nella cronaca locale veneta, di Renato
Stella, Cosimo Marco Scarcelli e Tiziana
Piccioni 123

V. Anime fragili e storie criminali. Il racconto


giornalistico pugliese sui femminicidi, di
Ilenia Colonna, Valentina Cremonesini e
Stefano Cristante 155

VI. Dentro il processo: narrazioni, numeri


e spazi del femminicidio nel discorso
giudiziario, di Alessandra Dino, Gaetano
Gucciardo e Clara Cardella 185

VII. Tra tensioni e convergenze. Il prisma del


discorso pubblico sul femminicidio e le
pratiche dell’informazione e della politica,
di Marinella Belluati e Simona Tirocchi 241

5
VIII. Le campagne sociali italiane contro la
violenza maschile sulle donne: come uscire
dalla rappresentazione della «donna vitti-
mizzata»?, di Saveria Capecchi p. 275

Riferimenti bibliografici 297

Gli autori 323

6
INTRODUZIONE

We must realize that a lot of homicide is in fact


femicide. We must recognize the sexual politics
of murder. From the burning of witches in the
past, to the more recent widespread custom of
female infanticide in many societies, to the killing
of women for «honor», we realize that femicide
has been going on a long time. But since it in-
volves mere females, there was no name for it
until Carol Orlock invented the word «femicide».
[Russell 1976, 104]

Un presupposto generale guida il percorso di ricerca qui


presentato: da quando nel 1976 di fronte al primo Tribunale
internazionale sui crimini contro le donne Diana Russell
propose a Bruxelles l’espressione in inglese femicid e per
indicarne una specificità definita  –  in parte cripticamente,
in parte con esplicita ottica politica di genere  –  nei termi-
ni di «uccisione di una donna in quanto donna» [Russell
1992], l’azione combinata di diversi attori sociali ha attirato
l’attenzione pubblica lungo un processo di costruzione della
violenza maschile contro le donne e nella fattispecie del
femminicidio come problema sociale.
La definizione proposta dal percorso di claim-making
cerca di rovesciare il dato per scontato dell’esercizio di
violenza maschile quasi fosse ineluttabile o biologicamente
determinato dalla fragilità del corpo femminile, per mostrar-
ne, invece, le connessioni storico-culturali con la legittima-
zione sociale del potere di controllo maschile sulle donne,
fino all’esercizio di possesso estremo del corpo femminile
attraverso la violenza diretta e l’annichilimento.
In alcuni contesti internazionali numericamente più
importanti di altri [cfr. ad es. Unodc 2018], il fenomeno
non riguarda soltanto la quantità di omicidi femminili,
ma soprattutto la richiesta di un’attenzione specifica per
segnalare l’esigenza di cambiamenti a più livelli. Sebbene

7
anche in Italia la strategia retorica di presentazione del
problema giochi quasi necessariamente sui numeri e su uno
stile talora iperbolico per amplificare la necessità di azione
politico-sociale («non una di meno», «1 donna ogni tre
giorni uccisa», monitoraggi regionali e nazionali, statistiche
con distinzione di genere finalmente ottenute), una sfida a
tutt’oggi forse ancora incompiuta riguarda la dimensione
simbolica della sua costituzione come problema sociale. Si
potrebbe considerare ad esempio impropria, sotto questo
profilo, la critica di chi, come Serran e Firestone [2004]
tende a respingere d ’emblée l’ipotesi di collegamento causale
con la persistenza dell’egemonia patriarcale indicando che
essa non spiegherebbe perché sarebbero tutto sommato
pochi, in percentuale, gli uomini che uccidono la partner.
Quel che forse sfugge a tale obiezione è che la domanda
di attenzione pubblica (e scientifica) riguarda il riconosci-
mento della determinazione politico-sociale del fenomeno,
di solito rinviato, invece, a una dimensione privata se non
medicalizzata, fatta di passione amorosa malata o di tratti
abnormi di personalità individualizzate.
Ciò di cui manchiamo potrebbe riguardare le modali-
tà narrative che esplicitino i presupposti sociali della sua
giustificazione pratica [Boltanski e Thévenot 1991]. Il
presunto delitto passionale appare infatti essere solo una
forma di legittimazione ideologica, che cade nella ragnatela
immaginaria sia della prossimità relazionale in cui il più
delle volte avviene, sia della domesticità ambientale in cui
tutt’oggi molte donne vivono. In altre parole: l’esigenza di
considerare come problema sociale il femminicidio esprime
l’intento non tanto, o non solo, di sottolineare un fenomeno
di devianza straordinario per dimensione, quanto di rendere
espliciti i presupposti ord inari della vita sociale in cui ancora
permangono attese di ruolo disuguali per le donne e per gli
uomini. Ne è indiretta riprova aver orientato per decenni
lo studio degli omicidi come questione prevalentemente
maschile di devianza criminale, relegando gli omicidi femmi-
nili a questione secondaria, perché quantitativamente meno
rilevante sia come autrici sia come vittime, e riferita a un
ambito privato-domestico in cui le donne prevalentemente

8
si collocherebbero. Non a caso, ad esempio, la dimensione
quantofrenica che ha caratterizzato parte del sapere scienti-
fico moderno ha spinto a costruire modelli esplicativi causali
per capire come mai le donne fossero assassine in misura
di gran lunga inferiore agli uomini: fra le altre, la «teoria
della personalità ipercontrollata», riferita alla donna che si
abituerebbe a reprimere aggressività fisica o che al massimo
potrebbe esprimere la sua devianza con una più accettabile
patologia psichiatrica1, o finirebbe per diventare vittima,
più degli uomini, di omicidi domestici o di prossimità. Di
converso l’uomo, abituato e allevato ad essere aggressivo e
competitivo anche utilizzando il suo vigore fisico, correrebbe
invece un rischio probabilistico più elevato di vittimizzazione
in omicidi criminali «veri e propri», cioè commessi in bande
criminali, o per ragioni dette strumentali. Sto semplificando,
certo, ma a me parrebbe che, in fondo, tali modelli iposta-
tizzino attributi di personalità che fotografano un tessuto
sociale in cui le donne sono soprattutto dipinte dall’emozione
privatistico-individuale e gli uomini dalla lotta strategica per
il potere in un contesto collettivo di loro pari.
Un’altra prospettiva, sotto molti aspetti interessante in
ottica sociologico-culturale, ma forse parziale, è sostenuta
da Bandelli e Porcelli [2016a]: richiamandosi alle ipotesi
di Schein [2010], applicano uno schema secondo il quale,
in una presunta fase anomica di violenza derivante dai
mutamenti repentini dei ruoli di genere nel nostro paese,
ci si scontrerebbe con un serbatoio di valori taciti, (ancora)
immutati, che si rivelerebbero inadeguati alla cultura italiana
della narrativa femminista e mediatica di «colpevolizzazione»
degli uomini. Con ragione Bandelli e Porcelli richiamano
l’esigenza di riflettere sul rapporto cultura-società e sulla len-
tezza delle trasformazioni culturali, e comprensibile appare
l’inadeguatezza delle stereotipie dominanti sui ruoli di genere.
Tuttavia, l’interesse sociologico-culturale potrebbe prestare
attenzione anche ai sommovimenti dei «serbatoi» di senso
comune, alle tracce magari indiziarie o ambivalenti con cui

1
Si vedano ad esempio le sintesi proposte da Ciappi [2002] e, nello
stesso volume, l’analisi di Pitch [2002].

9
gli attori sociali provano a riconfigurare talora i significati
delle pratiche. A proposito del femminicidio, in effetti, po-
trebbe venirci in aiuto una visione vicina all’ipotesi di Ann
Swidler [1986]: l’influenza culturale appare con maggiore
evidenza, con tentativi forti di contrapposizione di significati
e ideologie differenti, specie nei momenti di unsettled lives,
vale a dire in fasi di cambiamento o trasformazione sociale.
Se non altro, essa permette di considerare la dinamica con-
flittuale, e dunque la battaglia anche simbolica che oggi si
svolge in diversi spazi del discorso pubblico. Una battaglia
che coinvolge «oggetti culturali» diversi [Griswold 1994;
Schudson 1989], portatori «corporei» e testuali di significati
esposti alla pubblica comprensione e rielaborazione, attra-
verso vari ambiti: mediatico, sociale e politico, giudiziario
(talora finanche normativo-giuridico), scientifico.
Un’analisi empirica volta a rilevare grammatiche, riela-
borazioni e processi di riconfigurazione di una categoria di
oggetti culturali destinati ad avere ricadute pubbliche più
evidenti potrebbe prestare attenzione alle pratiche profes-
sionali deputate a governarli e partire da una constatazione,
per molti versi presupposta, ma verificabile nel farsi stesso
della ricerca. Si potrebbe cioè ritenere che il percorso di
costruzione dell’omicidio femminile come problema sociale
«femminicidio»2 sia in itinere nel nostro paese, cercando di
farsi strada tra: a) visioni soggettivistico-psicologiche – che
tendono spesso ad avere il sopravvento per la loro forza di
suggestione e collusione con l’attuale egemonia individua-
listica sulle spiegazioni dell’agire umano; b) mobilitazioni

2
Un altro termine che alcuni claim-makers propongono distinguendone
caratteristiche specifiche è più vicino alla matrice inglese: femicid io; al
momento esso ha ricevuto minore condivisione nello spazio pubblico in
Italia. Per una ricostruzione sintetica della terminologia e dell’impiego
della parola nella nostra ricerca, si rimanda a quanto proposto nel nostro
Osservatorio di ricerca sul femminicidio, all’indirizzo https://site.unibo.it/
osservatorio-femminicidio/it/mapping-context/definizioni (ultimo accesso
15 giugno 2020). Nell’ottica fenomenologica della nostra ricerca non
entriamo dunque nel dibattito che a un certo punto ha contrapposto la
stessa Russell alle interpretazioni successive della traduzione spagnola
feminicid io in contesto latino-americano [Russell 2012].

10
femminili e femministe che con maggiore evidenza penetrano
pur con lentezza negli ambiti di molte professioni deputate a
produrre oggetti culturali; c) offerta e produzione maggiore
di dati ufficiali-istituzionali; d ) tentativi di inquadramento
scientifico-sociale, con ricadute formative possibili nelle
pratiche professionali.
Proprio fra i vari tentativi di comprensione scientifico-
sociale dello stato dell’arte di tale importante percorso di
costruzione, intendiamo collocare anche la nostra ricerca,
cercando di sospendere – per quanto possibile – ogni giu-
dizio preliminare.
1. Una prima parte del lavoro di rilevazione considera le
informazioni di cronaca circa le donne uccise per omicidio
classificato volontario nel periodo 2015-2017, così come ne
è riportata notizia nei media giornalistici online. I dati sono
raccolti attraverso un lungo periodo di osservazione, che
giunge fino a marzo 2020, quando la storia delle indagini
proseguiva il suo corso fino a una sentenza di condanna o
a un’archiviazione con definizione diversa da quella iniziale.
Abbiamo in tal modo ricostruito la narrazione giornalistica
su 408 donne a tutt’oggi considerate vittima di omicidio vo-
lontario, uccise fra il 1° gennaio 2015 e il 31 dicembre 2017.
2. Al lavoro di ricostruzione del discorso giornalistico si
è accompagnata l’analisi di 370 sentenze emesse nel periodo
2010-2016 e raccolte dal Ministero della Giustizia, relative
a 400 vittime femminili di omicidi commessi fra il 1975 e
il 2015 (solo 9 i casi del 2015, appartenenti anche al primo
database), significative di un altro aspetto rilevante del di-
scorso pubblico contemporaneo: la narrazione giudiziaria,
quella stessa che in modo eterogeneo e parziale spesso
alimenta e costituisce la fonte privilegiata della cronaca di
questi omicidi. In questo caso, il materiale è stato raccolto
e selezionato in primo luogo dal Ministero, interessato a
raccogliere soprattutto casi che andassero verso una pur
generica definizione di femminicidio3.
3. Il terzo tipo di spazio pubblico esplorato ha fatto

3
Per i dettagli metodologici della costituzione del corpus si rimanda
al capitolo 6.

11
riferimento ai discorsi che hanno caratterizzato le policies con
cui o attraverso cui è stato trattato il fenomeno di quanto
oggi viene di solito chiamato femminicidio: dalla Commissio-
ne parlamentare di inchiesta sul femminicidio e la violenza
di genere istituita per la prima volta nel gennaio 2017, alle
notizie di cronaca bianca su eventi, dati, manifestazioni, et
similia. Nell’analisi discorsiva delle politiche si è inserita
inoltre una narrazione eterogenea perché in qualche modo
specializzata nel gioco manipolatorio delle stereotipie, ma
direttamente collegata a tale arena pubblica: la pubblicità
sociale. Si è cercato qui di individuarne tipologie utili a
comprendere quali aspetti e quali attori indicassero le gerar-
chie di rilevanza o risonanza della violenza di genere come
oggetto meritevole di tematizzazione e intervento sociale.
In tutti e tre gli ambiti, oltre ai documenti testuali, sono
state realizzate, nel complesso, oltre 100 interviste aperte a
testimoni privilegiati costituiti dalle diverse professionalità
in essi presenti: magistrati, procuratori, avvocati, giornalisti
della carta stampata e della televisione, politici, assistenti
sociali, periti forensi, operatori dei centri antiviolenza.
Presentiamo in questo volume una sintesi di gran parte
di questi dati, organizzandoli in tre distinte aree in cui si
impiegano attrezzi culturali e si producono discorsi conside-
rabili nei termini di oggetti culturali portatori di significati
pubblici (quale ad esempio una news story, uno spot, un
aud it, una sentenza, ecc.):
a) le strategie retoriche e le routines professionali nella
cronaca del femminicidio, con particolare riferimento, da
una parte, alla narrazione dell’omicidio «intimo» operato
dal partner e, dall’altro, alla cronaca locale così come è stata
rilevata nelle regioni Puglia e Veneto;
b) la ricostruzione giudiziaria nelle aule del tribunale,
con un focus specifico rivolto all’illustrazione delle catego-
rie che hanno permesso anche una verifica quantitativa di
ricorrenze e differenze;
c) i percorsi narrativi con cui si costruisce il femminicidio
come problema sociale e politico attraverso le campagne di
contrasto, le news dedicate a diffondere consapevolezza o
protesta, le cornici istituzionali della Commissione nazionale.

12
Prima di entrare nei singoli aspetti, proveremo nel capi-
tolo 1 a fornire un quadro generale di numeri, interrogativi,
proposte di lettura di un fenomeno al tempo stesso semplice
e complesso. Semplice perché uccidere volontariamente un
essere umano e nella fattispecie una donna o una bambina
appare una tragedia inutile, socialmente dolorosa: uno dei
tanti eventi che il senso comune potrebbe limitarsi a riman-
dare a sofferenze e malanni individuali, indizi di debolezze
umane tutto sommato «comprensibili» sulla scia di presunte
passioni malsane. Complesso perché – sebbene politicamen-
te trasformato in femminicidio (o, secondo le correnti più
radicali e anglofone, femicidio) derivante da uno squilibrio
sociale di potere tra donne e uomini – la sua comprensione
coinvolgerebbe fattori diversi che possono anche intersecarsi
fra loro e quindi richiedere prospettive multidisciplinari
[cfr. ad es. Corradi et al. 2016]. Del resto, come ricordava
fra gli altri Georg Simmel [1908; trad. it. 1989, 559], non
esiste mai nell’agire sociale un solo motivo...
Per quanto ci riguarda, proveremo a capire se, almeno in
base a quanto abbiamo rilevato, esista tuttavia una qualche
ricorrenza che ci permetta di raggruppare, fra gli aspetti
ritenuti salienti dalla cronaca, dall’arena politica e da quella
giudiziaria, un prisma4 che, pur composto da tante facce
talora ambivalenti o contraddittorie, esprima tendenze di
ricomposizione di un problema sociale a cui si sta dando
nuova luce. Il lavoro di rilevazione del database complessivo,
ad esempio, ha cercato di accantonare il più possibile ipotesi
predefinite, limitandosi a rilevare in ottica fenomenologica
quando e in che modo la cronaca giornalistica riportasse no-
tizia dell’uccisione di una donna o di una bambina. Pertanto,
sotto il profilo diciamo quantitativo, da una parte abbiamo
cercato di verificare se e quali caratteristiche si collegassero
alla cosiddetta notiziabilità – qui considerata in termini di
numero degli articoli e durata nel tempo (nel periodo 1°
gennaio 2015-31 dicembre 2017). Dall’altra, abbiamo isolato

4
La metafora del prisma è emersa grazie al lavoro di M. Belluati e
S. Tirocchi, autrici del capitolo 7, dedicato all’intersezione fra discorsi
mediatici e politiche pubbliche.

13
e codificato le diverse informazioni a proposito di aspetti
descrittivi forniti circa vittima, carnefice, moventi, modalità
del crimine, indagini e, quando presente, tipo di sentenza5.
Ciò costituisce il nostro database generale, che descriviamo
nel primo capitolo illustrando nel paragrafo conclusivo gli
interrogativi aperti nell’itinerario di definizione del tema e
riassunti in una sorta di mappa-simulacro del fenomeno così
come emerso nel triennio 2015-2017. Il capitolo 2 presenta
una diversa riflessione sulla battaglia numerica che caratteriz-
za la ricostruzione del fenomeno «femminicidio»: un tentativo
di definizione operativa che prende in parte le distanze da
una prospettiva costruttivista per cercare di districarsi fra i
vari rapporti oggi esistenti circa la quantificazione dei casi.
Il consenso, si noti, è ancora parziale: numerosi quesiti non
incontrano risposte definitive e sono rintracciabili lungo il
nostro lavoro, ad esempio circa gli aspetti di regolazione
sociale delle emozioni, le frontiere labili tra definizioni an-
tiche che distinguono delitti «passionali» da omicidi ritenuti
«strumentali» quando riconducibili a interessi economici,
oppure la questione posta dall’uccisione di donne invalide e
anziane che nella narrazione giudiziaria è stato talora rilevato
persino nei termini di «omicidio altruistico» (!).
Nel capitolo 3, per ricostruire gli schemi interpretativi
dei discorsi di cronaca nera che hanno dato parola agli
eventi, abbiamo isolato, nel caso della cronaca nazionale,
un campione di narrazioni riferito a un particolare tipo
di assassinio: l’uccisione della partner o ex partner, dove
abbiamo individuato tre tipi di intimate partner femicid e,
che seguono strategie narrative e criteri quali-quantitativi
di notiziabilità differenti. Nella fattispecie, ci soffermiamo
su tre categorie rilevate: a) femminicidi «di alto profilo»,
vale a dire casi che attraggono gran parte dell’attenzione
della cronaca nazionale, e che riguardano soprattutto donne
giovani o eventi complessi che si prestano a una sorta di
racconto giallo; b) le cosiddette «tragedie della solitudine»,

Analoga rilevazione descrittiva è stata effettuata, come vedremo


5

nel capitolo 6, sulle 370 sentenze analizzate, che riguardano 400 donne
uccise fra il 1975 e il 2015.

14
che riguardano per lo più vittime anziane, a cui al massimo
si dedica una notizia breve; c) infine, il racconto che defini-
remmo quasi-tipico del femminicidio, che mostra un’interes-
sante forma di routinizzazione del fenomeno: essa mobilita
per lo più strategie retoriche narrative in cui si evidenziano
ragioni imputabili a situazioni o momenti passionali, sulla v
falsa riga di quanto evidenziato anche in altre ricerche nei
termini di «amore malato» e «perdita di controllo» [cfr. ad
es. in riferimento a dati precedenti, Gius e Lalli 2014]. Si
nota anche, tuttavia, qualche indizio di cambiamento nel
modo con cui i giornalisti, assorbendo modifiche sociali in
atto, esercitano nelle narrazioni maggiore cautela e lasciano
penetrare o, meglio, arricchiscono la routine professionale
con aspetti prima per lo più ignorati, che forse oggi lasciano
intravedere l’esigenza tacita di riconfigurare attrezzature cul-
turali rinnovate. L’analisi è accompagnata anche da interviste
a giornalisti di cronaca, che hanno permesso interessanti
riflessioni sulle ambivalenze che il percorso di costruzione
del problema femminicidio comporta per le loro routines
professionali.
La cronaca locale, rilevata nei media pugliesi e veneti, è
analizzata tematicamente, rintracciando i principali frames e
attrezzature narrative, cercando di individuare le categorie
con cui i discorsi raccontavano gli accadimenti.
In particolare, per quanto riguarda il Veneto (cap. 4),
sono state analizzate le notizie relative a 32 casi di vittime
femminili (due di tentati omicidi) commessi nel triennio
considerato, indipendentemente dalla relazione fra vittima
e omicida, rispetto alle quali l’analisi ha visto emergere le
caratteristiche della prossimità: a) gli aspetti di spettacola-
rizzazione della relazione nei casi di intimate partner dove
è la coppia più che il singolo a diventare attore; b) l’uma-
nizzazione del perpetratore intesa come la ricostruzione di
contesti familiari, sociali, psicologici, lavorativi, ecc. che non
giustificano l’accaduto, ma rimandano a una sorta di «diffi-
coltà» personale la quale a sua volta crea «vicinanza» con il
lettore e le sue esperienze di vita quotidiana; c) la tendenza
a inserire e adattare il femminicidio all’interno dei codici
descrittivi tipici della cronaca giornalistica di eventi delittuosi,

15
senza uso specifico di immagini o termini caratteristici; d )
la messa in campo di indicatori testuali e visivi che avvici-
nano l’informazione locale al lettore rendendo riconoscibili
i contesti, i luoghi, le persone, le istituzioni che entrano
nella narrazione. Infine, nel caso della cronaca relativa ai
media online veneti, è stata condotta anche un’analisi dei
pur non numerosi commenti online dei lettori, dove emerge
una netta tendenza che potremmo definire «giustizialista»
nei confronti dell’omicida, pur senza soffermarsi quasi mai soffermandosi
sulla vittima, quasi che, nella spinta a intervenire nei social, a poco
prevalere fosse quella che, nell’analisi della cronaca pugliese,
è individuata come «comunità dell’odio».
Nel caso dei media pugliesi (cap. 5), servendosi, sul
piano interpretativo, di un’analisi di sfondo che aveva
riguardato la cronaca di due quotidiani nazionali nell’arco
temporale dei 34 anni precedenti, sono considerate le notizie
nei media locali cartacei su 60 casi di femminicidio, tentato
femminicidio o presunto femminicidio (non tutti avvenuti
in Puglia, ma presenti nella cronaca locale perché alcuni
dei soggetti erano originari della regione). Inoltre, sui 5
casi più notiziati sono analizzate le news televisive locali
e i commenti nelle pagine Facebook dei medesimi media.
L’analisi rileva alcune caratteristiche specifiche: a) tendenza
a utilizzare tratti retorici positivi per parlare della vittima,
specie quando la si incontra nei ruoli che «normalmente» ci
si attende, come ad esempio brava ragazza, brava mamma,
brava donna, brava compagna di vita; b) propensione a
caratterizzare psicologicamente sia la vittima, in termini di
solito positivi, sia l’omicida, ricorrendo ai cliché dell’«uomo
malato» o reso «fragile» dall’amore, ponendo talora l’accento
sull’escalation di violenza dell’uomo «malato», a cui diven-
terebbe agevole accostare la tacita stigmatizzazione di una
donna troppo fragile per riuscire a denunciarlo; c) spesso,
considerazione dell’atto violento come il tragico epilogo di
una degenerazione dell’amore, specie quando è la donna a
decidere di abbandonare l’uomo; d ) una sorta di sacraliz-
zazione della scena del crimine nei casi in cui il racconto
giallo del classico caso poliziesco prende il sopravvento; e)
presenza di voci locali a cui viene data parola (in luogo della

16
vittima che tende a scomparire), distinguibile in «comunità
dell’odio», quando inveisce contro la donna o contro l’assas-
sino, e «comunità dell’amore», quando esprime sentimenti
di pietas soprattutto verso di lei (cap. 5).
Per quanto riguarda l’analisi del d iscorso giud iziario
(cap. 6), la rilevazione, come si accennava, è realizzata in
riferimento alla sentenza di ultimo grado reperita nel da-
tabase raccolto dal Ministero della Giustizia per il periodo
2010-2016: esso era inizialmente costituito da 502 sentenze
di I e II grado richieste dal Ministero in quanto «femminici-
dio» circa casi di violenza estrema contro vittime femminili;
sono state quindi isolate 467 sentenze su casi di omicidio
consumato, selezionando poi per l’analisi le 370 sentenze di
ultimo grado per ogni caso (per taluni casi potevano esserci
sentenze di grado diverso). Sono stati predisposti strumenti
metodologici per permettere tre piani di approfondimento,
che riguardano: a) l’individuazione e la codifica di categorie
quantificabili per l’analisi dell’intero corpus di sentenze (come
ad esempio i motivi rilevabili, le relazioni autore-vittima,
dati anagrafici laddove presenti, gli attori e le professioni
eventualmente mobilitati nel resoconto delle sentenze, tipo di
pena comminata, ecc.); b) l’analisi tematica di una selezione
ragionata di alcune sentenze con specifico riferimento alle
modalità discorsive utilizzate per narrare i moventi rilevati
come attinenti alla «sfera sentimentale»; c) il contributo
qualitativo derivante dalle rappresentazioni emerse da in-
terviste aperte a testimoni privilegiati esponenti di diverse
professionalità coinvolte. Il macro obiettivo è verificare il
modo in cui nelle varie narrazioni ci si confronti, a vario
titolo e con diversa ricaduta pratico-sociale, con stereotipi
sociali di genere più o meno solidi nel momento in cui le
procedure normative di un’arena portatrice di conseguenze
rilevanti per il cittadino si mostrino permeabili a struttura-
zioni simboliche tacite, oppure a segnali di cambiamento.
In un quadro ricco di spunti preziosi per la comprensione
dello stato dell’arte del femminicidio come problema sociale,
l’arena giudiziaria rivela la significativa «contaminazione
di rappresentazioni» che abitano oggi lo spazio pubblico e
che vediamo all’opera anche negli altri materiali esaminati

17
nell’intera ricerca. In particolare, nel rigore del linguaggio
giuridico, e forse proprio grazie alla manifesta istanza
normativa del suo discorso, si rilevano le molteplici tracce
della battaglia simbolica in atto circa la definizione sociale
della violenza estrema sulle donne: in gioco, di nuovo, è la
dimensione emotivo-sentimentale a cui essa viene rinviata,
in modo talora esplicito, talaltra tacito ma ambivalente o
meno convincente. Potremmo dire che l’arena giudiziaria
mostra con una sorta di lente d’ingrandimento le facce
mobili del prisma in cui questa battaglia vede confluire le
sfere del senso comune, del sapere scientifico di discipline
differenti, nonché della sfera politico-sociale, che trova nei
media uno dei suoi maggiori interpreti pubblici.
Proprio al discorso sulle politiche, nell’intersezione tra
cronaca «bianca» e narrazioni istituzionali, è dedicato il
capitolo successivo (cap. 7). Tre sono i principali interro-
gativi a cui si cerca di dare risposta: a) quanto e come il
femminicidio è considerato dai media d’informazione quan-
do non si tratta di cronaca nera di casi specifici; b) quali
aspetti assume nel dibattito politico-istituzionale, prendendo
come riferimento principale la Commissione parlamentare
sul femminicidio, e nei discorsi di alcune donne impegnate
attivamente in politiche di contrasto; c) quali elementi sono
messi in rilievo dai discorsi rilevati attraverso interviste a
professionisti dell’informazione impegnati a vario titolo in
trasmissioni anche di d ocufiction, infotainment o in inchieste
giornalistiche dedicate. L’analisi illustra il confronto fra una
testata giornalistica online e i principali telegiornali nazionali
per osservare sia le principali categorie entro cui il tema
generale del femminicidio è stato inquadrato, sia il peso
relativo rispetto alla maggiore notiziabilità della cronaca nera.
In particolare, le illustrazioni empiriche di tipo quantitativo
e qualitativo conducono a riflessioni importanti sul peso
di grammatiche professionali fondate spesso su regole date
per scontate, che lasciano intravedere stereotipi inadeguati
a contesti sociali fatti anche di nuove effervescenze. Nelle
interviste si nota l’impegno esplicito di alcuni nel prendere
in carico tali cambiamenti, per giocare una partita diversa
forse ormai dovuta, non foss’altro per assolvere un com-

18
pito pubblico socialmente responsabile e quindi favorire
consapevolezza sui mutamenti in atto nei ruoli di genere.
Inoltre, il confronto fra «mondi discorsivi differenti» – quello
politico-istituzionale e quello politico-mediatico, specie nella
sua peculiare rappresentazione televisiva – mostra possibili
intrecci più o meno conflittuali, indizio di «un processo di
mediazione dei significati sociali».
Infine, nel capitolo 8 si presenta un’arena comunicativa
specializzata che alcuni considerano rilevante per intervenire
come leva facilitatrice o gatekeeper di cambiamento [Lalli
2011], qui rivolta alle politiche di contrasto alla violenza
di genere: la pubblicità sociale. La lettura proposta cerca
di intercettare i frames che orientano le rappresentazioni di
46 campagne pubblicitarie antiviolenza italiane dal 2006 al
2018, realizzate da attori sociali diversi: istituzioni ed enti
pubblici, associazioni femministe, enti non profit, aziende.
Emergono cinque tipi di frames principali, non necessaria-
mente corrispondenti a tappe temporali successive, bensì ai
sentieri simbolici percorsi e talora interrotti – per riprendere
una bella metafora di Heidegger – lungo il processo di co-
struzione della violenza di genere come problema sociale.
Come spesso accade nel linguaggio pubblicitario, il gioco
delle semplificazioni e delle stereotipie consolidate, o degli
spunti creativo-innovativi, permette di enucleare, specie
nella call to action a cui rimandano, i tratti cruciali della
battaglia simbolica a cui abbiamo più volte accennato: a) il
victim blaming della donna «colpevole» di non denunciare;
b) la donna innamorata che si rende permeabile alla vio-
lenza; c) il tentativo di rivolgersi agli uomini, per cercare
alleanza e al tempo stesso, in modo ambivalente, educarli
a una diversa mascolinità; d ) il richiamo diretto a un punto
di vista femminile di fuoriuscita dalla spirale della violenza;
e) la violenza di genere come questione collettiva con un
richiamo diretto all’impegno delle istituzioni.
L’auspicio degli autori e delle autrici è che il lavoro di
ricerca presentato possa mostrare qualche incrinatura nella
superficie dei luoghi comuni sui delitti ritenuti passionali,
per fornire spunti e ulteriori tasselli di comprensione della
complessità di un fenomeno troppo spesso imputato a un

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amore immaginario e immaginato, che di per sé non uccide,
a meno di confonderlo con un’istanza di potere e di posses-
so. Da parte nostra, abbiamo cercato di osservarne la rete
di significati a cui nel corso di tre anni alcune importanti
arene pubbliche hanno dato cornici di visibilità differenti,
talora in modo contraddittorio o ambivalente, talaltra in
cerca di nuove intersezioni: come le facce di un prisma
diversamente illuminate.
PINA LALLI

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