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PARADOXA STOICORUM

Paradoxa stoicorum (Paradossi degli stoici) è un'opera retorico-filosofica scritta da Marco Tullio


Cicerone e dedicata a Marco Giunio Bruto, futuro cesaricida. Fu composta tra la primavera del 48 e l'inverno
del 47 a.C., in un periodo di allontanamento dalla vita politica, con conseguente ripiegamento sugli studi
filosofici.

Nell'opera Cicerone espone i contenuti della filosofia stoica attraverso l'analisi di sei paradossi: l'intento è
quello di dimostrare come enunciati che sembrano contraddire del tutto l'opinione comune possano essere
resi comprensibili mediante il sapiente utilizzo di strumenti retorici. [1] L'Arpinate definì questo scritto
filosofico opuscolum ludens, un esercizio di retorica svolto come puro passatempo. Attualmente la critica sta
rivalutando il valore dato da Cicerone all'opera, dal momento che, nel proemio, lo stesso autore afferma che,
sebbene questo testo non possa essere paragonato all'Atena dello scultore Fidia, sembra comunque uscito
dalla sua officina.
Da non dimenticare la questione, tuttora aperta, riguardante l'attribuzione dei PS al genere filosofico, data la
sua esclusione dal catalogo delle opere filosofiche presente nel De divinatione. Per la frequente ricorrenza di
alcune spie (apostrofi ed invettive personali), tipiche del genere oratorio, l'opera viene anche considerata
come una collazione di orazioni o meglio, un'opera nella quale si innestano frammenti di orazioni,
consistenti di uno o più argomenti tra loro correlati.

Contesto storico

Il 46 a.C. sancisce definitivamente il trionfo di Gaio Giulio Cesare. Dopo aver sconfitto definitivamente
a Munda le resistenze dei pompeiani, guidati da Gneo Pompeo e Sesto Pompeo; e dopo essere ritornato a
Roma nel 49, Cesare ottenne i pieni poteri e una dittatura straordinaria, grazie alla quale il giovane politico
avrebbe dovuto indire le elezioni consolari nelle quali egli stesso fu eletto console per il 48. Fu riconfermata
la dittatura per un altro anno, dall'ottobre del 48. Sempre nel 48, Cesare ottenne la tribunicia potestas a vita.
Nel 46 a.C. divenne dittatore rei publicae constituendae e conseguì una praefectura moribus, che
praticamente gli attribuiva poteri censori. Questa scalata al potere raggiunse il suo apogeo nel 44 a.C.,
quando Cesare divenne dittatore a vita.
Dal 49 a.C., momento in cui ottenne i pieni poteri, Cesare intervenne, con delle leggi, per risolvere diverse
problematiche. Alleviò i debiti; propose diverse leggi a favore di coloro che erano state vittime dei soprusi
della politica, ripristinando pieni diritti politici ai figli dei proscritti e permettendo il rientro in patria degli
esiliati. Tra il 46 e il 49, inoltre, Cesare propose un piano di colonizzazione dei veterani anche in provincia;
inaugurò una politica di sviluppo edilizio urbano, attraverso la costruzione di opere pubbliche spettacolari;
presentò leggi che regolavano il lavoro; aumentò i membri del senato permettendone l'accesso ad Italici,
provinciali e centurioni; promosse una lex Rubria che concedeva la cittadinanza Romana a Transpadani e
Cispadani. Inoltre, Cesare rese più stabile il suo ruolo politico elaborando una solida ideologia del potere,
con la quale il giovane dittatore sembrava possedere un'aura divinizzata grazie alla sua discendenza eneadica
da Venere. Ciò, naturalmente, giustificava la sua posizione regale.
Il rapporto tra il dittatore e lo scrittore di Arpino fu al quanto controverso e altalenante. Il 59 a.C., anno in cui
Cesare ricoprì la carica di console, segnò il declino politico di Cicerone. Infatti, l'oratore si tenne lontano
dalla vita pubblica e rifiutò le offerte di Cesare che mostrava il desiderio di ottenere una sua collaborazione.
L'anno seguente, però, quando il tribuno Clodio si scagliò contro Cicerone volendolo colpire con una
condanna all'esilio, il giovane Cesare non andò in soccorso dell'oratore. Dopo il suo rientro a Roma,
l'Arpinate aveva perso popolarità. Nel 56 a.C., venuto a conoscenza del deterioramento dei rapporti tra
Cesare Pompeo e Crasso, sperava di poter recuperare la sua prestigiosa posizione politica e di poter
modificare la legge agraria proposta fatta votare da Cesare nel 59. Purtroppo i legami tra i tre uomini furono
salvati grazie agli accordi di Lucca. Cicerone fu, dunque, costretto a soccombere. Infatti, dopo le ripetute
pressioni di Pompeo, Cicerone rinunciò ad occuparsi della legge agraria. Nel maggio del 56 l'oratore mostrò,
con la De provinciis consularibus, di appoggiare la proroga del comando gallico di Cesare. In quest'orazione,
Cicerone presentava il suo riavvicinamento a Cesare dovuto ai meriti da quest'ultimo acquisiti.
Riavvicinamento che si consolidò ulteriormente negli anni successivi. La svolta nei rapporti fra i due fu
segnata dalla concessione dei pieni poteri a Pompeo. Ciò fu determinante per lo scoppio della guerra civile.
Quando Cesare marciò su Roma, Pompeo lasciò la capitale. A questo punto Cicerone fu molto combattuto:
pur essendo convinto che la vittoria di Cesare avrebbe significato la fine della repubblica, non riusciva a
nutrire fiducia nel suo vecchio amico Pompeo. Alla fine, nonostante tutto l'Arpinate seguì in Grecia il suo
amico.
Vinta la guerra civile, e iniziata l'opera di restaurazione dello stato, Cesare si mostrò clemente nei confronti
dei vinti e in modo particolare con Cicerone al quale permise di rientrare a Roma e di riprendere la sua
attività. Pur avendo elogiato la clemenza del novello dittatore (come traspare dalle orazioni Pro
Marcello e Pro Ligario, con le quali l'Arpinate prendeva le difese di ex-pompeiani già perdonati da Cesare),
i PS nascondono critiche alla figura di Cesare causa delle nuove tendenze che avevano favorito la
degenerazione della res publica.
Finalità dell’opera
Pur avendo un ruolo apparentemente marginale nella produzione letteraria di Cicerone, i PS fanno parte di un
preciso progetto di rifondazione culturale della società romana, in un'epoca caratterizzata dalla crisi dei
valori morali e religiosi. Tali presupposti spiegano l'adesione di Cicerone ai contenuti della filosofia stoica,
una dottrina nata in Grecia con Zenone di Cizio e penetrata a Roma a seguito delle conquiste in Oriente. Con
la sua diffusione, essa perde i tratti più rigorosi e si adatta al pragmatismo romano influenzando ogni aspetto
della vita e, in particolare, di quella politica.
L'immagine del saggio stoico che si configura, nel mondo latino, come vir bonus e civis optimus, per il quale
l'obbligo fondamentale è quello di conformarsi pienamente alle leggi dello stato, è utile a Cicerone per
rendere più solido il suo progetto di rifondazione etica e per ricordare al ceto dirigente, ormai corrotto, quale
debba essere la linea da adottare per la salvaguardia dell'ordine socio–politico. I Paradoxa
stoicorum rappresentano il pensiero stoico nella forma più intransigente che Cicerone, in linea col pensiero
del suo tempo, non condivide in toto. Pur di inseguire il suo fine, infatti, presenta una falsa immagine di sé:
ad esempio, nel sesto paradosso, in cui si parla della ricchezza, Cicerone presenta la sua condizione
economica come modesta, a dispetto della realtà.
Va poi specificato che, oltre al bisogno di recupero del mos maiorum, la divulgazione dei precetti stoici ha
anche un fine meramente politico: nel rivolgersi ad un pubblico più ampio, infatti, Cicerone porta avanti un
preciso progetto di riacquisizione del favore sociale in una fase in cui l'autore, più vicino al futuro uccisore di
Cesare che a questo, non dispera di ritornare protagonista sulla scena politica.

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