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Nelle 

Troiane di Euripide (415 a.C.) il tema della guerra viene


presentato dalla prospettiva delle donne troiane prigioniere,
vendute ai nuovi padroni greci dopo il massacro dei loro uomini.
Non si trattava di pura mitologia: un analogo provvedimento
repressivo era stato attuato dagli Ateniesi, sei anni prima, contro la
città di Scione e, nell’inverno precedente, contro gli abitanti di
Melo. Tuttavia, Euripide non si limita a mostrare le sofferenze degli
sconfitti; le “Troiane” mostrano che la guerra è priva di ogni
aspetto positivo e che le sue sciagure si ripercuotono anche sui
vincitori, come osserva Poseidone: “Stolto è tra i mortali colui che
distrugge le città e abbandona alla desolazione i templi e le tombe,
sacre dimore dei morti: egli stesso in seguito è destinato a perire”
(vv. 95-97, trad. Cerbo). Un impietoso bilancio della guerra viene
fatto da Cassandra (come sempre, profetessa inascoltata): “Deve
dunque evitare la guerra chi è assennato” (Φεύγειν μὲν οὖν χρὴ
πόλεμον ὅστις εὖ φρονεῖ, v. 400). In questo contesto, le divinità
compaiono insolitamente nel prologo; ma Poseidone e Atena
cooperano nel tramare rovina e distruzione ai danni dei Greci
vincitori. E, soprattutto, se ne vanno, si allontanano dopo aver
concordato fra loro il destino umano. È finito il tempo in cui l’uomo
greco (Omero, Saffo, Solone, Pindaro, Eschilo) sentiva la divinità
vicina, presente, cooperante (σύμμαχος, diceva Saffo; cfr. fr. 1 V.,
22). Ora gli dèi sono distanti ed inaffidabili: si accordano alle spalle
dei mortali, mirano al proprio interesse personale, sono alieni da
ogni criterio obiettivo di giustizia. Qui non ci sarà nessun “deus ex
machina” a risolvere (o fingere di risolvere) i problemi aperti nel
dramma. Quanto mai insolita è anche la preghiera di Ecuba a Zeus,
nella quale sono stati colti echi dell’“Agamennone” eschileo (vv.
160 ss.) e della concezione anassagorea del νοῦς: “O sostegno della
terra, tu che sulla terra hai sede, chiunque tu sia, indecifrabile a
conoscersi, Zeus, necessità della natura oppure mente dei mortali
(νοῦς βροτῶν), io ti prego. Per sentiero silente incedendo, tutte le
cose umane tu guidi secondo giustizia” (vv. 884-888). La fede
ostinata nella giustizia divina coesiste con la convinzione
dell’assoluta indecifrabilità degli dèi. La complessità di questa
concezione religiosa emerge anche nell’Eracle. Ci si può chiedere
quale sia stata la colpa di Eracle, tale da provocare da parte di Hera
una punizione divina così terribile: l’eroe, diventato pazzo, uccide
la moglie Megara e i tre figli. Che sia così punito l’adulterio di Zeus
è verosimile, ma palesemente esagerato; in realtà la vendetta di
Hera sfugge a tutti i criteri etici e razionali. Sembrerebbe dunque
che nell’“Eracle” la contestazione degli dèi sia radicale; ed in effetti
nel dramma non mancano passi in cui alle divinità sono mosse
gravi accuse. Su questa linea è la logica laica di Teseo, che contesta
apertamente gli dèi: “Ma nessuno dei mortali può sfuggire alla sorte
e neppure gli dèi, se i racconti dei poeti non mentono. Non si sono
forse uniti tra loro in amori che nessuna legge consentirebbe? E non
hanno oltraggiato i loro padri, per prendere il potere, incatenandoli?
E tuttavia abitano l’Olimpo e si rassegnano alle loro colpe. E come
giustificherai che tu, un mortale, non tolleri quel che ti riserva la
sorte, diversamente dagli dèi?” (vv. 1314-1321). Tuttavia Eracle,
tornato in sé, pur accettando la consolazione di Teseo (a differenza
di Aiace, non si toglierà la vita), proclama una più seria concezione
religiosa: “Ma io non credo che gli dèi godano di amori illeciti e
neppure ho mai considerato degno di loro, né mi lascerò convincere,
che si incatenino le braccia o possano imporsi il dominio l’un l’altro.
Il dio, se veramente è un dio, non ha bisogno di nulla: questi sono
racconti meschini dei poeti (ἀοιδῶν οἵδε δύστηνοι λόγοι)” (vv. 1341-
1346). Euripide non propone qui una critica nichilista contro la
religione, ma anzi una più alta concezione del divino, che si
distacca da ogni banale antropomorfismo (sulla scia delle
riflessioni di Senofane di Colofone) e rifiuta ogni “parentela”
(συγγένεια) fra dèi e uomini, ogni superficiale analogia fra natura
divina e natura umana.

Dio, se c’è, non è paragonabile all’uomo.

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