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La voce della critica

Saggezza e libertà

A. Traina, Saggezza e libertà, in Seneca, Letture critiche, a cura di A. Traina, Mursia,


Milano, 20002, pp. 9-13

Estrarre un sistema dalle opere di Seneca non è facile. Da buon romano, Seneca ripugna al sistema,
che irrigidisce in uno schema astratto la molteplicità spesso contraddittoria della vita. Da moralista,
preferisce aderire a situazioni particolari, esistenziali. L’incidenza della biografia sul suo pensiero è
fortissima: Seneca potrebbe dire che ogni sua opera è un’opera di “occasione”. Per rendergli giustizia
bisognerebbe proiettare il pensiero su un asse diacronico, se ce lo consentisse l’incerta cronologia
delle opere. Ciò non significa che il pensiero senecano non ubbidisca a una duplice coerenza. La
prima è quella, generica, della cornice stoica, alla cui ortodossia Seneca spesso si richiama, pur
rivendicando la sua autonomia nei particolari. La seconda è quella, intrinseca, dei temi fondamentali,
la coerenza del “messaggio”, intorno al quale si organizzano e si attualizzano i dogmata dello
stoicismo. La morale di Seneca ha per scopo l’autodifesa dell’individuo: per strumento, la libertà
interiore; per protagonista, il sapiens. Ogni Civiltà ha il suo ideale d'uomo.Perla
Grecia arcaica, era stato l'eroe;per la Roma repubblicana, il civis; presto sarà il santo. [...] L'ellenismo
dava al saggio la realizzazione interiore di una libertà sempre più lontana dall’orizzonte politico. Il
medesimo avveniva a Roma con l’impero. La libertas è “non temere né uomini né dei… avere il
massimo potere su se stesso” (Ep. 75, 18). Sotto un governo dispotico,nel gioco della fortuna, il
sapiens appartiene solo a se stesso (suus est). Conciliare questa esigenza di fondo col determinismo
del cosmo stoico non era impresa da poco. Crisippo aveva consumato l’acume della sua dialettica nel
tentativo di mettere d’accordo il fato e il libero arbitrio. Seneca non affronta il problema di petto [...] .
Non scrive, come Cicerone, De fato; sembra piuttosto aggirare il problema attraverso una serie di
slittamenti e di soluzioni collaterali nell’ordine cosmologico, teologico, antropologico. In quanto
Necessità, infrangibile catena delle cause, il fato è inevitabile. Non resta che volere ciò che non si può
evitare: “(il saggio) sfugge alla necessità, perché vuole ciò a cui essa lo avrebbe costretto” (Ep.54,
7).È l’​amor fati,​ che in Seneca assume, come di rado a Roma fra Lucrezio e Boezio, una dimensione
cosmica: “Qual è il dovere dell’uomo buono? Offrirsi al fato. È un grande conforto ruotare assieme
all’universo” (magnum solacium est cum universo rapi, Prov. 5,8). Ma Il fato può apparire anche
come divinità: “la libertà è ubbidire a dio”(Vit. beat. 15, 7); “nulla mi costringe, nulla patisco che non
voglia, e a dio non servo ma acconsento, tanto più che so come tutto fluisce secondo una legge
immutabile e fissata per l’eternità” (Prov. 5, 6); “a dio non ubbidisco, ma acconsento: lo seguo di
cuore (ex animo), non perché è necessario” (Ep. 96, 2). E questa divinità, tradizionalmente
provvidenziale, tende in Seneca a spogliarsi dell’impersonalità del ​logos stoico e a istituire con
l’uomo rapporti così personali che hanno fatto pensare al cristianesimo: “dio ha cuore di padre verso
gli uomini buoni e li ama da forti” (Prov. 2, 6); “gli dei… porgono la mano a chi ascende. Stupisci che
gli uomini vadano agli dei? Dio viene agli uomini, anzi, ciò che è più vicino, viene negli uomini” (Ep.
73, 16). Non bisogna dare valore ontologico alle metafore senecane. Il dio che è in noi non scende
dall’alto della trascendenza cristiana, ma è parte del logos immanente al cosmo: “tutto questo che ci
contiene, è uno solo ed è dio: noi siamo… sue membra” (Ep. 92, 30). Tuttavia l’insistenza con cui
Seneca presenta la divinità con tratti personali va oltre un effetto di stile. Fare di dio l’interlocutore e
l’amico dell’uomo (Prov. 1, 5), lo spettatore– si direbbe biblico –della sua lotta con l’avversa fortuna
(“ecco uno spettacolo degno dello sguardo di dio, ecco una coppia di avversari degna di dio, l’uomo
forte alle prese con la mala sorte”, Prov. 2, 9), significa mettere in ombra la costrizione del
determinismo stoico e in luce la libertà morale del saggio, che vede in dio un modello da eguagliare
(par deo) e, nei limiti delle possibilità temporali dell’uomo, da superare: “in questo superate dio, che
egli è al di fuori della portata dei mali, voi al di sopra” (Prov. 6, 6).Orgoglio stoico, si è detto, e
giustamente, contrapponendolo alla virtù cristiana per eccellenza, l’umiltà. Ma questo orgoglio è il
contraccolpo psichico di una autonomia etica tanto più affermata dall’individuo quanto più minacciata
dal sistema. Ma il fato, oltre al volto impassibile della necessità e quello benigno della divinità
provvidenziale, ha anche un terzo aspetto, che in Seneca non è meno importante degli altri: quello
mutevole della fortuna:“chiamalo natura, fato,fortuna:sono tutti nomi del medesimo dio che usa in
tanti modi del suo potere” (Ben. 4, 8, 3). Adire il vero, Seneca evita di definire rigorosamente la
fortuna e il suo rapporto col fato. L’ortodossia stoica aveva definito la týche “una causa oscura
dell'intendimento umano”. Cioè essa è l’aspetto capriccioso, irrazionale che il fato può assumere allo
sguardo limitato dell’uomo.Ma Seneca prende questa fortuna, diciamo così, negativa, e ne fa
un’ipostasi, l’antagonista del sapiens. È lo stesso procedimento applicato alla divinità,ma con
conseguenze assai più macroscopiche. Perché se il fato non si può che accettare, la fortuna si deve
combattere, ed è proprio questo incessante duello che esalta la libertà e la forza morale dell’uomo: “il
saggio vince con la virtù la fortuna” (Ep. 71, 30). Come il concetto di libertà, anche quello antitetico
di servitù slitta dal piano politico al piano etico: la maxima servitus è quella della fortuna (Vit. beat.
15, 3), dei falsi beni e falsi mali (Ep. 98, 2) che ci vengono dalla nostra costituzione psicofsica, dalla
nostra condizione economica e sociale, dal favore e, soprattutto, dal disfavore dei potenti (Ep. 14, 4;
76, 33). [...] Che cosa assicura al saggio la sua serenità interiore (introrsus beatus, Ep. 119, 11) fra le
peggiori condizioni di vita? La risposta di Seneca è univoca e insistente: la morte. Numquam est ille
miser cui facile estmori (Herc. Oet. 111). Così egli la trasforma da oggetto di timore in strumento di
liberazione: “perché pensare che la fortuna può tutto su chi vive, invece di pensare che non può nulla
su chi sa morire?” (Ep.70,7;cfr. Ep. 51, 9); “medita la morte: chi dice questo, ti dice di meditare la
libertà. Chi ha imparato a morire ha disimparato a servire. È al di sopra di ogni potere, certo al di
fuori.Che gli fanno carcere e guardie e catene? Ha libera l’uscita” (Ep. 26, 10). Perciò la saggezza di
Seneca è, in un senso più esistenziale e meno metafisico di quello platonico, una meditatio mortis.
Che è poi un altro modo, l’ultimo, di sfuggire alla necessità: “si aprono tante strade alla libertà, brevi e
facili. Ringraziamo dio che nessuno può essere tenuto a forza in vita: è lecito calcare la stessa
necessità” (Ep. 12, 10). All’ordine cosmico risponde l’ordine sociale. L’individuo si sente solidale col
cosmo come con l’umanità: “siamo le membra di un grande corpo” (Ep. 95, 52); ma come si riserva
una sua autonoma sfera morale tra le maglie della necessità cosmica, così si ritaglia fra gli uomini
l’inviolabile spazio della propria solitudine. Certo, Seneca batte in breccia l’egoismo epicureo: “Non
può vivere felice chi pensa solo a se stesso, chi trae tutto al proprio utile:devi vivere pergli altri, se
vuoi vivere per te. La società ci mescola, uomini agli uomini, e giudica che esiste un diritto comune al
genere umano” (Ep. 48, 2 s.). Ma quando questa astratta umanità s’incarna nella folla che ci tocca e ci
circonda, Seneca si ritrova individualista. Ama gli uomini, non il “prossimo”: “separati quanto più
puoi dalla folla” (Nat. quaest.4a, pr. 3); “fuggi i molti, fuggi i pochi, fuggi anche uno solo” (Ep. 10,
1). Perché la folla ci contagia i suoi vizi: “Vuoi sapere che cosa devi evitare più di tutto? La
folla…Torno più avaro, più ambizioso, più lussurioso, addirittura più crudele e meno uomo perché
sono stato fra gli uomini” (Ep. 7, 1 ss.). Il gioco etimologico (​inhumanior… inter homines​)sottolinea il
paradosso. Se il primo dovere dell’uomo è per l’umanità, l’ultimo, irrinunciabile, è per l’individuo: “si
esige dall’uomo che sia utile agli uomini; se è possibile, a molti; se no, a pochi; se no, ai più vicini; se
no, a sé” (Ot. 3, 5). Saggezza aristocratica, come ogni saggezza che parli all’individuo. Ma esistono
altre saggezze?

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