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RABBIA

(l’ordine è provvisorio)

RABBIA – INTRODUZIONE - Szymborska: ODIO


1.L’ira inviata dagli dei sugli uomini:
a. Omero: Iliade - Dissidio Agamennone / Achille
2.L’ira contro gli dei:
a. Eschilo: Agamennone /Euripide: Eracle
b.Hö lderlin: Il Canto del Destino di Iperione
c. Celan: Salmo [l’assenza di dio]
3.Ira personale:
a. Archiloco: All’amico di un tempo
b.Heine: Non ho rancore
c. Catullo: Carme 42
4.Ira e Amore: L’Ironia sull’amore di Orlando
a. Ariosto: Incipit + ottave 1,2; 134,135.
b.Tasso: Gerusalemme “Combattimento” XII, 52,53,55,56,60,61
montaggio con frammenti strumentali del Madrigale Monteverdi.
5.Rabbia Politica:
a. Giovenale: Satira III
b.Raboni: Canzone del danno e della beffa♣
c. Levi: Shemà
d.Sofri: Nei ghetti d’Italia (Questo non è un uomo)

6.Rabbia della Natura (riserva)


b.Lucrezio
c. Leopardi
d.Stazio
e. Bergazzano

7. Rabbia “melodrammatica”: Montaggio a due condotto da Rossana. Rapsodia di testi da libretti


d’opera sul tema (altro tema potenzialmente utile ma per il momento accantonato)


♣ È questa la sua ultima poesia, pubblicata dal "Corriere della sera" del 16 novembre 2004
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Introduzione

1) In una recente intervista uno dei più grandi e noti


neuroscienziati, Antonio Damasio, ha parlato della differenza che
intercorre tra emozioni e sentimenti: le emozioni – ha detto –
sono la parte pubblica del nostro cervello, mentre i sentimenti
pertengono a quella privata. Le emozioni servono a comunicare i
nostri sentimenti, a metterli in condivisione con gli altri o a
esplicitarli a noi stessi; i sentimenti, invece, possono rimanere
chiusi allo sguardo altrui, riposti, talvolta nascosti, nel profondo di
quello che Damasio chiama “il nostro cervello” e che io, invece,
continuo a definire, forse in modo un po' antiquato, la nostra
“anima”.
La rabbia è un'emozione o un sentimento? Va identificata con uno
scoppio di collera, un bagliore improvviso di ira incontrollabile, o
è al contrario un sentimento di rancore, che cova e si sedimenta
nell'intimo dei pensieri?
I testi che abbiamo raccolto si snodano lungo il filo di queste
osservazioni, e cercano di coprire, in maniera non certo
esauriente, ma speriamo suggestiva, tante, e diverse, sfumature
caratteriali, che oggi sono, forse semplicisticamente, riunite nella
definizione di “violenza”: oggi si parla di un “uomo violento”, di
una “folla violenta”, oppure si adotta la parola “indignazione”, alla
quale fa riferimento un poeta, Bruno Tognolini, che ha scritto testi
per ragazzi:

Tu dici che la rabbia che ha ragione


È rabbia giusta e si chiama indignazione.

All'odio, un vocabolo anch'esso 'antico', correlato alla rabbia, ma


non la rabbia giusta di cui parla Tognolini, ha dedicato una poesia
Wisława Szymborska, grandissima poetessa e saggista polacca,
insignita nel 1996 del premio Nobel per la letteratura:

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Wisława Szymborska
L'odio [3'16"]
[1_Chopin: Fantasia in fa- Op.49 – Incipit]

Guardate com'è sempre efficiente, Lui solo trascina, che sa il fatto suo.
come si mantiene in forma Capace, sveglio, molto laborioso.
nel nostro secolo l'odio. Occorre dire quante canzoni ha
Con quanta facilità supera gli composto?
ostacoli. Quante pagine ha scritto nei libri di
Come gli è facile avventarsi, storia?
agguantare. Quanti tappeti umani ha disteso
Non è come gli altri sentimenti. su quante piazze, stadi?
Insieme più vecchio e più giovane di Diciamoci la verità :
loro. sa creare bellezza.
Da solo genera le cause Splendidi i suoi bagliori nella notte
che lo fanno nascere. nera.
Se si addormenta, il suo non è mai un Magnifiche le nubi degli scoppi
sonno eterno. nell'alba rosata.
L'insonnia non lo indebolisce, ma lo Innegabile è il pathos delle rovine
rafforza. e l'umorismo grasso
Religione o non religione - della colonna che vigorosa la
purchè ci si inginocchi per il via. sovrasta.
Patria o non patria - E' un maestro del contrasto
purchè si scatti alla partenza. tra fracasso e silenzio,
Anche la giustizia va bene all'inizio. tra sangue rosso e neve bianca.
Poi corre tutto solo. E soprattutto non lo annoia mai
L'odio. L'odio. il motivo del lindo carnefice
Una smorfia di estasi amorosa sopra la vittima insozzata.
gli deforma il viso. In ogni istante è pronto a nuovi
Oh, quegli altri sentimenti - compiti.
malaticci e fiacchi. Se deve aspettare, aspetterà .
Da quando la fratellanza Lo dicono cieco. Cieco?
può contare sulle folle? Ha la vista acuta del cecchino
La compassione è mai e guarda risoluto al futuro
arrivata per prima al traguardo? - lui solo.
Il dubbio quanti volenterosi trascina?

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2) L’ira inviata dagli dei sugli uomini: Commento

2) Gli antichi preferivano parlare di ira: tutta l'Iliade è intrisa di ira a partire dai pri
due versi del poema:

Canta o dea l'ira del Pelide Achille


rovinosa, che infiniti dolori addusse agli Achei

Quella dell'Iliade è una storia in cui la rabbia infiamma e acceca gli


uomini e gli dei e passa dall'uno all'altro, fino a culminare nella sua
espressione più violenta e feroce, l’ira di Achille: Crise, il vecchio sacerdote di
Apollo, si adira con Agamennone, che ha preso sua figlia, Criseide; invoca la
punizione di Apollo, che accoglie la preghiera del vecchio sacerdote assieme
alla sua ira, ma, nel dio, questa ira diventa terrificante, e si scarica in frecce
avvelenate che portano la peste tra gli Achei; consultato, l’indovino Calcante
dichiara che per placare l’ira di Apollo occorre subito restituire Criseide al
sacerdote, ma Agamennone allora s’infiamma, e pretende di avere per sé
Briseide, l’ancella di Achille: e così l’ira di Agamennone diventa l’ira di Achille,
in un sistema basato su equilibri di forze, in una “civiltà di vergogna”, in cui il
potere vale in quanto “visibile” e non può tollerare alcuna riduzione.
Gli dei, anch’essi spesso posseduti dall’ira, sono, nella concezione
omerica, le forze che mandano agli uomini la rabbia, inducendo in loro stati
d’animo brutali e distruttivi, oppure li calmano, fermandone la furia. Pur con
qualche differenza tra gli eroi dell’Iliade e il protagonista dell’Odissea, il tema
dell’ira determina lo svolgersi della vicenda narrativa, ed è sempre correlato a
un intervento divino: lo stesso Odisseo è spinto sul mare ad affrontare le sue
prove dall’ira implacabile di Posidone, mentre sarà quella di Giunone a
tormentare Enea. Tra le tante esplosioni d’ira, abbiamo scelto di farvi sentire
lo scontro tra Agammenone e Achille, che inizia con la velenosa invettiva
scagliata da Achille (I, vv.163-200). Ma Atena interviene, trattiene Achille al
quale offre, se saprà frenare la sua ira, astenendosi dall’uccisione dell’Atride,
“splendidi regali, tre volte maggiori di questo”, proponendogli quindi un
vantaggio, un utile, dal suo comportamento: si tratta di una ragione, quella
dell’utile che deriva da un’azione morale, che ritornerà poi con notevole
frequenza nella riflessione greca arcaica, che continua, almeno fino a Socrate,
a raccomandare il bene in quanto utile.

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1) L’ira inviata dagli dei: Iliade - I, vv.163-200 [3’08”][2_Kurtag-(Iliade)_Stele-Adagio]

«Non ho premio pari a te, io, mai, quando gli Achei


strappano a Troia una rocca, forte di gente.
Ma il peso peggiore di guerra, i mille assalti,
reggono queste mie mani. Poi c’è spartizione,
alto è il tuo premio, eccellente: a me piccola cosa,
la stringo, e torno alle navi, rotto da sforzo di guerra.
Basta. Vado a Ftia. Sì, è immenso guadagno
spingermi a casa su navi rotonde. Non voglio
essere uno qualunque che te copre d’oro e di beni».
E ribatteva, padrone d’armati, Agamennone, a lui:
«Fuggi, ritirati, se tale febbre ti sferza. Non m’inginocchio,
io, per farti restare da me. Altri ne ho intorno, io,
pronti a farmi più grande: e su tutti Zeus, la Mente!
Tu mi ripugni, più d’ogni altro signore, radice celeste.
Tu tieni nel sangue rissa, rabbia, battaglia.
Se hai tanta forza è regalo d’un dio, io dico.
Va’ a casa tua. Prenditi navi e uomini tuoi,
certo, padrone, ma di Mirmidoni. Non conti
tu per me. Rido ai tuoi scatti. Ma voglio avvisarti:
ora che Apollo Radioso mi predia Criseide
io la rimando, con scorta d’uomini miei,
su nave mia, ma prendo Briseide la bella,
tuo premio. Vengo io alla tenda. Tu capirai
quanto io ti sovrasti. Avranno orrore gli altri
tutti, a vantarsi miei pari, con me, a viso aperto!».
Tacque. Nacque l’amaro in Achille. Il cuore
altalenava nel petto lanoso, fra punti contrari:
uno, sfilare dal fianco la spada tagliente,
far vuoto davanti, stroncare l’Atride;
due, smorzare la bile, imbrigliare la febbre.
Già sfoderava dal cavo la lama, ed ecco dal cielo
scese Atena: Era l'aveva inviata, braccia di luce,
dea possessiva, imparziale d'affetto coi due.
Statua dietro il Pelide, Atena gli prese i capelli
fulvi, visione a lui solo, invisibile ad altri.
Fremito sacro, in Achille. Gira la faccia, conosce
Pallade Atena, occhi arcani, strani, accesi su lui...
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3) Intorno al V secolo a.C., si afferma, nel rapporto tra uomini e dei, una visione che fa degli dei non più
i mandanti, i promotori, dei sentimenti umani di rabbia, ma, al contrario, li pone come destinatari.
La tragedia greca nasce proprio all'insegna di questo dialogo, concitato e doloroso, tra i personaggi
del mito e gli dei, lamentati come ostili, o assenti: questa sorta di contestazione, che prende, di volta
in volta, accenti e sfumature diverse, è la cifra costitutiva della tragedia greca. Abbiamo scelto, per
illustrarvela, due brani, tratti dall'Agamennone di Eschilo e dall'Eracle di Euripide: il primo
pronunciato dal coro, è una potente invettiva contro Ares, il dio della guerra, che rimanda da Troia
a casa “incenerito pulviscolo degli eroi morti”; il secondo è un forte atto di accusa pronunciato da
Anfitrione nei confronti di Zeus, colpevole di non curare e proteggere la sua stessa progenie, Eracle.
Anfitrione è il marito di Alcmena, amata da Zeus, che non esita a prendere l’aspetto di Anfitrione
per entrare nel suo letto e possederla: nasce così Eracle, figlio di Zeus, non di Anfitrione, che pure lo
ama e cerca, per quanto è nel suo potere limitato di essere umano, di proteggerlo.

2a) L’ira contro gli dei [G.Kurtag – Ligatura; Op.31/B] [1’25”]

Eschilo – Agamennone – Coro (II canto, strofe III)


Ares, cambiavalute
Che permuta corpi e alza la bilancia
nello scontro delle lame
Da Troia rimanda alle famiglie
incenerito pulviscolo
peso di disperate lacrime
riempie di cenere
il prezzo di un uomo
le urne capaci

Euripide – Eracle - Anfitrione


Tu non fosti quell’entità
Amica che parevi, Zeus
Tu sei dio Maestoso.
Ma io, uomo destinato alla morte,
Valgo molto più di te.
Non tradisco io, i figli di Eracle.
Ma tu? Tu che hai saputo
Intrufolarti come un ladro
Nel letto di una donna
E rubare la sposa di un altro
Ora tu non sai i modi
Per salvare creature tue
O sei un dio incapace
O non c’è giustizia nella fibra tua.
4) A questi brani abbiamo accostato una poesia di Hö lderlin, che ci sembra in linea con l'umana, dolorosa
protesta contro gli dei che però in qui non sono ostili sono semplicemente lontani, chiusi nella loro vita
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sicura e immortale. Il brano è tratto dal Canto del destino di Iperione che Brahms utilizzò per una delle sue
più belle pagine per coro e orchestra. Ne abbiamo usato alcuni frammenti.

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2b) L’ira contro gli dei [Brahms Schicksalslied – montaggio]

Hö lderlin: Il Canto del Destino di Iperione


(mia traduzione modificata da Mandruzzato)

Camminate lassù nella luce


per morbide vie, Geni felici;
aliti divini d'aria luminosa
vi sfiorano leggermente
come dita d'artista
corde sacre.

Fuori del Fato


come neonato che dorme
respirano gli Immortali:
puro e protetto
in una gemma non appariscente
fiorisce eterno il loro spirito,
e gli occhi felici
guardano in una calma
eterna chiarezza.
(cambio tempo musica )

(transizione) Ma... a noi…


Ma a noi non è dato
riposare in un luogo,
svaniscono precipitano
i mortali dolenti, da una
all'altra delle ore, ciecamente,
come acqua di scoglio
in scoglio lungo gli anni (aspetta la pausa)
giù … (a secco) … giù nell'Ignoto.

Ma, dopo Auschwitz, per Paul Celan gli dei non sono lontani, forse, semplicemente, non sono.

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2c) L’ira contro gli dei [5_Cage_(Celan)_Five per 5 voci–V]

Paul Celan
SALMO (Psalm) da La rosa di nessuno (Die Niemandsrose)

Cage_Five/5°_for-five-voices
aspetta la II voce

Nessuno c’impasta di nuovo, da terra e fango,


nessuno insuffla la vita alla nostra polvere.
Nessuno.

Che tu sia lodato, Nessuno.


È per amor tuo
che vogliamo fiorire.
Incontro a
te.

Noi un Nulla
fummo, siamo, reste-
remo, fiorendo:
la rosa del Nulla,
la rosa di Nessuno.

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4a) Gli antichi poeti svilupparono temi di rabbia non solo nel contesto epico o tragico,
proiettandola sugli o contro gli dei, ma anche nella lirica, dove il tema della rabbia assume
indimenticabili accenti personali: in una rude poesia (che vi proponiamo nella traduzione di
Salvatore Quasimodo) Archiloco (VII sec. a. C.) augura a un tale di venir portato via dalle acque e
gettato sulle sponde nordiche, dove vivono i Traci, a condurre una triste esistenza su quelle terre,
segnate dall’inclemenza del clima e degli abitanti:

3a) L’Ira personale (a secco)

Archiloco (700 circa-650 circa a. C) [0’45”]

All’amico di un tempo
(Salvatore Quasimodo)

Lungamente travolto dai marosi


tu sia sbattuto contro Salmidesso,*
nudo, di notte, mentre in noi fa quiete.
E spossato, con ansia della riva
tu rimanga a ciglio del frangente,
nel freddo, stridendo i denti,
come un cane, riverso sulla bocca;
e il flusso continuo dell'acque
ti copra fitto d'alghe.
Così ti prendano i Traci, che in alto
annodate portano le chiome,
e con loro tu nutra molti mali
mangiando il pane dello schiavo.
Questo vorrei vedere che tu soffra,
tu che m'eri amico un tempo
e poi mi camminasti sopra il cuore.
* Chiedere a Rossana di chiarire che si tratta della penisola abitata dai Traci

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4b) Inaspettatamente veniamo a sapere che l’oggetto di tante maledizioni era una volta suo
amico: ma non è solo l’amicizia tradita ad accendere l’ira di Archiloco, è anche un senso della
giustizia offesa. La poesia è qualcosa di più di una maledizione, o di un’invettiva, alla maniera
omerica, c’è (emerge alla fine) un senso di smarrimento, di dolore personale. Nella stessa
tonalità ci sembra scritta una poesia di Heine: non è un caso che parliamo di tonalità , perché su
questi versi Schumann compone un Lied, nel ciclo dei Dichterliebe, Ich grolle nicht.

3b) L’Ira personale

HEINE
Non ho rancore
(mia traduzione)

[Schumann: “Ich grolle nicht” (trascr. per cl. e pf.) S. Goncharov, cl.-I.Krivchenko, pf.]

Non ho rancore, anche se mi si spezza il cuore


Eterno mio perduto amore non ho rancore
Anche se splendi nel fasto di diamanti
Nessun raggio cade nella notte del tuo cuore

Lo so da tempo. T’ho vista in sogno, sai


Vidi le tenebre al posto del tuo cuore
la serpe ho visto divorarti il cuore
e ho visto, amore, quanto miserabile sei

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4c) Un altro poeta che si fa ispirare dalla rabbia, e da quel particolare sentimento (o emozione) che è
la rabbia d'amore, a complicargli la poesia e la vita, è Catullo: nel carme 42 il poeta si rivolge ai suoi stessi
versi, incitandoli contro la donna un tempo amata:

3c) L’Ira personale

Catullo carme 42 (trad. Mario Ramus) [1’26”]


[7 Pavor_(Catullo)_Synaulia]

Avanti, endecasillabi, accorrete,


tutti, tutti quanti, dovunque siete, tutti.
Beffandosi di me questa puttana infame
non vuole più restituirmi i taccuini
dove siete scritti: non permettetelo.
Non diamole respiro, li rivoglio.
Se vi preme saperlo, è questa che dimena
il culo e ride sguaiata mostrando i denti
come una baldracca, un cane randagio.
Circondatela e gridatele addosso:
«Lurida puttana, restituiscili,
restituiscili, puttana lurida».
Te ne freghi? Sei una fogna, una troia,
la carogna più infame che ci sia.
Ma questo evidentemente non basta.
Se non altro, che bruci di vergogna,
femmina di bronzo, muso di cagna.
Gridatele addosso ancora più forte:
«Lurida puttana, restituiscili,
restituiscili, puttana lurida».
Niente, niente la scuote.
Bisognerà proprio cambiare tono,
se vogliamo ottenere qualcosa: (stop musica – cambia tono)
“Di grazia, fiore d'ogni virtù , rendimi i taccuini”. > Musica! >>>fade out

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5a) Un binomio davvero esplosivo, rabbia e amore: per trattarlo con leggerezza ci vuole un grande
poeta, capace di descrivere con la stessa, elegante, rapidità i cavalli al galoppo e le intermittenze del
cuore umano. Si tratta di Ludovico Ariosto, non a caso poeta amatissimo da Italo Calvino, che ha colto
dell'Orlando furioso la nota dominante: una visione giocosa e ironica della vita e dei suoi accidenti.

4a) Ira e Amore Ariosto – Orlando Furioso (a secco)


[Ottave 1,2; 134,135] [1’55”]

1
Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,
le cortesie, l’audaci imprese io canto,
che furo al tempo che passaro i Mori
d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,
seguendo l’ire e i giovenil furori
d’Agramante lor re, che si diè vanto
di vendicar la morte di Troiano
sopra re Carlo imperator romano.
2
Dirò d’Orlando in un medesmo tratto
cosa non detta in prosa mai, né in rima:
che per amor venne in furore e matto,
D'uom che sì saggio era stimato prima;

Tema principale del poema è come Orlando divenne, da innamorato sfortunato di Angelica, matto
furioso, e come le armate cristiane, per la sua assenza, rischiarono di perdere la Francia, e di come la
ragione smarrita dal folle fu ritrovata da Astolfo sulla luna e ricacciata in corpo al legittimo
proprietario permettendogli di riprendere il suo posto nei ranghi.
Cosa scatena la rabbia e la follia di Orlando? Il poeta lo raffigura mentre, passeggiando in un bosco,
vede che i tronchi degli alberi sono pieni di scritte e di incisioni: cuori trafitti, nodi che si allacciano,
colombe. E ci sono delle firme: Angelica e Medoro. Evidentemente, pensa Orlando, Angelica mi ha
soprannominato "Medoro", perché non osa scrivere "Orlando"; e poi in una grotta, su una parete legge:
"Oh star qui con la principessa Angelica abbracciato mattina e sera oh com'è bello". Firmato: "Medoro".
Orlando riflette: "Dunque, se Medoro sono io, e non sono stato io a scrivere questo, allora Angelica,
fantasticando di star qui abbracciata con me, deve essersi messa a scrivere queste cose per
rappresentarsi quel che io avrei provato". Spiegazione ingegnosa, ma non convincente: alla fine
Orlando capisce e dà sfogo a tutta la sua rabbia, svellendo "come fosser finocchi" alberi alti e possenti.

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In tanta rabbia, in tanto furor venne,
che rimase offuscato in ogni senso.
Di tor la spada in man non gli sovenne;
che fatte avria mirabil cose, penso.
Ma né quella, né scure, né bipenne
era bisogno al suo vigore immenso.
Quivi fe’ ben de le sue prove eccelse,
ch’un alto pino al primo crollo svelse:
135
e svelse dopo il primo altri parecchi,
come fosser finocchi, ebuli o aneti;
e fe’ il simil di querce e d’olmi vecchi,
di faggi e d’orni e d’illici e d’abeti. 

5b) Un altro poeta, Torquato Tasso, contrappone all'ironia ariostesca la sua disperata visione
dell'amore, e della vita, col forte conflitto tra anima e corpo. Il combattimento tra Clorinda, valorosa
guerriera pagana, e Tancredi, il cavaliere cristiano, segretamente innamorato di lei, è un tragico duello,
nel corso del quale Tancredi uccide, scambiandola per un guerriero nemico, Clorinda, ma ne salva
l'anima, impartendole il battesimo.
Il combattimento di Tancredi e Clorinda è uno dei Madrigali guerrieri et amorosi composti da Claudio
Monteverdi. Vi proponiamo una breve sequenza delle ottave tassiane, intervallate da frammenti
strumentali tratti dall'opera di Monteverdi:

4b) Ira e Amore Torquato Tasso

Dalla Gerusalemme liberata (XII, ottave 52-68) [2’35”]


[Monteverdi_1°Incipit-Strumentale.]

52
Tancredi che Clorinda un uomo stima
vuol ne l'armi provarla al paragone.
Va girando colei l’alpestre cima
verso altra porta, ove d’entrar dispone.
Segue egli impetuoso, onde assai prima
che giunga, in guisa avien che d’armi suone,
ch’ella si volge e grida: «O tu, che porte,
che corri sì?» Risponde: «E guerra e morte.»

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53
«Guerra e morte avrai;» disse «io non rifiuto
darlati, se la cerchi», e ferma attende.
Non vuol Tancredi, che pedon veduto
ha il suo nemico, usar cavallo, e scende.
E impugna l’uno e l’altro il ferro acuto,
ed aguzza l’orgoglio e l’ire accende;
e vansi a ritrovar non altrimenti
che duo tori gelosi e d’ira ardenti. >>> dissolvi musica

Nel racconto di Tasso i due personaggi sono entrambi preda dell'ira: peraltro, per Monteverdi tre sono le
principali passioni dell'animo: ira, temperanza e umiltà , alle quali corrispondono tre generi musicali:
concitato, temperato e molle. Nella Prefazione al componimento Monteverdi lamenta l'assenza del genere
concitato, e ad esso dedica il suo impegno, scegliendo proprio il Combattimento come testo di prova ideale
per esprimere momenti ( e movimenti) di conflitto:

Monteverdi_2°Crescendo-strumentale (x4 in Klimax) Attacco io. Subito dopo la musica

Odi le spade orribilmente urtarsi


a mezzo il ferro, il piè d’orma non parte;
sempre è il piè fermo e la man sempre ’n moto,
né scende taglio in van, né punta a vò to.
56
L’onta irrita lo sdegno a la vendetta,
e la vendetta poi l’onta rinova;
onde sempre al ferir, sempre a la fretta
stimol novo s’aggiunge e cagion nova…

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Dopo l'accanimento della battaglia, una pausa. Tancredi chiede allo sconosciuto cavaliere di rivelare il suo
nome; Clorinda nega la sua identità e, anzi, irrita maggiormente Tancredi:

Monteverdi_3°Ottave. 60 e 61

pregoti (se fra l’arme han loco i preghi)


che ’l tuo nome e ’l tuo stato a me tu scopra,
acciò ch’io sappia, o vinto o vincitore,
chi la mia morte o la vittoria onore.»

61
Risponde la feroce: «Indarno chiedi
quel c’ho per uso di non far palese.
Ma chiunque io mi sia, tu inanzi vedi
un di quei due che la gran torre accese.»
Arse di sdegno a quel parlar Tancredi,
e: «In mal punto il dicesti»; indi riprese
«il tuo dir e ’l tacer di par m’alletta,
barbaro discortese, a la vendetta.»

La lotta riprende improvvisa e violentissima ("Torna l'ira nei cuori e li trasporta"), con un forte
mutamento espressivo: Clorinda viene ferita a morte. Tardivo il riconoscimento di Tancredi, che come
quasi tutti i personaggi della Gerusalemme liberata, vive un dramma interiore, ed è portatore di
inquietudini e dubbi, destinato a soccombere, nel fatale intreccio delle situazioni e dell'incapacità
umana di riconoscersi reciprocamente, e accogliersi.

67
Poco quindi lontan nel sen del monte
scaturia mormorando un picciol rio.
Egli v’accorse e l’elmo empié nel fonte,
e tornò mesto al grande ufficio e pio.
Tremar sentí la man, mentre la fronte
non conosciuta ancor sciolse e scoprio.
La vide, la conobbe, e restò senza
e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza!

68
Non morí già , ché sue virtuti accolse
tutte in quel punto e in guardia al cor le mise,
e premendo il suo affanno a dar si volse
vita con l’acqua a chi co ’l ferro uccise.
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6a) L'ultimo segmento del nostro percorso sulla rabbia affronta il tema della rabbia in politica: tema attuale in
questi tempi, dominati da un senso di sconcerto e di disorientamento. Ma sentite cosa scriveva un antico poeta,
Giovenale, che si sente, ed è, un emarginato.

5a) Rabbia Politica [12_Giovenale_Anonimo_Sambuca-Silences_Synaulia]

Giovenale - Satire – III


(l'inferno di Roma)

A Roma non c'è più posto per un ciarlatani famosi di città in città ;
lavoro onesto, ora offrono giochi
non c'è compenso alle fatiche; e quando la plebaglia abbassa il
meno di ieri è ciò che oggi possiedi pollice
e a nulla si ridurrà domani; decretano la morte per ottenerne il
per questo ho deciso di andarmene favore;
là dove Dedalo depose le sue ali poi, di ritorno, appaltano latrine.
stanche, E perché mai non altro?
finché un accenno è la canizie, Sono loro quelli che la fortuna,
aitante la prima vecchiaia quando è in vena di scherzi,
e a Lachesi resta ancora filo da dal fango solleva ai massimi gradi.
torcere: Ma che ci faccio io a Roma?
mi reggo bene sulle gambe Non so mentire. Se un libro è
e senza appoggiarmi a un bastone: mediocre
giusto il tempo per lasciare la patria. non ho la faccia di lodarlo o di
Artorio e Cà tulo ci vivano, citarlo;
ci rimanga chi muta il nero in bianco, non so nulla di astrologia;
chi si diverte ad appaltare case, fiumi non voglio e mi ripugna
e porti, pronosticare la morte di un padre;
cloache da pulire, cadaveri da non ho mai studiato le viscere di
cremare rana;
e vite da offrire all'incanto per diritto passare ad una sposa
d'asta. bigliettini e profferte dell'amante
Un tempo suonavano il corno, lo sanno fare altri,
comparse fisse delle arene di e di un ladro mai sarò complice:
provincia,

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Dopo Giovenale, accanto a lui, un altro poeta, Giovanni Raboni, che guarda il presente con dolore e insofferenza:
quella che ora sentiremo è la sua ultima poesia, pubblicata sul "Corriere della sera" del 16 novembre 2004, un
mese prima della sua morte.

5b) Rabbia Politica [14_Raboni_Barber_Adagio-for-Strings, Op.11]

Giovanni Raboni (1932-2004)


CANZONE DEL DANNO E DELLA BEFFA♣

Stillicidio di delitti, terribile:


si distruggono vite,
si distruggono posti di lavoro,
si distrugge la giustizia, il decoro
della convivenza civile.
E intanto l'imprenditore del nulla,
il venditore d'aria fritta,
forte coi miserabili
delle sue inindagabili ricchezze,
sorride a tutto schermo
negando ogni evidenza, promettendo
il già invano promesso e l'impossibile,
spacciando per paterno
il suo osceno frasario da piazzista.
Mai così in basso, così simile
(non solo dirlo, anche pensarlo duole)
alle odiose caricature
che da sempre ci infangano e sfigurano...
Anche altrove, lo so,
si santifica il crimine, anche altrove
si celebrano i riti
del privilegio e dell'impunità
trasformati in dottrina dello Stato.
Ma solo a noi, già fradici
di antiche colpe e remissioni,
a noi prima untori e poi vittime
della peste del secolo
è toccata, con il danno, la beffa,


♣ È questa la sua ultima poesia, pubblicata dal "Corriere della sera" del 16 novembre 2004
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RABBIA
una farsa in aggiunta alla sventura.
Un tono alto e testamentario, da "accordo di preludio", come scrisse Fortini, un grido di apertura, di chi si
nega un grido finale, è Shemà, la pagina introduttiva di Se questo è un uomo di Primo Levi. Il modello è
quello dell'apostrofe, che ricorre nella Bibbia, soprattutto in Giobbe e nell'Ecclesiaste. L'orazione intitolata
Shemà è per gli Ebrei una sorta di atto di fede che inizia con le parole "Ascolta, Israele..." e termina con
l'esortazione a non dimenticare e a trasmettere ai figli la nozione fondamentale dell'unicità di Dio. Nella
poesia di Levi, però , l'obbligo del ricordo non è più relativo a Dio, ma al male, che a differenza del Dio
silenzioso e distante, è onnipresente e, dappertutto, drammaticamente visibile. Al testo di Levi abbiamo
accostato, infine, una poesia di Sofri, che ad esso si rifà , nel tono, nell'ispirazione, nell'invito rivolto a noi,
qui e ora, a non distogliere lo sguardo dai vinti, da tutti i vinti, che non sono nemici in battaglia, ma vittime
della terribile storia di questi anni.

5c) Rabbia Politica - (a secco)

Primo Levi
Shemà

Voi che vivete sicuri


nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un si o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza d ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa e andando per via,
coricandovi alzandovi;
ripetetele ai vostri figli
o vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.

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RABBIA

5d) Rabbia Politica [Gorecki – Miserere]


Adriano Sofri
Nei ghetti d’Italia
Questo non è un uomo

Di nuovo, considerate di nuovo Che invidia la galera


Se questo è un uomo, (un buon posto per impiccarsi)
Come un rospo a gennaio, Che piscia coi cani,
Che si avvia quando è buio e nebbia Che azzanna i cani senza padrone,
E torna quando è nebbia e buio, Che vive tra un No e un NO,
Che stramazza a un ciglio di strada, Tra un Comune commissariato per
Odora di kiwi e arance di Natale, mafia
Conosce tre lingue e non ne parla E un Centro di Ultima Accoglienza,
nessuna, E quando muore, una colletta
Che contende ai topi la sua cena, Dai suoi fratelli a un euro all’ora
Che ha due ciabatte di scorta, Lo rimanda oltre il mare, oltre il
Una domanda d’asilo, deserto
Una laurea in ingegneria, una Alla sua terra- “A quel paese!”
fotografia, Meditate che questo è stato,
E la nasconde sotto i cartoni, Che questo è ora,
E dorme sui cartoni della Rognetta, Che Stato è questo,
Sotto un tetto d’amianto, Rileggete i vostri soggetti sul
O senza tetto, Problema
Fa il fuoco con la monnezza, Voi che adottate a distanza
Che se ne sta al posto suo, Di sicurezza, in Congo, in
In nessun posto, Guatemala,
E se ne sbuca, dopo il tiro a segno, E scrivete al calduccio, né di qua né
“Ha sbagliato!” di là,
Certo che ha sbagliato, Né bontà, roba da Caritas, né
L’Uomo Nero Brutalità, roba da affari interni,
Della miseria nera, Tiepidi, come una berretta da notte,
Del lavoro nero, e da Milano, E distogliete gli occhi da questa
Per l’elemosina di un’attenuante Che non è una donna
Scrivono grande: NEGRO, Da questo che non è un uomo
Scartato da un caporale, Che non ha una donna
Sputato da un povero cristo locale, E i figli, se ha figli, sono distanti,
Picchiato dai suoi padroni, E pregate di nuovo che i vostri nati
Braccato dai loro cani, Non torcano il viso da voi
Che invidia i vostri cani,
La rabbia nella natura. [riserva] Da Lucrezio a Bergazzano

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RABBIA
1) Per molto tempo gli uomini si sono sentiti in balìa di forze esterne, superiori, incontrollabili, invincibili, a cominciare dalle
forze della natura, spesso divinizzate. Già in epoca antichissima, il mito nasce come risposta allo stimolo della natura, e si
sedimenta in una tenace, ininterrotta tradizione letteraria.
Le manifestazioni dell’attività vulcanica – eruzioni, terremoti, acque termali – vengono connesse a mostri giganteschi e
orribili, tenuti incatenati sottoterra dalle divinità del cielo: Tifeo, l’ultimo figlio di Gea e Tartaro, il mostro dalle cento teste, il
più orribile dei nemici domati da Zeus, era più alto delle montagne, sfiorava le stelle e, quando allargava le braccia, toccava
l’occidente e l’oriente. Quando egli aveva osato competere con Zeus per il dominio del mondo, il dio lo vinse, e la terra si
sciolse nella vampa del fuoco: questo racconta Eschilo, Pindaro, nella I Pitica: gli studiosi hanno letto in questi versi il ricordo
recente di una eruzione (del 475 a. C., secondo la testimonianza di Tucidide). Il nome Tifeo richiama il verbo tyfo o tyfoo
(“mando fumo”), la tradizione pone la sua nascita in Cilicia, terra vulcanica, ma ora è sepolto sotto l’Etna in Sicilia e il mostro
è visibile, udibile, dicono i poeti, e la sua rabbia, come un liquido incandescente, salirà lungo le pareti del vulcano e ne uscirà
fuori spumeggiando e devastando i vasti campi della fertile Sicilia: cfr. Pindaro, I Pitica, vv. 25-53

Ma quelli che Zeus non amò


il grido alto delle Muse sgomina
sulla terra e sul mare interminabile
e nel Tartaro orribile
il nemico degli Dei,
Tifeo dalle cento teste.
Una caverna dai molti nomi
lo nutrì, in Cilicia, un tempo;
ora le rive ardue sopra Cuma
che fanno siepe al mare, e la Sicilia
schiacciano il suo petto lanoso;
l'Etna nevosa, pilastro del cielo,
nutrice dell'acuto inverno perenne,
lo domina. Dal profondo sgorgano
purissime sorgenti
di fuoco inaccessibile,
fiumi – nel giorno – che portano
flusso di fumo acceso,
e – la notte – la fiamma rossa
travolge pietre fragorose
verso la piana d'un profondo mare.
Queste immani fontane di fuoco
suscita il drago.
Prodigio che stupisce chi lo vede,
e stupisce il racconto di chi vide.
Lo imprigionano il suolo
e le vette dell'Etna nere di selve;
la giacitura irta strazia il dorso supino.
Piacerti, piacerti, o Zeus!

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RABBIA
2) Un altro grande poeta ci ha lasciato versi grandiosi riferiti allo stesso vulcano, l'Etna, la cui violenza
è collocata però in uno scenario radicalmente diverso: nel de rerum natura Lucrezio descrive
un'eruzione del vulcano, soffermandosi sui sentimenti di angoscia e di terrore che essa determina
negli uomini. A questi sentimenti il poeta oppone la lucida, sicura, spiegazione delle ragioni
dell'evento, ragioni che non risiedono nella collera di un qualunque dio, ma nella natura, che opera
in una dimensione infinita, rispetto alla quale l'uomo è piccolissima cosa, in una scala e un metro
del tutto esorbitanti rispetto ai nostri. Il de rerum natura non è solo un poema didattico sulla fisica
e la natura delle cose, è un invito alla sapienza, un'esortazione alla ricerca della felicità . La dottrina
di Epicuro, con il suo atomismo, si identifica per Lucrezio con la dottrina della salvezza per gli
uomini prigionieri di errori, di paure e di dubbi, di cui Lucrezio sa cogliere e interpretare
poeticamente tutte le gradazioni. In questo modo Lucrezio tiene insieme da una parte cosmo e
natura, dall'altra l'uomo. La fisica e l'etica, la natura da indagare e descrivere, l'uomo da risanare.
Per ottenere questo scopo, Lucrezio rinuncia all'atteggiamento miracolistico verso le cose naturali:
la natura, il vulcano in questo passo, sono descritti in tutta la loro maestà oggettiva, non hanno
bisogno di retoriche sorprendenti. Il poeta si propone di spiegare, di far capire: la cifra che
caratterizza il de rerum natura è costituita da formule ricorrenti: ora ti spiegherò , non est
mirandum, nec mirum, non c'è da meravigliarsi di questo o quel fenomeno, perché esso è connesso
necessariamente con questa regola oggettiva, immeritevole di stupore per chi abbia capito i
principi delle cose.
(Lucrezio - De Rerum Natura – Libro VI vv.680-697)

[…]
Ma ora spiegherò in qual modo quella fiamma, suscitata
all'improvviso, spiri fuori dalle vaste fornaci dell'Etna.
Anzitutto la natura dell'intero monte ha cavità sotterranee,
quasi fondata su caverne di silice.
In tutte le sue caverne vi è poi aria e vento.
L'aria infatti diviene vento quando è stimolata dall'agitarsi 685
d'una forza. Quando il vento si surriscalda e infuriando comunica
il calore a tutte le rocce intorno e alla terra, dove le tocca,
e ne suscita fuoco ardente in veloci fiamme,
si leva per le diritte fauci e s'avventa in alto.
Così proietta il suo ardore lontano e lontano disperde
le sue faville e volge una fumea di fitta caligine,
e insieme scaglia fuori macigni di straordinario peso;
affinché non dubiti che questa sia la forza turbinosa dell'aria.
Inoltre il mare da ampio tratto frange le onde
contro le radici di quel monte e assorbe il riflusso.
Da questo mare caverne sotterranee si spingono sino alle profonde
fauci del monte. […]

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RABBIA
3) Adesso cambiamo paesaggio vulcanico…

Qui su l'arida schiena


Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null'altro allegra arbor nè fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti…
Come Lucrezio, Leopardi è un poeta cosmico, capace di inserire le vicende umane in quelle dell'universo,
evitando nel contempo ogni forma di compiaciuto antropocentrismo. Leopardi pensa in una dimensione
cosmica, memore delle sue giovanili letture di Galilei e di Newton: la sua è perciò anche una poesia
dell’intelligenza, che fa del sapere filosofico e scientifico un proprio oggetto pur all’interno di immagini di
grande suggestione e bellezza.
Il vulcano descritto è questa volta il Vesuvio, che rappresenta per Leopardi, seguace della teoria plutonista
o vulcanista, il memento, la traccia, di come era il pianeta, e in particolare l’Italia, in passate ere geologiche
(così nei Prolegomeni alla batracomiomachia). Alla fine, ogni essere, compreso l’uomo, verrà distrutto dalle
stesse potenze naturali che hanno contribuito a creare le condizioni della sua esistenza (i fertili terreni
lavici della zona vesuviana). Ma questo individuo non sarà così vile da rivolgersi come un supplice a queste
forze – o a qualsiasi divinità che le comandi – nella vana speranza di essere risparmiato, né così superbo da
ignorarle e da credere di averle sconfitte grazie ai progressi della scienza e della tecnica. L. riafferma
l’aspetto terribile della storia naturale dell’umanità contro i liberali italiani, quelli che negli anni venti e
trenta dell’Ottocento si raccolgono attorno a Niccolò Tommaseo, che hanno dimenticato la lezione
dell’Illuminismo, in particolare quella di Candido di Voltaire, e scambiano la regressione con il progresso:
vv. 39-58;
qui la rabbia è del poeta verso gli uomini, non del vulcano:

A queste piagge
Venga colui che d'esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All'amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell'uman seme,
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le magnifiche sorti e progressive.

23
RABBIA
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E proceder il chiami.
A questi dissennati il poeta oppone colui che ha capacità di valutare
le cose in modo giusto, colui…

Che a sollevar s'ardisce


Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra se nel soffrir…
Nel suo atteggiamento di sfida alla natura, l’uomo leopardiano certo morrà , ma non sarà intimamente
sconfitto: perirà , al pari della ginestra, senza chinare il capo, mostrando dignità nella sconfitta, non
implorando pietà alle forze naturali, ma nemmeno credendo di poterle superare, esagerando
superbamente la propria importanza (vv. 297-317):

E tu, lenta ginestra,


Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Nè sul deserto, dove
E la sede e i natali
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RABBIA
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.

5) Lo sguardo che il mondo moderno getta, ammirato, sui vulcani, facendone oggetto di appassionato
interesse, è molto diverso dalla preoccupata, e saggia, visione degli antichi: tra i tanti, la voce di Stazio ci
colpisce con la sua malinconica pietas verso l’umanità sepolta, o meglio non sepolta, ma sotterrata
dall’eruzione del vulcano: la lava e la vegetazione che ricoprono edifici e rovine ricordano all’uomo che, al
di là di ogni suo sforzo, ovunque la natura rinasce prepotente e indifferente (Le selve IV, 4, vv. 76-83):

(Publio Papinio Stazio – Silvae IV, 4, vv.76-83)


Questo canto, o Marcello, io faccio risuonare per te sulle spiagge
calcidiche, dove il Vesuvio innalza la sua ira ormai esplosa
emanando fiamme simili a quelle del vulcano della Trinacria
Quanta incredibile fiducia! Crederanno mai le umane generazioni
future, quando vedranno di nuovo le messi e questi aridi 80
luoghi verdeggiare, che sotto i loro piedi siano sepolti popoli e città ,
che campagne avite siano state del tutto inghiottite dal mare?
Il letale cratere non ha ancora cessato di minacciare.

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RABBIA
6) “Quanta incredibile fiducia” (Mira fides), dice il poeta, commentando l’incosciente leggerezza degli
uomini che non pensano alle minacce future; eppure il Vesuvio ha più volte distrutto vite e opere umane.
Ma non vogliamo lasciarvi, stasera, con ricordi di sconfitte. Una delle successive, frequenti eruzioni del
vulcano, quella del 1631, è oggetto di una divertente parodia, nella quale l’autore, G.B. Bergazzano, che si
definisce “barbiere e poeta”, assume le vesti di Bacco, rivolgendosi al Vesuvio, e lamentandone la crudele
opera devastatrice:

Giovan Battista Bergazzano (1576-1648)


“Bacco arraggiato co’ Vorcano”

Bella prova ch’aie fatto o’ sio Vorcano,


scrivilo a lo paese,
m’aie brosciato no monte, che faceva la lacrema zocosa,
e no grieco de spanto;
che te serveva frate
aghionghere craù ne a tanta vrasa?
Bello schuoppo, c’aie fatto;
l’arvole de percoca, e de cerasa
se so’ ghite ‘nfummo;
le bite d’uva aglià neca mmaresse
hanno fatto na brava lommenaria:
o negrecato Bacco;
o scure veveture, perché so’ ghiute a mitto
de lo grieco de Somma li sapure:
li botte, e li parmiente,
‘ncagno de dà ricietto a lo buon vino
serveno pe tavute
de la gente arrostute!

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