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(l’ordine è provvisorio)
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♣ È questa la sua ultima poesia, pubblicata dal "Corriere della sera" del 16 novembre 2004
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RABBIA
Introduzione
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RABBIA
Wisława Szymborska
L'odio [3'16"]
[1_Chopin: Fantasia in fa- Op.49 – Incipit]
Guardate com'è sempre efficiente, Lui solo trascina, che sa il fatto suo.
come si mantiene in forma Capace, sveglio, molto laborioso.
nel nostro secolo l'odio. Occorre dire quante canzoni ha
Con quanta facilità supera gli composto?
ostacoli. Quante pagine ha scritto nei libri di
Come gli è facile avventarsi, storia?
agguantare. Quanti tappeti umani ha disteso
Non è come gli altri sentimenti. su quante piazze, stadi?
Insieme più vecchio e più giovane di Diciamoci la verità :
loro. sa creare bellezza.
Da solo genera le cause Splendidi i suoi bagliori nella notte
che lo fanno nascere. nera.
Se si addormenta, il suo non è mai un Magnifiche le nubi degli scoppi
sonno eterno. nell'alba rosata.
L'insonnia non lo indebolisce, ma lo Innegabile è il pathos delle rovine
rafforza. e l'umorismo grasso
Religione o non religione - della colonna che vigorosa la
purchè ci si inginocchi per il via. sovrasta.
Patria o non patria - E' un maestro del contrasto
purchè si scatti alla partenza. tra fracasso e silenzio,
Anche la giustizia va bene all'inizio. tra sangue rosso e neve bianca.
Poi corre tutto solo. E soprattutto non lo annoia mai
L'odio. L'odio. il motivo del lindo carnefice
Una smorfia di estasi amorosa sopra la vittima insozzata.
gli deforma il viso. In ogni istante è pronto a nuovi
Oh, quegli altri sentimenti - compiti.
malaticci e fiacchi. Se deve aspettare, aspetterà .
Da quando la fratellanza Lo dicono cieco. Cieco?
può contare sulle folle? Ha la vista acuta del cecchino
La compassione è mai e guarda risoluto al futuro
arrivata per prima al traguardo? - lui solo.
Il dubbio quanti volenterosi trascina?
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2) L’ira inviata dagli dei sugli uomini: Commento
2) Gli antichi preferivano parlare di ira: tutta l'Iliade è intrisa di ira a partire dai pri
due versi del poema:
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1) L’ira inviata dagli dei: Iliade - I, vv.163-200 [3’08”][2_Kurtag-(Iliade)_Stele-Adagio]
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2b) L’ira contro gli dei [Brahms Schicksalslied – montaggio]
Ma, dopo Auschwitz, per Paul Celan gli dei non sono lontani, forse, semplicemente, non sono.
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2c) L’ira contro gli dei [5_Cage_(Celan)_Five per 5 voci–V]
Paul Celan
SALMO (Psalm) da La rosa di nessuno (Die Niemandsrose)
Cage_Five/5°_for-five-voices
aspetta la II voce
Noi un Nulla
fummo, siamo, reste-
remo, fiorendo:
la rosa del Nulla,
la rosa di Nessuno.
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4a) Gli antichi poeti svilupparono temi di rabbia non solo nel contesto epico o tragico,
proiettandola sugli o contro gli dei, ma anche nella lirica, dove il tema della rabbia assume
indimenticabili accenti personali: in una rude poesia (che vi proponiamo nella traduzione di
Salvatore Quasimodo) Archiloco (VII sec. a. C.) augura a un tale di venir portato via dalle acque e
gettato sulle sponde nordiche, dove vivono i Traci, a condurre una triste esistenza su quelle terre,
segnate dall’inclemenza del clima e degli abitanti:
All’amico di un tempo
(Salvatore Quasimodo)
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4b) Inaspettatamente veniamo a sapere che l’oggetto di tante maledizioni era una volta suo
amico: ma non è solo l’amicizia tradita ad accendere l’ira di Archiloco, è anche un senso della
giustizia offesa. La poesia è qualcosa di più di una maledizione, o di un’invettiva, alla maniera
omerica, c’è (emerge alla fine) un senso di smarrimento, di dolore personale. Nella stessa
tonalità ci sembra scritta una poesia di Heine: non è un caso che parliamo di tonalità , perché su
questi versi Schumann compone un Lied, nel ciclo dei Dichterliebe, Ich grolle nicht.
HEINE
Non ho rancore
(mia traduzione)
[Schumann: “Ich grolle nicht” (trascr. per cl. e pf.) S. Goncharov, cl.-I.Krivchenko, pf.]
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4c) Un altro poeta che si fa ispirare dalla rabbia, e da quel particolare sentimento (o emozione) che è
la rabbia d'amore, a complicargli la poesia e la vita, è Catullo: nel carme 42 il poeta si rivolge ai suoi stessi
versi, incitandoli contro la donna un tempo amata:
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5a) Un binomio davvero esplosivo, rabbia e amore: per trattarlo con leggerezza ci vuole un grande
poeta, capace di descrivere con la stessa, elegante, rapidità i cavalli al galoppo e le intermittenze del
cuore umano. Si tratta di Ludovico Ariosto, non a caso poeta amatissimo da Italo Calvino, che ha colto
dell'Orlando furioso la nota dominante: una visione giocosa e ironica della vita e dei suoi accidenti.
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Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,
le cortesie, l’audaci imprese io canto,
che furo al tempo che passaro i Mori
d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,
seguendo l’ire e i giovenil furori
d’Agramante lor re, che si diè vanto
di vendicar la morte di Troiano
sopra re Carlo imperator romano.
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Dirò d’Orlando in un medesmo tratto
cosa non detta in prosa mai, né in rima:
che per amor venne in furore e matto,
D'uom che sì saggio era stimato prima;
Tema principale del poema è come Orlando divenne, da innamorato sfortunato di Angelica, matto
furioso, e come le armate cristiane, per la sua assenza, rischiarono di perdere la Francia, e di come la
ragione smarrita dal folle fu ritrovata da Astolfo sulla luna e ricacciata in corpo al legittimo
proprietario permettendogli di riprendere il suo posto nei ranghi.
Cosa scatena la rabbia e la follia di Orlando? Il poeta lo raffigura mentre, passeggiando in un bosco,
vede che i tronchi degli alberi sono pieni di scritte e di incisioni: cuori trafitti, nodi che si allacciano,
colombe. E ci sono delle firme: Angelica e Medoro. Evidentemente, pensa Orlando, Angelica mi ha
soprannominato "Medoro", perché non osa scrivere "Orlando"; e poi in una grotta, su una parete legge:
"Oh star qui con la principessa Angelica abbracciato mattina e sera oh com'è bello". Firmato: "Medoro".
Orlando riflette: "Dunque, se Medoro sono io, e non sono stato io a scrivere questo, allora Angelica,
fantasticando di star qui abbracciata con me, deve essersi messa a scrivere queste cose per
rappresentarsi quel che io avrei provato". Spiegazione ingegnosa, ma non convincente: alla fine
Orlando capisce e dà sfogo a tutta la sua rabbia, svellendo "come fosser finocchi" alberi alti e possenti.
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In tanta rabbia, in tanto furor venne,
che rimase offuscato in ogni senso.
Di tor la spada in man non gli sovenne;
che fatte avria mirabil cose, penso.
Ma né quella, né scure, né bipenne
era bisogno al suo vigore immenso.
Quivi fe’ ben de le sue prove eccelse,
ch’un alto pino al primo crollo svelse:
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e svelse dopo il primo altri parecchi,
come fosser finocchi, ebuli o aneti;
e fe’ il simil di querce e d’olmi vecchi,
di faggi e d’orni e d’illici e d’abeti.
5b) Un altro poeta, Torquato Tasso, contrappone all'ironia ariostesca la sua disperata visione
dell'amore, e della vita, col forte conflitto tra anima e corpo. Il combattimento tra Clorinda, valorosa
guerriera pagana, e Tancredi, il cavaliere cristiano, segretamente innamorato di lei, è un tragico duello,
nel corso del quale Tancredi uccide, scambiandola per un guerriero nemico, Clorinda, ma ne salva
l'anima, impartendole il battesimo.
Il combattimento di Tancredi e Clorinda è uno dei Madrigali guerrieri et amorosi composti da Claudio
Monteverdi. Vi proponiamo una breve sequenza delle ottave tassiane, intervallate da frammenti
strumentali tratti dall'opera di Monteverdi:
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Tancredi che Clorinda un uomo stima
vuol ne l'armi provarla al paragone.
Va girando colei l’alpestre cima
verso altra porta, ove d’entrar dispone.
Segue egli impetuoso, onde assai prima
che giunga, in guisa avien che d’armi suone,
ch’ella si volge e grida: «O tu, che porte,
che corri sì?» Risponde: «E guerra e morte.»
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«Guerra e morte avrai;» disse «io non rifiuto
darlati, se la cerchi», e ferma attende.
Non vuol Tancredi, che pedon veduto
ha il suo nemico, usar cavallo, e scende.
E impugna l’uno e l’altro il ferro acuto,
ed aguzza l’orgoglio e l’ire accende;
e vansi a ritrovar non altrimenti
che duo tori gelosi e d’ira ardenti. >>> dissolvi musica
Nel racconto di Tasso i due personaggi sono entrambi preda dell'ira: peraltro, per Monteverdi tre sono le
principali passioni dell'animo: ira, temperanza e umiltà , alle quali corrispondono tre generi musicali:
concitato, temperato e molle. Nella Prefazione al componimento Monteverdi lamenta l'assenza del genere
concitato, e ad esso dedica il suo impegno, scegliendo proprio il Combattimento come testo di prova ideale
per esprimere momenti ( e movimenti) di conflitto:
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Dopo l'accanimento della battaglia, una pausa. Tancredi chiede allo sconosciuto cavaliere di rivelare il suo
nome; Clorinda nega la sua identità e, anzi, irrita maggiormente Tancredi:
Monteverdi_3°Ottave. 60 e 61
61
Risponde la feroce: «Indarno chiedi
quel c’ho per uso di non far palese.
Ma chiunque io mi sia, tu inanzi vedi
un di quei due che la gran torre accese.»
Arse di sdegno a quel parlar Tancredi,
e: «In mal punto il dicesti»; indi riprese
«il tuo dir e ’l tacer di par m’alletta,
barbaro discortese, a la vendetta.»
La lotta riprende improvvisa e violentissima ("Torna l'ira nei cuori e li trasporta"), con un forte
mutamento espressivo: Clorinda viene ferita a morte. Tardivo il riconoscimento di Tancredi, che come
quasi tutti i personaggi della Gerusalemme liberata, vive un dramma interiore, ed è portatore di
inquietudini e dubbi, destinato a soccombere, nel fatale intreccio delle situazioni e dell'incapacità
umana di riconoscersi reciprocamente, e accogliersi.
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Poco quindi lontan nel sen del monte
scaturia mormorando un picciol rio.
Egli v’accorse e l’elmo empié nel fonte,
e tornò mesto al grande ufficio e pio.
Tremar sentí la man, mentre la fronte
non conosciuta ancor sciolse e scoprio.
La vide, la conobbe, e restò senza
e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza!
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Non morí già , ché sue virtuti accolse
tutte in quel punto e in guardia al cor le mise,
e premendo il suo affanno a dar si volse
vita con l’acqua a chi co ’l ferro uccise.
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6a) L'ultimo segmento del nostro percorso sulla rabbia affronta il tema della rabbia in politica: tema attuale in
questi tempi, dominati da un senso di sconcerto e di disorientamento. Ma sentite cosa scriveva un antico poeta,
Giovenale, che si sente, ed è, un emarginato.
A Roma non c'è più posto per un ciarlatani famosi di città in città ;
lavoro onesto, ora offrono giochi
non c'è compenso alle fatiche; e quando la plebaglia abbassa il
meno di ieri è ciò che oggi possiedi pollice
e a nulla si ridurrà domani; decretano la morte per ottenerne il
per questo ho deciso di andarmene favore;
là dove Dedalo depose le sue ali poi, di ritorno, appaltano latrine.
stanche, E perché mai non altro?
finché un accenno è la canizie, Sono loro quelli che la fortuna,
aitante la prima vecchiaia quando è in vena di scherzi,
e a Lachesi resta ancora filo da dal fango solleva ai massimi gradi.
torcere: Ma che ci faccio io a Roma?
mi reggo bene sulle gambe Non so mentire. Se un libro è
e senza appoggiarmi a un bastone: mediocre
giusto il tempo per lasciare la patria. non ho la faccia di lodarlo o di
Artorio e Cà tulo ci vivano, citarlo;
ci rimanga chi muta il nero in bianco, non so nulla di astrologia;
chi si diverte ad appaltare case, fiumi non voglio e mi ripugna
e porti, pronosticare la morte di un padre;
cloache da pulire, cadaveri da non ho mai studiato le viscere di
cremare rana;
e vite da offrire all'incanto per diritto passare ad una sposa
d'asta. bigliettini e profferte dell'amante
Un tempo suonavano il corno, lo sanno fare altri,
comparse fisse delle arene di e di un ladro mai sarò complice:
provincia,
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Dopo Giovenale, accanto a lui, un altro poeta, Giovanni Raboni, che guarda il presente con dolore e insofferenza:
quella che ora sentiremo è la sua ultima poesia, pubblicata sul "Corriere della sera" del 16 novembre 2004, un
mese prima della sua morte.
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♣ È questa la sua ultima poesia, pubblicata dal "Corriere della sera" del 16 novembre 2004
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una farsa in aggiunta alla sventura.
Un tono alto e testamentario, da "accordo di preludio", come scrisse Fortini, un grido di apertura, di chi si
nega un grido finale, è Shemà, la pagina introduttiva di Se questo è un uomo di Primo Levi. Il modello è
quello dell'apostrofe, che ricorre nella Bibbia, soprattutto in Giobbe e nell'Ecclesiaste. L'orazione intitolata
Shemà è per gli Ebrei una sorta di atto di fede che inizia con le parole "Ascolta, Israele..." e termina con
l'esortazione a non dimenticare e a trasmettere ai figli la nozione fondamentale dell'unicità di Dio. Nella
poesia di Levi, però , l'obbligo del ricordo non è più relativo a Dio, ma al male, che a differenza del Dio
silenzioso e distante, è onnipresente e, dappertutto, drammaticamente visibile. Al testo di Levi abbiamo
accostato, infine, una poesia di Sofri, che ad esso si rifà , nel tono, nell'ispirazione, nell'invito rivolto a noi,
qui e ora, a non distogliere lo sguardo dai vinti, da tutti i vinti, che non sono nemici in battaglia, ma vittime
della terribile storia di questi anni.
Primo Levi
Shemà
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1) Per molto tempo gli uomini si sono sentiti in balìa di forze esterne, superiori, incontrollabili, invincibili, a cominciare dalle
forze della natura, spesso divinizzate. Già in epoca antichissima, il mito nasce come risposta allo stimolo della natura, e si
sedimenta in una tenace, ininterrotta tradizione letteraria.
Le manifestazioni dell’attività vulcanica – eruzioni, terremoti, acque termali – vengono connesse a mostri giganteschi e
orribili, tenuti incatenati sottoterra dalle divinità del cielo: Tifeo, l’ultimo figlio di Gea e Tartaro, il mostro dalle cento teste, il
più orribile dei nemici domati da Zeus, era più alto delle montagne, sfiorava le stelle e, quando allargava le braccia, toccava
l’occidente e l’oriente. Quando egli aveva osato competere con Zeus per il dominio del mondo, il dio lo vinse, e la terra si
sciolse nella vampa del fuoco: questo racconta Eschilo, Pindaro, nella I Pitica: gli studiosi hanno letto in questi versi il ricordo
recente di una eruzione (del 475 a. C., secondo la testimonianza di Tucidide). Il nome Tifeo richiama il verbo tyfo o tyfoo
(“mando fumo”), la tradizione pone la sua nascita in Cilicia, terra vulcanica, ma ora è sepolto sotto l’Etna in Sicilia e il mostro
è visibile, udibile, dicono i poeti, e la sua rabbia, come un liquido incandescente, salirà lungo le pareti del vulcano e ne uscirà
fuori spumeggiando e devastando i vasti campi della fertile Sicilia: cfr. Pindaro, I Pitica, vv. 25-53
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2) Un altro grande poeta ci ha lasciato versi grandiosi riferiti allo stesso vulcano, l'Etna, la cui violenza
è collocata però in uno scenario radicalmente diverso: nel de rerum natura Lucrezio descrive
un'eruzione del vulcano, soffermandosi sui sentimenti di angoscia e di terrore che essa determina
negli uomini. A questi sentimenti il poeta oppone la lucida, sicura, spiegazione delle ragioni
dell'evento, ragioni che non risiedono nella collera di un qualunque dio, ma nella natura, che opera
in una dimensione infinita, rispetto alla quale l'uomo è piccolissima cosa, in una scala e un metro
del tutto esorbitanti rispetto ai nostri. Il de rerum natura non è solo un poema didattico sulla fisica
e la natura delle cose, è un invito alla sapienza, un'esortazione alla ricerca della felicità . La dottrina
di Epicuro, con il suo atomismo, si identifica per Lucrezio con la dottrina della salvezza per gli
uomini prigionieri di errori, di paure e di dubbi, di cui Lucrezio sa cogliere e interpretare
poeticamente tutte le gradazioni. In questo modo Lucrezio tiene insieme da una parte cosmo e
natura, dall'altra l'uomo. La fisica e l'etica, la natura da indagare e descrivere, l'uomo da risanare.
Per ottenere questo scopo, Lucrezio rinuncia all'atteggiamento miracolistico verso le cose naturali:
la natura, il vulcano in questo passo, sono descritti in tutta la loro maestà oggettiva, non hanno
bisogno di retoriche sorprendenti. Il poeta si propone di spiegare, di far capire: la cifra che
caratterizza il de rerum natura è costituita da formule ricorrenti: ora ti spiegherò , non est
mirandum, nec mirum, non c'è da meravigliarsi di questo o quel fenomeno, perché esso è connesso
necessariamente con questa regola oggettiva, immeritevole di stupore per chi abbia capito i
principi delle cose.
(Lucrezio - De Rerum Natura – Libro VI vv.680-697)
[…]
Ma ora spiegherò in qual modo quella fiamma, suscitata
all'improvviso, spiri fuori dalle vaste fornaci dell'Etna.
Anzitutto la natura dell'intero monte ha cavità sotterranee,
quasi fondata su caverne di silice.
In tutte le sue caverne vi è poi aria e vento.
L'aria infatti diviene vento quando è stimolata dall'agitarsi 685
d'una forza. Quando il vento si surriscalda e infuriando comunica
il calore a tutte le rocce intorno e alla terra, dove le tocca,
e ne suscita fuoco ardente in veloci fiamme,
si leva per le diritte fauci e s'avventa in alto.
Così proietta il suo ardore lontano e lontano disperde
le sue faville e volge una fumea di fitta caligine,
e insieme scaglia fuori macigni di straordinario peso;
affinché non dubiti che questa sia la forza turbinosa dell'aria.
Inoltre il mare da ampio tratto frange le onde
contro le radici di quel monte e assorbe il riflusso.
Da questo mare caverne sotterranee si spingono sino alle profonde
fauci del monte. […]
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3) Adesso cambiamo paesaggio vulcanico…
A queste piagge
Venga colui che d'esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All'amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell'uman seme,
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le magnifiche sorti e progressive.
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Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E proceder il chiami.
A questi dissennati il poeta oppone colui che ha capacità di valutare
le cose in modo giusto, colui…
5) Lo sguardo che il mondo moderno getta, ammirato, sui vulcani, facendone oggetto di appassionato
interesse, è molto diverso dalla preoccupata, e saggia, visione degli antichi: tra i tanti, la voce di Stazio ci
colpisce con la sua malinconica pietas verso l’umanità sepolta, o meglio non sepolta, ma sotterrata
dall’eruzione del vulcano: la lava e la vegetazione che ricoprono edifici e rovine ricordano all’uomo che, al
di là di ogni suo sforzo, ovunque la natura rinasce prepotente e indifferente (Le selve IV, 4, vv. 76-83):
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6) “Quanta incredibile fiducia” (Mira fides), dice il poeta, commentando l’incosciente leggerezza degli
uomini che non pensano alle minacce future; eppure il Vesuvio ha più volte distrutto vite e opere umane.
Ma non vogliamo lasciarvi, stasera, con ricordi di sconfitte. Una delle successive, frequenti eruzioni del
vulcano, quella del 1631, è oggetto di una divertente parodia, nella quale l’autore, G.B. Bergazzano, che si
definisce “barbiere e poeta”, assume le vesti di Bacco, rivolgendosi al Vesuvio, e lamentandone la crudele
opera devastatrice:
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