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Cesare DEVE Morire

Storia romana (Università degli Studi di Catania)

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CESARE DEVE MORIRE

PRIMA PARTE

Capitolo 1. I Fasti di Privernum


Documento epigrafico rinvenuto nel corso di campagne di scavo condotte nel sito dell’antica
Privernum, si tratta di una tavola di marmo lunense ricomposta in 4 frammenti, oggi conservata nel
museo della cittadina. Contiene l’elenco delle liste magistratuali dei turbolenti anni del 45 e 43 a.C.
durante il periodo della congiura cesariana. Contiene il programma di distribuzione delle cariche
istituzionali per il 44 a.C. predisposto da Cesare prima che venisse assassinato. Viene presa con
attenzione il carattere “perpetuus” del “magister equitum” nominato nella persona di Marco
Emilio Lepido, affiancato da altri due magistri equitum: Marco Valerio Messalla Rufo e Gneo
Domizio Calvino, designati da Cesare e preposti al governo della città in sua assenza. Secondo
l’iscrizione Cesare fu un dictator perpetuus ma anche il suo magister equitum Lepido lo fu. Cosa
che non si trova nelle altre fonti antiche.
Capitolo 2. La dictatura perpetua: una riforma costituzionale permanente?
Nel 44 a.C. Cesare ricopriva per la quarta volta la dictatura. La tradizione esigeva che il dictator
non fosse eletto dal popolo bensì da uno dei consoli in carica nel rispetto di un rituale. Già da
qualche anno nel 46 a.C. il senato gli aveva concesso la facoltà di esercitare la carica per dieci anni,
sia pure con un rinnovamento annuale. Nonostante ciò, Cesare abdicò dalla dittatura annuale per
assumere quella perpetua. Lo studioso G. Cresci Marrone dinanzi alla scoperta della carica perpetua
di Lepido ha subito archiviato la tesi della monarchia cesariana. Le fonti antiche per quanto ci
narrano varie versioni della città in quel periodo, sono unanimi per descrivere Cesare come un
tiranno intenzionato a ritornare alla monarchia, se questo viene smentito dall’iscrizione pervenuta,
allora perché venne ucciso?
Capitolo 3. Le dittature di Cesare
Secondo lo storiografo Ronald Syme bisognerebbe evitare di esprimere giudizi su Cesare soltanto
sulla base di sue presunte intenzioni, sarebbe più prudente guardare i fatti.
I nuovi dati offerti dalla tavola privernate sono due:
1. Come si colloca l’iscrizione nel quadro complessivo delle fonti antiche che attestano solo la
dittatura vitalizia di Cesare, che vengono in parte smentite. Dall’iscrizione appare come se
fosse un collegio dittatoriale costituito dalla coppia dictator e magister equitum a potere
disuguale ma entrambi vitalizi.
2. È credibile una riforma monarchica dell’architettura della res publica, il cui assetto di
vertice avrebbe visto un dicator e un magister equitum perpetui, affiancati a loro volta da
altri magistri equitum non perpetui e poi in posizione subalterna i consoli. (ipotesi)

Senza dubbio è stata la dictatura perpetua la causa scatenante della congiura.


Nel leggere le fonti degli anni 49-44 a.C. si ha l’impressione di una certa confusione
nell’inquadrarne la posizione istituzionale. Confusione riflessa su due interpretazioni: rei publicae
constituendae (sul modello sillano) finalizzata a interventi riformatori sulla res publica oppure rei
gerundae causa attribuita a scopi militari.

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Per avere un quadro più approfondito conviene affidarci a Cassio Dione, senatore e governatore
provinciale del III sec. d.C., vicino all’imperatore Alessandro Severo gli rese agevole l’accesso agli
archivi, le informazioni che ci dà sono:
- Nel 49 a.C. Cesare ottiene la prima dittatura su iniziativa del pretore Lepido
- Nel 48 a.C. gli fu concesso di professare la dittatura annualmente anziché con il termine
di sei mesi
- Nel 46 a.C. per decreto senatorio ricevette la possibilità di estenderla a 10 anni
- Nel 44 a.C. conseguì la dittatura perpetua, vitalizia.
Qual era il quadro di Cesare?

Nel 49 a.C. mentre Cesare è in marcia verso Roma, Lepido avanza la proposta di nominarlo
dictator comitiorum habendorum causa. Vi sono due indizi anomali: la dictio richiedeva la presenza
di colui che sarebbe diventato dittatore, invece non c’era, inoltre doveva assegnare questo carico
uno dei consoli designato dal senato e non da un pretore.
Cesare scrisse una lettera a Cicerone amichevole, la risposta di Cicerone sembra non appoggiare
l’idea di un dictator eletto dal popolo invece che dal mos. V’è una discrepanza tra la versione di
Cassio e quella di Cicerone. Quindi si registra uno scarto temporale durante il quale Cesare muta la
tattica. Dal 48 Cesare prende molti compiti militari, questo dimostra che la carica del dittatore non
era limitata ai compiti civili, allora bisognerebbe indagare sul vero ruolo del dittatore.
Riprendendo le fonti di Livio alla dittatura del 215 a.C. a quanto pare faceva parte del mos della
dittatura il potere del pretore di chiedere al popolo il dittatore anche se non era in città, quindi non
c’è stata nessuna violazione, l’unica cosa che appare contraria è la perpetua ma nessuno la contestò
in quanto deliberata dal senato.

Capitolo 4. La vera sostanza della dictatura pepetua

Se non si sono rivolti per la dictatura perpetua, Cesare ottenne due denunce di irregolarità: nel 49
quando lo si intendeva nominare dictator comitiorum habendorum causa in absentia e il secondo
nel 46 quando gli augures con gran rumore pubblico si opposero alla nomina di Antonio come
magister equitum, poiché non aveva esercitato la pretura. Per quanto riguarda la scelta di Cesare di
ottenere la carica nella absentia venne criticato dagli augures anche se non vi era un motivo di
diritto ma solo di opportunità politica, venendo criticati da Dione. A quanto pare perpetua non
significa a vita ma svincolata, quindi una durata indeterminata ma non illimitata. La dittatura di
Cesare non era una novità in quanto riscontriamo la stessa strada simile presa da Silla, anche quella
di Silla doveva essere perpetua solo che non venne utilizzato il latino pepetuus nel suo nesso. La
scelta di Cesare per una dittatura perpetua anziché con una scadenza di 10 anni soprattutto in
prossimità di una guerra in oriente è stata azzeccata. Forse l’obiettivo era quello di impedire a
Cesare di condurre la guerra partica solo per non farlo tornare vincitore, secondo quanto scrisse
Appiano erano invidiosi dei suoi successi nel convincere le genti.
Capitolo 5. Il maestro della cavalleria nei Fasti di Privernum
si pone il dubbio della presenza di due magister equituum che non sono perpetui rispetto a Lepido, i
due sono Messalla e Calvino. Probabilmente servivano a gestire la città in sua assenza. La
registrazione di Messalla nei Fasti Capitolini è andata perduta, e vi l’integrazione di Zevi, questa
integrazione è compatibile sia dal punto di vista epigrafico-paleografico sia da quello storico-
istituzionale, la praefectura urbi di Valerio Messalla sarebbe in sintonia sia con il resto della tavola
Privernate sia con le altre fonti di tradizione manoscritta. Quindi pare che la funzione di Messalla
fosse come praefectus urbi e non come magister equitum, ogni qual volta Lepido fosse uscito dalla
città. Infatti, si pensa che oltre al magister populi e al magister equitum vi era un terzo praetor

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corrispondente al praefectus urbi preposto alla urbis custodia nei momenti in cui l’esercito si
allontanava da Roma per una spedizione bellica.
Capitolo 6. Il mistero del giovane Ottaviano
Secondo le linee corrispondenti dei Fasti Capitolini proposta da Attilio Degrassi, il pronipote
Ottavio da Cesare fosse stato designato magister equitum per un anno successivo, probabilmente il
42 a.C. ma nella tavola di Priverno non v’è alcuna traccia del giovane Ottaviano. Quindi bisogna
fare un’attenta rilettura delle versioni di Cassio e Appiano: Cassio precisa che secondo le previsioni
di Cesare l’impresa pratica avrebbe richiesto 3 anni mentre secondo Appiano 5 anni.
Cassio ci dice che nei due anni nei quali Cesare sarebbe stato dittatore nominò magistri equitum
Ottaviano ed un altro. In sua vece elesse console Dolabella, mentre Antonio avrebbe mantenuto il
consolato per tutto l’anno e a Lepido assegnò la Gallia Narbonese e la Spagna Citeriore e al suo
posto nominò due magistri equitum ciascuno con un compito particolare.
Nel testo non parla del fatto che Lepido fu affiancato da altri due magister equitum contestualmente
ma che due subentrarono al suo posto, in successione di tempo, non contemporaneamente.
Quindi combinando gli elementi emersi dai fasti di Privernum, Cassio Dione e Appiano possiamo
riassumere che: Lepido magister equitum dal 44 a.C.; Domizio Calvino nel 43 a.C.; Ottaviano nel
42 a.C.
Quando Cesare e Lepido escono di Roma mettono Dolabella come console suffetto affiancando
Antonio fino al 44 a.C. e Messalla come praefectus urbi al posto di Lepido. Secondo però lo scritto
di Cassio, relativo alle terre che Cesare affidò a Lepido, egli assunse la carica di proconsul delle due
province. Riguardo il potenziale ruolo di Ottaviano come magister equitum che non viene
menzionato nei fasti ma solo dagli storici sarà probabilmente perché non è mai stato pienamente
ufficializzato e nemmeno raggiunto in quanto si crea il principato.

PARTE SECONDA
Il tempo della congiura

Capitolo 1. Lontane avvisaglie di cospirazione

R. Syme sostiene, nel suo capolavoro La rivoluzione romana, che Cesare fu ucciso per ciò che era e
non per ciò che avrebbe potuto diventare, poiché intendeva la carica perpetua come a vita, secondo
lui a Cesare non interessava una monarchia ellenistica ma bastava la dittatura, in quanto Cesare era
pur sempre un conservatore romano.
Si pensa che la cospirazione contro Cesare si progettò già mesi prima, e che ne faceva parte
Antonio, accusato da Cicerone, tanto che gli scrisse una lettera. Infatti, Antonio era a conoscenza
della congiura il suo errore fu tacere. Cicerone era a conoscenza dell’incontro tra Trebonio e
Antonio, il quale il primo forse lo avvisò, forse fu Trebonio stesso a trattenere Antonio.
Nella lettera ad Attico del 44 a.C. Cicerone giudica i congiurati come coraggiosi ma con un cervello
da bambino. Già nel 47 a.C. una lettera sempre di Cicerone si riconduce ad un altro progetto di
attentato, quello da Cassio, andato a vuoto.
Sappiamo però che dal 45 a.C. vi era un pessimo rapporto tra Cesare e Antonio, quest’ultimo non
seguì Cesare né nella campagna d’Africa né nell’impresa iberica.

Capitolo 2. Tu, tu illum occidisti Lupercalibus

Cesare viene già chiamato Rex sarcasticamente ed accusato di aspirare al regnum dalla quarta
dictatura, quindi non c’entra quella perpetua.
Tutti gli autori antichi danno peso ad un giorno particolare, le Idi di febbraio, giorno che cadeva il
13 e culminante il 15 del mese con la rituale corsa dei Luperci attorno all’antico pomerio.

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Cicerone riguardo questo giorno ci racconta di un diadema da porre a Cesare, e doveva essere
Antonio nelle vesti di Lupercolo a farlo e Cesare rifiuta. Cicerone cerca di dipingere Antonio come
principale artefice della congiura, in quanto come se avesse azionato la congiura da quel giorno che
voleva porgli il diadema.
Pochi mesi prima della sua morte fu l’istituzione di un sacerdozio per il suo futuro culto e Antonio
era stato designato primo flames, ma una volta morto Cesare, Antonio abbandona la carica.
Anche Plutarco, ma in particolar modo Nicolao Damasceno ci fornisce la sua versione dei fatti di
quel giorno, ci dice che Licinio sollevato dai colleghi depose il diadema ai piedi di Cesare,
insistevano anche a Lepido di farlo ma si astenne, e subito dopo intervenì Antonio, e subito Cesare
lo butta nella folla dicendo che dovrebbe stare sulla testa di Giove. Alla fine, abbracciò Cesare
(forse per recuperare la sua fiducia) e poi lo cedette ad altri che avrebbero messo il diadema su una
sua statua. Inoltre, Cesare poi fa arrestare i tribuni Cesezio e Marullo di aver messo il diadema sulla
statua.
Afoldy studioso, in un denarius del 44 a.C. riuscì a vedere un diadema a capo del dittatore, com’è
possibile che Cesare accettasse questo conio? Secondo Kraay e Crawfors, quello non è un diadema,
bensì un lituus. In un denarius del 43-42 a.C. sul recto vi è il volto di Bruto in quanto leader della
congiura, nel verso reca un pileus, tipico copricapo di matrice orientale simbolo di libertà tra due
pugnali con la legenda EID MAR.

Capitolo 3. La macchina del fango

In base alle fonti sappiamo che c’erano dicerie sul conto di Cesare, non solo sulla sua ipotetica
ambizione alla monarchia, ma anche sulla sua vita privata e la relazione con Cleopatra, tanto che
giravano voci sul fatto che volesse portare la capitale ad Alessandria. Tutto questo circolo di voci e
dicerie già fu utile per isolare sempre di più Cesare e dare il tempo necessario ai futuri cesaricidi di
organizzare la congiura, incontrandosi di casa in casa e di cercare alleati.

Capitolo 4. Antonio e la congiura

Antonio fece un’orazione sulla morte di Cesare mettendo con retorica la doppiezza di Bruto,
dicendo che egli afferma che Cesare era ambizioso e sembra strano, ma Bruto era un uomo d’onore.
ci sono studiosi che assolvono Antonio, nelle fonti antiche vediamo condannarlo dal punto di vista
etico da Cassio Dione a Cicerone, Livio, Appiano, Plutarco, salvo Damasceno che chiama in causa
altri congiurati. Luciano Canfora giudica Antonio invece come ambiguo, ingenuo. Il fatto che lui
fosse stato ingenuo avrebbe retto se fosse stato allo scuro di tutto, mentre invece già dall’estate del
45 a.C. aveva avuto la conversazione con Trebonio.
All’incontro tra Ottaviano e Antonio, Ottaviano gli chiede se lo aiuta ad uccidere i cesaricidi, per
metterlo alla prova in quanto già aveva sospetti nei riguardi di Antonio. La risposta di quest’ultimo
gli fece venire ancora più dubbi, in quanto dalla sua risposta sembra quasi che giustificasse gli
organizzatori di questa congiura.
Dopo la morte di Cesare venne abolita la dittatura attraverso un provvedimento legislativo da parte
di Antonio.

Capitolo 5. Cicerone e il dittatore

Nella letteratura si incontrano diversi volti di Cicerone, Everitt descrive Cicerone come
inconsapevole del piano ma piacevolmente sorpreso, al contrario di altri studiosi che mettono
l’oratore come organizzatore della congiura. L’idea di un Cicerone ispiratore della congiura nasce
da Antonio, forse per liberarsi dalle accuse. Quindi si andranno ad esaminare il segno dei rapporti,
nell’ultima fase, tra Cicerone e il dittatore per fare chiarezza sulla sua potenziale partecipazione.

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Si fa riferimento alla presunta presenza di Cicerone durante le Idi di marzo, ma grazie ad una lettera
del 2 febbraio 43 a.C. destinata a Trebonio nella quale afferma di rimpiangere di non essere stato
invitato deduciamo che egli non era presente ma, in senso ironico, non si dimostra nient’affatto
desideroso della morte di Cesare. Cicerone riponeva in Cesare la speranza di rialzare la res
pubblica, intensa come stato romano.

Capitolo 6. Un’orazione per Cesare: la Pro Marcello

Marco Claudio Marcello, tra i più irriducibili avversari di Cesare, discendeva dalla gens Claudia
ma apparteneva al ramo dei Marcelli, nel 51 a.C. rivestì il consolato con Servio Sulpicio Rufo.
Andò in un volontario esilio a Mitilene che decise di lasciare nel 45 a.C. e nello scalo di Atene andò
incontro a un’inopinata morte per mano di un amico, Magio Cilone. Non furono mai chiarite le
ragioni dell’assassinio. Probabilmente era dovuto al fatto che Cilone, pieno di debiti, chiese aiuto
economico all’amico che ad una risposta negativa rispose un raptus di follia.
La Pro Marcello è una orazione di Cicerone pronunciata in senato nel 46 a.C., si tratta della prima
delle tre cosiddette orazioni “cesariane” enunciate per ringrazia Cesare, è proprio qua che lo
descrive come unica persona che può salvare la res publica. Esprime anche la sua gratitudine per far
tornare Marcello a Roma, anche se non farà mai ritorno per altre cause, come scritto inizialmente.
In uno scritto dopo le Idi di marzo, vediamo invece un Cicerone duro e aspro, che ci parla di un
Cesare irrimediabilmente arrogante. Purtroppo, Cicerone non vedrà realizzato ciò che desiderava
per Cesare, poiché lo farà il pronipote successivamente di una nuova forma rei publicae fondata su
un dignus principatus. Infatti, prima, nel periodo della Pro Marcello, Cicerone era pronto a
legittimare Cesare come princeps, dopo la sua morte cambia tono in quanto uomo deluso e senza
speranza per la res publica, per l’ordine.

Capitolo 7. La presunta riforma istituzionale di Cesare

Negli anni 45-44 a.C. Cesare è già mentalmente proiettato in Oriente, pensante per quella guerra è
indifferente a una monarchia o anche ad una riforma istituzionale della res publica suggeritagli da
Cicerone. Ma qual era questa riforma? Svetonio dal bibliotecario di Adriano si fa elencare i punti
della riforma di Cesare, ma leggendo le fonti non vi è un preciso disegno di riforma istituzionale.
- Nel 49 a.C. con la lex Iuliae de pecuniis mutuis dispose la remissione degli interessi arretrati
degli ultimi due anni e lo scomputo degli interessi pagati dal capitale;
- Nel 46 a.C. modificò parzialmente la legge introducendo l’obbligo per i ricchi proprietari di
investire parte dei loro patrimoni in ondi in Italia e che l’attività speculativa finanziaria
(denaro dato in prestito) fosse proporzionale alla proprietà terriera. Seguono altre leggi nello
stesso anno: lex Iulia, in materia di frumentazioni, un’altra sulla remissione dei canoni di
locazione.
Sembrerebbe che Cesare mirasse a modificare equilibri economici e sociali, conseguentemente
politici. Ma l’idea di una riforma dello stato sembra un errore storiografico.

Capitolo 8. L’ellenismo di Cesare

Cesare essendo che ambisse all’Oriente, ed essendo che Cleopatra aveva un figlio in arrivo con lui,
girarono pettegolezzi, diffamazioni secondo Napoleone da parte dei letterati antichi, sul fatto che
Cesare volesse spostare la capitale ad Alessandria. Ma in realtà non era così, e ci sono tante lettere
di Cesare a testimonianza, egli era un conservatore nonché romano per eccellenza, tanto che voleva
trasformare l’Italia in una cosmopoli. Quello che poi sembrerà in realtà ammirare alla monarchia
ellenica sembrerebbe Antonio e il suo debole per Cleopatra, tanto che verranno cacciati da Augusto.
Ora sappiamo che Cesare non fu certamente ucciso per ambire alla monarchia, non resta che la
guerra in Oriente.

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Capitolo 9. La guerra partica e anche molto altro

Barry Strauss propone una tesi sull’omicidio basata su invidie riguardo la guerra in arrivo. Appiano
denuncia invidie da parte di Bruto e Cassio per il possesso dell’immenso potere nelle mani di
Cesare. Nonché la freddezza del rapporto tra Cesare e Antonio, che portò il dittatore a preferire
Lepido e non riproporre Antonio come magister equitum. Alimentò la freddezza del rapporto, il
distacco di Antonio insieme alla rabbia.
Plutarco scrive una rassegna per indicem del grandioso progetto cesariano, una lista di popoli e
territori da vertigine, dove Cesare puntava a sconfiggere i Parti e i Daci.
Dal commentario sulla Guerra civile, apprendiamo che Cesare nel 49 a.C. aveva lanciato l’accusa
contro il proconsole di Siria, il pompeiano Cecilio Metello Scipione, reo di lassismo contro i Parti.
Secondo Plutarco, già nel 55 a.C. si schiera con Crasso per conduzione della guerra partica. Più
significativo Appiano che dice che Cesare la meditava dal 47 a.C. quando Cesare passò per la Siria,
lasciando al comando di Giulio Sesto una legione.
Tra le lettere di Cicerone ad Attico conferma l’inutilità della congiura, in quanto egli ormai anziano
non sarebbe tornato vivo dalla guerra in Oriente.

Capitolo 10. Le letture di Napoleone

Autori utili a scagionare Cesare, per Napoleone, furono: Velleio Patercolo (ufficiale militare di
Tiberio), Cicerone e Floro. Una critica aspra Napoleone la fece nei confronti di Svetonio. Secondo
Napoleone, l’errore di Cesare fu avere tanto potere nelle mani e restò fedele alle forme
repubblicane.

Capitolo 11. Il “cesarismo”, figlio della modernità

Il “cesarismo” nell’introduzione alla riedizione dei Précis, Luciano Canfora spiega bene, come si
sia dinanzi a un neologismo nato nelle lingue europee alla metà dell’800. Burckhardt nel 1853
applicava Casarismus al dominato di Costantino. In realtà, cesarismo non ha a che fare con Cesare.
Napoleone non parla di monarchia, come Cesare, la disprezzava, ma proponeva una lettura
dell’esperienza istituzionale di Cesare secondo una prospettiva simile alla sua, parliamo di impero.
Momigliano ricorda che nell’antichità non fu mai attribuito a Cesare il merito o il demerito di avere
inventato un nuovo tipo di regime politico.
Nel Medioevo egli fu simbolo dell’impero, infatti, Dante nella Divina Commedia lo salva tra gli
“spiriti magni” e viene lodato in Paradiso VI, mentre Bruto e Cassio latrano tra le fauci di Lucifero,
insieme a Giuda come empi traditori. Il cesarismo viene messo come etichetta dell’imitatio
Caesaris.

Capitolo 12. Cesare tra conservazione e innovazione

Cesare fu un uomo d’azione, credeva di poter salvare la res publica grazie ai successi militari,
l’espansionismo era l’unica cura da lui immaginata. La res publica cadde nel caos dopo la sua
morte, ma questo errore doveva essere camuffato da una nobile causa. Fu fatto morire come un
tiranno greco, accoltellato da pugnali. Quella di Cesare fu solo una sorta di conservatorismo
innovativo, per quanto ossimorico.

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