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John

Cheev er
The Bella Lingua

Wilson Streeter, come molti americani che vivono a Roma, era


divorziato. Lavorava come statistico presso l’agenzia FRUPC, viveva da solo
e conduceva una vita sociale piuttosto animata insieme ad altri americani,
emigrati come lui, e ai pochi romani ammessi nei loro circoli riservati. In
ufficio parlava esclusivamente l’inglese, tutti gli italiani che incontrava
durante la giornata parlavano l’inglese molto meglio di quanto lui potesse
parlare l’italiano e ciò lo scoraggiava dall’intraprendere qualsiasi
conversazione nella loro lingua. Streeter si era convinto che imparare a
parlare l’italiano fosse l’unico modo per capire l’Italia. Se la cavava
piuttosto bene quando doveva fare delle compere o doveva organizzarsi per
fare questo o quello, le cose semplici insomma, ma avrebbe voluto essere
capace di esprimere i suoi sentimenti, raccontare barzellette, intavolare
conversazioni di qualsiasi tipo sul tram o sull’autobus. Era ben cosciente
che viveva in un paese che non era il suo ma allo stesso tempo era convinto
che quella sensazione di estraneità che l’avvolgeva sarebbe scomparsa non
appena fosse diventato padrone della lingua.
Per un turista l’intera esperienza di viaggiare per un paese che gli è
estraneo viene immediatamente consegnata al passato. Già nel momento in
cui i giorni trascorrono ha la consapevolezza che quelli “sono stati” giorni
trascorsi a Roma, e giri turistici, souvenir, fotografie, regali, ogni cosa è un
atto di pura commemorazione. Anche quando il viaggiatore, di notte, giace
sul letto sdraiato in attesa di addormentarsi, in quello stesso momento,
quelle sono già diventate le notti che egli “trascorse” a Roma.
Per l’emigrato, invece, il passato non esiste: egli vive in un continuo e
implacabile presente. Il solo pensare di trovarsi in un altro paese – nella
città o nella campagna che è stata o potrebbe tornare a essere per sempre la
sua casa – vanificherebbe tutti i suoi propositi. Invece di accumulare ricordi
gli emigrati si trovano di fronte alla sfida di imparare una lingua nuova e di
capire i costumi e il modo di essere di un popolo. A piazza Venezia è facile
vederli questi emigrati quando si scambiano cenni d’intesa attraversando la
piazza diretti alle loro lezioni d’italiano mentre i turisti occupano tutti i
tavoli, preventivamente riservati, di un bar sul marciapiede sorbendo
Campari che qualcuno gli ha indicato come il tipico aperitivo* romano.
L’insegnante d’italiano di Streeter era un’americana di nome Kate
Dresser; viveva in un vecchio palazzo vicino piazza Firenze insieme al
figlio adolescente. Streeter andava a lezione il martedì e il venerdì sera e la
domenica pomeriggio; egli adorava la camminata serale dal suo ufficio,
poco oltre il Pantheon, alla casa di Kate.
Tra i lati positivi del suo esilio c’era un esaltante senso di libertà e
un’accresciuta consapevolezza della bellezza di ciò che ogni giorno poteva
ammirare. L’amore che proviamo per il nostro paese natio è accompagnato
dal fatto che rimane pur sempre il paese dove siamo cresciuti e se nel
diventare adulti qualcosa non è andato per il verso giusto porteremo con
noi, per sempre, il segno – i nostri occhi fissi sul luogo del delitto – fino al
giorno della nostra morte. Questo tipo di tristezza dovrebbe essere presa in
considerazione per capire il senso di libertà di Streeter e la sua “accresciuta
consapevolezza” è esattamente quanto ci si può aspettare da un uomo di
buon appetito che in autunno cammina per le vie secondarie di una città.
L’aria era fredda, odore di caffè intorno – altre volte si avvertiva odore
d’incenso se la porta della chiesa rimaneva aperta –, vendevano crisantemi
in ogni angolo. Di fronte agli occhi uno spettacolo esaltante, disorientante:
le rovine della Roma repubblicana e imperiale, le rovine di ciò che la città
era stata fino a poco tempo prima, ma tutto sarebbe stato più chiaro quando
avrebbe saputo parlare in italiano.
Streeter era conscio che non era facile per un uomo della sua età mettersi
a imparare qualcosa di nuovo e, oltretutto, non era stato fortunato nella sua
ricerca di una buona insegnante. Inizialmente era andato all’istituto Dante
Alighieri: le classi erano composte da così tante persone che non fece alcun
progresso. Successivamente prese lezioni private da una vecchia signora.
Gli veniva richiesto di leggere e tradurre Pinocchio di Collodi. Non appena
finiva di leggere le prime frasi l’insegnante gli strappava il libro dalle mani
e iniziava a leggere e tradurre. Era così legata a quella storia che ogni volta
era un teatrino di risate e lacrime: intere lezioni trascorrevano senza che
Streeter aprisse bocca. Ciò lo aveva reso inquieto: lui, un uomo di ormai
cinquant’anni, se ne doveva restare seduto in un freddo appartamento di
periferia mentre una settantenne gli leggeva favole per bambini. Dopo una
dozzina di lezioni le disse che doveva recarsi a Perugia per affari.
Successivamente si iscrisse alla Tauchnitz School, sempre per lezioni
private. La sua insegnante, stavolta, era una fanciulla d’una bellezza
mozzafiato. Indossava quei vestiti stretti in vita che andavano di moda
quell’anno e portava la fede – Streeter ritenne che fosse solo per fare scena
dal momento che sembrava apertamente una civettuola senza troppi
pensieri per la testa. Poi portava un profumo penetrante, faceva tintinnare i
braccialetti, lasciava cadere la giacchetta e quando andava alla lavagna
ondeggiava i fianchi; una sera lanciò a Streeter uno sguardo così malizioso
che egli non poté fare a meno di prenderla tra le braccia. Lei cominciò a
urlare, rovesciò un banco e si mise a correre verso l’atrio attraversando tre
aule e gridando d’essere stata assalita da una bestia. Alla fine del corso, che
durò qualche mese, “bestia” era l’unica parola di quella filippica che era
riuscito a imparare. Naturalmente l’intera scuola era stata messa in guardia:
Streeter poteva al massimo asciugarsi il sudore dalla fronte o passeggiare
per le aule verso l’atrio mentre le persone rimanevano sedute per
controllare meglio quello che faceva. Non tornò più alla Tauchnitz.
La sua insegnante successiva fu una donna molto semplice, con i capelli
grigi e uno scialle color lavanda che doveva aver lavorato a maglia da sola
dal momento che era fitto di nodi e grovigli. Per un mese fu un’insegnante
eccellente ma una sera gli disse che stava attraversando un momento
difficile. Rimase in attesa che l’incoraggiasse a confessargli i suoi problemi
e nonostante Streeter non avesse fatto nulla per assecondare tale desiderio
lei si confidò ugualmente. Era stata fidanzata per vent’anni con un uomo,
doveva sposarsi ma la madre del suo promesso sposo era contraria
all’unione e ogni volta che la questione veniva fuori la donna saliva sul
davanzale della finestra e minacciava di buttarsi giù. Poi il suo promesso
sposo si ammalò, di lì a poco l’avrebbero aperto dal collo all’ombelico
(mimò il gesto), se fosse morto lei sarebbe andata alla tomba zitella.
Aggiunse che le sue sorelle, donne malvagie, rimasero incinte proprio per
sposarsi – una ci mise otto mesi per andare all’altare (altri gesti) – lei
avrebbe piuttosto (aggiustandosi bruscamente lo scialle color lavanda)
adescato uomini per strada. Streeter ascoltò impotente le sue pene, come
tutti noi ascoltiamo la maggior parte dei drammi umani ripensando un po’ ai
nostri. Non aveva ancora finito di parlare quando arrivò lo studente della
lezione successiva, un giapponese; quella sera Streeter non aveva imparato
nulla di nuovo. La donna non aveva raccontato a Streeter tutta la storia, e al
suo ritorno continuò. Era tutta colpa sua, avrebbe dovuto scoraggiarla con
fermezza; non c’era più nulla da fare: lei aveva fatto di lui il suo confidente.
...la forza a cui doveva tenere testa era il senso di solitudine che si prova
inevitabilmente nel vivere in una grande città. Così si inventò un altro
viaggio a Perugia. Ebbe altre due insegnanti e altri due viaggi a Perugia, e
verso la fine dell’autunno del suo secondo anno a Roma qualcuno
all’ambasciata gli consigliò di andare da Kate Dresser.
Una donna americana che insegna l’italiano a Roma non è cosa usuale e
d’altronde organizzare qualsiasi cosa a Roma è così complicato che lucidità
e scetticismo cedono quando proviamo a capire la descrizione di una scena
in un tribunale, a proposito di un contratto di locazione per esempio, o
durante un pranzo, ovunque insomma. Ogni dettaglio alimenta più domande
di quante risposte esso sia in grado di fornire e alla fine perdiamo di vista la
verità, come era destino. Ecco che arriva il cardinale Micara con il vero dito
dell’incredulo san Tommaso – sì, certo quello vero. Ma l’uomo accanto a
noi in chiesa dorme o è morto? E che stanno facendo tutti quegli elefanti a
piazza Venezia?
Le lezioni si svolgevano in una grande sala, vicino al camino. Streeter
dedicava un’ora e spesso due ore per prepararsi a dovere. Finì di leggere
Pinocchio e cominciò I promessi sposi, poi sarebbe passato alla Divina
Commedia. Quando finiva i compiti era orgoglioso come un bambino, gli
piaceva fare gli esercizi e il dettato. Di solito si presentava all’appartamento
di Kate con un sorriso ampio e un po’ ingenuo stampato sul viso; era
proprio soddisfatto di sé. Fu per lui un’ottima insegnante anche perché
riuscì a capire subito la vacuità e la condizione logora della memoria di un
uomo di mezz’età e il suo desiderio d’imparare. Kate parlava un italiano
che Streeter riusciva a capire quasi sempre; le sue lezioni si svolgevano in
un’atmosfera d’estrema praticità e freddezza anche grazie al fatto che
metteva sempre un orologio da polso sul tavolo per tenere sotto controllo la
durata della lezione e che gli inviava il conto delle lezioni via posta senza
mai parlarne a voce. Pensò che fosse una donna di bell’aspetto, di forti
sentimenti, irrequieta, un po’ stressata dal lavoro, forse, ma di certo
affascinante.
Tra le cose che Kate Dresser non gli aveva detto, quando si erano seduti
in quella parte della stanza che aveva ritagliato per se stessa con un
pannello divisorio cinese e alcune sedie dorate tutte sgangherate, c’era il
fatto che era nata e cresciuta a Krasbie, una piccola cittadina dell’Iowa. Sia
il padre che la madre erano morti. In un posto dove praticamente tutti
lavoravano nella fabbrica di fertilizzanti suo padre faceva il conducente di
tram. A mano a mano che cresceva Kate non aveva mai voluto accettare che
il padre facesse i biglietti su un tram. Non riusciva nemmeno ad ammettere
che quello era suo padre nonostante ne avesse ereditato la caratteristica
fisica che dava maggiormente nell’occhio: un naso incurvato verso l’alto
dalla punta così spettacolare che l’avevano soprannominata “Ottovolante” e
“Carlino”. In seguito s’era trasferita a Chicago e da Chicago a New York
dove aveva sposato un rappresentante diplomatico. Vissero a Washington e
poi a Tangeri. Subito dopo la guerra si trasferirono a Roma dove il marito
morì di avvelenamento da cibo. La lasciò con un figlio e pochi spiccioli.
Fece di Roma la sua casa. Le poche cose che sapeva sull’Italia le aveva
apprese dal sipario di un piccolo cinema dove passava i suoi sabato
pomeriggio quando era ragazza. Magrolina, vestita non meglio dei bambini
più ribelli e nemmeno più profumata, i capelli raccolti in trecce, le tasche
piene di noccioline e caramelle e la bocca gonfia di chewing gum spendeva
così, al cinema, il suo quarto di dollaro ogni sabato pomeriggio, pioggia o
sole, e si stravaccava su un posto in prima fila. Gridavano “Ottovolante!”,
“Carlino!” per tutto il teatro e che fossero le scarpe con il tacco alto (erano
della sorella) che indossava qualche volta o i diamanti finti, acquistati al
negozio a prezzo fisso, che aveva alle dita, non riusciva a capire perché la
prendessero sempre in giro. I ragazzi le buttavano i chewing gum tra i
capelli, le tiravano palline di carta intrise di saliva sulla base del collo: non
smettevano mai di perseguitarla nel corpo e nello spirito. Lei alzava gli
occhi al sipario e si trovava di fronte a un’immagine particolarmente
precisa del suo futuro. Era disegnata sulla tela, una tela molto rovinata per
essere stata arrotolata e srotolata tantissime volte, l’immagine di un
giardino italiano con cipressi, un terrazzo, una piscina e una fontana, una
balaustra di marmo e rose che si rovesciano da fioriere di marmo. Sembrava
che Kate si sollevasse letteralmente dalla poltrona per entrare in quella
scena piena di crepe. Quell’immagine era praticamente identica a ciò che
vedeva nel cortile dalla finestra di palazzo Tarominia, dove viveva.
Ora ci si potrebbe chiedere come fosse possibile che una donna dalle
entrate modeste potesse vivere a palazzo Tarominia: cose del genere
possono succedere solo a Roma. La baronessa Tramonde, la sorella del
vecchio duca di Roma, viveva nell’ala destra del palazzo, in un
appartamento che era stato costruito per il papa Andros X.* L’appartamento
era raggiungibile salendo un’imponente scalinata con muri e soffitti
affrescati. La baronessa, prima della guerra, amava mettersi sulla sommità
delle scale per dare il saluto di benvenuto ad amici e parenti. Ora le cose
erano cambiate. La baronessa era invecchiata e pure i suoi amici. Nessuno
di loro era più in grado di salire le scale. Oh, ci hanno provato, e come se ci
hanno provato. Per raggiungere le feste date dalla baronessa, basate per lo
più su partite a carte, cadevano sbaragliati come una pattuglia di soldati
sotto il fuoco di una mitragliatrice: i signori che spingevano le signore e, a
volte, viceversa; poi vecchi marchesi e marchese, la crema d’Europa, che
sbuffavano e ansimavano e, esausti e sfiniti, s’adagiavano sugli scalini.
C’era un ascensore nell’altra ala del palazzo, proprio dove viveva Kate.
L’ascensore non s’era potuto installare nel lato ovest, avrebbe deturpato gli
affreschi. L’unico altro modo per raggiungere le stanze della baronessa era
quello di prendere l’ascensore fino all’appartamento di Kate, attraversarlo e
passando per una porta di servizio giungere fino all’altra ala. Lasciando al
duca di Roma, che pure aveva un appartamento nel palazzo, questa libertà,
Kate riuscì a ottenere un affitto a buon mercato. Di solito il duca passava
due volte al giorno per andare a trovare la sorella e il primo giovedì di ogni
mese, cinque minuti dopo le otto, una splendida e attempata compagine
marciava attraverso le stanze dell’appartamento di Kate per raggiungere le
feste che si svolgevano dalla baronessa. A Kate non dava fastidio, anzi;
quando il giovedì sentiva suonare alla porta il suo cuore cominciava a
battere con prepotenza in preda a una grande eccitazione. La processione
era sempre capitanata dall’anziano duca. Uno dei boia di Mussolini gli
aveva mozzato la mano destra all’altezza del polso e ora che i nemici del
vecchio erano morti, questi andava fiero del suo moncherino. Lo seguivano
don Fernando Marchetti, il duca di Treno, il duca e la duchessa Ricotto-
Sporci, il conte Ambro de Albentiis, il conte e la contessa Daromeo, la
principessa Urbana Tesoro, la principessa Isabella Tesoro e il cardinal
Federico Baldova. Ognuno di loro si era distinto nella sua vita per qualche
cosa. Don Fernando, per esempio, era andato in macchina da Parigi a
Pechino attraversando il Deserto del Gobi. Il duca Ricotto-Sporci s’era rotto
quasi tutte le ossa in un incidente durante una corsa a ostacoli, la contessa
Daromeo aveva gestito una stazione radio clandestina degli Alleati, al
centro della città, durante l’occupazione tedesca. Il rituale si concludeva
con l’anziano duca di Roma che offriva un bouquet di fiori in dono a Kate e
solo allora lui e i suoi amici riprendevano la marcia attraverso la cucina
verso la porta di servizio.
Kate parlava un bell’italiano, aveva fatto alcune traduzioni e dato
parecchie lezioni private; negli ultimi tre anni aveva mantenuto se stessa e il
figlio doppiando in inglese alcuni dialoghi di vecchi film italiani che
sarebbero stati in seguito trasmessi sulla televisione inglese. Con il suo
accento raffinato interpretava quasi sempre parti di vedove o simili; c’era
molto lavoro da fare e per questo passava la maggior parte del suo tempo
presso uno studio di registrazione vicino al Tevere. Con il suo stipendio e i
soldi che il marito le aveva lasciato riusciva a malapena ad andare avanti.
La sorella maggiore le scriveva da Krasbie due o tre volte l’anno. Le sue
lettere erano un lungo piagnisteo con frasi del tipo: “Oh, come sei fortunata,
Kate, sei proprio fortunata! Quanto ti invidio che te ne stai lontana da tutti
gli stancanti, assillanti, stupidi e insignificanti dettagli della vita di tutti i
giorni”. La vita di Kate Dresser non era di certo priva di dettagli stupidi e
assillanti ma lei invece di menzionarli nelle sue risposte preferiva
infiammare la sorella dilungandosi a parlare di viaggi e mandandole
fotografie che la ritraevano su una gondola o cartoline da Firenze dove
passava sempre la Pasqua con gli amici.

Streeter sapeva bene che grazie alle lezioni di Kate Dresser stava facendo
buoni progressi: ogni volta che usciva da palazzo Tarominia si esaltava
all’idea che entro un mese o comunque entro la fine della stagione sarebbe
stato in grado di capire ogni cosa che veniva detta. Ma i suoi progressi
avevano degli alti e bassi.
La bellezza dell’Italia non è più tanto facile da avvicinare, se mai lo è
stata, ma guidando verso una villa a sud di Anticoli per trascorrere un
weekend con gli amici, Streeter si imbatté in una campagna così ricca di
dettagli e meraviglie che non può essere descritta. Raggiunsero la villa
prima dell’imbrunire. Pioveva. Gli usignoli cantavano sugli alberi, la porta
a due battenti della villa era aperta: nelle stanze c’erano vasi con rose, nei
camini bruciava legna d’ulivo. Sarebbe potuto sembrare, con la servitù
impegnata a fare inchini, a sistemare candele e a servire vino, uno di quegli
enormi raduni principeschi che si vedono nei film.
Dopo cena Streeter andò sulla terrazza per sentire il canto degli usignoli e
per ammirare le luci dei paesini sulle colline: per la prima volta, grazie a
scure colline e luci distanti, si sentì in una condizione emotiva di grande
tenerezza. La mattina seguente, quando mise piede sul balcone della sua
stanza, vide una cameriera a piedi nudi che coglieva una rosa e se la
metteva tra i capelli. Poi cominciò a cantare, sembrava una melodia
flamenco, prima toni gutturali poi in falsetto. Il povero Streeter si rese conto
che il suo italiano era ancora troppo limitato, non era in grado di capire una
sola parola. Questo lo portò alla convinzione che egli, parimenti, non era in
grado di capire il paesaggio.
Le sue sensazioni su questo aspetto erano del tutto simili a quelle che si
provano in quegli stupendi luoghi di villeggiatura o in quei villaggi estivi
dove tutto è organizzato: una scena che forse da bambini abbiamo provato
tutti ritrovandoci proiettati in una relazione amorosa temporanea bella e
semplice che finisce bruscamente il giorno della Festa del lavoro. Streeter
aveva deciso di ribellarsi dall’evocare e prendere a noleggio gioie
temporanee e dolceamare. Intanto la cameriera continuava a cantare e
Streeter continuava a non capire una parola.
Durante l’ora di lezione da Kate suo figlio Charlie attraversava la sala
almeno una volta: era un vero fanatico del baseball, aveva un brutto colorito
e una risata da civetta. Salutava Streeter con un “ciao” e gli riferiva alcune
delle notizie sportive che aveva letto sul “Daily American” di Roma.
Streeter aveva un figlio della stessa età, la sentenza di divorzio gli impediva
di vederlo. Proprio per questo non riuscì mai a guardare Charlie senza
provare una fitta di nostalgia. Charlie aveva quindici anni, era uno di questi
americani che si vedono vicino all’ambasciata mentre aspettano il pulmino
scolastico: giubbotto di pelle nero, Levi’s, basettoni o taglio di capelli a
coda d’anatra, guantone da baseball, tutte cose che li bollano come
americani. Sono loro i veri emigrati. Di sabato dopo il cinema vanno in uno
di questi bar che si chiamano Harry’s, Larry’s, Jerry’s, dove i muri sono
tappezzati di fotografie autografate di chitarristi sconosciuti e soubrette mai
viste, mangiano uova e bacon, parlano di baseball e al juke-box mettono
canzoni americane. Sono i figli di quelli che lavorano all’ambasciata, i figli
degli scrittori, degli impiegati nelle società petrolifere e nelle compagnie
aeree, dei docenti del Fulbright. Mangiare uova e bacon, ascoltare il juke-
box dà loro un senso di lontananza e la lontananza da casa è un distillato
molto più dolce e inebriante di quanto i loro genitori possano mai
immaginare. Charlie viveva questa vita da cinque anni sotto un soffitto
decorato con l’oro che il primo duca di Roma aveva importato dal Nuovo
Mondo e aveva visto vecchie marchese con diamanti grandi come ghiande
infilare, alla fine dei pranzi, bucce di formaggio nelle loro borse. Aveva
fatto giri in gondola, giocato a softball sul Palatino; aveva visto il Palio di
Siena e ascoltato le campane a Roma, Firenze, Venezia, Ravenna e Verona,
ma non ne fece menzione quando a metà marzo scrisse a George, lo zio
della madre, anch’egli di Krasbie. Anzi, chiese all’anziano di riportarlo a
casa e di far sì che diventasse un vero American boy. Il tempismo fu
perfetto. Lo zio George era appena andato in pensione, una carriera spesa
alla fabbrica di fertilizzanti, e aveva sempre avuto il desiderio che Kate e
suo figlio tornassero a casa. Nel giro di due settimane egli s’imbarcò diretto
a Napoli.
Streeter, naturalmente, non sapeva nulla di tutto questo ma aveva
avvertito che c’era una certa tensione tra Charlie e la madre. Il suo vestirsi
all’americana, le pose da ferroviere, da lanciatore e da cowboy che
assumeva e di contro i modi d’essere molto italiani della madre avevano
dato adito a ragguardevoli divergenze. Una domenica pomeriggio Streeter
si ritrovò nel mezzo di una discussione. Assunta, la cameriera, l’aveva già
fatto entrare e lasciato in attesa sulla porta della sala quando si accorse che
Kate e suo figlio si stavano urlando addosso con rabbia. Streeter a quel
punto non poteva più andarsene; Assunta s’affacciò per avvertire che
Streeter, immobile nell’atrio, era lì. Kate uscì dalla stanza e si avvicinò a lui
in lacrime. Gli disse che quel pomeriggio non avrebbe potuto dargli lezione.
Lo disse in italiano. Era dispiaciuta ma un impegno improvviso era
sopraggiunto e non aveva nemmeno avuto il tempo per avvertirlo
telefonicamente. Si sentì come un idiota di fronte a quelle lacrime, lui con il
libro di grammatica e il quaderno in mano e I promessi sposi sotto braccio.
Rispose che non c’era problema per la lezione e le chiese se poteva andare
martedì. Lei rispose: “Sì, sì, certo. Venga martedì. E potrebbe venire anche
giovedì? Non per la lezione ma perché ho bisogno di un favore. Il fratello di
mio padre, mio zio George, sta venendo in Italia. Farà di tutto per portare
Charlie a casa. Non so proprio come comportarmi. Cosa posso fare? Sarei
davvero felice se qui ci fosse un uomo, mi sentirei molto meglio sapendo di
non essere completamente sola. Lei non deve dire né fare nulla, deve
rimanere seduto in poltrona a bere un drink. Sarebbe davvero importante
per me non essere sola”.
Streeter disse di sì e se ne andò chiedendosi che razza di vita stesse
facendo quella donna se si affidava a uno sconosciuto in un’emergenza
come quella. Con la lezione andata a monte e nient’altro da fare passeggiò
lungo il fiume fino al ministero della Marina e tornò indietro passando per
un quartiere di cui non era possibile dire se fosse vecchio o nuovo né altro.
Era domenica pomeriggio, le case quasi tutte chiuse, le strade deserte, le
poche persone che incontrava erano nuclei familiari di ritorno da una gita
allo zoo, poi alcuni di questi uomini e donne soli con un pacchetto di paste
tra le mani che si incrociano in ogni angolo del mondo, per lo più zii e zie
non sposati che vanno a prendere il tè con i parenti e portano un po’ di dolci
per rendere più piacevole la visita. Silenzio intorno, la sua solitudine era
scandita dal rumore dei suoi passi e dallo sferragliare lontano delle ruote del
tram sui binari, un suono di solitudine per molti americani la domenica; e lo
era anche per lui, in modo disordinato gli riportava alla memoria le irritanti
domeniche della sua giovinezza senza amici né amore. Avvicinandosi al
centro della città c’erano più case e più persone, fiori e il vociare della
gente, e sotto Porta Flaminia una puttana cominciò a parlargli. Era una
donna giovane e bella. Streeter con il suo italiano stentato le disse che
aveva già un’amica e proseguì oltre.
Attraversando la piazza vide una macchina che investiva un uomo. Un
rumore forte, quella sorprendente intensità di suono che emettono le nostre
ossa quando ci viene assestato un colpo mortale. Il conducente uscì rapido
dall’auto e cominciò a correre verso il Pincio. La vittima stava accasciata
sul lastricato, era un uomo dalle vesti consunte e i capelli, neri e ondulati,
pieni di gelatina. Forse erano il suo orgoglio. Si assiepò una grande folla
intorno – non molto solenne per la verità anche se alcune donne si fecero il
segno della croce –, ognuno cominciò a parlare in modo concitato. La folla
assorbita in un vociare di opinioni sembrava indifferente alla sorte
dell’uomo in fin di vita ed era diventata così fitta che la polizia che era
accorsa dovette spingere e solo a fatica raggiunse la vittima. Streeter,
ancora con le parole della puttana nelle orecchie, si chiedeva come mai
quelle persone dessero così poco valore alla vita umana.
Camminò in direzione opposta alla piazza, verso il fiume, e passando
accanto alla tomba di Augusto notò un ragazzo che chiamava un gatto e gli
offriva qualcosa da mangiare. Era uno delle migliaia di milioni di gatti che
vivono tra le rovine dell’antica Roma e che mangiano rimasugli di
spaghetti. Il ragazzo gli stava dando un pezzo di pane ma non appena il
gatto si avvicinò, quello tirò fuori un petardo dalla tasca, lo mise in mezzo
al pane e accese la miccia; poi, lasciò il pane sul marciapiede e proprio nel
momento in cui il gatto l’afferrò ci fu lo scoppio. L’animale lanciò un urlo
infernale e balzò per aria con il corpo che si attorcigliava su se stesso. Una
volta a terra si diede alla fuga su un muro per poi perdersi nell’oscurità
della tomba di Augusto. Il giovane rise per il suo scherzo e con lui diverse
persone che si erano fermate a guardare.
Il primo istinto di Streeter fu di prendere a schiaffi quel ragazzo e di
insegnargli che non si devono sfamare i gatti randagi con petardi accesi, ma
con un pubblico così riconoscente si sarebbe potuto creare un incidente
internazionale per cui si convinse che non c’era niente da fare; in fondo le
persone che avevano riso alla bravata erano gente d’animo buono e gentile,
la maggior parte di loro genitori affettuosi – li avresti dovuti vedere nel
primo pomeriggio mentre raccoglievano violette sul Palatino!
Streeter proseguì per una via buia e alle sue spalle udì il rumore degli
zoccoli e dei drappeggi dei cavalli, sembrava il ritorno della cavalleria... Si
scansò da una parte per permettere a un carro funebre e alla carrozza dei
parenti e conoscenti del defunto di passare. Il carro funebre era trainato da
due coppie di cavalli dal pelo rossiccio e con piume nere. Il conducente
indossava una livrea nera con un cappello da ammiraglio e il suo era il
tipico volto abbrutito di un ladro di cavalli. Il carro sferragliava, urtava,
sbatteva contro il selciato in modo così sgangherato che la povera anima
trasportata doveva essere in un terribile stato di scompiglio. Il carro che lo
seguiva era vuoto: gli amici dello scomparso avevano probabilmente fatto
tardi o gli era stata comunicata la data sbagliata o si erano del tutto
dimenticati dell’impegno, cosa che accade spesso a Roma. Ora lasciamo il
carro funebre e la carrozza che sferragliavano verso le mura serviane.
Dopo l’accaduto Streeter divenne sicuro di una cosa: mai avrebbe voluto
morire a Roma. Godeva di eccellente salute e non c’erano motivi per
pensare alla morte. Nonostante ciò aveva paura. Una volta a casa si versò
un po’ di whisky e acqua in un bicchiere e uscì in balcone. Ammirò il calar
della notte e le luci nelle strade che via via si accendevano. Fu preso dallo
sconforto. Non voleva morire a Roma. La forza di questa fissazione poteva
derivare solo dall’ignoranza e dalla stupidità, disse a se stesso. Per quale
motivo questa paura s’era manifestata? non era forse per la sua incapacità di
rispondere all’impatto della vita? Rimproverò se stesso con argomenti
banali e poi si consolò con del whisky. Nel mezzo della notte fu svegliato
dal rumore di una carrozza e dagli zoccoli di cavalli. Ricominciò ad avere
paura. Il carro funebre, il ladro di cavalli, il carro dei parenti vuoto stavano
tornando indietro, sferragliando, sotto il suo balcone. Si alzò dal letto e
andò alla finestra per vedere: due carrozze vuote che tornavano alla
scuderia.

Quando quel martedì zio George sbarcò a Napoli era eccitato e di
buonumore. Lo scopo del suo viaggio era duplice: riportare Charlie e Kate a
casa e prendersi una vacanza, la prima dopo quarantatré anni. Un suo amico
di Krasbie che era stato in Italia gli aveva scritto un itinerario da seguire: “A
Napoli alloggia al Royal. Non perderti i musei e fatti un drink alla Galleria
Umberto. A cena vai al California, troverai buon cibo americano. Per
andare a Roma prendi il pullman Roncari, passa per due paesini interessanti
e si ferma alla villa di Nerone. Prendilo di mattina. A Roma alloggia
all’Excelsior. Ricordati di prenotare...”.
La mattina del mercoledì zio George si alzò presto e scese nella sala da
pranzo dell’hotel. “Orange juice and ham and eggs,” disse rivolgendosi al
cameriere. Questi dopo un po’ gli portò succo d’arancia, caffè e un panino.
“Where’s my ham and eggs?” chiese quindi zio George e quando vide che il
cameriere s’inchinava e sorrideva si rese conto che l’uomo non capiva
l’inglese. Prese il suo frasario ma non trovò nulla che facesse riferimento a
“ham” e a “eggs”. Allora con voce sostenuta chiese: “You gotta no
hamma?”, e poi “you gotta no eggsa?”. Il cameriere continuò a fare inchini
e a sorridere e zio George si arrese. Fece colazione con le cose che non
aveva ordinato, diede al cameriere una mancia di venti lire, cambiò in lire
quattrocento dollari in traveller’s cheque allo sportello, pagò il conto
dell’hotel e se ne andò. Tutti quei soldi crearono un rigonfiamento nella
giacca del suo vestito e stette sempre con la mano sinistra sul portafoglio
come se avesse un dolore proprio lì. Napoli, lo sapeva bene, era piena di
ladri. Prese un taxi per il capolinea dei pullman che si trovava in una piazza
vicino alla Galleria Umberto. Era mattina presto, la luce arrivava obliqua.
Apprezzò il profumo del caffè e del pane e il trambusto delle persone che
s’affrettavano per le strade per andare al lavoro, il piacevole odore del mare
che dalla baia risaliva le strade. Era in anticipo e un gentiluomo con la
faccia rossa che parlava l’inglese con accento british gli mostrò il suo posto
a sedere sul pullman. Era la guida, una di quelle che rendono bizzarro il
viaggio tra i monumenti, con qualunque mezzo si stia viaggiando,
dovunque si sia diretti. La loro proprietà di linguaggio è straordinaria, la
loro conoscenza del mondo antico impressionante, il loro amore per la
bellezza è pura passione. L’unico motivo per cui si separano dal gruppo per
un momento è per bere un sorso da una fiaschetta da tasca o per dare un
pizzicotto a qualche giovane pellegrino. Rendono gloria al mondo antico in
quattro lingue ma indossano vestiti logori, biancheria sporca, le loro mani
tremano per la sete e per la libidine. Zio George e la guida finirono a parlare
del tempo, il suo alito, c’era da aspettarselo, sapeva di whisky. Poi la guida
s’allontanò per accogliere il resto della comitiva che veniva dalla piazza.
Era un ammasso di una trentina di persone, si muovevano come se
fossero un gregge comprensibilmente timoroso per la stranezza di ciò che lo
circondava. Erano per lo più donne di una certa età. Non appena salirono
sul pullman cominciarono a schiamazzare – un po’ come faremo tutti
quando diventeremo vecchi – e a fare gli arzigogolati preparativi tipici delle
persone anziane, e mentre la guida decantava le bellezze dell’antica Napoli
il pullman partì.
Per prima cosa raggiunsero la costa: il colore dell’acqua fece tornare in
mente a zio George le cartoline che aveva ricevuto da Honolulu da un
amico che era andato lì in vacanza. Un mare verde e blu, non aveva mai
visto nulla di simile di persona. Superarono diversi stabilimenti balneari
semivuoti dove alcuni uomini, stesi sugli scogli in costume, attendevano
con pazienza che il sole scurisse la loro pelle. A cosa staranno pensando, si
chiese zio George. A che cosa penseranno per tutte quelle ore che se ne
stanno sugli scogli. Poi superarono un gruppo di cabine sgangherate non più
grandi delle latrine e a zio George tornò in mente – quanti anni erano
passati! – il brivido di spogliarsi in queste stanzette intrise di salmastro che
affittava quando da ragazzo andava al mare. Quando svoltarono in direzione
opposta, allungò il collo per dare un ultimo sguardo al mare chiedendosi
perché, così scintillante e blu, lo sentiva come qualcosa di cui serbava
memoria nelle sue ossa. Il pullman entrò in un tunnel e uscì nell’aperta
campagna. Zio George era interessato ai metodi di coltivazione; fu colpito
da come gli alberi fossero usati come sostegno per le viti, dai terrazzamenti,
e si preoccupò per le tracce di erosione del suolo che vide. Si rese conto che
tra lui e quel modo di vivere che gli era estraneo come la vita sulla luna
c’era solo una lastra di vetro.
Il pullman con il soffitto e i finestrini di vetro sembrava una vaschetta per
pesci: la luce del sole e l’ombra delle nubi cadevano sui viaggiatori. Un
gregge di pecore fermò il loro cammino. Le pecore circondarono il veicolo,
isolarono questa piccola isola di americani attempati e riempirono l’aria con
il loro belare ottuso e stridente. Al di là delle pecore c’era una ragazza che
trasportava una caraffa per l’acqua sulla testa. Un uomo disteso sul prato al
lato della strada dormiva profondamente. Una donna allattava un bambino
sulla soglia della sua casa. Dentro il duomo di cristallo le anziane signore
discutevano su quanto fosse alto il prezzo per i bagagli aerei. “Grace s’è
presa la tigna a Palermo,” disse una di loro. “Non credo che riuscirà mai a
curarsi.”
La guida indicò i resti di una vecchia strada romana e poi torri e ponti
anch’essi romani. C’era un castello su una collina, una vista che deliziò zio
George che però non rimase troppo meravigliato perché aveva visto tanti
castelli dipinti sui piatti da pranzo quando era ragazzo e il primo libro che
gli era stato letto, e il primo che riuscì a leggere, aveva tante illustrazioni
con castelli. I castelli avevano significato per lui qualcosa d’eccitante,
estraneo e bellissimo e ora alzando gli occhi poteva vederne uno che si
stagliava contro il cielo blu come il cielo delle figure del libro.
Dopo aver viaggiato per una o due ore si fermarono in un paese dove
c’erano dei bar e delle toilette. Una tazzina di caffè costava cento lire, una
circostanza che animò le conversazioni delle vecchie donne per ancora un
po’ dopo che il viaggio riprese. Il caffè era costato sessanta lire all’hotel e
quaranta al bar dietro l’angolo. S’imbottirono di pillole e si misero a
leggere le loro guide mentre zio George guardava quella strana campagna
attraverso il finestrino, dove i fiori della primavera e i fiori d’autunno
sembravano crescere nell’erba gli uni accanto agli altri. In quel periodo
c’era un clima orribile a Krasbie e lì invece tutto era in fiore, alberi da
frutta, mimose, e i pascoli imbiancati dai fiori e gli orti già pronti per il
raccolto.
Arrivarono in un paesino con strade strette e tortuose di cui non riuscì a
leggere il nome. Il conducente dovette sudare sette camicie per proseguire e
due o tre volte fu costretto a fermarsi del tutto tanto era densa la folla per le
strade. Le persone alzarono lo sguardo a questa apparizione, una vaschetta
di americani attempati, con un’espressione di tale incredulità che zio
George si sentì ferito. Vide una fanciulla che si tirò una crosta di pane fuori
della bocca per fissarlo meglio, donne che sollevavano i bambini in aria per
mostrare loro gli sconosciuti; tutte le finestre si aprirono, i bar si svuotarono
e la gente cominciò a indicare quegli strani turisti, e a ridere. A zio George
sarebbe piaciuto rispondergli per le rime come spesso faceva con quelli del
Rotary. “Smettetela di fissarci,” gli avrebbe voluto dire. “Non siamo mica
così bizzarri, ricchi e strani. Smettetela di fissarci.”
Il pullman svoltò per una strada secondaria e ci fu un’altra fermata per
caffè e bagno. Molti si sparpagliarono per acquistare cartoline, zio George
vide una chiesa aperta dall’altro lato della strada e decise di entrare.
Quando aprì la porta sentì un’aria speziata. Le pareti in pietra erano nude,
sembrava d’essere in un arsenale, le uniche candele accese erano ai lati
delle cappelle. Zio George sentì una voce sonante e vide un uomo in
preghiera inginocchiato di fronte a una delle cappelle. Pregava in un modo
che zio George non aveva mai visto prima, la sua voce era forte,
supplichevole ed esprimeva collera in alcuni frangenti. Il suo volto era
bagnato dalle lacrime. Implorava la croce chiedendo qualcosa: una
spiegazione, un’indulgenza, una vita. Agitava le mani, piangeva, la sua
voce e i suoi lamenti risuonavano nell’umile chiesa. Zio George uscì e tornò
al suo posto sul pullman.
Lasciarono ancora una volta la città per la campagna e un po’ prima di
mezzogiorno si fermarono all’entrata della villa di Nerone. Comprarono i
biglietti ed entrarono. Si trattava di rovine imponenti e un po’ irreali, si
erano portati via tutto tranne le mura di supporto. La villa era stata grande e
maestosa, ora i muri, gli archi delle stanze ormai prive di soffitto e ciò che
rimaneva delle torri costituivano il proseguimento del pascolo, era un nulla
che conduceva a un altro nulla, e tutte le scale che salivano e giravano
erano interrotte a mezz’aria. Zio George abbandonò la comitiva e vagò
contento attraverso i ruderi dell’edificio principale. L’atmosfera gli sembrò
piacevole e tranquilla, un po’ come le sensazioni che si provano quando si
sta nella foresta, ascoltò il canto degli uccelli e il rumore dell’acqua. La
forma delle rovine, tutte ricoperte da piante che sembravano i peli delle
orecchie di un anziano, gli parve piacevolmente familiare come se quei
luoghi fossero stati il teatro dei sogni che non ricordava. Poi si ritrovò in un
posto più buio degli altri. L’aria era umida e le stanze di mattoni che senza
senso si aprivano una dietro all’altra erano piene di sterpaglia. Forse era
stata una segreta o una cella di detenzione o un tempio dove venivano
celebrati riti osceni perché d’un tratto si sentì licenziosamente eccitato da
quell’atmosfera. Tornò indietro alla ricerca del sole, dell’acqua e del canto
degli uccelli. Sul suo cammino si imbatté in una guida.
“Le piacerebbe vedere un posto speciale?”
“Che intende per speciale?”
“Molto speciale,” disse la guida. “Per soli uomini. Roba per uomini veri.
Che immagini... antichissime!”
“Quanto vuole?”
“Duecento lire.”
“Va bene.” Zio George prese duecento lire dal suo portafoglio per gli
spicci.
“Mi segua,” disse la guida. “Da questa parte.” Camminava con un passo
talmente svelto che zio George dovette correre per stargli dietro. Lo vide
incunearsi per un passaggio stretto in un muro dove i mattoni s’erano
sgretolati. Zio George provò a seguirlo ma la guida s’era dissolta nel nulla.
Era una trappola. Sentì un braccio attorno al collo, la sua testa fu sbattuta
all’indietro con tale violenza che non ebbe nemmeno la forza per gridare
aiuto. Sentì una mano che gli sfilava il portafoglio dalla tasca – un tocco
leggero, come quando il pesce mordicchia l’esca – e poi fu brutalmente
scaraventato a terra. Rimase stordito in quella posizione per un minuto o
due. Quando riuscì a mettersi a sedere vide che in terra gli avevano lasciato
il passaporto e il portafoglio vuoto.
Inveì con rabbia contro i ladri, pronunciò parole cariche d’odio contro
l’Italia e contro tutta la sua popolazione di ladri, suonatori d’organetto e
muratori. Ma anche durante questo sfogo la sua rabbia non uguagliava la
sua sensazione di debolezza e vergogna. Si vergognava di se stesso
terribilmente e quando raccolse il portafoglio vuoto sentì come se gli
avessero strappato via e spezzato il cuore. Con chi prendersela? No, non
con le rovine umide. Aveva preteso qualcosa di sbagliato da tutti i punti di
vista, poteva prendersela solo con se stesso. I furti avvengono ogni giorno:
qualche stupido vecchio libidinoso come lui viene derubato ogni volta che
il pullman si ferma. Si rimise in piedi a fatica, le sue ossa, le vecchie ossa
che l’avevano messo nei guai, doloranti. Spolverò via la terra dai suoi
vestiti e si rese conto che s’era fatto tardi. Forse aveva perso il pullman,
sarebbe rimasto a piedi tra le rovine senza un soldo. Cominciò a camminare
e poi a correre per le stanze fino a che non giunse a una radura da dove in
lontananza vide il gregge di vecchiette ancora aggrappate l’una con l’altra.
La guida sbucò da dietro un muro, tutti salirono sul pullman che ripartì.
Roma era brutta o perlomeno lo era la periferia: tram e negozi di mobili a
prezzi ridotti, strade che si ripiegavano su se stesse e appartamenti in cui
nessuno vorrebbe vivere. Le vecchie signore cominciarono a munirsi delle
loro guide, a indossare i loro soprabiti, i cappelli e i guanti. Le giornate
finiscono ovunque allo stesso modo. Poi una volta pronte per la
destinazione si sedettero di nuovo, le braccia conserte sul grembo. Il
pullman s’era fermato. “Oh, come vorrei non essere venuta,” disse
un’anziana a un’altra. “Come vorrei non essere mai partita.” E non era la
sola.
“Ecco, ecco Roma,” disse la guida. Ed era proprio così.

Streeter andò da Kate giovedì alle sette. Assunta lo fece entrare; per la
prima volta attraversò la sala senza la sua copia de I promessi sposi. Si
sedette vicino al camino. A quel punto entrò Charlie vestito al solito modo:
i Levi’s con i risvolti e una camicia rosa. Muovendosi strisciava o sbatteva i
tacchi di cuoio dei mocassini sul pavimento di marmo. Disse qualcosa sul
baseball ed esercitò la sua risata da civetta. Non fece alcun accenno allo zio
George e non lo fece nemmeno Kate entrando nella stanza o quando offrì a
Streeter un drink. Sembrava che fosse alle prese con una tempesta di
emozioni e che tutto il suo potere decisionale giacesse sospeso da qualche
parte. Parlarono del tempo. A un certo punto tornò Charlie e si andò a
mettere vicino alla madre che gli prese entrambe le mani e le raccolse in
una delle sue. Suonarono il citofono e Kate si diresse verso l’atrio per
andare ad accogliere lo zio. Si abbracciarono con tenerezza, erano pur
sempre membri della stessa famiglia, e alla fine dell’abbraccio egli disse:
“Mi hanno derubato, Katie. Ieri mi hanno rubato quattrocento dollari
mentre venivo da Napoli con il pullman”.
“Oh, mi dispiace,” disse lei. “Non hai potuto fare niente, non c’era
qualcuno a cui rivolgerti?”
“Qualcuno a cui rivolgermi? Non ho trovato nessuno con cui poter
parlare in inglese da quando sono sbarcato! Qui nessuno parla l’inglese!
Non sono in grado di dirti nulla nemmeno se gli tagli le mani. Ci può stare
che ho perso quattrocento dollari, ho qualche soldo da parte per fortuna, ma
almeno li avessi dati per qualcosa per cui vale la pena...”
“Mi dispiace moltissimo.”
“Vedo che te la passi bene qui, Katie!”
“...Charlie, ti presento zio George.”
Se Kate aveva fatto affidamento sul loro non entrare in sintonia, la sua
chance s’era dissolta in un attimo. Charlie si dimenticò della sua risata da
civetta e rimase molto serio in attesa di ciò che l’America potesse offrirgli.
L’intesa tra l’uomo e il ragazzo fu istantanea e Kate dovette separarli per
presentare Streeter. Zio George gli strinse la mano e giunse presto a una
verosimile ma erronea conclusione.
“Speaka da English?” gli chiese.
“Sono americano,” rispose Streeter.
“Da quanto dura la tua condanna?”
“Questo è il secondo anno che sono qui,” disse Streeter. “Lavoro alla
FRUPC.”

“Questo paese è immorale,” disse zio George sedendosi in una delle


sedie dorate. “Non ero nemmeno arrivato che mi hanno rubato quattrocento
dollari e poi passeggiando per le strade qui a Roma non ho visto altro che
statue di uomini senza vestiti. Nulla addosso!”
Kate chiamò Assunta e quando la cameriera entrò nella stanza le disse, in
italiano, rapidamente, di portare del whisky con ghiaccio. Poi rispondendo
allo zio disse: “È solo un altro modo di vedere le cose, zio”.
“Niente affatto,” disse deciso zio George. “Non è una cosa normale.
Nemmeno negli spogliatoi: sono davvero pochi gli uomini che scelgono di
sfilare per gli spogliatoi nudi come vermi se hanno un asciugamano a
portata di mano. Ripeto: non è una cosa normale. Dovunque ti giri, sui tetti
delle case, agli incroci più importanti! Venendo qui ho attraversato un
piccolo parco pubblico, immagino che per voi sia un cortile, e proprio nel
mezzo del cortile, sì proprio tra i bambini che giocavano, c’era uno di
questi uomini senza nulla addosso.”
“Vuoi un po’ di whisky, zio?”
“Sì, grazie... La nave parte sabato, Katie, voglio che tu e tuo figlio
torniate a casa con me.”
“No. Non voglio che Charlie se ne vada da qui,” rispose Kate.
“È lui che vuole andarsene, vero Charlie?... mi ha scritto una bella
lettera. Belle parole, scrive bene. Proprio una bella lettera, Charlie. L’ho
fatta leggere al direttore della scuola, ha detto che puoi essere ammesso alla
High School di Krasbie quando vuoi. Voglio che venga anche tu Katie. È la
tua casa, la tua sola e unica casa. Sai qual è il tuo problema, Katie? Quando
eri piccola ti prendevano in giro a Krasbie e così hai cominciato a scappare.
Da allora non ti sei mai fermata.”
“Anche se fosse vero, e forse lo è,” disse senza pause, “perché mai dovrei
far ritorno in un posto dove sono considerata ridicola?”
“Katie, nessuno ti darà della ridicola. Ci penserò io.”
“Mamma, io voglio tornare a casa,” disse Charlie. Sedeva su uno
sgabello vicino al camino e aveva perso la rigidezza che aveva in
precedenza. “Ho sempre nostalgia di casa.”
“Come puoi avere nostalgia dell’America?” la voce della madre
tagliente, “non l’hai mai vista tu l’America! È questa la tua casa.”
“Che vuoi dire?”
“La tua casa è qui con tua madre.”
“Non è così semplice, mamma. Qui mi sento sempre estraniato. Tutte le
persone per strada parlano una lingua diversa.”
“Tu non c’hai nemmeno provato a imparare l’italiano.”
“Anche se ci fossi riuscito non ci sarebbe stata alcuna differenza. Il senso
di estraneità sarebbe rimasto, ci sarebbe sempre qualcosa che mi ricorda che
quella non è la mia lingua. Mamma io non riesco a capire le persone: sono
imprevedibili, non so mai cosa stanno per fare.”
“Ma perché non provi a capirli?”
“Ci provo, ma io non sono un genio. E poi nemmeno tu li capisci. Ti ho
sentito che lo dicevi. Anche tu hai nostalgia di casa qualche volta, lo so per
certo e si vede dal tuo aspetto.”
“La nostalgia di casa non esiste. Non esiste nella maniera più assoluta. Il
cinquanta per cento delle persone del mondo soffre perennemente di
nostalgia di casa. Ma credo che tu non sia grande abbastanza per capirlo.
Quando sei in un posto e non vedi l’ora di essere in un altro non puoi
pensare di risolvere la cosa prendendo una nave. In realtà tu non desideri un
altro paese, tu desideri qualcosa che dentro di te non hai o che non sei stato
ancora in grado di trovare,” disse Kate con rabbia.
“Mamma, io non credo sia questo. Io voglio solamente dire che se stessi
con persone che parlassero la mia lingua, persone in grado di capirmi, starei
più a mio agio.”
“Se stare a tuo agio è tutto quello che conti di fare per riuscire nella vita
che Dio ti aiuti.”
Suonarono alla porta e Assunta andò ad aprire. Si scambiarono
un’occhiata d’intesa e vide che erano proprio le otto e cinque. Ed era pure il
primo giovedì del mese. Prima che riuscisse a dare una spiegazione la
compagine di nobili cominciò ad attraversare la sala, il duca di Roma in
testa con un mazzo di fiori nella mano destra. Poco più indietro c’era sua
moglie, la duchessa – una donna alta, slanciata, con i capelli grigi e ornata
da molti gioielli che dovevano esser stati dati alla sua famiglia da Francesco
I. Un assortimento d’altri nobili occupava la posizione di coda, con
l’aspetto di un circo di campagna, splendidi e consumati dal viaggio. Il duca
porse i fiori a Kate. Fecero tutti un leggero inchino ai suoi ospiti e si
diressero verso la porta di servizio passando per la cucina, con tutti i suoi
odori di perdite di gas.
“Tu vuo’ fa’ l’americano,” zio George cominciò a cantare a squarciagola.
“Ma you live in Italy.” Aspettò che qualcuno ridesse ma nessuno lo fece.
Allora chiese: “Cos’era quella specie di processione?”.
Kate gli spiegò, i suoi occhi si stavano facendo lucidi e lo zio se ne
accorse.
“A te piacciono queste cose, vero?” le disse.
“Può darsi.”
“È assurdo, Katie,” disse. “È assurdo, assurdo. Tu tornerai a casa con me
e Charlie. Tu e Charlie vivrete nell’altra metà di casa mia. Io v’installerò
una magnifica cucina all’americana.”
Streeter si accorse che Kate era stata colpita dal commento dello zio.
Pensò che stesse sul punto di piangere. Invece disse con rapidità: “Come
diavolo credi che l’America potesse essere scoperta se tutti fossero rimasti a
casa in posti come Krasbie”.
“Tu, Katie, non stai scoprendo proprio un bel nulla.”
“Sì che lo sto facendo. Sì.”
“Mamma, staremo tutti meglio,” disse Charlie. “Staremo tutti meglio con
una bella casa tutta pulita, un sacco di begli amici, un bel giardino, una
cucina e un box doccia.”
Kate stava vicino alla mensola del camino e dava a tutti le spalle. A un
certo punto disse ad alta voce: “Non i begli amici né la cucina o il giardino,
nemmeno il bagno con doccia mi impediranno di voler conoscere il mondo
e le diverse persone che ci vivono”. Poi si girò verso il figlio e con
gentilezza gli disse: “Charlie, l’Italia ti mancherà”.
Il ragazzo rise con il suo sghignazzo da civetta. “Mi mancheranno i
capelli neri nel piatto,” disse. Kate rimase in silenzio. Nemmeno un sospiro.
Poi il figlio andò da lei e cominciò a piangere. “Mi dispiace, mammina, mi
dispiace. Ho detto una cosa stupida, l’ho detto per scherzo.” Le baciò le
mani e le lacrime sulle guance. Streeter si alzò dalla poltrona e se ne andò.

Domenica, Streeter andò per la lezione e lesse: “Tal era ciò che di meno
deforme e di men compassionevole si faceva vedere intorno, i sani, gli
agiati: che, dopo tante immagini di miseria, e pensando a quella ancor più
grave, per mezzo della quale dovrem condurre il lettore, non ci fermeremo
ora a dir quale fosse lo spettacolo degli appestati che si strascicavano o
giacevano per le strade, de’ poveri, de’ fanciulli, delle donne”.*
Il ragazzo se n’era andato, Streeter ne era sicuro non perché Kate glielo
avesse detto ma perché la casa sembrava molto più grande. A metà lezione
il vecchio duca di Roma attraversò la sala in vestaglia e pantofole: portava
una tazza di brodo alla sorella che stava male. Kate sembrava stanca ma in
definitiva era sempre stato così. Alla fine della lezione Streeter si alzò e
mentre si domandava se lei avrebbe menzionato Charlie o zio George, Kate
si complimentò per i progressi fatti e lo incoraggiò a completare I promessi
sposi e a comprare una copia della Divina Commedia per la settimana
successiva.


* In italiano nel testo. D’ora in poi i corsivi nel racconto stanno a indicare parole in italiano
nell’originale inglese. [N.d.T.]
* Cheever inventa un papa. In tutto il racconto, e più in generale nel suo stile, emerge un sottile
equilibrio tra completamente inventato, verosimile e reale. [N.d.T.]
* Il brano è tratto dal XXXIV capitolo de I promessi sposi. [N.d.T.]

John Cheever (Quincy, Massachusetts, 1912 - Ossining, New York, 1982)


è stato uno dei massimi scrittori americani del Novecento. Vincitore del
premio Pulitzer con I racconti (1979; Feltrinelli, 2012), eccelse anche nel
romanzo con capolavori come Cronache della famiglia Wapshot (1957;
Feltrinelli, 2012), Bullet Park (1969; Feltrinelli, 2012), Falconer (1977;
Feltrinelli, 2013) e Sembrava il paradiso (1982; Feltrinelli, 2014). I suoi
ritratti dell’inquieta borghesia americana sono stati di ispirazione per
un’infinita serie di scrittori, registi e artisti visivi. Feltrinelli sta
riproponendo tutte le sue opere principali, fra le quali sono da segnalare
anche i suoi diari inediti, scritti tra la fine degli anni quaranta e il 1982, Una
specie di solitudine (2012). Feltrinelli ha inoltre pubblicato, nella collana
digitale Zoom Flash, Il nuotatore (2012).
Cos’è ZOOM?

Zoom è il marchio editoriale digitale di Feltrinelli.


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amatissima carta ha pur sempre i suoi limiti. In Zoom troverai racconti,
romanzi a puntate, guide, saggi e interventi editi e inediti. Testi brevi ma di
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INDICE

The Bella Lingua


L’autore
Cos’è ZOOM?
Cos’è ZOOM Flash?
Zoom è anche social
Traduzione di Leonardo Giovanni Luccone

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano

Edito nella collana ZOOM Flash, ottobre 2014

ISBN: 9788858853030

Copyright © John Cheever, 1946, 1947, 19488, 1949, 1950, 1951, 1952,
1953, 1954, 1955, 1956, 1957, 1958, 1960, 1961, 1962, 1963, 1964, 1965,
1966, 1967, 1968, 1970, 1972, 1973, 1977, 1978
Copyright renewed by John Cheever, 1977, 1978
All rights reserved

Tratto da I racconti, pubblicato da Feltrinelli

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