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VITTORIO GIUSTI
IL CERCHIO DI PIETRE
E D I Z I O N I
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Copyright2007 Il Cerchio di Pietre.
Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata
devono essere inviate a:
Marco Pardini
info@marcopardini.com
Stampato in Italia
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NOTE DELL’EDITORE
Ogni riferimento a nomi di persone, luoghi, avvenimenti, indirizzi e-mail, siti web,
numeri telefonici, fatti storici, siano essi realmente esistiti od esistenti, è da considerarsi
voluto.
I nomi dei personaggi sono frutto di fantasia, cosicché nessuno vi si possa riconoscere.
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RINGRAZIAMENTI DELL’AUTORE
Un sentito grazie a Gavino, a Mariano, a Geppetto, alla Donna Lakhota, a todas Las
Patrizias, a todos Los Grazianos, insomma a tutti gli appartenenti al Cerchio di Pietre.
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A Matteo e Marco
futuri apprendisti sciamani
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Capitolo 1
Prologo
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Capitolo 2
L’incontro
Il 20 settembre 2000 Marco Pardini venne nel mio ufficio. Fu intrattenuto per un po' dal
mio collega, in quanto io ero impegnato in cose molto importanti. All'epoca pensavo che gli
impegni e le occupazioni fossero alla base del carisma di una persona. Facevo a gara con altre
persone impegnate a chi fosse più impegnato: sono più impegnato di te, quindi sono più
importante di te.
Dopo una giusta anticamera lo ricevetti nel mio ufficio e ci mettemmo a conversare.
Aveva una calma sconcertante, era estremamente rilassato e la cosa mi metteva
inquietudine.
Ci mettemmo a discutere dei libri di Carlos Castaneda, sui quali mi sentivo molto ferrato.
Cercavo di prenderlo in castagna e mi misi a citare frasi ad effetto e a fare domande di
cui conoscevo la risposta, dato che l'unica cosa che mi interessava sapere era se la conosceva
lui.
Parlai molto, mentre lui poco e quel poco non lo ascoltai: seguivo ciò che diceva solo per
interromperlo ogni qualvolta potevo. Alla fine della conversazione mi disse che gli avrebbe
fatto piacere se ci fossimo rivisti e, scendendo dal mio soppalco ci fermammo nella sala
principale dell'ufficio, dove, tra colleghi, si stava festeggiando un compleanno. Mentre
prendeva una fetta di torta mi affrettai a proporre una tisana. Disse che una coca cola andava
benissimo. Lo salutai e tornai nel mio ufficio. Rimasi per un po' in silenzio.
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Capitolo 3
Mistero a Casoli
Domenica 3 ottobre 2000, molto presto, uscii di casa in moto per andare in ufficio.
Quando mi accorsi che avevo sbagliato strada mi ritrovai in direzione di Casoli, una
frazione di Camaiore. Mi sembrava che la moto sapesse dove andare, quindi proseguii.
Superai il paese di Casoli, e mi misi a cercare una località dove vent'anni prima avevo fatto
un campeggio con i boy-scout.
Incontrai uno strano cane e mi fermai a guardarlo. Il cane si alzò e fece un centinaio di
metri, muovendosi molto lentamente, ed io decisi di seguirlo, a piedi. Si fermò di fronte ad
un box metallico, su cui qualcuno aveva scritto con una bomboletta spray la parola Mistero.
Mi sedetti e rimasi per un'ora circa in silenzio finché il cane si alzò e tornò a muoversi
lentamente in direzione di Casoli. Ogni tanto si fermava, si girava, mi guardava e proseguiva.
Si arrestò proprio dove avevo parcheggiato la moto, si accovacciò con il muso in terra e
non si mosse più. Dopo una mezz'ora ripartii e mi fermai in paese, mettendomi a camminare
nella stradina centrale.
Sentii in lontananza applausi e gran vociare, mi voltai e vidi due sposi che si avviavano
verso la chiesa a piedi, seguiti da molta gente festante. Seguii il corteo sino a quando tutti si
furono accomodati sulle panche, quindi uscii e tornai sui miei passi.
Fu grande la sorpresa quando incrociai Marco, con i due figli, che trafelato e in ritardo
raggiungeva la chiesa per fare (questo lo seppi successivamente) da testimone alle nozze di
sua sorella. Lui non mi notò (almeno credo). Mi nascosi in un anfratto tra due case. Osservai
la scena come inebetito.
Fu un segno. O quantomeno, in quel momento, lo ritenni tale.
Dopo qualche giorno scrissi una lunga email a Marco, a mio modo di vedere molto
ispirata, nella quale esprimevo complicate congetture sulle forze che mi avevano portato
senza una mia volontà conscia a Casoli anziché in ufficio, sulla scritta Mistero, sul cane che mi
aveva fatto fermare e ritornare indietro verso il paese, sulla straordinaria coincidenza che
tutte queste circostanze mi avevano fatto incontrare lui.
Non rispose alla mia email; io ero però impaziente di conoscere il suo punto di vista,
perciò dopo una settimana circa lo chiamai per chiedergli quale fosse la sua interpretazione
dell'evento, una spiegazione dei simboli, insomma quale fosse l'insegnamento, il messaggio.
Sentii una risatina al telefono, poi con voce seria mi disse:
«Lascia perdere queste sciocchezze. Piuttosto dimmi: di che colore era la cravatta dello
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sposo?»
Rimasi ammutolito e obiettai:
«Ma che cosa c'entra?»
«C'entra, c'entra. Non farti affascinare dalle cose che ti sembrano magiche o spirituali
ignorando tutto il resto. Renditi conto che non c'è niente che sia più importante o magico del
primo filo d'erba che incontrerai stamani mattina uscendo dall'ufficio. Neppure la tua vita è
più importante di quel filo d'erba.»
Rimasi in silenzio. Dopo una pausa continuò:
«Domenica prossima porto il mio gruppo, l'associazione Il Cerchio di Pietre, a
riconoscere e raccogliere alcune erbe in montagna. Vedi di venire».
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Capitolo 4
Un botanico in me
Il 17 ottobre 2000 ci trovammo alle 7,30 in piazza a Camaiore. Al bar Marco offriva
cappuccini e briosce a tutti. Fu molto cordiale anche con me, quindi mi presentò al resto del
gruppo.
Il Cerchio di Pietre era ed è tutt'ora un coacervo di persone di diverse età, di variegate
estrazioni sociali, di disparati trascorsi spirituali. Persone che partecipano alle attività
proposte da Marco con varie intensità: quella mattina, di primo acchito, il gruppo tanto era
squinternato che mi dette l'impressione di essere stato messo insieme un quarto d'ora prima
chiamando venti persone prese a caso da un elenco telefonico.
Chiacchierando con lui mentre ci incamminavamo sul sentiero, gli feci notare che era la
prima volta che mi imbattevo in un gruppo così disomogeneo: di solito in questi contesti
spirituali o presunti tali le persone tendono ad appiattirsi verso modelli comportamentali
condivisi, vestono in modo simile, assumono posture ed atteggiamenti comuni. I nuovi amici
e compagni del mio futuro percorso spirituale erano invece bizzarramente assortiti.
«Non è vero», disse Marco trattenendosi per non scoppiare a ridere «anche i miei sono
simili tra di loro: hanno tutti immancabilmente il tristo dentro. E tu sei come loro».
Gli chiesi di essere serio, ma lui disse che era serissimo e che non c'era momento della
giornata in cui era più serio di quando rideva; e per questo rideva in continuazione.
«Sono una persona seria io sai?» e intanto se la rideva alla grande.
«Ma non ti capita mai di essere triste?» domandai
«Certamente! A volte mi sveglio la mattina, mi rendo conto di essere triste e... la cosa mi
diverte molto!»
Rise a lungo. Ero tanto perplesso e confuso in quel momento che se fossi stato un
fumetto, probabilmente nella nuvoletta sopra la mia testa ci sarebbe stato disegnato un punto
interrogativo.
Probabilmente fu proprio questa l'impressione che ebbe di me guardando la mia faccia, e
la cosa, inutile dirlo, alimentava la sua irrefrenabile ilarità. Proprio mentre stavo cominciando
a preoccuparmi, pensando che di lì a poco si sarebbe sentito male, di colpo smise di ridere e
disse:
«Per il tuo modo di vedere le cose, per il copione che ti hanno fatto imparare sin da
quando eri bambino, quello che ti sto dicendo è strano, inconcepibile.
Sei abituato a ingabbiare tutto quello che ti circonda in modelli statici: se ridi è perché sei
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allegro, ma se sei triste non puoi e non devi ridere. Ti hanno insegnato, in pratica, che il tuo
umore cambia a seconda delle circostanze. Credimi sono tutte sciocchezze.
Fai come me: se ridi, ridi e basta. Se piangi, piangi e basta. Poi domandati: che differenza
fa ridere o piangere? La risposta è: non c'è nessuna differenza. A quel punto chiediti se ti fa
star meglio il ridere o il piangere e regolati di conseguenza.
Nel mio caso preferisco ridere, e quindi rido per scelta. Se tu decidi invece di esser triste
e quindi di piangere, fallo con tutto te stesso. Lo vedi questo elleborus viridis?» mentre diceva
queste parole raccolse una pianta. «Per lui la cosa è assolutamente indifferente».
«In che senso?» chiesi, sempre più sconcertato.
«Nel senso che il prossimo anno, di questi tempi, se ti troverai a passeggiare su questo
stesso sentiero, ci sarà sempre un elleboro sul tuo cammino, a prescindere dai tuoi inutili
sbalzi d'umore».
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Capitolo 5
Nel mese di novembre di quello stesso anno 2000 al Cerchio di Pietre iniziò il corso di
Alchimia, ogni giovedì sera nella sede dell'associazione in Via del Giglio a Viareggio.
Eravamo il moltissimi, in una piccola stanza, a seguire con interesse le lezioni.
Il Marco Pardini professore attinge ad un serbatoio di conoscenze e nozioni che ai più
appare inesauribile. Le lezioni somigliano moltissimo ad una estesa navigazione ipertestuale
su Internet: rispetto ad insegnamenti tradizionali, che utilizzano un approccio didattico
sequenziale, Marco taglia in modo trasversale tutto lo scibile umano fondendo insieme in
modo mirabile la storia con la storiografia, e contemporaneamente sviscerando miti e
tradizioni, con intermezzi di archeologia ed antropologia.
Ne risulta un compendio multidisciplinare che sorprende non poco l'allievo in quanto,
per le improvvise deviazioni dall'argomento principale, sembra ogni volta improvvisato.
Si ha infatti la sensazione che inizi a parlare di una cosa non sapendo dove lo porterà il
suo ragionamento; ma successivamente, rileggendo gli appunti o ripensando alla lezione della
serata, si capisce che c'è un metodo sottostante, che forse è proprio quello di non avere un
metodo ortodosso di insegnamento.
Quello che è affascinante è l'applicazione di questo approccio didattico ad un gruppo di
allievi, il Cerchio di Pietre, che, come già detto è estremamente disomogeneo.
Alcuni allievi si fermano all'aspetto culturale delle lezioni, altri invece vi cercano
incessantemente aspetti magici ed esoterici, altri ancora seguono i corsi comprendendo ben
poco ma vengono ogni giovedì con entusiasmo perché sentono che ci devono essere, altri
infine vengono perché si sentono a loro volta preparati nei singoli argomenti e tentano di
sfoggiare la loro cultura facendo in continuazione domande intelligenti o - da loro - presunte
tali. C'è anche una categoria di persone, di sesso femminile, che vengono semplicemente
perché sono affascinate da Marco.
Marco si adatta a tutti come un guanto, e la cosa che è ancora più sorprendente è che
ciascuno pensa che il metodo sia ritagliato a propria misura.
In linea generale possiamo dire che gli allievi delle lezioni del giovedì si dividono in due
grandi categorie: i dogmatici e i mistici.
I primi, e io credo proprio di far parte di questi, sono di solito diffidenti, perfezionisti,
nozionisti fino alla pedanteria; i secondi sono invece il più delle volte emotivi, creduloni,
approssimativi.
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Marco tende ad approcciare in modo completamente diverso le due tipologie di persone
ed un evento accaduto nel marzo 2001 durante una lezione di un giovedì sera, chiarirà
meglio questo concetto.
Mentre ascoltavo, avevo la mano appoggiata su un foglio bianco di un quaderno. Silvana,
un'allieva seduta accanto a me, con una penna iniziò a segnare i contorni della mia mano.
Potevamo con certezza vedere il segno in blu sul foglio bianco, mentre la penna
costeggiava le varie dita. Al termine alzai la mano e con non poco stupore ci rendemmo
conto che il foglio era bianco, come se il disegno fosse stato fatto con inchiostro simpatico.
Alla fine della lezione chiedemmo a Marco lumi sulla cosa ma lui glissò e si dedicò ad
altre questioni, mentre io e Silvana cercavamo di spiegare tra di noi l'accaduto, io azzardando
una spiegazione razionale, lei parlando apertamente di magia e di un segno da parte di
qualche entità.
Nei giorni successivi Marco parlò singolarmente con ciascuno di noi due dell'evento.
Silvana mi disse che le aveva detto di lasciar perdere tutte le congetture magiche, dato che si
trattava semplicemente della sensazione di aver scritto con la penna, mentre essa non stava
effettivamente scrivendo, forse per problemi di inchiostro, forse perché non
sufficientemente calcata.
In altre parole, se muovi una penna su un foglio, mentre magari sei distratto da altre cose
(noi in effetti ascoltavamo la lezione), puoi avere l'aspettativa che essa scriva, in quanto
questa è la conseguenza più logica dell'atto, e noi tendiamo a dare per scontato, quasi come
riflesso condizionato, il risultato degli atti che mettiamo in essere anche se in realtà non si
verificano.
Ero del tutto soddisfatto di questa spiegazione, che era esattamente quello che volevo
sentirmi dire; Silvana un po' meno. Credo che abbia sempre continuato a pensare che un
folletto o una fatina abbiano fatto sparire l'inchiostro.
Dopo qualche giorno fu il mio turno. Marco mi chiamò per chiedermi di accompagnarlo
su un sentiero a cercare alcune gemme che gli servivano per preparare dei rimedi.
Improvvisamente cadde sull'argomento dell'inchiostro simpatico, chiedendomi cosa ne
pensassi.
«Ne ho parlato con Silvana qualche giorno fa», dissi «e sicuramente si è trattato della falsa
impressione che abbiamo avuto entrambi che la penna abbia scritto».
«Ne sei proprio sicuro?»
Mi guardò con occhi strani, e devo dire che la mia sicurezza svanì come l'inchiostro sul
foglio.
«Ma tu hai detto a Silvana che…»
«Lascia perdere cosa ho detto o non ho detto. Rispondimi: ne sei proprio sicuro?»
«Sì, cioè... insomma...» balbettai.
«Tu pensi di poter spiegare tutto: la tua vita è fatta di dogmi, di descrizioni fatte da altri
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alle quali ti sei adeguato. E quindi ti senti in dovere di giudicare ogni cosa con il tuo metro,
vuoi ricomprendere tutto in categorie a te familiari. Questo è così, quest'altro è così.
E così facendo ti perdi la bellezza ed il mistero dell'universo, le tue giornate scorrono
monotone a classificare e giudicare le cose e le persone. Tu sei tutto preso ed impegnato in
mille progetti, costantemente avviluppato nella tua incessante dialettica interiore, e finirai per
dimenticare perfino di essere vivo».
Non avevo parole per rispondere. Aveva semplicemente ragione.
«Sospendi il giudizio per un attimo», continuò, «prova a pensare che una forza misteriosa
ed estranea a te abbia voluto dimostrarti che non c'è niente che sia indelebile, che la tua
mano o il tuo piede non lasceranno tracce. Non hai tempo per i tuoi ragionamenti, devi
risvegliarti da un torpore che dura da troppo tempo».
Ancora una volta la mia faccia doveva avere un'espressione stupida, perché mi guardò e
scoppiò a ridere.
Sono sempre stato dialetticamente molto abile, ma quella come molte altre volte non
riuscivo ad articolare un discorso sensato.
Dopo un po' gli chiesi perché a Silvana aveva detto l'esatto opposto. Insomma, Marco
era sempre inafferrabile, nessuno riusciva mai a capire in fondo cosa pensasse.
«Silvana», mi disse, «è l'esatto rovescio della tua medaglia. Vi sono persone, come lei, che
quando certi argomenti sconfinano nel fantastico, diventano per loro accattivanti, e se ne
servono per creare una dimensione magica che esaltano con lo scopo di creare una
dimensione alternativa ad un'esistenza dolorosa».
«In altre parole», continuò, «colgono ogni occasione per distinguere in modo netto tra
reale e magico, scegliendo il secondo aspetto e facendo l'errore uguale ed opposto al tuo che
scegli il primo. Non capiscono loro, come non capisci tu, che la magia è nella vita reale, che
tutto è interconnesso, che non c'è una cosa più importante, o più magica, o più vera di
un'altra».
«Credo di aver capito».
«Io credo invece che tu non abbia capito», rispose. «Che albero è quello?»
«Un ontano», dissi a colpo sicuro.
«Si, un ontano, bravissimo, un alnus glutinosa. E questa è la conferma che non hai capito».
«Perché non dovrei aver capito?» chiesi.
«Perché con la tua intelligenza fuori dal comune finirai per sapere più cose di botanica
che di te stesso».
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Capitolo 6
Interesse e disinteresse
Fin dall'inizio del mio apprendistato, ho perso un mucchio di tempo a cercare di capire il
motivo per cui Marco dedicasse tanto tempo ed energie, in modo disinteressato, al Cerchio
di Pietre.
Abituati come siamo a misurare tutto in termini economici, il Marco gratuito esce dai
canoni rassicuranti del do ut des, suscitando i più vari stati d'animo negli allievi: dalla
gratitudine incondizionata alla più sospettosa diffidenza.
In un mondo in cui nessuno fa niente per niente, mi sono detto più volte, ci deve essere
un motivo per cui una persona si dedica in modo così importante agli altri.
Va detto che l'impegno di Marco è quanto di più distante si possa immaginare dal
volontariato o dalla missione: spesso infatti il volontario civile o il missionario religioso, pur
se animato da buoni propositi, dona se stesso agli altri per colmare un vuoto esistenziale, per
superare i propri sensi di colpa, per dare un senso alla propria esistenza - per così dire -
santificandola. In cambio ottiene gratitudine ed approvazione con le quali il fervore benefico
si auto-alimenta.
Molte volte lo sciamano ha affrontato con me questi argomenti, sostenendo che
l'attenzione verso gli altri è dovuta per lo più al timore di perdere l'amicizia ed il consenso;
mi si passi il gioco di parole, secondo Marco non si è mai sinceramente preoccupati per un
amico in difficoltà, si è preoccupati che l'amico in difficoltà non sappia che noi ci
preoccupiamo per lui.
Una volta ci trovammo incidentalmente ad ascoltare la conversazione tra due persone del
gruppo, delle quali una si diceva sinceramente addolorata per le vicissitudini dell'altra,
concludendo con la rituale frase «di qualsiasi cosa tu abbia bisogno chiamami in ogni
momento, lo sai che io ci sono».
L'esplosione di riso dello sciamano mi sembrò come l'eruzione dell'Etna: rumorosa ed
incandescente.
Gli altri non ne capirono il motivo, anche se erano abituati a queste sceneggiate; io ero
imbarazzato in quanto i due amici mi guardavano come se fossi stato io a dire qualcosa di
ridicolo su di loro che aveva suscitato l'ilarità di Marco.
Insomma, dopo quattro anni non ho ancora capito il vero motivo dell'apparente
disinteresse di Marco.
Una teoria un po' bislacca, avanzata dai mistici del gruppo, afferma che Marco si
circonda di persone per nutrirsi della loro energia. La teoria si fonda su complicate
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elucubrazioni sulle dinamiche astrali dell'Universo: secondo loro Marco esiste, oltre che sul
piano fisico, soprattutto sul piano eterico, ed è saldo e forte grazie al fatto che fagocita luce e
calore dalle persone che gli stanno vicino. Ovviamente in certi momenti la sua energia è così
traboccante che, per una sorta di principio di vasi comunicanti, il solo stargli vicino è
benefico per le persone. In altre parole lo sciamano ridistribuisce il potere che esubera la sua
capacità di accumulazione.
Sono facile profeta a prevedere che Marco, quando leggerà questa pagina, avrà bisogno
della maschera d'ossigeno per riprendersi dalle convulsioni di riso.
Un'altra teoria, più pragmatica e più vicina al mio metro di valutazione, sostiene invece
che il motivo del disinteresse verso il denaro è da ricercare nella straordinaria gratificazione
che riceverebbe il monumentale ego di Marco dall'ammirazione dei propri accoliti.
In effetti a volte lo sciamano assume atteggiamenti che rasentano la presunzione, e si ha
la sensazione che provi un godimento quasi fisico nel ricevere complimenti ed adulazioni.
Il punto debole di questa teoria è che molte altre volte è invece estremamente sobrio e
misurato, direi umile, pronto a mettersi in discussione.
L'osservatore finisce quindi per arrovellarsi su questa alternanza comportamentale, non
riuscendo ad incasellare il Pardini in uno stereotipo sufficientemente stabile e comprensibile:
passa infatti senza soluzione di continuità da momenti in cui è aggressivo e sarcastico e
prevarica chiunque gli si ponga davanti ad altri momenti in cui è comprensivo,
accondiscendente e modesto.
Dopo quattro anni sono arrivato alla conclusione che non è né l'una né l'altra cosa: è
sicuro di sé ma non si nutre di auto-esaltazione; è disponibile verso gli altri ma non si nutre
di buonismo.
E quindi non abbiamo ancora una soluzione al dilemma: perché lo fa?
Estremizzando la teoria, sono arrivato a pensare che anche i momenti di compostezza
siano funzionali all'ego; in altre parole, tutto farebbe parte di una strategia estremamente
lucida di manipolazione degli altri, in base alla quale assumerebbe atteggiamenti di volta in
volta diversi in base alla situazione o agli interlocutori.
«Non sono sicuro di avere una strategia; ma certamente fai più fatica te a cercare di
capirla che io eventualmente a sostenerla», mi disse un giorno Marco rispondendo a mie
insistenti domande in proposito.
«Il fatto è che non riesco a comprendere quali siano le motivazioni dei tuoi
comportamenti», gli risposi.
Fu l'occasione per Marco di impartirmi una lezione.
«Le risposte alle tue domande sui miei comportamenti cercale in te stesso. Osservati
senza giudicare. Renditi conto che sei schiavo di una quantità impressionante di
interrelazioni sociali, secondo le quali tu hai aspettative verso gli altri nello stesso modo in cui
gli altri le hanno verso di te. Siete costantemente in bilico su equilibri instabili: amicizie,
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amori, famiglie tutto deve tornare perfettamente, altrimenti si rischia di essere disapprovati,
ostacolati o ridicolizzati.
C'è chi difende questo pseudo-equilibrio con la conflittualità; altri, come te, con
l'accondiscendenza. In altre parole, alcuni affermano la propria personalità cercando di
intimorire, altri come te cercando di farsi benvolere. Ma la conclusione è sempre la solita:
siete del tutto spersonalizzati ed in balia delle vostre interrelazioni. Tutti manipolano tutti in
base alle aspettative reciproche.
Ricordi le pagine di Castaneda sulla cancellazione della storia personale? Tu sei troppo
prevedibile, troppo preoccupato di compiacere gli altri; pensi di avere sempre la situazione
sotto controllo, e invece sono gli altri che controllano te. Ti comporti esattamente come devi
comportarti, vuoi essere sempre il migliore amico, il migliore socio, il migliore capo, il
migliore figlio, il migliore amante.
Poi qualcosa va storto. E allora è colpa degli altri, la gente è cattiva... e cazzate simili».
Mentre diceva queste parole si tratteneva per non ridere: non c'è niente che lo diverta
come i luoghi comuni.
«E per concludere Prozac, Zoloft, benzodiazepine...», proseguì ridendo «E ti affanni a
voler comprendere gli altri, ma non lo fai come osservatore non giudicante. In realtà quello
che vuoi comprendere è ciò che le persone pensano di te».
«Ancora non mi hai detto perché fai quello che fai», tornai a chiedere.
«Non c'è niente da dire».
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Capitolo 7
Gavino
Il Cerchio di Pietre, come detto, è una specie di Armata Brancaleone in cui i membri più
saggi appaiono - ad un osservatore esterno - come minimo squinternati. Lascio immaginare
al lettore come possano apparire i membri meno sobri.
A volte mi sono chiesto se c'è uno scivolo da qualche parte che convoglia sulla nostra
associazione tutti i personaggi in cerca di autore che girano per le strade della riviera
versiliese e del Conero e dintorni. Dai depressi ai maniacali, dagli anoressici ai bulimici, dagli
estroversi ai timidi, dai perdenti ai vincenti, dai loquaci ai taciturni, dagli eruditi ai quasi
analfabeti: più o meno insomma tutte le possibili varianti umane sono rappresentate. E molti
di loro, con la propria storia il più delle volte complicata, con il proprio modo di porsi verso
gli altri, con le mille sfaccettature della propria personalità, hanno indubbiamente arricchito il
gruppo, dal punto di vista umano, ed hanno offerto, a chi scrive queste righe, inesauribili
spunti letterari.
Tra i tanti personaggi che via via racconteremo, mi piace iniziare con Gavino, un
simpatico sardo di estrazione agro-pastorale, trapiantato in epoca remota in zone massesi. Di
età indefinibile (direi da quaranta a settant'anni, a seconda di come lo guardi), di statura
minuta, di professione riflessologo plantare, di spiccato accento isolano, lo conobbi un
giorno di qualche anno fa durante un'escursione domenicale, insieme ad un altro sardo, un
giovane ferrotranviere che poi non si è più visto.
Quella mattina i due sardi sembrarono molto interessanti alle spiegazioni botaniche di
Marco, ma al termine di ogni identificazione immancabilmente domandavano: «E'
commestibile?». Marco non faceva in tempo a rispondere di sì che avevano già in bocca fiori
o fogliame, con istantanea e velocissima ruminazione tipo capretta del nuorese. Ora, come
tutti quelli che conoscono lo sciamano ben sanno, Marco si diverte molto a dire una cosa per
un'altra: alla domanda «E’ commestibile?» è probabile che risponda: «Certamente», (pausa ad
effetto), «la mangi e ti manda direttamente al Creatore». Il problema è che nel tempo della
pausa ad effetto Gavino è in grado di sradicare, masticare e deglutire un paio di metri quadri
della pianta in oggetto. Quella mattina ci prendemmo un bello spavento quando Marco,
spiegando l'etimologia di elleboro disse che boros in greco significa cibo. Non fece in tempo a
dire che elleros significa pazzia che Gavino aveva tra le sue efficaci ganasce una foglia della
mortale ranuncolacea.
«Sa di pisello», disse beatamente Gavino.
Al che Marco si girò verso di lui giusto un istante prima della deglutizione, urlò «Sputa!» e
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gli assestò un tale colpo nella schiena che per poco Gavino non sputa - oltre che la foglia -
un paio di tonsille ed un polmone.
Chissà se nella Sardegna agro-pastorale della giovinezza di Gavino la povertà ha creato
un maniacale attaccamento al cibo: potrebbe essere una spiegazione per l'ardore con cui il
nostro eroe si avventa sulle forme di cacio che porta nelle escursioni domenicali.
In una mano il formaggio, nell'altra un coltellino, la bocca a tre/quattro centimetri e con
una maestria degna del Guinness dei Primati divora la forma in un paio di minuti
sminuzzando e deglutendo senza soluzione di continuità.
Al termine, come ammazza-caffè, predilige il mirto, liquore da lui autoprodotto, di
un'ottantina di gradi, che probabilmente funziona da idraulico liquido per la digestione del
formaggio. Tutte le volte ho il timore che se ci beccano i NAS in automobile con quelle
bottiglie di mirto ci arrestano per sofisticazione alimentare. Dopo aver tirato il collo alla
bottiglia di mirto, offerta con generosità ed insistenza perfino agli astemi, il tasso alcolico del
gruppo raggiunge livelli da defalcazione di 400 punti ed immediato ritiro della patente. A
quel punto si iniziano a levare le voci: «Gavino, Gavino! Raccontaci la storia di groppe balla.
Lui fa finta di non volerlo fare, cerca qualche faccia nuova che non ha ancora ascoltato la
storia (quasi impossibile) ed alla fine acconsente, per la gioia dei presenti.
Voce nasale, espressione apparentemente seria, occhietti furbi che guardano fugacemente
tutte le facce, breve spiegazione.
«Vi racconterò una storia di un prete di un remoto paese dell'entroterra sardo, che si
preoccupava del decadimento morale dei giovani, e diceva in continuazione groppebballa, “ti
prendesse un colpo”».
Gavino, secondo me non sei reale. Sei un cartone animato, un incrocio tra paperino e
calimero. Se tu non esistessi, andresti inventato.
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Capitolo 8
La Via Breve
Raramente nella mia vita ho incontrato persone più abili di Marco nel gestire, in modo
dialetticamente ineccepibile, le situazioni di criticità nei rapporti interpersonali che
immancabilmente per tutti, e quindi anche per lui, si verificano.
Ma non si pensi al verboso erudito che rincretinisce di discorsi le persone che gli stanno
di fronte: lo sciamano invece sostiene le sue convinzioni con fermezza ma senza preconcetti,
dando allo stesso tempo molto spazio alle convinzioni altrui. E questo non è poco in un
mondo in cui tutti parlano e nessuno ascolta.
Con la nobile arte del paradosso che contraddistingue ogni attimo della sua vita, Marco
quando è al massimo del contrasto dialettico con una persona, di solito ad un certo punto
taglia corto e dichiara di condividere pienamente le altrui affermazioni: cosa che - nel suo gergo
sciamanico - significa che l'interlocutore sta sostenendo sciocchezze colossali, ma non
avendo - l'interlocutore - una sufficiente struttura psico-intellettuale, è inutile entrarci in
conflitto dato che comunque non capirà.
In altre parole, avendo una scala reale servita, Marco non si mette a fare rilanci o
controrilanci sapendo che di là, al massimo, c'è una coppia vestita. Non vuole insomma
stravincere.
O, per usare una frase che spesso ama ripetere, «è inutile insegnare a cantare al maiale: tu
perdi il tuo tempo ed il maiale si irrita».
Come dire che non vuole umiliare l'interlocutore a meno che questa umiliazione, in un
particolare momento, non abbia una specifica valenza terapeutica, ed allora sa essere
sarcastico ed offensivo come pochi.
Molte volte, nei nostri colloqui, mi ha detto che non è importante aver ragione o torto, o
credere di aver ragione e gli altri torto, o dire la verità o peggio pensare in buone fede di dirla
e accusare invece gli altri di essere bugiardi.
Non serve affermare le proprie questioni di principio, né si deve però essere intimoriti
dalle questioni di principio altrui.
In un mondo dove si è provvisoriamente vivi - dice Marco - non c'è tempo per queste
sciocchezze; c'è solo una frazione di tempo, quello presente, in cui si può solo afferrare la
sensazione di essere qui adesso, senza tuttavia comprendere perché o percome siamo qui.
Di fronte all'enormità di questa cosa (sono vivo, mi rendo conto di esserlo adesso, ma
non capisco perché), la consapevolezza dello sciamano rende vuota ed inconsistente ogni
vampata di orgoglio, ogni attaccamento alla propria personalità.
Ed è capitato spesso che, dopo aver chiuso una discussione con il classico «ti condivido
pienamente», si gira nella mia direzione, costringendomi, dopo una frazione di secondo, ad
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esplodere insieme a lui in una risata incontenibile che lascia l'interlocutore incapace di capire
se essere orgoglioso per aver avuto ragione di fronte a Marco, o se pensare di aver a che fare
con uno sciamano un po' bislacco.
Nemmeno pescando tra le infinite sfumature degli aggettivi della lingua italiana e
cesellandole con finezza posso riuscire a descrivere in modo rappresentativo il sorriso ebete
ed inchiodato delle facce delle persone condivise pienamente da Marco mentre questi, insieme al
sottoscritto, si rotola letteralmente in terra dalle risate.
Da questa descrizione il lettore potrebbe quindi pensare che Marco, non avendone
bisogno, rifugga o abbia sempre evitato ogni ricorso alla violenza.
Niente di più sbagliato.
«Laddove non poté la parola», mi disse un giorno, «poté il bastone».
In effetti, tra Casoli e Viareggio, da una trentina d'anni si raccontano storie ed aneddoti
sul ricorso alla Via Breve da parte dello sciamano.
Tra i racconti di un naso rotto del bulletto di paese che pensava di essere più furbo di
Marco con le figurine dei Calciatori, e i racconti della fuga precipitosa del bulletto un po' più
scaltro che, dopo l'iniziale tracotanza, aveva capito in tempo che il barometro andava verso
la tempesta ed aveva rimesso di corsa le vele al vento, ho personalmente teorizzato che la Via
Breve dello sciamano si possa riassumere in un teorema matematico-filosofico, da me
battezzato Proprietà Transitiva delle Legnate: cioè se A dà una legnata a B, B dà una legnata a C.
Tante infatti regolarmente ne prendeva dal padre contadino, il più delle volte senza validi
motivi, tante ne rivogava al malcapitato che entrava in conflitto con lui.
Con il passare degli anni il teorema ha perso un po' della sua valenza in quanto, con la
crescita ed il ragguardevole irrobustimento di Marco, il di lui padre, che è tutto fuorché
stupido, ha ben presto capito che la citata Proprietà Transitiva si era ormai trasformata in
Proprietà Riflessiva Più che Proporzionale delle Legnate: il che vuol dire che se A dà una legnata a B,
B non trasferisce più a C ma restituisce il doppio delle legnate ad A.
Marco, progredendo con gli anni nella via della conoscenza, ha progressivamente
demolito la propria storia personale, non identificandosi quindi più sistematicamente in
quello che, in ogni occasione, mena le mani.
Negli ultimi anni in particolare ha sviluppato una specifica postura, abbinata ad uno
sguardo in tralice e ad un grugnito che scoraggia il 97% delle persone a proseguire oltre il
contenzioso.
E quindi il ricorso alla Via Breve adesso è talmente raro che in pochi possono
raccontarlo per esperienza diretta: ne riporto solo un paio che mi sono noti.
Una volta a Marco, di solito estremamente tollerante nel traffico, sfuggì un banale cenno
di disappunto per la manovra azzardata e pericolosa di un automobilista. Quest'ultimo,
probabilmente offeso come una vecchia signora, pensò bene di esprimere con ampi gesti un
«vieni qui che ti faccio un culo così». Marco sembrò non reagire né iniziò un litigio verbale
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fatto di offese ed insulti. Semplicemente scese dalla propria auto e, con una calma inglese, si
avvicinò all'altra auto introducendo una mano e sfilando letteralmente il maleducato dal
finestrino.
Un'altra volta Marco si trovò per caso nel bel mezzo di uno scippo di un'anziana signora
a Pietrasanta, e nonostante i postumi ancora evidenti di antiche fratture ad una gamba, quel
giorno fu chiaro agli scippatori che lo sciamano ha più ripresa e più allungo della loro
vespina 50 truccata.
Il ricovero in stato di fermo dei due teppistelli per lesioni multiple e la riconsegna della
borsetta alla signora furono peraltro una formalità, tra gli applausi dei presenti che, prima di
aver capito che la vecchietta era stata scippata, avevano visto in terra i due scippatori, senza
riuscire quindi a dare un ordine temporale ai due eventi.
Anche un quotidiano locale, il giorno successivo, raccontò il fatto nelle pagine di
cronaca.
Per concludere, un consiglio a chi dovesse trovarsi di traverso rispetto a Marco: non
perdete tempo in minacce o spintoni. O si prova o si scappa, ma decidete molto alla svelta
perché, come dice Marco, non è mai una questione di forza, ma solo di velocità di
esecuzione.
Ed infine, non meravigliatevi se dopo uno sganassone dato Marco ride.
Non lo fa per arroganza o per umiliare la persona colpita: è solo che lo sciamano non è
capace di prendersi sul serio nemmeno quando picchia le persone.
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Capitolo 9
Survivor
Un giorno di ottobre del 2004 lo sciamano mi piomba in ufficio e senza darmi il tempo
di salutarlo mi chiede di non prendere impegni dal 18 al 21 novembre successivi.
«Sto organizzando una sessione di sopravvivenza sulle Apuane», mi disse serio, «e tu
dovrai partecipare».
«Di che si tratta?» chiesi incuriosito.
«Saremo un gruppo di sette persone che per quattro giorni improvviserà un riparo,
cercherà di che nutrirsi con quello che offre la terra, si difenderà dal freddo e dai rischi della
notte».
«Si tratta di una specie di campeggio?» chiesi, facendolo, chissà perché, sghignazzare.
«Chiamalo come ti pare», rispose ridacchiando, «diciamo che è un campeggio senza
tenda, senza barbecue e senza un supermercato a due passi per fare la spesa...»
«E cosa mangeremo?» chiesi preoccupato.
La mia faccia doveva avere un'espressione strana, perché se prima sghignazzava adesso si
mise a tossire quasi strozzandosi.
«Che cosa mangeremo!?» disse scimmiottando il tono della mia domanda. «Dicono tutti
la stessa cosa, e tu non fai eccezione! Che cosa mangeremo? Tranquillo, troveremo qualcosa
da mettere sotto i denti. Ma ti accorgerai che quello sarà l'ultimo dei tuoi problemi» aggiunse
in modo, col senno di poi, assolutamente profetico.
Per il ponte del primo novembre andai, con la mia compagna, a fargli visita a Jesi, e
rimanemmo due giorni ospiti nel delizioso appartamento che divide con Monica ed il loro
splendido bambino, Matias.
Aveva preparato una serie di documenti relativi alla sessione di sopravvivenza, o Survivor
come l'avevo prontamente ribattezzata. Iniziò quindi a spiegarmi le regole.
«Saremo in sette», disse, mostrandomi l'elenco dei partecipanti con relativo numero di
telefono. «E qui puoi vedere una lista di oggetti, tra i quali potrai scegliere quattro e soltanto
quattro cose da portare con te. E' importante che tu scelga bene, e soprattutto che vi sentiate
tra di voi, in modo da non avere dei doppioni».
Iniziai a leggere la lista senza ascoltarlo mentre continuava a parlare.
«E' importante, sopratutto, che non vi dimentichiate l'apriscatole».
«Si», dissi serio, «certamente».
«Ed anche il fornellino per le zanzare sarà utilissimo».
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Mi interruppi di colpo. «Ma che dici?» dissi «Zanzare? Di novembre? Ma che ci facciamo
con il fornellino? E poi, come alimentazione elettrica, dove lo attacchiamo?»
«Invece l'apriscatole senza le scatole ti servirà moltissimo!» disse ridendo.
Mi resi conto che tra i tanti oggetti messi nella lista c'era una quantità di cose inutili, fuori
contesto, messe a bella posta per depistare e confondere le idee.
«Rifletti molto sulla lista» disse tornando serio «poi chiama gli altri e confronta le idee
con loro. Attenzione a cosa sceglierete; ne va della nostra sopravvivenza. Di ciascuno degli
oggetti cercate di vedere oltre la prima possibilità di uso che vi viene in mente: ad esempio, la
retina metallica a maglia fine che si usa per le recinzioni la porterai?»
D'istinto risposi: «Direi proprio di no...»
«Bravo. Sicuramente preparerai tu le caldarroste sul fuoco tenendole tra le mani...»
Non avevo pensato che una retina metallica poteva diventare una comoda ed utile griglia.
«E tu cosa porterai?» chiesi.
«Non ti preoccupare di cosa porterò io» rispose «porterò quattro oggetti tra quelli
indicati. Ed in più porterò due cose fondamentali: un telo cerato di grandi dimensioni per
coprire il riparo che realizzeremo ed un mazzo di carte da gioco».
Iniziai a pensare a quale uso recondito potessero essere destinate le carte da gioco: forse
potevano essere usate come toppe per chiudere gli spifferi del riparo? Oppure utilizzate per
effettuare qualche sorta di divinazione sul genere dei tarocchi?
«Mi arrendo», dissi. «Dimmi per quale motivo porterai le carte».
«Per giocare a briscola, ovviamente. Tu cosa ci fai con le carte da gioco?»
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Capitolo 10
Inipi
Molti anni fa Marco Pardini ebbe modo di trascorrere un certo periodo di tempo presso
la tribù Oglala dei Lakhota Sioux nel Wyoming.
Più volte, durante le nostre conversazioni, mi ha raccontato vari dettagli di questa
esperienza, che ha sicuramente rappresentato un momento essenziale del suo percorso
sciamanico.
Tunkasila Oniwan è il nome che gli è stato dato (“Respiro del Grande Padre”), insieme
all’autorizzazione a divulgare gli insegnamenti e le tradizioni della Nazione Lakhota.
In quella occasione fu iniziato ad una serie di pratiche sciamaniche che oggi, in parte,
ripropone; tra queste ”Inipi”, o Capanna del Sudore, è sicuramente tra le più significative.
All’inizio della mia frequentazione del Cerchio di Pietre, Marco mi disse che presto
avrebbe organizzato una sessione di Inipi, che aveva solo negli anni più recenti riproposto
dopo averla sospesa per motivi che non mi volle spiegare.
Un pomeriggio dell’estate del 2001 mi chiamò ed insieme andammo a cercare il “luogo”
adatto per il rituale.
“Servono pietre”, mi disse, “acqua corrente, legna in abbondanza ed una pozza d’acqua
sufficiente per l’immersione contemporanea di dodici persone.”
Dopo alcuni tentativi, trovammo finalmente un luogo adatto, nei pressi di Pratofiorito.
Di lì a pochi giorni tornammo sul posto in più persone ed iniziammo la costruzione della
Capanna.
Fu un lavoro piuttosto impegnativo, in quanto Marco esigeva una perfezione assoluta:
controllava ogni singolo ramo da noi raccolto, sovrintendeva ai lavori di pulizia del boschetto
circostante, selezionava con meticolosità le pietre che dovevano servire in parte per
delimitare la fornace, ed in parte per essere riscaldate.
Al termine avevamo ottenuto una capanna circolare di generose dimensioni, fatta di rami
intrecciati, coperta da un telo cerato e da frasche e fango. Nei pressi della capanna avevamo
realizzato uno spazio per un grande falò.
Arrivò quindi, nel mese di luglio di quel 2001, il giorno di quella che per me sarebbe stata
la prima Inipi. Marco, che come sappiamo, non perde occasione per ridere dei luoghi
comuni, mi disse. “La prima Inipi è come il primo amore… non si scorda mai!”
Eh, se aveva ragione…
Eravamo arrivati la sera precedente ed avevamo trascorso la notte svolgendo pratiche di
raccoglimento e di meditazione.
Al mattino alcuni di noi iniziarono ad accendere il falò. Intorno alle ore 13 Marco ci
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incaricò di inserire le pietre roventi all’interno della Capanna, quindi ci segnò il volto con una
speciale vernice tracciando dei simboli particolari, infine entrammo all’interno seguendo due
semplici ma rigidissime regole: muoversi sempre in senso orario e mai voltare le spalle ad
Inipi.
Entrammo quindi carponi da una piccola apertura e Marco fu l’ultimo ad accedere,
portando con se un secchio colmo d’acqua ed un mazzo di rametti di menta acquatica.
L’apertura fu poi chiusa con un telo cerato.
Un caldo impressionante ma tutto sommato sopportabile.
Mi chiedevo a cosa servisse la menta mentre, man mano che il senso di calore cresceva,
agognavo un po’ di quell’acqua rinfrescante nel viso. Errore madornale.
All’improvviso Marco iniziò ad intingere il mazzo sferzando le persone e gettando acqua
sulle pietre roventi.
L’acqua sul viso non è, come pensavo, rinfrescante: è anzi fuoco liquido, mentre il
vapore nel frattempo innalza il livello di umidità e rende irrespirabile l’aria.
Credo che chiunque si trovi per la prima volta dentro, in quel momento solenne della
cerimonia, giuri a se stesso qualcosa del tipo: “Se esco vivo di qui prometto che d’ora in poi
il massimo dell’avventura sarà cogliere margherite in un parco giochi per bambini”.
Il mio stato d’animo di quella prima esperienza di Inipi era fatto di timore e di incertezza
che mi aiutarono ad entrare tutto sommato compatto e prudente. Riuscii insomma a
lasciarmi andare mantenendomi al contempo estremamente vigile.
Dopo tre quarti d’ora di cottura uno dei partecipanti inizio a manifestare segni di
difficoltà che non sfuggirono all’occhio vigile di Marco il quale, seguendo precise istruzioni
impartitegli dai suoi maestri, interruppe la pratica per tutti.
Quindi il bagno della pozza, la cui acqua era talmente gelata che mi fece rimpiangere
come un “dolce tepore” la temperatura di 90 gradi della capanna dalla quale ero appena
uscito stufato come uno stracotto di manzo con carote.
Devo ammettere che, crollato il primo dei partecipanti, negli altri 10 ci fu un certo
sollievo: probabilmente in molti eravamo vicini al limite di sopportazione, ma la “colpa”
ricadeva sul primo che aveva fatto interrompere la pratica ed il sollievo psicologico per noi
era quindi di non poco conto.
Questa esperienza iniziale mi regalò un primo importante spunto, che oggi è diventato
un classico:
Prima Legge di Inipi – “La Capanna è un concetto relativo.”
Infatti il problema non è star male in termini assoluti, ma è stare meno peggio di uno
degli altri.
Osservando le facce dentro Inipi, non è infrequente assistere a sguardi incrociati, tra il
torvo e l’implorante, dal significato di: “Dai, dillo che stai male, dillo che si smette tutti…”
E’ una sorta di selezione naturale, un po’ come dire che i tempi di Inipi li stabilisce
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Darwin e non Marco Pardini.
Ovviamente, al momento opportuno, avrei imparato a mie spese che non è così.
In quella estate del 2001, nel mese di agosto, organizzammo una seconda sessione di
Inipi.
Forte dell’esperienza della prima volta mi accinsi ad entrare con uno stato d’animo
baldanzoso e leggero.
Sorridente, di ottimo umore, dispensando consigli ai neofiti ed incitando i fuochisti ad
inserire più pietre possibile dentro la capanna, entrai dentro di slancio e dopo 10 secondi
netti andai in crisi nerissima, come un ciclista spompato sul Pordoi.
Fu un calvario che durò pochi minuti, perché quando stavo già cercando le parole giuste
per implorare la cessazione del dramma al Pardini, fui salvato dal tracollo di Mariano.
Per Mariano fu la prima di un numero impressionante di Capanne non finite, tant’è che
qualche anno più tardi, dopo una dozzina di esperienze prematuramente interrotte, lo
sciamano disse che per i Lakhota il nome indiano di Mariano sarebbe stato “Dodici Mezze”.
Tornando al mio personale dramma della seconda Capanna, sinceramente ero convinto
che nessuno se ne fosse accorto. Sciamano incluso.
In fondo la Capanna è un concetto relativo, mi dicevo, c’è sempre qualcuno che sta male
prima di te.
Un po’ come la storiella dei due esploratori africani che vedono il leone in lontananza: il
primo inizia a scappare, il secondo si ferma e si mette le scarpe da jogging. L’altro lo incita:
“Scappa, corri, che te ne fai delle scarpe, il leone corre troppo forte!”. “Non hai capito”,
risponde l’altro, “io non voglio correre più forte del leone, voglio correre più forte di te!”
Insomma, anche stavolta ero riuscito a farmi tornare i conti, senza fare veramente tesoro
dell’esperienza. Fu un grave errore.
Da quella volta il mio stato d’animo al momento di iniziare una Inipi è cambiato.
Sono rispettoso, ma non implorante.
Sono controllato, ma non arroccato.
Sono abbandonato, ma non inconsapevole.
Da allora ho perso il conto delle Inipi, anche se c’è chi le conta con molta precisione.
“Io sono alla sesta Inipi, e tu?
“Io sono alla nona.”
Ci sono alcuni, nel Cerchio di Pietre, che smarcano le Capanne in un modo che mi
ricorda quei generali di altri tempi con tante medaglie appuntate sul petto:: “Campagna
d’Africa, Guerra in Albania…”.
Io ho perso il conto delle Capanne, dicevo, ma ho ricordi nitidi di ciascuna di esse.
Come non ricordare la Inipi che Marco affidò ad un luogotenente, il quale iniziò a
storpiare le invocazioni in lingua Lakhota regalandoci uno sproloquio incredibilmente simile
ad un canto di pastori sardi?
“Eia ! Eia!” rispondevano in coro gli accoliti. Quella Inipi leggendaria fu ribattezzata “la
Capanna Nuragica”.
Come non ricordare la Inipi nella quale una serie di vesciche persero il controllo, che,
anziché come “Capanna del Sudore”, sarà ricordata dai posteri come “Capanna Urinaria”?
E quella volta che un partecipante espresse il desiderio di entrare nudo?
Marco ripose che i Lakhota non avevano previsto regole precise per tale eventualità, e
che quindi poteva entrare liberamente come voleva, se la cosa non offendeva gli altri
partecipanti.
Nessuno ovviamente si oppose, ed il tale entrò “come mamma l’aveva fatto”.
Scoprimmo che negli slip nascondeva… un’arma di piccolo calibro. Ma il peggio fu che
Marco improvvisò un ordine di ingresso per “segni zodiacali”. Era nato pochi giorni prima
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di me, quindi me lo trovai davanti carponi. Sorvolo sui particolari, se non per dire che il
bagno gelido fu devastante per i suoi gioielli, che letteralmente scomparvero ritirandosi come
fa una chiocciola spaventata.
Ma qui mi fermo.
Perché ho assistito anche a molti altri eventi che devono rimanere riservati.
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Capitolo 11
L’ uomo di conoscenza vive agendo, non pensando all’agire, né pensando a quello che penserà quando
avrà finito di agire.
Carlos Castaneda, “Una realtà separata”
Epilogo
Il mio apprendistato con Marco Pardini non è terminato e forse non terminerà mai. Ma
questo libretto si ferma qui.
Ci sono avvenimenti che sono ancora troppo recenti per poter essere raccontati.
Ci sono eventi troppo misteriosi per me per essere descritti.
Ci sono situazioni che devono ancora prendere forma per essere comprese.
Forse un giorno riprenderò questi appunti. Forse scriverò ancora delle esperienze vissute
con il mio amico sciamano.
Ma in questo momento sento che mi devo fermare qui, tornando a concentrarmi
sull’azione presente e non sul racconto di ciò che è accaduto.
Questo volume è da considerarsi GRATUITO, fuori commercio (vendita e altri atti di disposizione vietati: art. 17, c.2, l. 433/1941). Esente da IVA (DPR 26/10/1972 n.
633, art. 2, lett. d). Esente da bolla di accompagnamento (DPR 6/10/1978, n. 627, art. 4, n. 6)
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