1. “Auditores” e “sapientia”
In una delle sue lettere a Lucilio, Seneca tratta del ruolo del maestro, di come si attui la propagazione
dell’umano sapere. Accade che gli apprendisti, nelle diverse manifestazioni della sapientia, talvolta non
recepiscano quanto trasmesso. È compito di chi più sa, indicare la strada.
L’insegnamento procede anche per vie fisiche: il portar per mano l’allievo è immagine eloquente che mostra
il ruolo del maestro; sono coinvolti anche altri sensi: la vista e l’udito, soprattutto. Le orecchie servono infatti
all’apprendimento orale. I discepoli, in latino, venivano chiamati Auditores, ed il termine non è ignoto alla
tradizione giuridica. Ma ancora oggi le orecchie sono coinvolte ad un altro livello; ad esempio nel lessico
corrente tirare le orecchie significa rimproverare qualcuno, ed è una tipica attività del maestro.
Perché proprio le orecchie? Fin dal antichità le orecchie sono state reputate il luogo della memoria; ne dà
testimonianza Plinio il Vecchio, in un passo della sua Storia naturale.
L’erudito specifica la sua affermazione secondo cui nella parte inferiore dell’orecchio ( in aure ima) si
troverebbe il focus della memoria, e fa riferimento alla dea Nemesi, che avrebbe sede dietro l’orecchio
destro, dove si portava l’anulare, dopo averlo toccato con le labbra, come per nascondervi il pensiero di cui si
domanda perdono agli dei.
La fonte maggiormente significativa su questo simbolismo sembra essere una notissima satira di Orazio,
quella dedicata all’attaccabottoni. Questi doveva essere parte in un processo, ma preferiva seguire il poeta,
tormentandolo con la sua inopportuna presenza, fino al punto, da fargli scoppiare il fegato dalla bile. Il caso
volle però che la stressante passeggiata venisse interrotta proprio dall’avversario del seccatore; vedendo
ciondolare sfaccendato il suo contraddittore, quello che si presenta come un attore nel processo, chiede
proprio ad Orazio se potesse testimoniare, a cui il poeta risponde con l’espressione: “Io immediatamente gli
porgo l’orecchio”. Conseguenza di tale disponibilità, la possibilità di trascinare la controparte dinanzi al
magistrato. Non a caso il poeta utilizza il colorito sintagma rapere in ius.
2. Il “vadimonium”
La struttura di questo istituto, nella sua versione stragiudiziale, consisteva nel convenire un preciso incontro
tra le parti che si dovevano poi costituire in iure, si trattava di un mezzo obbligatorio che arrivava a portare i
soggetti coinvolti in una controversia nei pressi del tribunal del magistrato giusdicente, consentendo una
semplificata in ius vocatio.
Infatti, al momento e nel luogo stabilito nel vadimonio si procedeva nel caso fosse necessario ad una testatio
sistendi: chi non si fosse presentato poteva essere convenuto ex stipulatu per la cifra stabilita al momento
dell’accordo sul vadimonium.
Il vadimonium giudiziale era costituito probabilmente da una intimazione svolta in iure da parte dell’attore
nei confronti del convenuto, perché questi si ripresentasse ad una certa udienza di rinvio. Anche qui
tradizionalmente si accompagnava la promessa ex stipulatu di una summa da corrispondere in caso di
vadimonium desertum.
La concisione del riferimento di Orazio è in questo caso davvero estrema; respondere sembra indicare
l’attività da svolgere apud pretorem, e l’immediatezza del collegamento con vadato può far pensare che la
fase in iure fosse già cominciata. Ma il perdere litem, che il seccatore immagina come ineluttabile effetto del
suo seguire Orazio, non è conseguenza immediata della mancata comparizione. Il poeta non è tenuto a
un’estrema precisione giuridica. La soluzione potrebbe riferirsi anche alla lis vadimoniale, che nel caso di
vadimonio di comparizione, sicuramente sarebbe stata persa qualora il seccatore non si fosse presentato nel
tempo e nel luogo stabiliti. Con il vadimonium stragiudiziale si costruiva una sorta di titolo, che consentiva
la certezza del risultato: la struttura della situazione giuridica complessiva consentiva alla parte che invece si
fosse presentata di procedere speditamente e con sicurezza di vittoria ne confronti dell’assente, attraverso le
pratiche forme dell’actio ex stipulatu: il pretore avrebbe condannato l’assente sulla base del vadimonio e
della testatio sistendi prodotta dal soggetto presente all’appuntamento.
Un minimo indizio a favore del vadimonium stragiudiziale potrebbe essere rinvenuto nella richiesta da parte
del seccatore ad Orazio di stargli vicino nell’incombenza giuridica: in iure l’assistenza del poeta non avrebbe
avuto senso, perché davanti al magistrato non ci si serviva di patroni; infatti, il poeta stesso rifiuta,
adducendo la sua incapacità nel ius civile.
3. “Antestatio”
La brevitas poetica della satira oraziana generò commenti molto ampi (Porfirione e Pseudo Acrone). Accanto
alla spiegazione del v. 76 fornita da Porfirione in relazione alla domanda “et licet antestari?”, che fa
riferimento alla manus iniectio, sono da analizzare l’ulteriore commento dello stesso Porfirione e quello dello
Pseudo Acrone:
Porfirione compie un’inversione rispetto alla rappresentazione oraziana: mentre il poeta risponde alla
domanda licet antestari porgendo l’orecchio, il commentatore fa dapprima sussistere il rapporto fisico e poi
fa porre la domanda di rito. Alla risposta positiva, consegue la manus iniectio; altrimenti, chi avesse voluto
comunque procedere, mettendo le mani addosso all’avversario, sarebbe stato passabile di citazione per
ingiuria (iniuriam reus constitui poterat). Il toccare l’orecchio appare dunque parte rituale di una fase
procedurale che prelude alla costituzione apud praetorem, ma tale simbolismo non viene spiegato dalla
fonte.
Passiamo allo Pseudo Acrone, con la consapevolezza delle difficoltà che comportano li scolii riuniti sotto
tale denominazione; sono riportare una serie di opinioni, la prima delle quali attribuita a Servius, magister
urbis, tramanda che gli attori (denuntiantes litem) avevano dei testimoni alla cui presenza convenivano
vellicando loro per tre volte un orecchio. Dunque, la parte processuale teneva le orecchie dei testimoni
pronunciando una frase rituale che spiega la messa in scena: “ricordati che mi sarai testimone in quella
causa”.
Dunque, mentre la tradizione serviana pone in evidenza il momento della creazione del testimone, l’altra
spiega il perché dell’orecchio, sede della memoria e quindi funzionale al ricordo in illa causa.
Lo studioso viennese Reinhard Selinger sostiene che dal passo dello scoliaste emergerebbero due diversi
strati storico-giuridici: uno costituito dalla forma “licet antestari”, che sottolineando semplicemente il gesto
dell’aurem vellere, si riferirebbe al “Legisaktionenverfahren”, l’altro dalla frase “memento quod tu mihi in
illa casa testis eris” che cerca di spiegare il gesto in più parole e si rapporterebbe invece al processo
formulare. Questa idea mostra qualche incongruità. La prima è che il “licet antestari” è contenuto proprio
nella satira oraziana e sembra dunque riferirsi all’età di Augusto, quando il processo per legis actiones era
assolutamente residuale. L’altra si manifesta nel fatto che la domanda di chi postula la testimonianza, licet
antestari, il gesto e la ulteriore pronuncia con la richiesta di memoria e dall’altra parte la risposta
affermativa, non costituirono mai una legis actio formalizzata, insieme con la fase complessivamente
introduttiva del processo.
Non a caso per i romanisti la satira di Orazio, in alcuni punti, è una fonte del procedimento che porta
all’instaurazione di una lite per il I secolo a.C.: non è credibile che il poeta facesse dell’archeologia del
diritto.
Uno degli aspetti più interessanti della satira, è certo il problema della natura e della funzione della
testimonianza di Orazio.
In particolare, su questo aspetto, negli anni ’60, si è svolta una disputa dai toni accesi tra due filologi,
Vincenzo Tandoi ed Ettore Paratore.
Tandoi ha sostenuto che antestatio può definirsi la chiamata di testimoni fatta dall’attore nella in ius vocatio,
prima di trascinare l’avversario con la forza. Mentre, per Paratore, il verbo antestari talvolta avrebbe il senso
di richiedere testimoni al soggetto che subisce la chiamata in giudizio. Quest’ultima opinione non appare
conferente con la struttura del processo romano. La necessità invece della richiesta ad un terzo presente,
costituita con il licet, è funzionale alla costituzione di un testimone capace, non un servo, che a Roma poteva
facilmente confondersi con un libero.
Giungiamo al nodo giuridico del problema. Paratore denota tutta la scena come incongruente, perché Orazio,
che non vedeva l’ora di essere lasciato in pace per liberarsi acconsente addirittura a fare ciò che non aveva
voluto concedere al seccatore. Lo Pseudo Acrone avrebbe tentato di ovviare a tale stranezza posticipando la
testimonianza, ma per Paratore ciò sarebbe impossibile; ma qui l’illustre filologo non distingue tra la
richiesta formulata nell’ambito della manus iniectio e l’attività di testimonianza in un processo.
Citando Lutazzo e Pugliese fa loro escludere la possibilità che la testimonianza scelta mediante l’antestatio
non sia prodotta immediatamente. Il riferimento che i due grandi studiosi del processo civile romano fanno
nelle sedi riportate da Paratore è alla fase processuale, nella quale i soggetti chiamati con le forme che si son
viste acquistavano i fatti. Solo in seguito nell’ambito di un processo che eventualmente il vocatus che avesse
subito la manus iniectio avrebbe potuto intentare per iniuria contro il vocans-manoiniciente. Ecco perché
Orazio è immediatamente liberato dal fastidio attraverso la sua disponibilità, e ringrazia Apollo.
La capacità deterrente dell’acquisita testimonianza rafforza la posizione del manoiniciente. Solo se il
convenuto eccepirà di aver subito iniuria nel procedimento introduttivo, i termini giuridici della relazione tra
le parti si modificheranno.
Ma allora colui che esperì la manus iniectio chiamerà a testimoni quanti erano stati presenti alla fisica
costrizione del convenuto a seguirlo in giudizio. L’aurem vellere attuato in quel momento diviene
meccanismo che costituisce l’eventuale futura testimonianza in iudicio. La fattispecie pare potersi ricostruire
così: l’adversarius ha intenzione di compiere la manus iniectio, e richiede la testimonianza di un presente;
quest’atto è teso ad evitare la possibile controazione a titolo di iniuria da parte dell’attaccabottoni.
Allora, illa causa di Porfirione sembra essere locuzione riferita all’eventuale, futuro, processo per ingiuria,
che colui che subisce la violenza nell’ambito della manus iniectio potrebbe intentare qualora il manoiniciente
non rispetti la disposizione decemvirale sintetizzata con l’imperativo antestamino. Resosi conto della volontà
negativa rispetto alla chiamata in ius, l’attore richiede l’antestatio dei presenti, in primo luogo di Orazio, al
fine di procedere iure alla manus iniectio. I testimoni saranno pronti a giustificare l’atto violento qualora si
dubitasse della sua liceità.
La richiesta di antestatio si costruisce dunque nel tempo che precede immediatamente la manus iniectio, per
riferirsi ad un eventuale momento futuro. La testimonianza avrà infatti ad oggetto quanto si svolge sotto gli
occhi di chi subisce l’aurem vellere. Non necessariamente essa si attiva nell’ambito della fase introduttiva di
un processo; se alla in ius vocatio dell’attore corrisponde l’ire del convenuto, la presenza di soggetti che
attestino un qualcosa non è utile; le parti quindi si recano presso il magistrato per discutere la causa.
L’intervento del testimone come prodromo della manus iniectio serviva proprio a scongiurare temerarie
accuse: assai raramente questi processi per ingiuria si saranno svolti. Di solito l’attore doveva avere buone
ragioni da prospettare davanti al magistrato e ciò normalizzava l’atto di introduzione successivo alla in ius
vocatio.
Non è impossibile che il soggetto contro il quale si eseguiva la manus iniectio avesse ragione a recalcitrare;
in tal caso il processo per iniuria ci sarà e l’originario convenuto lo vincerà, a nulla servendo la
testimonianza richiesta toccando l’orecchio.
L’antestatio sembra costruire uno strumento deterrente, strutturatosi in una piccola comunità, quale doveva
essere la Roma delle XII Tavole, in cui più o meno tutti si conoscevano. Ecco perché Orazio appare sollevato
e contento e ringrazia la divinità: il suo compito è solo eventuale e probabilmente non sarà mai chiamato in
illa causa, perché il seccatore difficilmente agirà per iniuria. Il poeta, porgendo l’orecchio, s libera
definitivamente dal molesto poetastro e può continuare la sua solitaria passeggiata.