UN’IMMAGINE DELLA
PROCEDURA “PER QUAESTIONEM” IN VERG. “AEN.” 6.432
3. Un problema testuale
Tornando a Servio; occorre rilevare come concilium non sia semplicemente un’invenzione del
commentatore. Pur considerando il facile scambio grafico tra le due consonanti s e c nella trasmissione dei
testi, si deve rilevare che l’opzione serviana è ben possibile, perché avvalorata da non pochi codici dello
stesso Virgilio. Assunta in numerose edizioni dell’Eneide e difesa da autorevoli studiosi.
Si è partiti dall’edizione di Perret, che reca consilium; per verificare l’altra lezione (concilium) ci si può
riferire alla costituzione del testo proposta in un’atra ottima edizione di Virgilio, quella oxoniense di Mynors
che riporta al v. 433 del VI libro dell’Aeneis, come attività di Minosse, conciliumque vocat vitasque et criina
discit. Chiaramente questa seconda proposta renderebbe difficile riferire la chiamata operata dal quaesitor a
dei giudici, giustificando (in parte) l’interpretazione serviana e le conseguenti speculazioni moderne sulla
convocazione di una moltitudine (concilio) di silentes da giudicare. Il problema è spinoso e aperto; da una
prospettiva piuttosto ampia si può ricordare come in altri luoghi dell’Eneide si abbiano tradizioni manoscritte
che portano consilium, ma in entrambi i casi la lettura corretta appare concilium. Mynors si rifà a tre codici:
Florentinus Laurentianus xxxix i, Vaticanus Palatinus Latinus 1631, Vaticanus Latinus. La restituzione
dell’editore si basa sul primo e il terzo, cui corrispondono le citazioni di Servio. Mynors rileva poi che
conciliumque ricorre anche in Aen. 10.2. Il codice più antico (Vaticanus Palatinus Latinus), porta invece
consiliumque.
Premesso che all’interno della tradizione virgiliana si trovano entrambe le lezioni, bisogna considerare con
attenzione i subsidia filologici, cioè le citazioni del verso in altri testi della letteratura antica:
1. Consilium ricorre in Servio: …unde et concilium ait…;
2. Consilium ricorre nello Pseudo Asconio: …cum dicit consilium vocat....
3. E nel lemma di Donato: …consiliumque vocat…
Già l’ottimo commento virgiliano del filologo tedesco Eduard Norden si affidava per la comprensione del
testo dell’Eneide in primo luogo allo Pseudo Asconio, seguendone la scansione descrittiva dell’attività del
quaesitor infernale. Il commentatore di Cicerone ben conosce Virgilio e insegna che la electio dei giudici
avviene per mezzo del consilium vocare. La strettezza del rapporto iudices-consilium convince Norden: ne
deriva che Minosse avrebbe provveduto alla scelta dei giurati, che avrebbero dovuto esercitare la funzione di
giudici. Tutta questa interpretazione si fona, secondo Norden, proprio sulla lettura consilium. A questo punto
l’illustre studioso orienta in modo decisivo, la lettura del testo mettendo sullo stesso piano Servio e Donato,
che avrebbero considerato virgiliana la tradizione concilium; ma Donato reca consilium.
Dopo aver svolto le sue osservazioni sull’identificazione del quesitor e dei giudici nel senso della
trasposizione di una immagine del processo pensale ed aver brevemente posto il problema paleografico,
Norden si sofferma proprio su quest ultimo. Per avvalorare la lettura consilium, svolta sulla base salda dello
Pseudo Asconio si volge a criticare le interpretationes di Donato e Servio. Nei confronti del primo è facile
osservare che consilium vocare sarebbe stata locuzione atta a descrivere solo il chiamare un corpo
deliberante, ed essa non avrebbe potuto designare una riunione di soggetti sui quali prendere una decisione,
come appare la congregatio donatiana. L’argomentazione appare convincente; non funziona invece la critica
al concilium di Servio: secondo Norden sarebbe spiegato come “die Versammlung der ausgelosten
Geschworenen” cioè la riunione di iudices selecti; ma ciò non emerge dal testo del commentatore, dove gli
omnes che convengono appaiono essere dei soggetti da giudicare. Dunque, è superflua sia la notazione che
concilium fosse usato da Servio come sinonimo di consilium, sia la conclusione, secondo la quale un collegio
di giudici non viene mai denominato concilium.
Servio avrebbe spiegato nel senso proprio nel testo virgiliano un termine che nell’Eneide a sua disposizione
risultava corrotto. Passiamo dunque all’interpretazione recente di questa pagine di Norden; essa è stata
autorevolmente espressa da Antonio La Penna, illustre latinista, sulle colonne di un’opera fondamentale per
lo studio del poeta augusteo: l’Enciclopedia Virgiliana dell’Istituto Treccani. Sotto il lemma concilium si
legge: “l’argomentazione del Norden non è del tutto stringente: egli esclude concilium, perché il termine
potrebbe indicare solo un’assemblea giudicante, non di persone da giudicare. Ma non è questo il pensiero di
Norden, il quale sosteneva l’opinione esattamente contraria, e cioè che tale termine mai avrebbe potuto
indicare un collegio giudicante. Si può aggiungere che se cosi invece fosse stato, non vi sarebbe stata, da
parte di Norden, alcuna necessità di preferire la lezione consilium, perché concilium avrebbe già posseduto
una perfetta corrispondenza con il contesto virgiliano per come ipotizzato dallo studioso. La netta
affermazione era stata utilizzata per criticare Servio, ma su basi piuttosto inconsistenti e con risultati inani.
Norden, sottolineando che il concilium si chiama esclusivamente a fini deliberativi ed usando il verbo
“beschliessen”, non aveva in mente alcun organo giusdicente o giudiziario, bensì una riunione di tipo
politico-costituzionale la cui deliberazione si sostanzia non in una condanna, ma in una pronuncia generale
ed astratta. Anche se bisognerebbe valutare la possibilità di giudizi che si svolgessero davanti alle assemblee
popolari romane. La confusione è stata forse provocata anche dal fatto che l’immediato successivo uso
passivo dello stesso verbo “beschliessen” va ad indicare un giudizio. Il fatto che in Donato vi fosse
consilium e non concilium mostra l’inanità anche di questo sforzo interpretativo e la sostanziale distanza
dalla fonti di un problema costruito all’interno della speculazione filologico-storiografica.
Sembra quindi che Virgilio utilizzando una terminologia tecnica, chiami, con precisione, i giurati estratti a
sorte consilium. Il termine sta ad indicare la giuria, “elemento di struttura del processo” con il nome
dell’antico consiglio del magistrato, il cui parere non era vincolante. Nei processi de repetundis ad esso è
attribuita la funzione di iudicare. Anche la testimonianza dello scoliaste ciceroniano (Pseudo Asconio) ha la
sua importanza: è lettore attento di Virgilio e ha ben presente il passo in questione, tanto da utilizzarlo al fine
di una precisazione sulla portata del termine quesitor.
Tale interpretazione rileva per l’implicita premessa che se ne deve indurre: Minosse, come quaesitor, si
occupa di quaestiones criminales; solo a quest condizione la citazione virgiliana serva a stabilire la proprietà
dell’uso. Il consilium rappresenta dunque i giurati che affiancano Minosse, silenti per uso tipico del processo
romano; del resto è silente la rappresentazione complessiva dei giurati fin dalla lex repetundarum.
La procedura normale si doveva però svolgere in questo modo: prima del giorno stabilito per la discussione
dibattimentale, il presidente della quaestio provvedeva alla formazione della giuria e ad ottenere il
giuramento dei membri del consilium. Era proprio attraverso il sistema dell’estrazione che si costituiva il
collegio giudicante. Venivano iscritti su delle piccole sfere (pilae) tutti i nomi degli iudices; queste venivano
inserite nell’urna e se ne estraeva un certo numero, superiore a quello dei giudici che avrebbero composto il
collegio. Questo compito era affidato al presidente della quaestio.
Un dubbio rispetto alla ricostruzione, nasce dalla lettura di un verso senechiano, che identifica Minosse come
quesitore di Cnosso; secondo il filosofo quindi, Minosse riversa nell’urna i rei defunti, non i nomi dei giudici
prima del processo. Sembra però che il testo appartenga a quelli strettamente legati ad un filone della
mitologia più propriamente greca, in cui Minosse rappresenta uno strumento del fato. La contaminatio
senechiana sembra trasporre quella che appare una figura di giurisdizione in una prevalenza del destino
attraverso il sorteggio in cui la moira prevale sull’ordinamento giuridico del “Götterstaat”, cioè della
proiezione nell’aldilà delle strutture di diritto pubblico della civitas romana.