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“QUAESITOR URNAM MOVET”.

UN’IMMAGINE DELLA
PROCEDURA “PER QUAESTIONEM” IN VERG. “AEN.” 6.432

1. Minosse: il “quaesitor” infernale


Un esempio del processo criminale tardorepubblicano e del primo principato (quando furono attivi nell’Urbe
tribunali permanenti con competenza materia, le quaestiones perpetuae) si può ritrovare in un breve squarcio
dell’Eneide virgiliana; in questo passo infatti, Minosse, il giudice per antonomasia della mitologia classica,
viene rappresentato come quaesitor, con il nome tecnico che serviva ad individuare indeterminatamente un
praetor o un iudex quaestioni, il soggetto cioè che presiede una quaestio in via stabile, come pare attestare
un’annotazione proprio al passo virgiliano in questione: Quaesitores sunt qui exercendis quaestionibus
praesunt, ovvero, il presidente di un tribunale in cui si discutesse, esclusivamente, de capite. La figura
poetica doveva avere una sua efficacia e grazie alla sua diffusione servì all’individuazione funzionale dei
compiti del quaesitor nell’ambito della trattatistica istituzionale de magistratibus, fino all’età giustinianea.
Un’eco poetica si trova anche in Papinio Stazio, dove non risulta diffuso solo il tema di minosse-giudice, ma
anche quello dell’urna.

2. Interpretazioni antiche e moderne ricostruzioni


Anche l’urna corrisponde, infatti, a una scena processuale: è uno dei termini che servono a raffigurare la
cesta nella quale vengono deposte le tabellae cerate contenenti i voti (segreti) dei giudici, che verranno poi
estratte. Ammiano Marcellino definisce l’urna come urna sortium, termine che diviene anche metaforico a
descrivere l’equazione sors/urna-liberatis a proposito dell’estrazione del nome del giudice.
Tra le fonti, particolarmente significativo il quadretto proposto da Cicerone in Vat. 14.34: l’oratore fa prima
riferimento all’appellatio di Vatinio ai tribuni della plebe per evitare la difesa processuale (atteggiamento
inaudito), per poi mostrare tutta la sua violenza portata contro il tribunal del quaesitor; il magistrato
(Memmio, un pretore) fu scagliato giù dal luogo sopraelevato che ne costituiva la sede ufficiale, furono poi
dispersi gli scranni dei giudici, ed infine rovesciate le urne che servivano al presidente della quaestio per le
sortitiones e le votazioni. Attività illecite, che consentirono a Cicerone il finale retorico sulla casa della
stessa istituzione dei giudici.
Per tornare a Virgilio, il passo funge anche come trasposizione di un particolare momento della procedura
per quaestionem: la costituzione di un collegio giudicante primo atto della quale era l’estrazione a sorte, da
parte del presidente della quaestio, di un certo numero di nomi da un’urna contenente tutti i nomi di quanti
erano stati designati a sedere in una determinata quaestio. Dunque, la cesta o il vaso, svolgeva anche un
ruolo preliminare nell’ambito del procedimento, al fine di stabilire chi fossero i giudici. Seguivano
nell’ordinamento della quaestio, le sortitiones da parte dell’accusato e dell’accusatore, al termine delle quali
si fissava la lista dei giurati per quel caso. Prima dell’estrazione il quaesitor scuoteva la cesta per assicurare
l’imparzialità della sorte.
In Orazio si rinviene la stessa figura del movere urnas, come risultato di un’operazione di giustizia, nell’ode
dedicata alla Necessitas (carm. 3.1.14 ss.). Probabile che lo stesso presidente della quaestio procedesse allo
scuotimento
Secondo il Servius auctus nel tempo in cui si tenevano le cause tutti convenivano e da ciò Virgilio trarrebbe
l’immagine del concilium. Danielino costruisce il discorso con una deviazione semantica rispetto al testo
virgiliano: da consilium a concilium. Tale quantità di persone che richiedevano giustizia, rendeva necessario
un ordine che veniva stabilito attraverso un sorteggio, in base al quale la causa doveva essere trattata o la
sentenza eseguita dopo trenta giorni. Tuttavia, Virgilio non fa riferimento a tutto ciò, ma ad una estrazione
che permetta la convocazione di un consiglio composto da iudices, con il compito di discere, studiare a
fondo la vita e i crimina dei defunti, al fine di deciderne la giusta collocazione nell’Ade. Qui si può notare
una raffinatezza giuridica del poeta, che costruisce l’immagine riferendosi al quaesitor e alla funzione di
presidenza rispetto al consilium, rappresentata anche dal titolo conferito a Minosse.
Non sembra avere conseguenzialità rispetto al passo virgiliano il fatto che dopo il giudizio dell’oltretomba la
pena fosse scontata con un ritardo di trenta giorni; qui il commento del Servius actus potrebbe essere un
richiamo ai trenta giorni “giusti” delle Dodici tavole.
In Virgilio si può leggere una conseguenzialità sors/iudices: ai defunti le sedes (luoghi di condanna) non
vengono attribuite senza il sorteggio dei giudici, e il successivo processo, ma secondo una procedura
giuridiche, che richiedendo le sors, ricalca quella terrena.
Altro punto del commento serviano che non convince è l’uso di concilium per indicare l’insieme dei soggetti
da giudicare; esso appare fortemente influenzato dai conventus provinciali in cui il governatore si recava per
rendere giustizia in comunità diverse da quelle nelle capitali.
L’opzione interpretativa di Servio è stata inserita da Okko Behrends nella sua vasta ricostruzione
sull’ordinamento dei giudici nel processo romano. Lo studioso tedesco articola la sua lettura nel senso di
raffigurazione del processo privato sulla base della considerazione che nel processo per quaestionem non si
sarebbe avuto assoluta rilevanza nell’ambito della procedura ordinatoria che ad inizio anno avrebbe stabilito
il susseguirsi della cause civili, nelle quali la scelta del iudex unus non sarebbe stata consensuale, ma stabilita
tramite estrazione delle preformate liste dei giudici.
Per Virgilio l’ordine del processo è questo:
1. Movere unam
2. Vocare consilium
3. Discere vitas et crimina
L’atto di movere è preordinato a tutto il procedimento, che solo a seguito di esso si può articolare nella sua
essenza giuridica. Ciò significa che il vocare consilium, la convocazione ufficiale dei giurati, necessita di una
premessa, resa con brevitas poetica attraverso il riferimento al movere l’urna. Il che può essere assunto a
testimonianza, della sortitio della lista generale dei giudici di una quaestio dei membri di un determinato
consilium.

3. Un problema testuale
Tornando a Servio; occorre rilevare come concilium non sia semplicemente un’invenzione del
commentatore. Pur considerando il facile scambio grafico tra le due consonanti s e c nella trasmissione dei
testi, si deve rilevare che l’opzione serviana è ben possibile, perché avvalorata da non pochi codici dello
stesso Virgilio. Assunta in numerose edizioni dell’Eneide e difesa da autorevoli studiosi.
Si è partiti dall’edizione di Perret, che reca consilium; per verificare l’altra lezione (concilium) ci si può
riferire alla costituzione del testo proposta in un’atra ottima edizione di Virgilio, quella oxoniense di Mynors
che riporta al v. 433 del VI libro dell’Aeneis, come attività di Minosse, conciliumque vocat vitasque et criina
discit. Chiaramente questa seconda proposta renderebbe difficile riferire la chiamata operata dal quaesitor a
dei giudici, giustificando (in parte) l’interpretazione serviana e le conseguenti speculazioni moderne sulla
convocazione di una moltitudine (concilio) di silentes da giudicare. Il problema è spinoso e aperto; da una
prospettiva piuttosto ampia si può ricordare come in altri luoghi dell’Eneide si abbiano tradizioni manoscritte
che portano consilium, ma in entrambi i casi la lettura corretta appare concilium. Mynors si rifà a tre codici:
Florentinus Laurentianus xxxix i, Vaticanus Palatinus Latinus 1631, Vaticanus Latinus. La restituzione
dell’editore si basa sul primo e il terzo, cui corrispondono le citazioni di Servio. Mynors rileva poi che
conciliumque ricorre anche in Aen. 10.2. Il codice più antico (Vaticanus Palatinus Latinus), porta invece
consiliumque.
Premesso che all’interno della tradizione virgiliana si trovano entrambe le lezioni, bisogna considerare con
attenzione i subsidia filologici, cioè le citazioni del verso in altri testi della letteratura antica:
1. Consilium ricorre in Servio: …unde et concilium ait…;
2. Consilium ricorre nello Pseudo Asconio: …cum dicit consilium vocat....
3. E nel lemma di Donato: …consiliumque vocat…
Già l’ottimo commento virgiliano del filologo tedesco Eduard Norden si affidava per la comprensione del
testo dell’Eneide in primo luogo allo Pseudo Asconio, seguendone la scansione descrittiva dell’attività del
quaesitor infernale. Il commentatore di Cicerone ben conosce Virgilio e insegna che la electio dei giudici
avviene per mezzo del consilium vocare. La strettezza del rapporto iudices-consilium convince Norden: ne
deriva che Minosse avrebbe provveduto alla scelta dei giurati, che avrebbero dovuto esercitare la funzione di
giudici. Tutta questa interpretazione si fona, secondo Norden, proprio sulla lettura consilium. A questo punto
l’illustre studioso orienta in modo decisivo, la lettura del testo mettendo sullo stesso piano Servio e Donato,
che avrebbero considerato virgiliana la tradizione concilium; ma Donato reca consilium.
Dopo aver svolto le sue osservazioni sull’identificazione del quesitor e dei giudici nel senso della
trasposizione di una immagine del processo pensale ed aver brevemente posto il problema paleografico,
Norden si sofferma proprio su quest ultimo. Per avvalorare la lettura consilium, svolta sulla base salda dello
Pseudo Asconio si volge a criticare le interpretationes di Donato e Servio. Nei confronti del primo è facile
osservare che consilium vocare sarebbe stata locuzione atta a descrivere solo il chiamare un corpo
deliberante, ed essa non avrebbe potuto designare una riunione di soggetti sui quali prendere una decisione,
come appare la congregatio donatiana. L’argomentazione appare convincente; non funziona invece la critica
al concilium di Servio: secondo Norden sarebbe spiegato come “die Versammlung der ausgelosten
Geschworenen” cioè la riunione di iudices selecti; ma ciò non emerge dal testo del commentatore, dove gli
omnes che convengono appaiono essere dei soggetti da giudicare. Dunque, è superflua sia la notazione che
concilium fosse usato da Servio come sinonimo di consilium, sia la conclusione, secondo la quale un collegio
di giudici non viene mai denominato concilium.
Servio avrebbe spiegato nel senso proprio nel testo virgiliano un termine che nell’Eneide a sua disposizione
risultava corrotto. Passiamo dunque all’interpretazione recente di questa pagine di Norden; essa è stata
autorevolmente espressa da Antonio La Penna, illustre latinista, sulle colonne di un’opera fondamentale per
lo studio del poeta augusteo: l’Enciclopedia Virgiliana dell’Istituto Treccani. Sotto il lemma concilium si
legge: “l’argomentazione del Norden non è del tutto stringente: egli esclude concilium, perché il termine
potrebbe indicare solo un’assemblea giudicante, non di persone da giudicare. Ma non è questo il pensiero di
Norden, il quale sosteneva l’opinione esattamente contraria, e cioè che tale termine mai avrebbe potuto
indicare un collegio giudicante. Si può aggiungere che se cosi invece fosse stato, non vi sarebbe stata, da
parte di Norden, alcuna necessità di preferire la lezione consilium, perché concilium avrebbe già posseduto
una perfetta corrispondenza con il contesto virgiliano per come ipotizzato dallo studioso. La netta
affermazione era stata utilizzata per criticare Servio, ma su basi piuttosto inconsistenti e con risultati inani.
Norden, sottolineando che il concilium si chiama esclusivamente a fini deliberativi ed usando il verbo
“beschliessen”, non aveva in mente alcun organo giusdicente o giudiziario, bensì una riunione di tipo
politico-costituzionale la cui deliberazione si sostanzia non in una condanna, ma in una pronuncia generale
ed astratta. Anche se bisognerebbe valutare la possibilità di giudizi che si svolgessero davanti alle assemblee
popolari romane. La confusione è stata forse provocata anche dal fatto che l’immediato successivo uso
passivo dello stesso verbo “beschliessen” va ad indicare un giudizio. Il fatto che in Donato vi fosse
consilium e non concilium mostra l’inanità anche di questo sforzo interpretativo e la sostanziale distanza
dalla fonti di un problema costruito all’interno della speculazione filologico-storiografica.
Sembra quindi che Virgilio utilizzando una terminologia tecnica, chiami, con precisione, i giurati estratti a
sorte consilium. Il termine sta ad indicare la giuria, “elemento di struttura del processo” con il nome
dell’antico consiglio del magistrato, il cui parere non era vincolante. Nei processi de repetundis ad esso è
attribuita la funzione di iudicare. Anche la testimonianza dello scoliaste ciceroniano (Pseudo Asconio) ha la
sua importanza: è lettore attento di Virgilio e ha ben presente il passo in questione, tanto da utilizzarlo al fine
di una precisazione sulla portata del termine quesitor.
Tale interpretazione rileva per l’implicita premessa che se ne deve indurre: Minosse, come quaesitor, si
occupa di quaestiones criminales; solo a quest condizione la citazione virgiliana serva a stabilire la proprietà
dell’uso. Il consilium rappresenta dunque i giurati che affiancano Minosse, silenti per uso tipico del processo
romano; del resto è silente la rappresentazione complessiva dei giurati fin dalla lex repetundarum.
La procedura normale si doveva però svolgere in questo modo: prima del giorno stabilito per la discussione
dibattimentale, il presidente della quaestio provvedeva alla formazione della giuria e ad ottenere il
giuramento dei membri del consilium. Era proprio attraverso il sistema dell’estrazione che si costituiva il
collegio giudicante. Venivano iscritti su delle piccole sfere (pilae) tutti i nomi degli iudices; queste venivano
inserite nell’urna e se ne estraeva un certo numero, superiore a quello dei giudici che avrebbero composto il
collegio. Questo compito era affidato al presidente della quaestio.
Un dubbio rispetto alla ricostruzione, nasce dalla lettura di un verso senechiano, che identifica Minosse come
quesitore di Cnosso; secondo il filosofo quindi, Minosse riversa nell’urna i rei defunti, non i nomi dei giudici
prima del processo. Sembra però che il testo appartenga a quelli strettamente legati ad un filone della
mitologia più propriamente greca, in cui Minosse rappresenta uno strumento del fato. La contaminatio
senechiana sembra trasporre quella che appare una figura di giurisdizione in una prevalenza del destino
attraverso il sorteggio in cui la moira prevale sull’ordinamento giuridico del “Götterstaat”, cioè della
proiezione nell’aldilà delle strutture di diritto pubblico della civitas romana.

4. “Potestas inquirendi” /” licentia agitandi”


La costruzione movere urnam, se ci si rivolge ai commentatori di Virgilio, trova spazio per significare una
delle potestà del quesitor.
“Minos illic et inquirendi habet potestatem et urnae agitandae licentiam, ut, si iudiciorum exitus etia sortis
arbitrium quaereret, non deesset urnae substantia”
In questo brano di Donato si mostra come l’agitare l’urna potesse rappresentare una funzione del presidente
della quaestio descritta da Cicerone attraverso l’uso della locuzione committere tabellas. Ciò era previsto per
affidare all’imparzialità della carica un momento in cui anche visibilmente si esplicava l’oggettività del
processo. Tale operazione era consentiva dalle ridotte dimensioni dell’urna, che conteneva poche decine di
schede: lo smuovere le sorti diviene un atto di potenza e di grazia, sintesi del controllo magistratuale sul
processo. Se i giudici fossero stati più numerosi, il disbrigo dello scuotimento sarebbe divenuto improprio
per il presidente del tribunale, ed affidato ad ausiliari.
Licentia è terminologia che si riferisce ad una sfera di poteri, nella quale corrisponde alla massima
estensione. Si può trovare in connessione con potestas, ed è utilizzata dai giuristi con riguardo alla
competenza di titolari di poteri pubblici.

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