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Il diritto e l’istituzione
Istituzioni deriva dal verbo istituere. La forma verbale viene tradotta in italiano come fondare, costruire. Il termine
istituzione indica quindi le fondamenta del diritto romano.
Non esiste una definizione univoca del diritto a causa della soggettività di intendere proprio il diritto. Nelle fonti del
diritto romano, una delle definizioni che viene spesso riportata è quella di Ulpiano, che descrive il diritto come “l’arte
del buono e dell’equo”. In latino il termine diritto viene tradotto in ius, che ha la stessa radice del termine iustitia. La
giurisprudenza (iuris prudentia) è la scienza del diritto.
Il diritto casistico
I romani hanno costruito un diritto casistico, che non parte dalla regola generale ed astratta ma da casi concreti. Nel
leggere le fonti del diritto romano si ritrova spesso il caso concreto, che viene risolto creando una regola ad hoc. Il diritto
romano è caratterizzato da un vivo dibattito tra posizioni diverse sostenute dai diversi giuristi (ius controversum). Il
giurista moderno, studiando il diritto romano, è educato alla logica perenne dell’argomentazione giuridica. Se visto in
quest’ottica, il diritto romano non è morto e, anzi, mai come in questa fase storica è stato vivo. Al diritto romano si
richiama spesso anche la cassazione: quando c’è un contrasto, la cassazione emana delle sentenze a sezioni unite dettate
dall’interpretazione del caso. Spesso le sentenze a sezioni unite si richiamano al diritto romano per ottenere una chiave
di lettura della situazione che metta tutti d’accordo.
Il codice teodosiano
Un altro passaggio importante è quello che si verifica sotto il governo di Teodosio II (imperatore orientale), che nel 439
emanò il codice teodosiano. Questo è il primo codice ufficiale mai redatto che raccolga tutte le leges vigenti, ma per noi
non ha molta importanza perché gioca un ruolo minore rispetto a quello di Giustiniano. Il termine codex assunse il
significato di “fogli spillati, messi insieme”. Prima di Teodosio II erano stati emanati solo codici privati, senza sigilli di
ufficialità.
Giustiniano e Teodora
Nel 527 sale al trono Giustiniano, figura molto interessante perché sale al trono con il disegno preciso di mettere ordine
nel diritto romano (“dalle leggi trasse il troppo e il vano”). Giustiniano sposa Teodora, una “attrice”: il matrimonio tra i
soggetti di rango senatorio e i soggetti di altra classe era vietato, ma con una legge ad personam Giustiniano abolì questo
divieto. Teodora influenza molto la legislazione di Giustiniano, perché addirittura alcuni studiosi hanno parlato di
femminismo giustinianeo, perché nelle costitutiones dell’imperatore c’era spesso una apertura al mondo femminile
anomalo in quei tempi.
Il Digesto
La prima cosa fatta da Giustiniano alla salita al trono fu l’abolizione del codice di Teodosio II e l’introduzione nel 528
di un nuovo codice, il novus giustinianus codex. Poco tempo dopo,
Giustiniano creò una commissione deputata alla redazione del Digesto, una raccolta di tutti gli iura classici. La
commissione era presieduta da Triboniano, il questor sacri palati (una sorta di moderno ministro della giustizia che
segnò tutte le opere di Giustiniano. La commissione (composta da 16 elementi: 11 avvocati, 4 professori universitari e
Triboniano) aveva il compito di leggere le opere di tutti i giuristi classici, selezionare le parti più utili ed inserirle in
un’opera, il Digesto, composta da 50 libri. Le parti che non servivano delle opere classiche vennero scartate e
dimenticate.
Ogni libro del Digesto è diviso in titoli, e ogni titolo è diviso in frammenti o paragrafi. All’inizio di ogni frammento si
trova un codice: ad esempio il codice D.1.2.7 indica il frammento 7 del titolo 2 del libro 1 del Digesto. A sua volta il
frammento può essere diviso in paragrafetti. Per ogni frammento è presente la scriptio, la referenza dell’opera classica
citata.
Le Istituzioni
In contemporanea con il digesto la commissione emanò anche le Istituzioni, un’opera divisa in quattro libri rivolta alla
“cupida legum juventus” (gioventù desiderosa di apprendere le leggi). Le Istituzioni sono dedicate agli studenti di diritto
e regolamentano il corso di studi in giurisprudenza in funzione di formare nel migliore dei modi i futuri funzionari
imperiali. Le Istituzioni vengono pubblicati con la costitutio Omnem. Con le Istituzioni la laurea in giurisprudenza passa
da quattro a cinque anni, e le matricole vengono chiamate “i nuovi giustinianei” e non più “diupondi”, termine greco
usato in precedenza che significa persone squattrinate.
Approfondimento. Le Istitutiones di Gaio (metà del II secolo d.C.) sono un manuale destinato all’insegnamento, nel
quale Gaio cerca di descrivere i vari istituti romani. Le Istitutiones sono famose perché sono state scritte secondo la
tripartizione persone, res, actiones (mezzi processuali, di tutela). Questa tripartizione si va a riflettere sulle Istituzioni di
Giustiniano, che sta concettualmente alla base dell’organizzazione dei codici moderni. Le Istituzioni di Gaio sono
importanti anche perché ci sono giunte quasi integralmente, senza essere accorpate nel Corpus iuris civilis. Infatti è
giunto fino a noi il cosiddetto palinsesto veronese: Nebuhr, nel 1816, scoprì questo palinsesto nella biblioteca scaligera
di Verona.
Le Novelle
Dopo il secondo codice Giustiniano emanò altre leges, che resteranno sempre fuori dal codice e prendono il nome di
Novelle.
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IL PROCESSO ROMANO
La regula ed il processo
Il diritto romano va inteso con categorie diverse da quelle che siamo soliti utilizzare oggi: per noi è quasi scontato che
il diritto prenda le mosse dalla legge secondo un processo deduttivo (diritto sostanziale), ma i romani avevano un
approccio induttivo nei confronti del diritto: dal caso concreto si traeva la regula, cioè la soluzione più equa (l’equità
era un principio importantissimo per gli antichi romani) per regolare quel problema giuridico. Giacché la regula era
astratta e pertanto non era pensata per risolvere il caso concreto ma un caso generale, poteva essere applicata per analogia
ad altre fattispecie simili. Questo significa che il momento in cui il diritto operava concretamente era il processo: in
quella sede, infatti, la regula astrattamente individuata dal giurista trovava la sua applicazione concreta e veniva posta
sotto un vaglio critico circa la sua attuabilità.
Escludendo l’età della Roma arcaica (durante la quale le controversie venivano risolte autonomamente o in forma
religiosa), quando si parla di processo privato nel diritto romano si parla di tre tipi di processo.
La lex aebutia
Il processo formulare cominciò ad affermarsi per la sua struttura flessibile, che ai certa verba delle leges actiones
sostituiva i concepta verba, formule verbali discorsive che potevano essere create con l’aiuto del pretore. Un passaggio
centrale si ebbe con l’emanazione della lex aebutia (120 a.C.), che fece sì che la legis actio per conditionem relativa alla
certa pecunia potesse essere esperita con le forme del processo formulare (condictio) e che la condicito formulare per
certa pecunia fosse efficace non solo per il ius honorarium ma anche sotto il profilo del ius civile. Se si fosse esperita la
condictio per certa verba nel processo formulare, avrebbe prodotto effetti civili ma non avrebbe estinto le leges actionem.
Non si sapeva, quindi, cosa fare nel caso in cui un soggetto avesse agito prima tramite processo formulare e dopo con
le leges actionem. È verosimile, però, che in questo caso il pretore avesse il potere di denegare l’azione al soggetto che
avesse richiesto un processo in leges actiones dopo aver partecipato ad un processo formulare.
La ius vocatio
Un momento centrale della fase in iure, poiché non si ammetteva processo in contumacia, consisteva nella convocazione
a giudizio del convenuto da parte dell’attore (in ius vocatio, oggi chiamato atto di parte dell’attore). La in ius vocatio
avveniva con l’intimazione dell’attore al convenuto di comparire dinnanzi al tribunale. Verosimilmente, l’attore avrebbe
anche dovuto descrivere per sommi capi la causa della in ius vocatio al convenuto. Se il convenuto avesse rifiutato,
l’attore avrebbe potuto esercitare una manus iniectio vocati, che nasceva cioè dalla in ius vocatio. Se il convenuto avesse
chiesto la possibilità di comparire dopo un certo numero di giorni avrebbe dovuto fornire un vindex, un garante.
Una volta comparsi davanti al magistrato, soprattutto nelle leges actiones dichiarative attore e convenuto dovevano
collaborare pronunciando i certa verba adeguati. Se il convenuto non avesse collaborato spontaneamente sarebbe incorso
nella cosiddetta indefensio, che avrebbe comportato una serie di sanzioni.
La formula
La formula era il cuore della fase in iure del processo formulare. La formula consisteva in uno schema-discorso tipo,
che serviva ad indicare al giudice privato i criteri in base ai quali, nella fase apud iudicem, egli doveva procedere alla
soluzione della controversia. La formula descriveva quindi la pretesa attorea e la difesa della parte convenuta, e al tempo
stesso si poneva come fondamento e limite al contempo dei poteri decisori del giudice privato. Si parla di una certa
flessibilità della formula (concepta verba) perché lo schema andava adattato al caso concreto tramite una stretta
collaborazione tra le parti ed il pretore. Secondo una teoria ottocentesca, il processo formulare non era altro che una
sorta di negozio tra le parti, tanto importante era l’importanza data alla volontà delle parti.
La struttura della formula era ipotetica ed alternativa, perché la formula recitava a grandi linee “se saranno integrate
alcune circostanze per accogliere la domanda dell’attore – si paret – tu, giudice, accoglila; se queste condizioni non
risulteranno integrate – si non paret – tu, giudice, assolvi il convenuto” (vedi il testo del Santucci, pagina 23).
La formula iniziava con la datio iudicis, la nomina del giudice, che avveniva tramite un accordo tra le parti
supervisionato attivamente dal pretore. La formula constava poi di partes formularum: demonstratio, intentio,
adiudicatio e condemnatio (parti essenziali della formula, secondo la classificazione di Gaio). Le parti non essenziali
erano la exceptio, la praescriptio pro reo e la praescriptio pro actore.
La demonstratio
La demonstratio si andava ad inserire dopo la intentio qualora fosse necessario introdurre una descrizione che
permettesse di individuare chiaramente l’affare di cui si stava discutendo. Si inseriva la demonstratio soprattutto nelle
actiones che avessero una intentio incerta (esempio a pagina 24, Santucci). La formula con demonstratio inizia con
“posto che”.
La condemnatio
La condemnatio era quella parte della formula che attribuiva al giudice il potere (derivante dalla formula) di condannare
o di assolvere e al contempo fissava i criteri ai quali il giudice doveva attenersi per determinare l’ammontare della
condanna, che nel processo formulare era sempre di tipo pecuniario.
Anche la condemnatio poteva essere certa o incerta: era certa quando, nei concepta verba, fosse già determinata la
somma di denaro per cui poteva avvenire la condanna; era incerta quando il giudice, per capire quanto condannare il
convenuto, doveva procedere con la cosiddetta litis aestimatio. La condemnatio certa, nelle azioni civili, avveniva solo
nell’actio certae creditae pecunie e nell’actio certae ex testamento (nel caso in cui si agisse per un legatum per
dannationem).
La litis aestimatio poteva fare riferimento a diversi periodi temporali, a seconda del tipo di azione. La condanna poteva
infatti essere quanti ea res est (che si riferiva al valore della cosa nel momento della litis contestatio), quanti ea res erit
(riferita al momento futuro, cioè al momento in cui il giudice avrebbe emesso la sentenza), quanti ea res fuit (riferita al
momento precedente alla litis contestatio). La litis estimatio poteva portare ad una condanna pari al valore calcolato,
salvo alcune azioni, le azioni penali, che la portavano ad un multiplo (doppio, triplo, quadruplo). Le azioni penali non
erano azioni di diritto criminale, ma venivano chiamate in questo modo perché si diceva che la condanna prevedesse
una pena, cioè l’accrescimento dell’importo della sanzione. Già nel I secolo a.C., in caso di litis extimatio, si cominciò
a prendere in considerazione l’interesse positivo dell’attore, la valutazione che teneva conto non solo del valore della
cosa in sé ma anche del danno che l’attore aveva subito per il mancato rispetto delle obbligazioni da parte del convenuto
obbligato.
Nella condemnatio era possibile che le parti, in accordo tra loro e con l’approvazione della magistrato, introducessero
la cosiddetta taxatio, che fissava il limite massimo entro il quale il giudice poteva determinare il concreto ammontare
della condanna. La taxatio poteva inoltre rendere operativo il cosiddetto beneficium competentie, che indicava che la
condanna nei confronti del debitore doveva essere limitata entro l’attivo patrimoniale del debitore stesso, così da evitare
l’insolvenza (che poteva portare all’espropriazione parziale dei beni e, in certi casi, anche all’infamia, che rappresentava
uno stigma sociale e giuridico rilevante ed in alcuni casi poteva configurarsi anche come una condanna criminale).
L’adiudicatio
L’adiudicatio si trovava solo nei giudizi divisori, qualora ci fossero dei soggetti comproprietari di un bene (ad esempio
i coeredi, comproprietari dello stesso fondo). L’adiudicatio era la pars formulae che autorizzava il giudice a procedere
alla divisione della cosa, precedentemente indivisa, per quote individuali concretamente individuate. La formula tipica
di un giudizio divisorio stabiliva infatti quanto fosse opportuno attribuire a ciascuno dei comproprietari.
Originariamente, questa formula non prevedeva intentio. Se la cosa oggetto di comproprietà non fosse stata divisibile
(ad esempio, se l’oggetto del contendere fosse stato uno schiavo), il giudice poteva decidere di attribuire la cosa ad uno
dei soggetti, che sarebbe stato tenuto a fornire l’equivalente in denaro agli altri soggetti.
La exceptio
Nel corso del I secolo a.C., la praescriptio pro reo venne sostituita dalla exceptio. La exceptio si inseriva nella parte
della formula tra intentio e condemnatio, oppure tra demonstratio e condemnatio se la demonstratio fosse stata presente.
La exceptio non era una mera difesa processuale ma era una condizione negativa della condanna, perché era quella parte
della formula attraverso la quale si introducevano le circostanze irrilevanti per il ius civile imponendo al giudice prima
di tutto di verificare se fosse fondata l’intentio e poi di non emettere condanna verso il convenuto se la exceptio fosse
stata fondata. Se fosse stata fondata, la exceptio prevaleva sull’intentio. Con la exceptio, quindi, il giudice andava ad
emettere una sentenza: se questa fosse stata di assoluzione del convenuto, l’azione non avrebbe potuto essere riproposta
dall’attore (principio del ne bis in idem).
Se l’attore voleva replicare all’exceptio poteva introdurre una replicatio. Se il convenuto avesse voluto a sua volta
addurre altre circostanze poteva chiedere una duplicatio. L’attore poteva rispondere con una triplicatio e così via,
andando avanti potenzialmente all’infinito (anche se ci sono giunte testimonianze di processi arrivati al massimo alla
triplicatio).
Le exceptio venivano distinte in peremptoriae e dilatoriae. Le exceptiones peremptoriae potevano essere apposte in
qualsiasi momento e contro qualsiasi persona e si riferivano di solito al dolo e alla violenza, mentre le exceptiones
dilatoriae avevano una efficacia limitata nel tempo e non potevano essere opposte a tutti, ma solo a determinate persone.
Le azioni decretali
Le azioni pretorie non edittali, le cosiddette azioni decretali, venivano concesse dal pretore, nel singolo caso specifico,
con un atto chiamato decretum. Le azioni decretali venivano anche chiamate actiones in factum, perché si applicavano
alla fattispecie concreta. Le actiones in factum erano diverse dalle actiones con la formula in factum concepta, che erano
le azioni pretorie edittali costruite sulla base di analisi di fattispecie concrete non tutelate da ius civile.
Le azioni utili
Le actiones utilis erano anch’esse azioni decretali, ma non rappresentavano tanto una formula costituita in modo
particolare quanto una formula che veniva concessa per tutelare fattispecie già previste o dalle azioni civili o dalle azioni
Le azioni arbitrarie
La più caratteristica azione arbitraria era la rei vindicatio, ossia l’azione a tutela della proprietà.
Le azioni arbitrarie contenevano una clausola arbitraria ed erano quasi unicamente actiones in rem. L’azione arbitraria
si caratterizzava per l’uso dell’espressione “arbitrio tuo”, e permetteva al giudice di effettuare nella fase apud iudicem
la cosiddetta pronuntiatio de iure, un ordine restitutivo (iussum de restituendo) della cosa all’attore da parte del
convenuto che, restituendola, non sarebbe stato condannato. Se il debitore non avesse voluto restituire la res, sarebbe
stato condannato ad un risarcimento pecuniario.
I praeiudicia
I praeiudicia erano azioni in cui serviva solo la intentio, perché erano azioni aventi funzione di accertamento.
Le azioni fittizie
La fictio iuris era uno strumento usato molto spesso dai giuristi romani perché consentiva di ampliare il raggio delle
tutele. Nelle azioni fittizie era quindi presente la fictio iuris, una clausola che autorizzava il giudice a ritenere avvenuta
(fictio positiva) o non avvenuta (fictio negativa) una determinata situazione al fine di poter concedere tutela nel caso
concreto all’attore.
La litis contestatio
Il processo civile romano si snodava attraverso le fasi in iure e apud iudicem. Nella fase in iure, grazie ai concepta verba,
si andava a creare la formula cercando un accordo sia su quest’ultima che sulla nomina del giudice privato. Per ovviare
alla necessità di formalizzare questo accordo, si passava attraverso la litis contestatio, che si verificava quando il pretore
ordinava alle parti di litem contestare, chiudendo la fase in iure.
La pluris petitio
Tutti questi effetti davano luogo alla consumazione processuale, che aveva rilevanza anche sotto il profilo della
cosiddetta pluris petitio (chiedere qualcosa di più). In termini generali la pluris petitio era la situazione in cui l’attore
presentasse nella formula la propria pretesa o l’obbligo del convenuto in un modo diverso dalla realtà, in modo tale da
aggravare la posizione dell’obbligato. Si poteva parlare di pluris petitio solo se l’azione aveva un’intentio certa. Si
conoscono quattro tipologie della pluris petitio: re, loco, tempore e causa.
La pluris petitio re era il caso in cui l’attore chiedesse oggettivamente più di quanto in realtà gli spettasse, ossia indicasse
l’oggetto della sua pretesa in modo più ampio di quanto effettivamente non fosse.
La pluris petitio loco si aveva allorquando si prevedeva che il debitore dovesse eseguire la propria prestazione in un
certo luogo determinato, e invece l’attore chiedeva che il debitore la eseguisse in un luogo diverso.
La pluris petitio tempore avveniva quando l’attore chiedeva l’esecuzione della prestazione prima del termine che le parti
avevano fissato oppure prima del termine che implicitamente si poteva desumere dal negozio.
La pluris petitio causa si aveva solo con due tipi di obbligazioni, le obbligazioni di genere (Tizio dà 500 sesterzi a Caio
affinché quest’ultimo gli dia tra un mese 200 chili di mele, provenienti dal suo orto o meno) e le obbligazioni alternative
(Tizio e Caio concludono una stipulatio con la quale Caio si impegna o a dare a Tizio tra un mese lo schiavo Stico o a
dargli tra un mese 1000 sesterzi). La pluris petitio si aveva quando, a fronte di un’obbligazione alternativa, l’attore
avesse chiesto che venisse eseguita una delle due prestazioni possibili non lasciando la scelta al debitore oppure quando,
a fronte di un’obbligazione di genere, l’attore avesse chiesto una prestazione specifica (le mele del campo di Caio) e
non una generale (le mele di un campo qualsiasi).
Nel corso dei secoli si pensò che l’attore che fosse incorso in una pluris petitio avrebbe perso il processo, perché
l’intentio non era fondata. Questa interpretaizone molto rigorosa cedette il passo ad una interpretazione più morbida
solo in epoca postclassica, durante la quale si prese in considerazione la base effettiva della richiesta attorea: se il
convenuto avesse dovuto pagare 5.000 sesterzi e l’attore ne avesse chiesti 10.000, il giudice avrebbe condannato il
convenuto solo al pagamento di 5.000 sesterzi.
La minus petitio
Nella minus petitio la pretesa veniva modificata al ribasso (al posto di chiedere 10, l’attore chiedeva 5): in questo caso
l’attore non avrebbe più potuto agire nei confronti del convenuto per il rimanente. Anche in questo caso il convenuto
avrebbe dovuto opporre una exceptio litis dividue, che faceva notare che su quell’affare tra i medesimi soggetti si era
già pronunciato un giudice.
L’indefensio
L’indefensio descriveva la situazione in cui il soggetto convenuto non volesse difendersi. Un soggetto si definiva
indefensus quando, a seguito di in ius vocatio, non si fosse presentato a giudizio e non avesse dato un vindex.
Una particolare fase della procedura giuridica romana era il vadimonium, un accordo con il quale le future parti del
processo concordavano di trovarsi il tal giorno alla tal ora dinnanzi al magistrato. Se il convenuto non si fosse presentato,
il vadimonium sarebbe stato definito desertum e il convenuto sarebbe stato indefensus.
Se la azione esperita era una actio in personam l’indefensus avrebbe subito la missio in bona, che concretamente
consisteva nell’entrare in possesso (fisicamente e giuridicamente) dei beni dell’indefensus. Chi entrava in possesso dei
beni di un altro soggetto sulla base della missio in bona, trascorso il tempo necessario previsto per l’usucapione, avrebbe
usucapito quei beni diventandone quindi, alla luce dello ius civile, il legittimo proprietario.
La rappresentanza processuale
Nel processo romano era data la possibilità sia all’attore che al convenuto di farsi rappresentare. In particolar modo nel
processo formulare si conoscono due figure principali di rappresentanza, il cognitor e il procurator ad litem.
Il cognitor era un soggetto che doveva essere nominato espressamente quale proprio rappresentante di fronte alla
controparte. Il cognitor conduceva il processo in proprio per conto della parte, perciò ci si trovava di fronte ad un caso
di azione con trasposizione di soggetti. Anche una eventuale actio iudicati che si esperiva dopo la sentenza doveva
essere esperita da o contro il cognitor, che figurava come vincitore o come sconfitto al posto della parte. Per permettere
che si agisse direttamente contro il debitore originario il pretore dava alla parte un’azione utile, modellata sulla struttura
della actio iudicati.
Il procurator ad litem, a differenza del cognitor, doveva essere nominato con un iussum o con un mandatum. Anche in
questo caso si aveva una azione con trasposizione di soggetti.
Sia il cognitor che il procurator of litem dovevano essere ritenuti idonei a postulare, ossia ad essere parti del processo,
sia in termini generali (dovevano avere un’età superiore a 17 anni, non dovevano essere sordi eccetera) che pro aliis
(dovevano essere in grado di sostenere il processo per qualcun altro: non potevano farlo i ciechi, le donne eccetera).
La contumacia
Il processo per cognitiones extra ordinem si poteva celebrare in contumacia: o l’attore o il convenuto potevano essere
assenti, con delle conseguenze diverse.
Per il convenuto non esisteva più la in ius vocatio, ma si introdussero nuove modalità di citazione in giudizio. L’attore
doveva infatti effettuare una denuntiatio, un atto di parte nel quale l’attore indicava sommariamente i punti essenziali
della questione controversa, da consegnare al convenuto con l’intervento dell’autorità pubblica degli ausiliari del
magistrato, che potevano recapitare la denuntiatio scritta al convenuto. La denuntiatio poteva anche essere eseguita
oralmente, ma per ragioni di certezza doveva essere eseguita davanti ai funzionari imperiali che avrebbero dovuto
redigerne un testo scritto con un procedimento detto testatio.
Per riconoscere la contumacia del convenuto, la citazione dello stesso doveva avvenire per tre volte consecutive e doveva
rispettare tutti i requisiti formali e sostanziali. Solo a quel punto il magistrato poteva emettere l’edictum perentorium,
un ordine rivolto al convenuto di comparire. Se il convenuto non si fosse presentato lo stesso il processo si sarebbe
aperto e si sarebbe svolto regolarmente, e la contumacia si sarebbe tradotta nella perdita del processo da parte del
convenuto, senza che l’attore avesse dovuto dimostrare la fondatezza della propria pretesa.
Se l’attore non si presentava al processo senza darne giustificazione, si aveva un semplice caso di inefficacia della
citazione che avrebbe però potuto essere ripetuta in futuro.
La litis contestatio
La litis contestatio, nel processo per cognitiones, era semplicemente una scansione temporale che serviva a sancire
alcune questioni. Dopo la litis contestatio, infatti, il convenuto non poteva più proporre exceptiones e le pretese delle
parti relative a quanto richiesto dall’attore venivano fissate. Dopo la litis contestatio, inoltre, anche le azioni non
trasmissibili agli eredi diventavano trasmissibili.
La sentenza
La sentenza del giudice aveva una efficacia maggiore rispetto a quella del iudex privatus. Sebbene la condanna
maggioritaria fosse quella al pagamento di una somma di denaro, in questo tipo di processo si introdusse la cosiddetta
esecuzione in forma specifica (soprattutto nelle controversie che avevano a che fare con diritti reali). In caso di rivendica
della proprietà il convenuto, se avesse perso il processo, avrebbe dovuto restituire quella proprietà a colui che era stato
riconosciuto legittimo proprietario.
La sentenza si caratterizzava inoltre per la cosiddetta efficacia positiva del giudicato, ossia l’impossibilità di ripetere
l’azione che non derivava più dalla litis contestatio ma dalla sentenza stessa, che proveniva da un organo investito del
potere derivante dallo Stato e che quindi accertava definitivamente i termini della controversia.
L’appello
La sentenza di un processo per cognitiones extra ordinem era appellabile: di fronte alla decisione del magistrato il
convenuto condannato poteva fare appello al princeps per chiedere giustizia. L’appello non nacque ab origine con la
nascita delle cognitiones extra ordinem, ma si manifestò mano a mano e si dotò di una struttura completa solo all’età di
Adriano (II secolo d.C.). All’età di Diocleziano i gradi di appello arrivarono ad essere tre.
In origine l’appello era una misura eccezionale: si poteva ricorrervi solo se si avesse richiesto giustizia al princeps. In
seguito l’appello si istituzionalizzò e portò ad un giudizio di secondo grado che si poneva come un giudizio nuovo,
sostitutivo in toto del precedente. Il nuovo giudice non aveva limiti nella conoscenza dei fatti e nella richiesta delle
prove.
Originariamente, per chiedere l’appello bastava lamentare l’ingiustizia della prima sentenza, senza articolare i motivi
per i quali si ricorreva all’appello. Il giudice che aveva emesso la sentenza, però, aveva in questo modo un grande potere
I processi esecutivi
Nelle sentenze conseguenti a delle actiones in personam, qualora il debitore non avesse pagato il giudice avrebbe potuto
autorizzare i suoi ausiliari (i cosiddetti apparitores) a prendere in pegno uno o più beni del debitore, venderli all’asta e
soddisfare il creditore con il ricavato, rendendo l’eventuale superfluo al debitore.
Nelle sentenze conseguenti ad actiones in rem, si poteva addirittura avere un processo esecutivo manum militari, con la
forza. Se il soggetto condannato non avesse restituito la res, il giudice avrebbe mandato i suoi ausiliari dal soggetto per
impadronirsi con la forza del bene.
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I NEGOZI GIURIDICI
Il negozio giuridico
Tra le categorie concettuali cui la dottrina fa riferimento vi è quella del fatto giuridico, che indica qualsiasi evento,
volontario o involontario, in grado di incidere sulla realtà giuridica estinguendo, modificando o creando un determinato
fenomeno giuridico. Il fatto giuridico è volontario quando c’è una azione umana che va nella direzione di modificare la
realtà giuridica, è involontario quando non dipende dall’azione umana.
Tra i fatti giuridici assumono particolare rilievo i fatti giuridici volontari, i cosiddetti atti giuridici, che possono essere
leciti o illeciti. Nell’ambito degli atti giuridici viene enucleata la categoria del negozio giuridico, che indica una
manifestazione di volontà in grado di far sorgere, modificare o estinguere delle situazioni giuridiche soggettive. La
categoria del negozio giuridico viene utilizzata perché è comoda ai fini didattici ma non è romanista in quanto nasce
con la pandettistica tedesca (XIX secolo), anche se nelle fonti giuridiche giustinianee si riscontra l’espressione negotium
iuridicum.
Il concetto di negozio giuridico non coincide con il nostro contratto, perché lo comprende ma non si esaurisce in esso.
Tra i negozi giuridici si possono individuare varie differenziazioni, di seguito elencate.
Negozi puri e semplici e negozi a cui sono apposti degli accidentali a negozi
I negozi puri e semplici contengono solo gli elementi essenziali richiesti affinché quel negozio sia valido.
I negozi a cui sono apposti degli accidentali a negozi presentano elementi non fondamentali ai fini della validità del
negozio ma che, se inseriti, vanno rispettati. Gli accidenti sono il termine (evento futuro e certo), la condizione (evento
futuro e incerto che sospende l’efficacia del negozio giuridico nel momento in cui non si verifica) e il modus o onere
(elemento accidentale simile alla condizione che si riscontra soprattutto nei negozi giuridici successori e in atti di
liberalità, come la donazione).
Apporre un termine significa apporre un dies, che può essere un giorno o uno spazio di tempo. Il dies può inoltre essere
iniziale (quando viene inserito un giorno a partire dal quale il negozio produrrà i suoi effetti) o finale (quando indica il
giorno in cui gli effetti del negozio cessano). In latino, per indicare il termine iniziale e il termine finale venivano
utilizzate, rispettivamente, le espressioni “dies a quo” e “dies ad quem”.
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IL DIRITTO DI FAMIGLIA
La persona
Nelle sue Istituzioni (libro primo, paragrafo ottavo), Gaio distinse i tre grandi argomenti del diritto romano in persone,
cose e azioni. Questa è la famosa tripartizione gaiana degli argomenti.
Quando si parla di persone, nel diritto moderno, si intendono le persone come soggetti di diritto ma si effettua una
distinzione tra le persone fisiche (gli esseri umani) e le persone giuridiche. Il concetto di persona giuridica era del tutto
sconosciuto ai romani, che viceversa avevano in mente il concetto di persona fisica. L’essere umano era persona in senso
stretto in quanto era libero. Nel libro I paragrafo IX delle Istituzioni Gaio parlava della cosiddetta summa divisio de iura
personarum: tutti gli uomini erano classificati in liberi oppure servi. A Roma, lo schiavo veniva concepito come una res.
L’evento nascita
La personalità veniva attribuita al soggetto al momento della sua nascita, che tendenzialmente veniva riconosciuta al
momento del completo distaccamento del feto dal corpo materno, a cui si doveva aggiungere l’elemento della potenziale
capacità del nascituro di condurre una vita autonoma. I giuristi romani cercavano sempre di indagare casisticamente
quando si potesse dire che il neonato fosse nato vivo o fosse nato morto. Se vi fossero stati dubbi circa la vita o la morte
del neonato, bisognava cercare di capire se vi fossero stati elementi tali a riconoscere l’avvenuta nascita e la persistenza
della vita per un tempo sufficiente all’attribuzione dei diritti soggettivi. In questo ambito si era creata una nuova
divisione tra la scuola proculiana e quella sabiniana: per i proculiani la prova della nascita veniva offerta dall’emissione
del primo vagito, mentre i sabiniani pensavano che fosse necessario un qualsiasi comportamento del nascituro che ne
potesse provare la vita. Nella costituzione imperiale conservata nel Codex, si enunciava che se ci fosse stato un
movimento oppure se il neonato avesse respirato, egli sarebbe stato considerato vivo: la visione sabiniana, quindi, ebbe
la meglio. Non si considerava nato vivo il cosiddetto portentum o monstrum, l’essere umano nato con deformità.
Il concepito
L’essere umano era oggetto di interesse giuridico al momento della nascita, ma non si escludevano casi in cui a rilevare
ai fini del diritto fosse già lo stesso concepimento. Ad esempio, in Roma esisteva l’istituto delle iuste nuptie, il
matrimonio legittimo: si aveva matrimonio legittimo quando i due soggetti che si sposavano erano liberi, romani,
adottavano una forma specifica per le nozze e vi era il connubium. Per valutare se il figlio fosse nato in un matrimonio
L’evento morte
Si doveva anche accertare l’evento morte: a differenza dei moderni, i romani non facevano ricorso alle presunzioni di
morte, salvo nel caso in cui più persone fossero morte contemporaneamente (commorienza, la giurisprudenza classica
sosteneva in questo caso che tutti i soggetti fossero morti allo stesso tempo). Caso per caso, la morte di un individuo
doveva essere provata da colui che avesse interesse a farlo con qualsiasi mezzo a disposizione. Un altro caso di
presunzione di morte si aveva con la premorienza, che si verificava quando il padre ed il figlio morivano più o meno
allo stesso tempo: in questo caso, se il figlio era impubere e senza eredi, si presumeva che egli fosse morto prima così
l’eredità del padre avrebbe potuto essere divisa tra gli altri suoi eredi.
L’infante
Tra gli impuberi vi erano varie categorie: la prima era quella degli infantes (definiti da Gaio come coloro che non erano
capaci di ragionare, che “nullum intellectum habent”), considerati a Roma antica come totalmente incapaci di agire.
L’età dell’infanzia si superava, anticamente, non appena il soggetto avesse raggiunto la capacità di loqui (l’emissione
di un eloquio ragionevole e comprensibile), che andava valutata volta per volta; in età classica l’infanzia terminava una
volta raggiunto il quinto anno di età; con Giustiniano si ritenne che l’infanzia fosse superata dopo il settimo anno di età.
L’infante maior
L’impubere non infante si chiamava infante maior (plurale maiores). L’infanzia maior riconosceva ai soggetti una
limitata capacità di agire: essi potevano infatti acquistare il possesso e dall’età classica in poi vennero considerati
responsabili per gli atti illeciti che avevano compiuto, qualora si ritenesse che il loro sviluppo intellettuale fosse tale da
renderli capaci di agire con dolo o con colpa.
Gli infantia maiores potevano inoltre concludere negozi giuridici, o con l’ausilio di un tutore (che prestava la sua
auctoritas tramite la interpositio auctoritatis) oppure autonomamente. Se l’impubere infantia maior avesse concluso il
negozio sine auctoritas del tutore, su di lui sarebbero ricaduti solo gli effetti vantaggiosi del negozio, che rimaneva
valido ma si definiva claudicante perché era vantaggioso solo per uno dei contraenti. Per tutelare il soggetto contraente
che avesse contrattato con l’infante maior vennero elaborate le actiones adiecticiae qualitatis.
Il pubertati proximo
Un’ulteriore sottocategoria degli infantia maiores era infatti quella dei pubertati proximi, che erano tendenzialmente
capacies doli e capacies culpa.
Il furiosus
La capacità intellettuale poteva mancare anche per ragioni diverse dall’età del soggetto: era totalmente incapace di agire
anche il furiosus, ossia la persona pazza, che se non era sottoposta alla potestà di un pater familias veniva sottoposta
automaticamente alla potestà di un curator. Al furiosus veniva equiparato colui che, pur sano di mente, per una qualche
ragione avesse momentaneamente perso l’uso della ragione. Se costui avesse posto in essere un negozio nel momento
della perdita della ragione, il negozio sarebbe stato considerato invalido.
In età giustinianea si distinse il furiosus (pazzo che aveva un qualche intervallo di lucidità, nel quale gli si riconosceva
la capacità di agire) dal demens o mentecaptus (una persona totalmente priva delle proprie facoltà mentali).
Il prodigus
Un altro motivo di parziale incapacità di agire era la condizione di prodigus, colui che sperperava il proprio patrimonio
e che così facendo rischiava di danneggiare anche la sua famiglia. Nel caso del prodigus era necessaria la formale
interdizione da parte del magistrato. Anche per il prodigus veniva nominato un curator, e se avesse agito senza la sua
interposizione avrebbe potuto concludere il negozio giuridico ma si sarebbero potute produrre nei suoi confronti solo le
condizioni favorevoli del negozio, come nel caso dell’infante maior.
La status permutatio
I romani prendevano in esame i mutamenti di status (libertatis, civitatis, familiae), la status permutatio, che era
conseguenza di una capitis deminutio (diminuzione della persona in senso sia fisico che giuridico), mutamento della
condizione giuridica di un soggetto. Si distinguevano le capitis deminutio massima, media e minima: la capitis deminutio
era massima quando il soggetto perdeva la libertà, media quando perdeva la cittadinanza e minima quando si aveva una
permutatio rispetto ai vincoli familiari, ossia quando si aveva una recisione dei vincoli agnatiti (derivanti da adgnatio, il
vincolo di parentela del diritto civile romano, diverso dalla cognatio, il vincolo di sangue).
Il servus
Nella realtà romana il servus era assimilato ad una res, sul quale il dominus esercitava un potere che, sino a tutto il
periodo della repubblica, era pressoché illimitato a livello giuridico: essendo di proprietà del dominus, lo schiavo era
nella piena disponibilità giuridica e materiale del padrone. Questa piena disponibilità si riassumeva nel cosiddetto ius
vitae ac necis (diritto di vita e di morte), che comportava (in termini astratti) che il dominus potesse mandare a morte lo
schiavo quando voleva. Questo comportamento veniva tuttavia percepito come eccessivamente arbitrario anche nella
società arcaica, nella quale il controllo maggiore sul dominus era esercitato dalle altre familiae, che lo avrebbero colpito
con un forte stigma sociale se avesse mandato a morte il servus senza un motivo effettivo. Già a partire dalla media
repubblica subentrò inoltre il regimen morum dei censori, il controllo che essi potevano esercitare sui comportamenti
dei cittadini secondo criteri etici. I censori avevano il potere di erogare l’infamia per comportamenti ritenuti contrari ai
valori del tempo. Il regimen morum consentiva quindi di temperare il potere del dominus. Nel principato, con lo sviluppo
delle cognitiones, si tendeva non solo a reprimere penalmente la messa a morte dello schiavo senza validi motivi ma
anche a colpire i casi di sevizia, al punto che se il padrone se ne fosse macchiato avrebbe potuto essere costretto a
vendere il servo. Si cominciò a reprimere anche la morte dello schiavo a causa delle sproporzionate punizioni corporali
inflittegli dal padrone.
Lo schiavo aveva una totale incapacità di essere soggetto a diritti ed obblighi sul piano del diritto privato e a livello
processuale. L’incapacità dello schiavo a livello processuale interessava in particolar modo allorquando si fosse in
dubbio se colui che veniva ritenuto schiavo fosse invece libero. Nei tempi più remoti, per verificare se la persona fosse
libera o schiava si doveva esercitare una legis actio sacramento in rem, nella quale le parti in gioco erano il presunto
proprietario e un soggetto che volesse dichiarare la libertà della persona. Questo soggetto prendeva il nome di adsertor
in libertatem e rivendicava a sua volta la proprietà dello schiavo: se avesse vinto l’adsertor in libertatem, egli avrebbe
di fatto emancipato lo schiavo oppure avrebbe rinunciato alla sua proprietà. Si poteva agire anche con l’agere per
sponsionem fino a quando, nel processo formulare, non entrò in gioco il praeiudicium an liber sit, un’azione con una
formula che si componeva della sola intentio. Serviva sempre un adsertor in libertatem che attivasse il praeiudicium.
Dal punto di vista della parentela, lo schiavo era privo dei vincoli che rilevavano per il ius civile, i vincoli agnatiti, ma
aveva solo vincoli di sangue (cognatio), che rilevavano solo in casi particolari puniti dal diritto criminale (come
l’incesto).
Se lo schiavo commetteva dei delicta (illeciti di diritto privato) entrava in gioco il principio della nossalità: dal momento
che lo schiavo non poteva rispondere per l’illecito compiuto, ne veniva chiamato a rispondere il suo proprietario. Il
proprietario aveva due alternative, o si difendeva ed eventualmente subiva la condanna oppure dava a nossa (noxae
deditio) lo schiavo a colui che aveva subito il danno.
Sul piano patrimoniale lo schiavo poteva compiere determinati negozi ad effetti nei confronti dei terzi, che avevano nei
confronti dello schiavo solo effetti di natura favorevole (negozi claudicanti). Per porre rimedio a questi negozi il pretore
introdusse le actiones adiecticiae qualitatis, che si davano per i rapporti tra un filius sottoposto alla potestà del pater e
un terzo oppure tra un servo sottoposto al dominio del dominus e un terzo.
Le manumissiones civili
Il modo principale per riacquistare la libertà si chiamava manumissio. Già dal periodo della prima repubblica esistevano
tre manumissiones: la manumissio vindicta, la manumissio testamento e la manumissio censu. A seguito di una di queste
Le manumissiones pretorie
Già dal I secolo a.C. vennero istituite altre forme di manumissiones, che davano una libertà di fatto allo schiavo ma che
non valevano per ius civile. Se il padrone, dopo queste manumissiones, avesse rivendicato la proprietà dello schiavo, il
pretore dava tutela alla libertà di fatto dello schiavo negando l’azione al dominus. Sempre per tutelare i liberti, nel 19
a.C. venne promulgata la lex iunia norpana, che attribuiva una sorta di status libertatis agli schiavi liberati, chiamati
latini iuniani (persone libere ma sprovviste di cittadinanza).
Le manomissioni libere dalla forma presero il nome di manomissioni pretorie. Le manomissioni pretorie potevano essere
eseguite nei modi più svariati: per epistulam (lo schiavo veniva liberato tramite la stesura di una lettera da parte del
dominus), inter amicos (il padorme si trovcava di fronte a cinque amici, che fungevano da testimoni, e pronunciava
parole con le quali dichiarava di voler liberare lo schiavo), solo per citarne alcune.
Nel IV secolo d.C. cominciarono a comparire tutta un’altra serie di manumissiones, tra le quali la più caratteristica era
la cosiddetta manumissio in ecclesia, che poteva avvenire in qualsiasi luogo di aggregazione della comunità cristiana: il
proprietario vi portava il proprio schiavo e, con la massima libertà di forma, poteva dichiararne la libertà. In questo
modo lo schiavo otteneva sia la libertà che la cittadinanza. In questo momento, però, la cittadinanza romana non aveva
lo stesso valore che aveva nella Roma del II o I secolo a.C. perché era già intervenuta la costitutio antoniana, una
costituzione imperiale del 212 d.C. di Antonino Caracalla con la quale si attribuì la cittadinanza a tutti i sudditi
dell’impero ad esclusione di gruppi molto piccoli di soggetti (tra cui i latini iuniani che avessero violato determinate
regole di comportamento). L’estensione della cittadinanza produsse uno schiacciamento di tutti i sudditi dell’impero
rispetto ad un potere totale quasi assoluto del princeps.
Il liberto
Lo schiavo manomesso diventava un liberto. Il liberto veniva tenuto distinto dall’ingenuo, ossia colui che nasceva libero
e che non aveva mai perso la sua libertà. L’imperatore stesso, nel principato, poteva però intervenire previa ricevimento
di una petizione affinché il liberto fosse equiparato ad un ingenuo: per farlo, occorreva un atto che si chiamava restitutio
natalium.
Il liberto possedeva dei doveri verso il suo patronus, colui che l’aveva liberato, e se questi doveri non fossero stati
rispettati il patronus avrebbe potuto richiedere la revocatio in servitutem del liberto ingrato.
Tra i vari doveri che caratterizzavano il rapporto di patronato vi erano anche dei divieti (ad esempio, il liberto non poteva
citare in giudizio il proprio patronus senza aver prima ottenuto una autorizzazione dal magistrato) e doveri di carattere
personale (ad esempio il cosiddetto obsequiuum, che si traduceva in alcuni comportamenti che il liberto doveva tenere
nei confronti del patronus). Il patronus poteva esercitare sul liberto anche dei poteri di natura disciplinare, ma non poteva
esercitare il ius vitae ac necis.
Vi erano anche dei doveri di natura patrimoniale: il liberto poteva essere tenuto a svolgere le cosiddette opere. Inoltre,
se fosse morto senza lasciare eredi, metà del patrimonio del liberto sarebbe andato al patronus.
Il liberto presentava inoltre una serie di incapacità, innanzitutto di diritto pubblico: egli non poteva accedere al cursus
honorum, non poteva entrare a far parte dell’ordine senatorio, non poteva accedere all’ordine equestre (l’ordine
immediatamente inferiore al senatorio; al liberto venne permesso di accedervi solo dall’età del principato) e non poteva
contrarre matrimonio con persone appartenenti all’ordine senatorio.
Le situazioni paraservili
Nella società romana era presente anche tutta una serie di situazioni paraservili, ossia di situazioni che presentavano dei
caratteri di libertà uniti a dei caratteri di schiavitù.
Le persone cosiddette in causa mancipii o in mancipio (vendute cioè dal pater familiae nell’esercizio del suo ius
vendendi) erano sottoposte contemporaneamente alla potestas del pater familias e alla causa mancipii rispetto
all’acquirente (anche se la potestas ed i vincoli agnatiti rimanevano quelli che già erano presenti con il pater familias
originario). Questi soggetti mantenevano la cittadinanza e la libertà, avevano capacità quanto ai rapporti personali ma
non erano totalmente capaci quanto ai rapporti patrimoniali.
Vi erano poi le figure dei debitori addicti, di cui si è già parlato.
Dall’età di Diocleziano in poi emerse inoltre la particolare figura conosciuta come colonato, un istituto che vincolava le
i soggetti al loro lavoro, imponendo anche la necessità dell’ereditarietà del lavoro stesso. Si cominciò soprattutto a legare
il coltivatore della terra al proprio fondo. Il colonato tardo antico si pose alla base del suo corrispettivo nell’età
intermedia e, soprattutto, della servitù della gleba. Il colonato nacque modellandosi sulla struttura di un contratto, la
locatio conductio, ma il rapporto che lo caratterizzava era perpetuo e creava un vincolo giuridico tra colono e terra.
Colui che dava la terra al colono chiedeva in cambio un corrispettivo in denaro o in frutti della terra. Con il tempo,
quello di colono divenne un vero e proprio status personale, che si otteneva con la nascita ma poteva anche essere
assunto liberamente da chi lo volesse. Anche lo Stato poteva obbligare dei soggetti a diventare coloni dell’impero. La
capacità del colono dal punto di vista personale e patrimoniale veniva generalmente riconosciuta, però il proprietario
della terra esercitava su di lui un potere pressoché assoluto.
Da ultime, diventarono condizioni paraservili quelle dei decuriones e dei curiales (coloro che governavano le piccole
comunità locali), cariche che diventarono obbligatorie ed ereditarie così come quelle degli appartenenti alle corporazioni
(come quella dei fabbri).
Lo status civitatis
Lo status civitatis presupponeva il possesso della cittadinanza romana da parte del soggetto, la sua perdita corrispondeva
alla capitis deminutio media. Nei tempi più antichi la cittadinanza era necessaria per essere capaci giuridicamente, ma
già in età repubblicana la qualità di cittadino contraddistinse più generalmente il soggetto in grado di godere del ius
civile.
Vi erano dei temperamenti alle rigidità nascenti dai diritti legati alla cittadinanza, dettati dai contatti con le altre
popolazioni anzitutto della penisola italica. Innanzitutto si era data la possibilità di riconoscere il matrimonio tra un
cittadino romano e uno straniero, tramite la concessione del ius conubii. Il ius conubii rilevava soprattutto dal lato
maschile, perché se era un uomo romano a sposare una donna straniera e questa donna aveva il conubium, il figlio nato
da questa unione sarebbe stato libero, legittimo e cittadino; viceversa, se la donna romana sposava un uomo strainero
con conubium, il vincolo legittimo si riconosceva secondo l’ordinamento giuridico del marito.
Il filius
Nella familia il figlio maschio rivestiva un ruolo importante anzitutto perché, pur con qualche diversità giuridica, la sua
posizione era in qualche modo simile a quella dello schiavo, a causa dei poteri che il pater poteva esercitare nei suoi
confronti. Il pater poteva inoltre vendere il figlio con mancipatio attraverso il ius vendendi. Nel tempo vennero introdotti
una serie di temperamenti al potere del pater, come avvenne nel caso dello schiavo.
A differenza dello schiavo, il figlio era anzitutto capace dal punto di vista sacrale ed era comunque civis romanus, poteva
quindi partecipare sia alla vita religiosa che alla vita politica di Roma (potendo prendere eventualmente parte anche al
cursus honorum, la carriera politica, da cui venivano tendenzialmente escluse le donne). Il filius poteva inoltre decidere
di contrarre matrimonio, ma solo con il consenso del pater familias. Se il filius aveva a sua volta figli, questi erano
sottoposti alla potestas del nonno.
Anche per il filius valevano dei vincoli pesanti dal punto di vista dei diritti patrimoniali: nella Roma arcaica il figlio era
incapace di obbligarsi in qualsiasi modo, in seguiti cominciarono però a svilupparsi casi di responsabilità adiecticiae,
nella quale il figlio poteva contrarre taluni negozi subendone solo gli effetti favorevoli. Dall’età di Augusto, il filius
poté disporre del peculium castrense, patrimonio composto da tutti quei beni prima ottenuti e poi eventualmente
acquistati dal filius durante il servizio militare, sui quali beni egli aveva una piena capacità di disporre. Dall’età di
Costantino il peculium castrense fu affiancato dal peculium quasi castrense, acquistato durante il servizio ecclesiastico
o tramite attività di tipo burocratico. Il peculium profecticium era invece il patrimonio che veniva concesso dal pater al
filius, il quale poteva utilizzarlo limitatamente.
Nell’età di Vespasiano c’era stato un caso eclatante di un filius che aveva chiesto un prestito di denaro al pater e poi
l’aveva ucciso per non dovergli più rendere i soldi prestati. Venne quindi emanato il senatus consulta macedoniano, che
introduceva il divieto per il pater (e anche per i terzi) di prestare denaro ai figli, a patto che non intervenissero
autorizzazioni particolari davanti al magistrato.
La adrogatio
Un altro modo per acquistare la patria potestas era l’adozione, che in Roma antica si suddivideva in adrogatio ed adoptio.
L’adrogatio era la forma più antica di adozione e consisteva nell’acquisto della patria potestas da parte di un pater
familias su un altro pater familias. La adrogatio si doveva svolgere dinnanzi ai comitia curiata, le assemblee del popolo
romano, alla presenza del pontifex maximum, la massima carica religiosa di Roma.
Il senso della adrogatio risiedeva nel fatto che il pater adottante volesse trovare nell’adrogato un erede legittimo, che
quindi avrebbe non solo ereditato i suoi beni ma avrebbe anche perpetuato la vita della famiglia dell’adrogante, non solo
per scopi sociali ma anche religiosi, sacrali. Originariamente, l’adrogante poteva scegliere qualunque altro pater per
farlo entrare nella sua familia; l’unica possibilità di negare la adrogatio spettava al pontifex maximum. Il veto del
pontifex maximum cominciò a dar vita ad una serie di vincoli per l’adrogatio: per esempio, non si concedeva adrogatio
se l’adrogante avesse già dei discendenti legittimi oppure se l’adrogante fosse stato più giovane della persona adrogata.
A partire dal III secolo d.C. l’adrogatio poteva essere eseguita solamente previa richiesta dell’imperatore, che avrebbe
risposto alla richiesta dell’adrogante tramite la costituzione tipica del rescripta.
Colui che effettuava l’adrogatio subentrava con una successione universale inter vivos nel patrimonio di colui che era
stato adrogato e nel contempo ne acquistava la potestas. L’adrogato subiva una capitis deminutio minima, che
comportava che i suoi debiti risultassero estinti. Per tutelare i creditori di un adrogato si sviluppò una tutela pretoria che
riconosceva delle azioni in loro favore oppure che prevedeva che il pretore, a fronte di una frode palese nei confronti
dei creditori, potesse concedere loro la restitutio in integrum.
La adoptio
La adoptio era l’acquisto della patria potestas da parte di un pater familias su un filius. Solo dalle Dodici tavole in poi
si riuscì ad applicarla, perché una regola delle Dodici tavole facente leva sullo ius vendendi individuò lo strumento per
procedere all’adoptio. Il pater aveva infatti il diritto di vendere il figlio, quindi la giurisprudenza pontificale elaborò una
teoria secondo la quale, se il pater vendeva il figlio per tre volte consecutive, egli perdeva la potestà e il figlio poteva
essere adottato.
L’istituto dell’adoptio si suddivideva in due fasi. Nella prima fase il pater vendeva il figlio per tre volte (tramite
mancipatio) ad un soggetto di fiducia. All’estinzione della patria potestas iniziava la seconda fase, nella quale il pater
venditore usava l’istituto della in iure cessio, un’applicazione negoziale della legis actio sacramento in rem: si prendeva
la struttura della legis actio, la si svolgeva come se ci si trovasse in un processo senza però passare alla fase apud
iudicem. In questo caso, l’adottante affermava davanti al magistrato che il figlio fosse suo; il pater taceva anziché
eccepire la controvindicatio e il magistrato operava l’immediata addictio del figlio all’adottante, che ne acquistava la
patria potestas. Stando a Gaio pare che, in realtà, fosse sufficiente effettuare una sola mancipatio e non tre mancipationes
consecutive qualora il figlio fosse stato di sesso femminile.
Poteva effettuare l’adozione il maschio pubere cittadino romano di età non inferiore a quella dell’adottato. Si poteva
adottare qualsiasi persona che fosse alieno iuris subiecta. In età giustinianea si ammise anche la donazione del servo.
L’adottato manteneva con la famiglia di origine soltanto i vincoli di sangue, la cognatio.
Nel III secolo d.C. la procedura della adoptio si semplificò sensibilmente perché sarebbe bastato che l’adottante
effettuasse una dichiarazione di adozione davanti al magistrato e al padre e che l’adottato non contraddicesse le
dichiarazioni dell’adottante. Dall’età giustinianea in poi, l’unica forma di adozione utilizzata rimase la adrogatio, intesa
come una forma generalizzata di adozione.
Gli sponsalia
Prima del matrimonio avvenivano gli sponsalia, il fidanzamento ufficiale, che nella Roma antica avveniva con una vera
e propria sponsio. In forza degli sponsalia il futuro coniuge che non avesse più voluto contrarre matrimonio avrebbe
dovuto pagare all’altro una somma di denaro.
Nel periodo classico gli sponsalia non ebbero più rilevanza giuridica, ma recuperarono importanza nella tarda età
classica. In particolare, giocò un ruolo importante la arrha sponsalica (l’arrha era un concetto di derivazione greca che
sta alla base del moderno concetto di caparra), una somma di denaro che il fidanzato dava alla fidanzata (o al di lei
padre) che veniva incamerata nel caso in cui il fidanzato non avesse più voluto sposarsi e veniva restituita in un suo
multiplo se era la fidanzata a non volersi più sposare.
La actio exercitoria
la actio exercitoria era connessa con le dinamiche di commercio interno ed internazionale e nasceva dall’autorizzazione
esplicita che l’armatore (exercitor) dava ad un suo schiavo, che veniva preposto in qualità di magister navis (comandante
della nave) alla guida di una nave o di una flotta di navi commerciali. Il magister navis doveva essere autorizzato con
l’atto esplicito della praepositio. La praepositio era una autorizzazione a svolgere attività di natura commerciale; i
romani, a meno che il dominus non escludesse esplicitamente la sua responsabilità per alcuni affari tramite la stessa
praepositio, ne individuavano i limiti in maniera abbastanza ampia, includendovi non solo gli affari ma anche ogni altra
attività svolta per poter portare avanti la campagna commerciale della nave. L’armatore doveva rispondere di tutte le
obbligazioni (nella loro interezza) contratte dallo schiavo sulla base della praepositio.
La actio institoria
La actio institoria nasceva con riferimento all’institor, che preponeva il proprio schiavo alla guida di una attività
commerciale terrestre. Anche in questo caso il dominus dava la sua autorizzazione tramite la praepositio e rispondeva
in solido per tutte le obbligazioni nascenti dallo svolgimento delle attività.
La actio de peculio
La actio tributoria
La actio tributoria era molto simile alla actio de peculio, ma presupponeva che vi fosse stata una autorizzazione implicita
da parte del padrone affinché lo schiavo o il figlio esercitasse una o più specifiche attività commerciali utilizzando i beni
del peculio. In questo caso il dominus o pater non aveva la prelazione rispetto ad altri creditori qualora fosse anch’egli
creditore del sottoposto (par condicio creditorum).
Le curatele
A Roma determinati soggetti erano privi totalmente o parzialmente di capacità di agire. Questi soggetti erano il pazzo,
il prodigo e il minore di 25 anni. Le forme più antiche di curatela erano la cura furiosis e la cura prodigi, già disciplinate
dalle dodici tavole.
La cura furiosis
La quinta tabula delle dodici tavole diceva che la potestas (e quindi la cura) sul furiosus e sulla sua pecunia veniva
attribuita per il ius civile in prima istanza agli agnati. In assenza di agnati si ricorreva ai gentiles, gli appartenenti alla
gens del furiosus. Non si diede mai peso alla designazione del curator per via testamentaria.
La posizione del furiosus veniva avvicinata a quella dell’infante: il furiosus, fino alla tarda repubblica, era un soggetto
totalmente incapace di agire. Per verificare che il furiosus fosse veramente tale non si poteva effettuare un controllo
magistratuale, né esisteva un praeiudicium an furiosus sit. Sostanzialmente, quindi, o il pazzo aveva concluso un negozio
e un soggetto lo contestava sottolineando il fatto che egli fosse furiosus in sede giudiziale, oppure, poiché gli agnati o i
gentiles erano curatori di diritto, il furiosus poteva agire per mettere in discussione l’atto di gestione del curatore.
Se non esisteva un curatore legittimo, il pretore procedeva alla nomina di un curatore esterno, il cosiddetto curatore
dativo. Il pretore doveva in questo caso agire causa cognita, ossia avrebbe dovuto verificare la condizione del soggetto
da sottoporre a curatela prima della nomina del curatore dativo. In questa sede il pretore poteva anche tenere conto della
nomina di un curatore testamentario, anche se l’atto di nomina testamentario non produceva effetti autonomamente.
I rapporti tra il curatore e il pazzo non erano regolati da alcuna azione specifica; l’unica azione che poteva essere data
era una actio negotiorum gestorum, che normalmente si riconosceva per la gestione di affari altrui.
La cura prodigi
L’altra forma di cura risalente all’antichità era la cura prodigi, anch’essa disciplinata dalla quinta delle dodici tavole. Il
prodigus era originariamente inteso come la persona che dissipava il patrimonio familiare ricevuto in eredità dal pater
familias; successivamente venne inteso come colui che dilapidava il proprio patrimonio, senza che questo dovesse per
forza essere frutto di un’eredità.
Anche nel caso della cura prodigi i soggetti che venivano riconosciuti come curatori legittimi erano gli agnati e i gentiles.
Per designare la cura prodigi serviva l’intervento del magistrato, che doveva valutare la condizione del soggetto e
concedere una interdictio, dando il là o alla nomina di un curatore legittimo oppure alla nomina di un curatore dativo. Il
prodigo non poteva, di fatto, compiere atti che diminuissero il proprio patrimonio a meno che non avesse agito con
La cura minorum
L’ultimo tipo di cura che si conosce è la cura minorum, la cura per i minori di 25 anni. La cura minorum non era
contemplata dal ius civile e non era disciplinata dalle dodici tavole: prima della sua istituzione, all’uscita dalla pubertà,
a 12 anni le ragazze sarebbero state immediatamente sottoposte a tutela mentre a 14 anni i ragazzi sarebbero stati
completamente capaci di agire.
Nel II secolo a.C. intervenne tuttavia la lex laetoria, che andava a disciplinare la condizione dei minori di 25 anni. La
lex laetoria (che era una legge minus quam perfectam, ossia non rendeva nullo l’atto compiuto ma prevedeva una pena
per i trasgressori) prevedeva come pena una sanzione pecuniaria a carico di colui il quale, nel concludere un atto di
rilevanza patrimoniale, avesse abusato dell’inesperienza del minore, cagionando quindi un danno di natura patrimoniale
verso quest’ultimo.
Nella pratica, i minori di 25 anni cominciarono a farsi assistere da persone di fiducia per evitare di essere ingannati e
per dare maggiori garanzie ai terzi. Qualora vi fosse stata circumscriptio (ossia se il soggetto terzo avesse abusato
dell’inesperienza del minore) e il soggetto terzo avesse voluto agire contro un minore non affiancato da un curatore, il
pretore (riconosciuta la sussistenza tanto della circumscriptio quanto del danno patrimoniale) avrebbe potuto concedere
al minore la exceptio legis laetoria. L’alternativa era che il minore lamentasse il danno subito al di fuori di un processo;
il pretore avrebbe quindi potuto operare una restitutio in integrum causa cognita. Per la restitutio in integrum non era
necessaria la presenza della circumscriptio.
La cura minorum venne istituita a Roma dal pretore ed era fondata sulla nomina di un curatore dativo. Originariamente,
il pretore riteneva fosse necessario dare un curatore solamente per singoli negotia. Il curatore doveva dare al minore
un’autorizzazione informale, la auctoritas. Lo sviluppo ulteriore portò però a ritenere utile l’estensione della cura
minorum in via generalizzata ai minori di 25 anni: per avere il riconoscimento ufficiale a livello generalizzato si dovette
attendere l’epoca di Marco Aurelio, che con un rescripto indicò come necessaria l’estensione di questa regola a livello
generale e non per singoli affari. Il curatore poteva a questo punto gestire il patrimonio del minore e addirittura venne
obbligato a svolgere la sua professione senza possibilità di recesso dopo essere stato nominato (ufficio non rinunciabile).
Anche per i rapporti tra minore e curator l’unica azione disponibile era la actio negotiorum gestorum.
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I DIRITTI REALI
La res
Riguardo agli oggetti dei diritti reali, oggi si fa una distinzione tra “beni” e “cose”: l’articolo 810 del codice civile
definisce “beni” le cose che possono formare oggetto di diritti. Per i giuristi moderni non tutte le cose sono beni, tanto
che per il diritto vengono in rilievo solo i beni.
A Roma non esisteva la distinzione del concetto di cosa da quello di bene, ma esisteva solo il concetto di res. In latino,
il termine “res” significa letteralmente “cosa”, ma per i romani rientravano tra le res anche gli schiavi e i diritti reali,
oltre alle res materiali.
I romani operavano tutta una serie di distinzioni tra le varie tipologie di res.
In primo luogo, si faceva una distinzione tra le res corporales (ossia le cose che si possono toccare, le cose materiali) e
res incorporales (le cose che non si possono toccare, i diritti reali).
Un’altra distinzione che veniva fatta era quella tra le res fungibili (o cose di genere, che si identificavano e si identificano
tuttora in rapporto al peso, al numero o alla misura) e le res infungibili (o cose di specie, che si identificavano con una
specifica identità materiale).
Un’altra differenza sussisteva tra le res in commercio, di cui si poteva disporre, e le res extra commercium, ossia cose
per cui non si poteva disporre (ad esempio gli altari sacri).
C’erano poi le res mancipi, ossia tutte quelle cose che per essere trasferite avevano bisogno della procedura di mancipatio
o, successivamente, di in iure cessio (i fondi e gli edifici che si trovavano in suolo italico, gli schiavi, gli animali da tiro
e gli animali da soma, ossia tutte quelle res legate alla società romana arcaica, all’agricoltura), che si contrapponevano
alle res nec mancipi (tutte le altre res), che potevano essere trasferite semplicemente con una traditio.
Le cose potevano essere poi mobili o immobili (il suolo e tutto ciò che ineriva stabilmente ad esso).
I diritti reali
I diritti reali sono i diritti soggettivi su una cosa. Questi diritti sono assoluti, ossia vengono tutelati nei confronti di tutti
i soggetti diversi dal titolare, sono opponibili ai terzi. Tali diritti assoluti si contrappongono ai diritti di credito, che sono
invece diritti relativi. I diritti di credito sono i diritti delle obbligazioni, laddove ci sia un legame tra due soggetti, il
debitore e il creditore. Chi vanta il credito non può agire in giudizio contro chiunque, ma solo verso il debitore insolvente.
La distinzione tra diritti reali (assoluti) e diritti di credito (relativi) nasce dalla distinzione tra actiones in rem e actiones
in personam.
Il diritto di proprietà
Il diritto reale per antonomasia è il diritto di proprietà. La proprietà tutelata dal ius civile romano era il dominium ex
iure quiritium, al quale poi si affiancarono la proprietà commerciale e la cosiddetta proprietà pretoria.
Nel dominio ex iure quiritium la proprietà presentava due caratteristiche fondamentali, l’illimitatezza interna (la
proprietà non aveva limiti verticali, si era proprietari del terreno “fino alla volta celeste” e “fino agli inferi”) e l’elasticità
(se la proprietà era gravata da un peso, come la servitù di passaggio, appena il peso veniva meno la proprietà si
riespandeva).
I romani definivano il diritto di proprietà come ius utendi et abutendi re sua (il diritto di usare e abusare della propria
cosa). Il nostro codice civile definisce invece il diritto di proprietà come il diritto di godere e disporre della cosa in modo
pieno ed esclusivo. Il titolare del diritto di proprietà ha quindi il pieno potere sulla cosa: può alienarla, costituire altri
diritti su di essa, darla in dotazione, coglierne i frutti… L’unico limite che ha il diritto di proprietà nel nostro ordinamento
(che i romani non identificavano) è quello degli atti emulativi, ossia atti di esercizio del proprio diritto di proprietà messi
in pratica al solo scopo di danneggiare un terzo.
L’occupazione
L’occupazione era un modo di acquisto della proprietà a titolo originario, che faceva in modo che le res nullius (le cose
di nessuno) o le res deredicte (le cose abbandonate) diventassero di proprietà di chi le acquisiva. Due esempi di acquisto
per occupazione sono il caso del cacciatore che uccideva una preda (che, non avendo proprietari precedentemente
all’uccisione, diventava di proprietà dell’uomo) e il caso del ritrovamento di un tesoro in un fondo privato. In questo
caso, se il tesoro fosse stato rinvenuto da un terzo nel fondo di proprietà di un’altra persona, il tesoro sarebbe stato per
metà del proprietario del fondo e per metà di chi l’aveva trovato.
L’accessione
Un altro modo di acquisto della proprietà a titolo originario era la accessione, che derivava dal fatto che una cosa
corporale avesse subito un incremento per l’aggiunta di un’altra cosa (come nel caso degli incrementi fluviali al terreno
di un contadino oppure della semina, che veniva seminata in un terreno e i cui frutti erano di proprietà del contadino
proprietario del terreno). Un esempio particolare di accessione era la inedificatio, che consisteva nella costruzione di un
edificio con materiali appartenenti ad una persona diversa dal costruente e proprietario dell’edificio. Se la costruzione
avveniva sul terreno proprio con materiale di un altro soggetto il proprietario dei materiali non perdeva il suo diritto di
proprietà su di essi, ma il suo diritto rimaneva quiescente fino a quando la costruzione non fosse crollata. Il proprietario
dei materiali non poteva chiedere in giudizio la demolizione della casa, in ragione della quiescenza del proprio diritto.
Se si costruiva un edificio con materiali propri sul terreno di un altro, il proprietario dei materiali manteneva la proprietà
solo se al momento della costruzione avesse agito in buona fede.
La specificazione
Un altro modo di acquisto a titolo originario era la specificazione, nella quale si prendeva un materiale e la si specificava,
le si dava cioè una forma diversa (ad esempio, se si fosse preso dell’oro per forgiare un anello oppure se si fosse presa
dell’uva per produrre del vino). Sulla questione avvenne l’ennesimo scontro tra sabiniani e proculiani: per i proculiani
chi aveva specificato la materia acquistava la proprietà della cosa, per i sabiniani la proprietà rimaneva del proprietario
del materiale. Per dirimere la questione intervenne una media sentenza, secondo la quale bisognava distinguere se il
processo di specificazione fosse o meno un processo reversibile. Se reversibile il proprietario della matria ne avrebbe
L’usucapione
Tanti anni fa si annoverava nella categoria dei modi di acquisto della proprietà a titolo originario anche l’usucapione.
Per aversi usucapione in diritto romano erano necessari dei requisiti specifici, il più importante di questi era che la cosa
che si usucapiva fosse una res abilis: la res non abilis per eccellenza è la res furtiva. Doveva poi essere trascorso un
determinato periodo di tempo prima di usucapire il bene (tempus, che consisteva per i romani in 2 anni per beni immobili
e un anno per beni mobili; se un uomo utilizzava un determinato bene immobile per un anno e poi moriva, il figlio del
de cuius poteva utilizzare il bene solo per un anno prima di usucapirlo, questo perché il tempo si sommava), doveva
esserci la buona fede dell’usucapente, ossia l’ignoranza di ledere un diritto altrui, e l’uso della res (usus). Era anche
importante che l’usucapente avesse un titulus, idoneo a giustificare il possesso del bene usucapito.
Il possesso
Già i romani distinguevano il dominium ex iure quiritium (la proprietà vera e propria) dall’istituto del possesso. Quando
si parla di possesso, per i giuristi si intende una situazione di fatto che avviene quando sia presente sia il corpus
possidendi (la disponibilità materiale della res) sia l’animus (la volontà di possedere quel bene uti dominus, ossia come
se si fosse il proprietario). Se è presente solo il corpus possidendi e non l’animus, l’azione configuratasi nei confronti
dell’oggetto non è possesso ma è una mera detenzione. Il conduttore di un appartamento in locazione, per esempio, non
è un possessore ma è un detentore. Un altro esempio di detenzione è il caso del comodatario: il comodato è un prestito
che ha ad oggetto non il denaro (in tal caso si parlerebbe di mutuo) ma un oggetto determinato. Il comodatario ha il
corpus (ossia è detentore dell’oggetto) ma non ha l’animus (in quanto sa che l’oggetto che ha in quel momento gli è dato
in comodato da un altro soggetto). Il detentore non può usucapire il bene che detiene.
Il possessore veniva tutelato a Roma con degli strumenti pretori, gli interdicta.
Non ogni possesso è utile ad usucapire, per esempio non lo è il possesso del creditore pignoratizio.
Il pegno
In epoca romana non esisteva l’istituto dell’ipoteca ma un suo equivalente si poteva individuare nel pegno, il diritto
reale su cosa altrui di garanzia. Il pegno poteva essere o datio pignoris (dazione di pegno) o conventio pignoris (accordo
del pegno). La datio pignoris era la consegna di una cosa dal debitore al creditore in modo tale che il creditore la tenesse
presso di sé finché il debitore non avesse pagato il proprio debito, a garanzia del pagamento. La conventio pignoris, vera
e propria antecedente dell’ipoteca, aveva ad oggetto un bene immobile ed implicava un patto tra il creditore e il debitore
con il quale si stabiliva che il creditore avrebbe preso possesso dell’immobile nel caso in cui il debitore non avesse
pagato.
L’azione che veniva concessa al creditore pignoratizio era la actio serviana (o ipotecaria): il creditore pignoratizio
diventava possessore del bene, ma il possesso non era utile ai fini dell’usucapione bensì al fine della tutela interdittale.
Il creditore pignoratizio poteva quindi ricorrere agli interdetti, gli strumenti concessi dal pretore a tutela del possesso,
ma non poteva usucapire la proprietà.
Al momento della costituzione del pegno poteva essere aggiunto il cosiddetto patto commissorio (abolito in età
postclassica), che stabiliva che, in caso di inadempimento del debitore, il creditore sarebbe diventato proprietario.
Un’altra tipologia di accordo sempre riconducibile al patto commissorio era il cosiddetto patto dello ius vendendi:
creditore e debitore si mettevano d’accordo in modo tale che il debitore fornisse al creditore il potere di vendere la cosa
ed utilizzare il ricavato per soddisfare il proprio credito. Se il ricavato era superiore al credito vantato dal creditore, egli
era tenuto a restituire la differenza al debitore.
L’usufrutto
Oltre al pegno, gli altri diritti reali minori erano le servitù prediali e l’usufrutto, diritti reali su cosa altrui di godimento.
L’usufrutto era (ed è tutt’oggi) il diritto di usare la cosa e percepirne i frutti “salva rerum substantia” (fatta salva la
destinazione economica della res). L’usufruttuario poteva usare la cosa e percepirne i frutti, ma non poteva modificarne
la destinazione economica. In diritto romano l’usufrutto poteva avere ad oggetto cose mobili e immobili, purché non
consumabili e fruttifere. L’usufrutto era anche detto servitù personale, era quindi un diritto reale su cosa altrui di
godimento in relazione alla persona, non alla cosa. Il proprietario della cosa su cui si costituiva l’usufrutto prendeva il
nome di nudo proprietario, perché la sua proprietà veniva compressa dal diritto minore di usufrutto.
In diritto romano l’usufrutto si costituiva tramite un negozio giuridico ad effetti reali (il più diffuso era la in iure cessio,
ma si poteva utilizzare anche la mancipatio); non si poteva costituire con la traditio perché il diritto di usufrutto non si
poteva consegnare materialmente. L’usufrutto si poteva costituire anche tramite il legato per vindicationem, che aveva
effetti reali.
L’usufrutto si estingueva con la morte dell’usufruttuario. L’usufrutto si estingue anche per non uso, oltre che per
confusione (quando l’usufruttuario e il proprietario vengono a coincidere) e per rinuncia dell’usufruttuario.
Il quasi usufrutto
Il quasi usufrutto era invece un usufrutto che aveva ad oggetto dei beni consumabili.
L’usufrutto nasceva per tutelare la donna vedova: nei matrimoni sine manu, alla morte del marito, la vedova non
diventava erede. Per evitare l’indigenza della vedova fu escogitato il diritto di usufrutto: in questo modo il marito
inseriva nel testamento il legato per vindicationem predisponendo un usufrutto in favore della moglie, evitando
l’indigenza della donna e al contempo prevedendo che, alla morte della moglie, i beni tornassero in proprietà del figlio
erede.
Spesso, però, l’usufrutto non era stabilito per una cosa determinata ma era su tutto il patrimonio del de cuius. Questo
implicava che all’interno dell’usufrutto ci potessero essere anche dei beni consumabili, per esempio del denaro. Venne
quindi istituito il quasi usufrutto: sui beni consumabili l’usufruttuario acquistava la proprietà, ma all’estinzione
dell’usufrutto doveva restituire al nudo proprietario l’equivalente dei beni consumabili che aveva acquistato.
Un’ulteriore differenza con l’usufrutto classico stava nel fatto che il quasi usufrutto era un contratto.
Le servitù prediali
Le servitù, secondo il nostro codice civile, sono “un peso imposto sopra un fondo per l’utilità di un altro fondo”. In
diritto romano le servitù prediali erano un diritto reale su cosa altrui di godimento della forma di servitutes in rem,
costituite per l’utilità della cosa e non del soggetto (a differenza dell’usufrutto). Il fondo che aveva accesso alla via
pubblica si chiamava fondo servente, il fondo che aveva benefici dalla servitù si chiamava fondo dominante.
Se il proprietario del fondo che non aveva accesso alla via pubblica pretendeva la costituzione di una servitù di passaggio
per futili motivi non poteva ottenerla, perché l’utilitas non sarebbe stata propria del fondo ma sua.
La servitù di passaggio si costituiva con mancipatio, in iure cessio e legato per vindicationem.
Le servitù non si estinguevano alla morte del titolare ma si trasmettevano agli eredi, in quanto erano servitutes in rem,
inerenti al fondo. Le servitù si potevano estinguere per rinuncia, non uso (normalmente di due anni) e confusione.
Oltre alla servitù di passaggio ci potevano essere anche servitù di deflusso delle acque, servitù di passaggio a piedi,
servitù di passaggio con i carri…
Il contenuto della servitù non poteva mai consistere in un facere per il proprietario del fondo servente, che però era
sempre costretto ad un pati (sopportare): il proprietario doveva quindi tenere un comportamento passivo non impedendo
il passaggio del proprietario del fondo dominante, ma non era costretto ad interventi attivi. Il proprietario del fondo
dominante poteva invece essere tenuto ad un facere (servitù di passaggio) nel caso delle servitù positive ma anche ad
un non facere (servitù di non sopraelevare, esempio: Tizio e Caio sono proprietari di due case in collina, ma se Tizio
costruisse un secondo piano della casa che andasse a coprire la visuale del mare sottostante alla casa di Caio, che
potrebbe costituire – tramite una in iure cessio – una servitù che obblighi Tizio a non sopraelevare la casa) nel caso delle
servitù negative. Nel caso delle servitù negative si può riscontrare il seguente caso concreto: Tizio e Caio sono proprietari
di due edifici confinanti. A favore della casa di Tizio è costituita la servitù di non sopraelevare, ma Tizio parte e non
torna per due anni (decorre quindi il termine di non uso). In quei due anni Caio costruisce altri due piani alla casa,
violando la servitù di non sopraelevare. Tizio, tornato nel suo paese, esperisce la actio confessoria ma Caio ribatte con
la exceptio di estinzione, affermando che la servitù è caduta in prescrizione (a seguito della mancanza di azione da parte
del titolare del diritto di servitù per due anni dopo la violazione della servitù).
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LE OBBLIGAZIONI
La responsabilità contrattuale
Quando una delle parti non esegue la prestazione dedotta nell’obbligazione l’altra parte agisce in giudizio. Perché la
parte inadempiente sia tenuta al risarcimento del danno è necessario che ne sia responsabile. La responsabilità della
parte si misura attraverso i criteri di imputazione della responsabilità: il dolo, la colpa e la custodia tecnica (o
responsabilità oggettiva).
Il dolo consiste nella non esecuzione intenzionale della prestazione; chi si comporta in questo modo è responsabile a
titolo di dolo.
Il responsabile a titolo di colpa è invece colui che non abbia eseguito la prestazione per imprudenza, negligenza o
imperizia. Nell’ambito della colpa i romani distinguevano la culpa lata (negligenza grave, grossolana, non capire ciò
che tutti capiscono), la culpa levis (colpa lieve) e la culpa levissima.
La culpa si ha quando il soggetto non rispetta le regole che avrebbe rispettato il buon padre di famiglia. Il diligente padre
di famiglia è un modello astratto di confronto adoperato anche dal nostro codice civile per stabilire se ci sia stato dolo
o colpa nell’obbligazione. Un modello di confronto concreto che si applicava in diritto romano in casi specifici era
invece la diligentia quam in suis, ossia la diligenza che ognuno mette nello svolgere i suoi affari.
L’imperizia si aveva quando ad avere colpa era un professionista, nell’esercizio della sua attività lavorativa. In questo
caso il secondo termine di paragone era la diligenza di un professionista medio dello stesso livello.
La custodia tecnica era una responsabilità oggettiva e ricorreva quando il soggetto era considerato responsabile anche
in assenza di dolo e colpa. Oggi, un esempio di responsabilità tecnica è la responsabilità per i danni causati da un minore.
La responsabilità oggettiva è la responsabilità più gravosa, onerosa.
Ci sono dei casi in cui il debitore non può essere considerato responsabile, ossia quando c’è una impossibilità
sopravvenuta della prestazione per causa a lui non imputabile. La responsabilità è però sempre imputabile quando
l’oggetto dell’obbligazione è una somma di denaro, che è il bene fungibile per eccellenza.
In caso di responsabilità scatta il risarcimento dei danni cagionati al creditore per la mancata esecuzione della
prestazione.
Ai fini del risarcimento bisogna anche vedere anche su chi grava il perimento della res: se Caio deve consegnare a Tizio
10 quintali di vino di quella determinata qualità il 20 novembre e, nel frattempo, il vino va a male e se la causa è
imputabile al soggetto perché non ha fatto una adeguata manutenzione della botte, anche se il vino è andato a male Caio
deve comunque pagare Tizio. Si parla in questo caso di perpetuatio obligationis. In questo caso il periculum (inteso
come rischio dipendente da un evento pregiudizievole) grava sul proprietario.
Le obbligazioni naturali
Quelle descritte finora sono obbligazioni che nascevano da rapporti civili o pretori. Le obbligazioni naturali, invece,
nascevano originariamente in capo agli schiavi o ai filii familiae, soggetti sprovvisti della capacità giuridica. Se il
soggetto obbligato con filii familiae o con schiavi aveva eseguito una prestazione egli non aveva diritto alla restituzione
di quella prestazione (soluti retentio, il creditore tratteneva quanto eseguito dalla parte). Un altro effetto delle
obbligazioni naturali era la mancanza di azione da parte del creditore.
Il contratto
I contratti reali
In diritto romano i contratti reali erano il mutuo, il deposito, il comodato e la fiducia.
Il comodato
Il comodato (o prestito d’uso) era un contratto reale a titolo gratuito in forza del quale il soggetto comodante consegnava
all’altra parte, detta comodatario, una cosa determinata (e quindi infungibile) affinché il comodatario la potesse usare.
Il comodato era un contratto bilaterale imperfetto, le obbligazioni sorgevano quindi solo in capo al comodatario, salvo
alcune eccezioni. L’obbligazione che sorgeva in capo al comodatario era l’obbligo di restituire la res al comodante. Se
questo non avveniva il comodante disponeva della actio comodati directa, da esperire in giudizio all’occorrenza.
Sorgevano obblighi in capo al comodante quando il comodatario esborsava del denaro per spese relative alla
manutenzione della cosa che comunque il comodante avrebbe dovuto affrontare (come ad esempio le spese relative
all’alimentazione dello schiavo); nel caso di spese sostenute dal comodatario per la manutenzione straordinaria della
cosa, il comodatario poteva agire in giudizio con la actio comodataria contraria per richiedere la restituzione del denaro
utilizzato.
Il comodatario era responsabile a titolo di custodia tecnica (e quindi anche in assenza di dolo e colpa) quando non
restituiva o quando distruggeva la cosa. La responsabilità del comodatario era così gravosa perché il contratto era a
titolo gratuito. Nell’ambito della responsabilità contrattuale vigeva infatti la regula dell’utilitas contrahentium, secondo
cui maggiore era l’utilità ricavata dal contratto e maggiore era la responsabilità (la responsabilità era a titolo di custodia
tecnica in caso di utilitas esclusiva della parte responsabile, di colpa in caso di utilitas condivisa e di dolo nel caso di
utilitas della sola parte non responsabile). Nel caso del comodato, l’unico che aveva l’utilitas era il comodatario, che
dunque era responsabile per custodia tecnica. Con dei patti aggiunti al contratto, però, le parti contraenti potevano
modificare la responsabilità ma non potevano escludere la responsabilità contrattuale minima, il dolo. Un riferimento
alla diminuzione di responsabilità si può riscontrare nelle fonti al passo del Digesto D.13.6.5.10 (Ulpiano, pagina 59
Santucci)
Le uniche eccezioni alla responsabilità erano il caso fortuito e la forza maggiore, eventi che prescindevano dalla volontà
umana (disastro naturale, evento atmosferico ecc.). Sono dati casi, però, in cui il comodatario rispondeva anche in questi
eventi, nel momento in cui ci fosse stato un esorbitare dalle modalità contrattuali.
Il comodato aveva ad oggetto beni inconsumabili, tuttavia i romani ammettevano un tipo di comodato di cose
consumabili (detto comodato ad pompam vel ostentationem) fatto per ostentare la cosa. Era ammesso ad esempio il
comodato di un cesto di frutta fresca, che il comodatario non doveva mangiare ma usare come centrotavola.
Il mutuo
Se il prestito aveva ad oggetto cose fungibili era configurato come un prestito di consumo, ove la quantità di cose veniva
prestata per il consumo di colui che le riceveva. Il prestito di consumo si chiamava mutuo ed era un contratto reale, che
si perfezionava con la consegna dal mutuante al mutuatario di una determinata quantità di cose fungibili, facendo sorgere
in capo al mutuatario l’obbligo di restituzione della stessa quantità di cose. Oggi il mutuo è un contratto reale, ma si
discute di questa natura reale perché molte volte si dice che il mutuo dovrebbe essere un contratto consensuale, perché
si perfezionerebbe nel momento in cui banca e cliente stipulano l’accordo.
Il mutuo, in diritto romano, era (teoricamente) un contratto a titolo gratuito, ossia non erano previsti gli interessi (che in
latino si chiamavano usurae). Affiancando però al contratto di mutuo un contratto verbale, la stipulatio, si potevano
concordare degli interessi.
Il mutuante aveva a disposizione la actio certae creditae pecuniae nel caso in cui il mutuatario non gli avesse restituito
il denaro. Questa era una actio in personam con formula senza demonstratio; nell’intentio era indicata la quantità che il
convenuto doveva restituire.
La fiducia
La fiducia viene individuata come l’antecedente storico del trust. I romani facevano la differenza tra fiducia cum amico
e fiducia cum creditore.
La stipulatio
La stipulatio era un contratto verbale, che si perfezionava con la pronuncia di certa verba. La stipulatio era un contratto
tipico per quanto riguardava la forma, non nei contenuti. All’interno della stipulatio si poteva promettere infatti
qualsivoglia cosa. Questo fece sì che la stipulatio diventasse uno dei contratti più diffusi. Tutte le cautiones, per esempio,
erano stipulationes. Forma della stipulatio: pagina 68 e 69 Santucci.
L’antecedente storico della stipulatio classica era la sponsio, che consisteva in una domanda a cui doveva seguire una
risposta congrua: lo stipulante chiedeva al promittente “spondes?”, il promittente doveva rispondere “spondeo”. La
sponsio era propria solo dei cittadini romani. Mano a mano essa venne allargata ai peregrini e si ammise che non fosse
necessario che nella risposta vi fosse lo stesso verbo della domanda, fino alla riforma del 472 d.C. (imperatore Leone),
dopo la quale il promittente avrebbe potuto rispondere semplicemente “sì” o “no” alla domanda dello stipulante.
A Roma vigeva il divieto di stipulare in favore di terzi (alteri stipulari nemo potest, pagina 70 Santucci). Nel nostro
ordinamento, invece, ci sono vari contratti a favore di terzi (come ad esempio l’assicurazione). Per stipulare in favore
di terzi i romani ricorrevano ad una stipulatio poenae, che imponeva il pagamento di una somma di denaro allo stipulante
nel caso in cui il promittente non avesse eseguito la prestazione pattuita in favore di un terzo.
L’azione derivante dalla stipulatio era la actio ex stipulatu, esperita dallo stipulante se il promittente non avesse
adempiuto quanto stabilito.
I contratti consensuali
I contratti consensuali erano la compravendita, la locatio conductio, il mandato e la società.
La compravendita
La compravendita (o emptio venditio) era un contratto consensuale da cui nascevano due obbligazioni: quella di pagare
il prezzo in capo all’acquirente e quella di fare acquisire all’acquirente il pacifico godimento della cosa (l’acquirente
doveva godere della res acquistata senza che nessuno lo disturbasse) in capo al venditore. Per trasferire la proprietà si
accompagnava al contratto consensuale un negozio traslativo della proprietà (mancipatio, in iure cessio, traditio). La
causa del contratto di compravendita è lo scambio della cosa con il prezzo.
Ad un certo punto i sabiniani dissero che non era necessario, affinché ci fosse compravendita, che ci fosse uno scambio
di cosa contro prezzo ma che poteva esserci anche solo lo scambio di cosa contro cosa (che però si chiamava permuta).
Questa visione non venne accettata.
Per garantire il pacifico godimento della res il venditore aveva l’obbligo della responsabilità per evizione, che
rappresentava la responsabilità che sorgeva in capo al venditore nell’ipotesi in cui il compratore avesse subito l’evizione
(ossia il fatto che un terzo avesse rivendicato con successo la cosa acquistata). Se il terzo agiva in rivendica e riotteneva
la cosa (di sua proprietà) che era stata venduta, il venditore ne sarebbe stato responsabile. La compravendita cominciò
infatti ad essere accompagnata da una stipulatio duple, che prevedeva che se il compratore avesse subito evizione il
venditore sarebbe stato condannato a pagare il doppio del prezzo ricevuto. L’azione a tutela del compratore era la actio
empti, l’azione a tutela del venditore era la actio venditi.
Alla compravendita (come a qualsivoglia altro tipo di contratto) venivano spesso aggiunti dei patti. Il patto non era un
contratto, perché il contratto era tutelato da azioni mentre il patto era un accordo sprovvisto di azione ma tutelabile
tramite eccezione. Ad esempio, Tizio consegna a Caio 100.000 sesterzi che gli devono essere restituiti entro il 20 marzo.
Il mutuatario che si è fatto prestare i soldi è un negoziante che vende carri per i buoi. Il mutuante compra tanti buoi
senza pagarli fino ad arrivare ad un importo di 100.000 sesterzi, quindi al contratto di mutuo le parti aggiungono un
patto che stabilisca che Tizio non debba chiedere a Caio la restituzione del 100.000 sesterzi (pactum de non petendo,
Il mandato
Il mandato era un contratto consensuale con il quale una parte, detta mandante, incaricava l’altra parte, detta mandatario,
per lo svolgimento di alcuni affari. Da questo contratto discendeva la actio mandati diretta (per il mandante) e l’actio
mandati contraria (per il mandatario).
In diritto romano il contratto di mandato si presumeva a titolo gratuito, oggi invece si presume a titolo oneroso (un
esempio è il mandato per l’avvocato).
La locatio conductio
La locatio conductio era un altro contratto consensuale, uno schema contrattuale che racchiudeva in sé tre tipi diversi di
locazione: locatio rei, locatio operis e locatio operarum. Le azioni della locazione erano la actio locati per il locatore e
la actio conducti per il conduttore.
La locatio rei (corrispondente alla moderna locazione) era il contratto attraverso il quale il locatore consentiva al
conduttore di godere di una cosa mobile o immobile; il conduttore (mero detentore della cosa) era obbligato a pagare
un canone periodico, detto canone di locazione.
La locatio operis era un tipo di locazione in cui un soggetto dava una cosa ad un altro soggetto affinché egli svolgesse
un opus su quella cosa e poi gliela restituisse dietro pagamento. La locatio operis era per esempio quella di chi portava
i propri vestiti al lavandaio o dal sarto. Anche le due parti della locatio operis si chiamavano locatore e conduttore. Il
conduttore era responsabile per custodia tecnica se la cosa periva o veniva danneggiata.
Pagina 93 Santucci, caso concreto: Nella locatio operis il materiale doveva essere proprio del locatore, mentre nella
compravendita il materiale era di proprietà del venditore.
La locatio operarum (oggi definita contratto di lavoro subordinato) era il contratto con cui un soggetto metteva a
disposizione di un altro soggetto la propria forza lavoro, dietro pagamento.
La società
La società era quel contratto consensuale per cui due o più soci mettevano insieme i propri beni e le proprie attività al
fine di conseguire un lucro e di dividere questo lucro tra tutti. Era ammesso un patto aggiunto in forza del quale uno dei
soci poteva dividere il lucro ma non le perdite, non era invece ammesso il patto con il quale si stabiliva che uno dei soci
dividesse solo le perdite e non il lucro.
L’azione a tutela dei soci contro gli altri soci era la actio pro socio.
I delicta: il furto
Il furto era inizialmente definito come la sottrazione illecita di una cosa mobile altrui. Nell’epoca classica il furto iniziò
ad indicare invece un qualunque delitto diverso da quelli tipici. Bastava che ci fosse la concrectatio rei fraudolosa, ossia
un contatto materiale con la cosa fatta al fine di conseguire un lucro e invito domino (senza l’autorizzazione del
dominus). In questo modo si potevano annoverare nell’ambito del furto anche casi come quello del depositario
(obbligato a custodire e a non usare la res) che avesse usato la res.
Il furto si configurava come manifesto se il ladro fosse stato preso, come non manifesto se il ladro non fosse stato
catturato. Da questo delictum discendevano delle azioni esperibili dal derubato: l’actio furti manifesti e l’actio furti nec
manifesti. Entrambe queste azioni erano penali, quindi il condannato era costretto a pagare una poena, un multiplo del
valore della res configurato per il quadruplo della cosa rubata nel caso dell’actio furti manifesti e per il doppio nella
Il danneggiamento
Un altro delictum era il danneggiamento, un delitto introdotto dalla lex aquilia de damno, da cui deriva la nostra
responsabilità extracontrattuale (art. 2043 cc e seguenti). La lex aquilia era composta da tre capita: il primo prevedeva
che chiunque avesse ucciso lo schiavo o un quadrupede altrui sarebbe stato tenuto a risarcire il danno, sempre che quel
“damnum iniuria datum” (fosse stato un danno ingiusto); il secondo capo cadde in desuetudine e non interessa; il terzo
capo prevedeva il danneggiamento o la distruzione di schiavi o qualsivoglia altri animali non annoverabili tra i
quadrupedi del primo caput e tutti gli altri oggetti inanimati. Colui che violava questi due capi era tenuto al risarcimento
del danno che consisteva, nel caso di uccisione (capo I) nel risarcimento del maggior valore che lo schiavo o l’animale
avevano avuto nell’anno precedente all’evento, nel caso di danneggiamento (capo III) del maggior valore che la cosa
aveva avuto negli ultimi 30 giorni.
La responsabilità in caso di danneggiamento veniva chiamata responsabilità extracontrattuale o aquiliana, perché non
nasceva da un contratto ma da un delitto. In questo caso il danno veniva cagionato al quisque de populo, cioè ad una
persona qualsiasi che non era legata da alcun vincolo con il danneggiante. Il danneggiamento ingiusto sancisce il
principio del neminem laedere, ossia il dovere di non ledere nessuno.
Affinché colui che aveva commesso l’evento dannoso fosse obbligato a risarcire l’offeso era necessario che il danno
fosse stato cagionato iniuria, cioè ingiustamente. I danni non ingiusti sono danni coperti da una causa di giustificazione
(ad esempio lo stato di necessità o la legittima difesa). I giuristi romani arrivarono a dire che il danno, per essere ingiusto,
doveva essere stato commesso con dolo o colpa e doveva essere corpore corpori datum (col corpo al corpo dato), che
nel diritto classico si configurava non solo come un comportamento commissivo ma anche come una omissione (Tizio
provoca la morte dello schiavo di Caio omettendo di dargli da mangiare per giorni): il danno doveva quindi essere una
conseguenza diretta del comportamento posto in essere dall’agente, anche se questo comportamento era di natura
omissiva.
In questi casi il proprietario della res danneggiata esperiva la actio legis aquilia (sulla quale vennero poi parametrate
delle azioni utili), azione inizialmente penale che nel periodo classico venne però assimilata ad una azione
reipersecutoria perdendo quindi la caratteristica cumulabilità.
Caso: Tizio da in locazione a Caio le sue mule, che servono a Caio per trasportare della legna, dietro pagamento di un
corrispettivo in denaro. Queste mule, sovraccaricate dal conduttore, vengono fiaccate al punto che due di esse muoiono.
Il proprietario-locatore può esperire l’actio locati e, in alternativa, anche la actio legis aquiliae. Se il locatore vuole agire
direttamente contro il locatore usa l’actio locati, ma se vuole agire contro i collaboratori che hanno effettivamente
sovraccaricato le mule deve esperire l’actio legis aquiliae.