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Differenza antropologica e animalità in Heidegger *

di Vincenzo Costa

La «differenza antropologica» è un sen-


tiero interrotto, pertiene alla metafisica
M. Heidegger, Seminari di Zollikon

1. L’essenza dell’uomo e l’animalità


La questione dell’essenza dell’uomo in Heidegger può essere affronta-
ta da una molteplicità di punti di vista. Noi intendiamo interrogarla a
partire da e limitatamente a un particolare angolo visuale: quello dell’a-
nimalità. Scegliamo questo tema perché ci sembra quello maggiormente
in grado di fare comunicare l’impostazione heideggeriana con l’antro-
pologia filosofica. Il rapporto di Heidegger con quest’ultima non è del
resto facile da definire. Da un lato, non vi è dubbio che Essere e tempo
possa essere vista come una opera di antropologia filosofica. D’altra par-
te, pur esplicitando che «per ontologia fondamentale si intende quell’a-
nalitica ontologica dell’essere umano finito, che deve preparare il fonda-
mento per la metafisica “appartenente alla natura dell’uomo”» e che le
domande filosofiche fondamentali giungono a riassumersi nella doman-
da «che cosa è l’uomo?», Heidegger ha ribadito, in evidente intento po-
lemico rispetto alla nascente antropologia filosofica, che la sua ontologia
fondamentale o metafisica dell’esserci «rimane radicalmente distinta da
ogni antropologia, anche filosofica»1. In questo modo emerge la difficol-
tà che ha sempre caratterizzato il rapporto di Heidegger con l’antro-
pologia filosofica, dato che pur non avendo di mira l’elaborazione di una
simile disciplina, egli deve comunque mettere in luce la peculiarità e la
specificità dell’essere umano rispetto agli altri viventi2. Peraltro, il pro-

*
Felice Cimatti ha letto e commentato una prima versione di questo saggio. Gli sono
debitore per i molti suggerimenti e per un’infinità di sollecitazioni, ma soprattutto per a-
vermi fatto comprendere che la problematica dell’animalità può essere un degno terreno di
ricerca filosofica.
1 M. Heidegger, Kant und das Problem der Metaphysik (1929), Klostermann, Frankfurt a.M.,

1973, trad. it. a cura di V. Verra, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Bari, 1985, p. 11.
2 Così Helmuth Plessner, nella prefazione alla seconda edizione del suo Die Stufen des Or-

ganischen und der Mensch, ha notato che «l’analisi esistenziale non può tuttavia essere intesa
come un mero procedimento relativo all’elaborazione dell’ontologia fondamentale, perché
– secondo Heidegger – l’essere umano, la sua essenza o natura si determina soltanto a par-
tire dal suo rapporto (che si trasforma storicamente) all’essere» (H. Plessner, Die Stufen des
Organischen und der Mensch. Einleitung in die philosophische Anthropologie (1928), de Gruyter,
Berlin, 1975, p. x).

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blema della differenza antropologica si pone nel corso dell’intero cam-


mino di pensiero di Heidegger, che è probabilmente assai più segnato da
un contesto interpretativo determinato dalla questione dell’animalità di
quanto si sia, sulle prime, disposti a credere. Del resto, i tentativi di dare
ragione dell’essenza dell’uomo a partire dall’animale rappresentano
l’essenza stessa della determinazione metafisica dell’uomo. Per questo, ne La
lettera sull’umanesimo Heidegger nota che «l’uomo è definitivamente cac-
ciato nell’ambito dell’animalitas, anche quando non lo si assimila
all’animale, ma gli si riconosce una differenza specifica. In linea di prin-
cipio si pensa sempre all’homo animalis anche quando l’anima è posta
come animus sive mens, e quindi come soggetto, come persona, come spi-
rito. […] La metafisica pensa l’uomo a partire dall’animalitas, e non pen-
sa in direzione della sua humanitas»3. La definizione dell’uomo come “a-
nimale razionale” pensa l’essere umano come un animale a cui si è ag-
giunta la ragione, ed è proprio a questa determinazione dell’uomo che
Heidegger non ha mai cessato di opporsi. Si capisce dunque immediata-
mente che la questione dell’animalità deve giocare un ruolo non secon-
dario nel suo pensiero, tanto più che neanche l’impostazione fenomeno-
logica del problema si è sottratta a questa determinazione metafisica, al
punto che l’intero procedimento della riduzione fenomenologico-
trascendentale può essere interpretato come il tentativo di separare,
nell’uomo, l’elemento razionale da quello animale4.
La teoria evoluzionistica, che considera l’essere umano una mera va-
riante all’interno del regno animale, si è inserita all’interno di questo sol-
co, esasperando soltanto quanto vi era già contenuto e giungendo in
questo modo a interpretare lo spirito e la storia come un momento
all’interno del movimento generale della vita organica. L’essere umano
potrebbe essere interpretato come il risultato di una regressione dei com-
portamenti istintivamente innati, una concezione ben nota a Heidegger,
dato che sul problema si era soffermato Scheler in un saggio del 19135
cui egli farà riferimento almeno a partire dal 1923.

3 M. Heidegger, «Brief über den Humanismus» (1946), trad. it. di F. Volpi, «Lettera

sull’umanesimo», in Segnavia, Adelphi, Milano, 1987, p. 277.


4 Sulla critica heideggeriana alla concezione ancora “animalista” della soggettività husser-

liana, un tema su cui non è possibile indugiare in queste pagine, si veda U. Regina, «Per
una soggettività non più animale. Heidegger critico di Husserl», in Giornale di metafisica,
XIV, 1, 1992, pp. 67-84.
5 M. Scheler, «Zur Idee des Menschen» (1913), trad. it. di R. Padellaro, «Sull’idea

dell’uomo», in La posizione dell’uomo nel cosmo, a cura di M.T. Pansera, Armando, Roma,
1999.

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2. Il rifiuto della determinazione teologica e la critica a Scheler


In questo saggio, che per molti versi sta alla base dell’antropologia fi-
losofica e da cui proprio per questo conviene prendere le mosse, Scheler
aveva cercato di fare emergere come «l’unica idea dell’“uomo” che abbia
senso è precisamente quella “teo-morfica” di un X che sia immagine finita
e vivente di Dio, una sua analogia, una delle sue innumerevoli ombre sul
grande sfondo dell’essere»6. Quell’essere che è l’uomo emerge dunque
solo quando giunge a manifestarsi l’idea di Dio, la quale è di conseguen-
za costitutiva dell’umano, e proprio per questo l’essere dell’uomo consi-
sterà nel suo cercare Dio. Sin quando l’uomo costruisce strumenti, sin
quando rimane uomo naturale, non si produce alcuna rottura. In quanto
homo naturalis l’essere umano è stato animale, è animale e animale reste-
rà. La vera rottura non va cercata secondo Scheler nell’evoluzione natu-
rale, bensì nell’apparire di qualcosa che non ha alcuna ragione
nell’ordine dell’evoluzione naturale, nell’ordine dello sviluppo fisiologi-
co, anatomico o psicologico: «Si intuisce che vi è un’idea dell’uomo, se-
condo la quale questi è il luogo ove emerge e si interiorizza un ordine
obiettivo, essenzialmente diverso da tutta la natura e che si chiama spiri-
to, cultura, religione»7. Dal punto di vista dell’evoluzione animale noi
possiamo cioè spiegare come è potuto accadere che da certi primati si sia
sviluppato l’ominide e come questo processo abbia comportato lo svi-
luppo della massa cerebrale e della corteccia. Ma tutto questo non è se-
condo Scheler per niente sufficiente a spiegare il passaggio dall’animale
umano all’essere umano. Ed il punto decisivo è a suo parere non il passag-
gio dai primati all’animale umano, ma l’apparire dell’uomo: «Tutto con-
tribuisce a farci credere – scrive Scheler – che questa divisione eidetica
scinde l’“uomo” come unità naturale ed è indicativa di una divisione che
si opera all’interno dell’umanità, e che è infinitamente più importante di
quella che separa, in senso naturalistico, l’uomo dall’animale»8. La diffe-
renza antropologica non risiede, dunque, in una presunta superiorità bio-
logica dell’essere umano, né la peculiarità dell’uomo rispetto agli altri a-
nimali consiste nella sua differente organizzazione biologica, che pur sus-
siste. Secondo Scheler è ingiustificata «l’affermazione che, da un punto di
vista biologico, “l’uomo è il più valido degli essere viventi”; essa è oggetti-
vamente corretta solo qualora venga fondata su valori “supremi” diversi
da quelli biologici. […] nel valutare l’“uomo”, presupponiamo già di fatto

6 Ivi, p. 69.
7 Ivi, p. 73.
8 Ivi, p. 72.

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valori che sono indipendenti da quelli vitali, cioè i valori del sacro e i valo-
ri spirituali»9.
Ora, rispetto a chi aveva visto l’emergere dell’intelligenza come un
faux pas della natura, come l’inizio di una malattia chiamata civilizzazio-
ne, come una via senza uscita imboccata dalla vita, Scheler vede in essa
l’affermarsi di un essere che si rapporta a dei valori, a delle unità di signi-
ficato, e tra queste una in particolare, decisiva per il costituirsi del-
l’umano: l’idea di Dio: «Un quid nuovo, relativo all’essenza e alla specie
– e non al grado – appare non nell’Homo naturalis, ma solo nell’uomo
“storico”, in relazione con Dio; in quell’uomo che acquista una sua unità
solo in virtù di ciò che deve essere e diventare: e precisamente in virtù
dell’idea di Dio, di una persona infinita e perfetta»10. Solo con l’apparire
dell’idea di Dio emerge qualcosa come l’uomo in quanto spirito, in
quanto essere che si rapporta intenzionalmente a un mondo di valori tra-
scendenti, cioè non rinvenibili nella struttura biologica ed istintuale.
Niente, dal punto di vista della conformazione anatomica, del funzio-
namento neurofisiologico, giustifica e dà ragione del rapportarsi a Dio.
Gli animali non credono in Dio, e neanche possono essere atei. Solo
nell’uomo emerge questo problema. Di qui la definizione che dell’uomo
Scheler si sente di dare: «L’“uomo”, inteso in questo senso del tutto nuo-
vo, è l’intenzione e il gesto della “trascendenza” stessa, l’essere che prega
e cerca Dio»11.
È contro questa determinazione dell’umano che Heidegger dirige la
propria vena polemica già nelle lezioni del 1923, dove nota che in questo
modo Scheler «pesca a caso nella vecchia teologia […], ma mentre i vec-
chi teologi almeno vedevano che si trattava di teologia, Scheler capovol-
ge tutto e in questo modo corrompe sia la teologia, sia la filosofia. Que-
sto metodo dello specifico distogliere lo sguardo dall’effettivo è applicato
nel libro con grande acume»12. Il procedere di Scheler va dunque secon-
do Heidegger rifiutato perché, nonostante l’apparenza, non procede fe-
nomenologicamente, non si sofferma in una descrizione paziente
dell’esistenza effettiva. Al contrario, sotto l’apparenza di un’esplicitazio-
ne intenzionale vengono semplicemente proiettate categorie di origine
teologica che non emergono dal reperto fenomenologico. In particolare,
ciò che dell’impianto di Scheler deve essere rifiutato è l’idea che sottende
a quelle considerazioni: che l’uomo concreto sia una dualità. Da una par-

9 M. Scheler, Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik. Neuer Versuch der

Grundlegung eines ethischen Personalismus, Francke Verlag, Bern 1980, trad. it. di G. Caronel-
lo, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale del valori, San Paolo, Milano, 1996, p. 356.
10 M. Scheler, «Sull’idea dell’uomo», cit., p. 77.
11 Ivi, p. 67.
12 M. Heidegger, Ontologie (Hermeutik der Faktizität), Klostermann, Frankfurt a.M., 1988,

trad. it. di G. Auletta, Ontologia. Ermeneutica dell’effettività, a cura di E. Mazzarella, Guida,


Napoli, 1992, p. 32.

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te è homo naturalis, istintualità biologica, dall’altro spirito, razionalità, a-


pertura a Dio, tensione verso qualcosa che non ha più radici biologiche.
Una dualità che del resto porterà l’ultimo Scheler a un vero e proprio
dualismo ontologico, al punto che sia l’uomo che Dio saranno conside-
rati costituiti da due aspetti irriducibili e contrapposti: da una parte il
cieco impulso, un’assurda forza vitale priva di scopi e di finalità,
dall’altro lo spirito, che però tende sempre più a presentarsi come un
momento di superamento, di repressione o quantomeno di sublimazione
delle primordiali potenze istintuali13.
Nelle lezioni del 1923 Heidegger, senza presagire questi esiti, indivi-
dua tuttavia con chiarezza che alla base dell’antropologia di Scheler vi è
un fondamentale dualismo che deriva dall’assunzione acritica dell’eredità
teologica, e in particolare dell’idea dell’uomo come unità di due sostan-
ze: il corpo e l’anima. Introducendo la nozione di persona per caratteriz-
zare l’essenza dell’uomo, Scheler rimane all’interno della determinazione
dell’uomo come animal rationale, e – scrive Heidegger nel 1925 – «incor-
pora esplicitamente nella sua concezione dell’idea di persona la defini-
zione specificamente cristiana dell’uomo», peraltro ad avviso di Heideg-
ger con una formulazione «più letteraria che scientificamente medita-
ta»14. Questa antropologia – che sarà denunciata con fermezza in Essere e
tempo come paleocristiana e che è possibile solo all’interno di una certa
concezione della divinità come “valore” che Heidegger caratterizza come
onto-teo-logica – è proprio quella che Heidegger vuole rifiutare. Qui
l’inquietudine che caratterizza l’esistenza umana viene ricondotta alla
relazione che l’uomo intrattiene con Dio, mentre Heidegger tenderà a
mostrare come essa attraversi e caratterizzi il modo di essere tipico
dell’uomo e debba essere ricondotta alla struttura stessa dell’esistere u-
mano, e in particolare al peculiare rapporto che l’essere umano intrattie-
ne con il tempo. L’uomo non è inquieto perché si rapporta a Dio, ma è
aperto all’idea di Dio perché strutturalmente inquieto nel fondo del suo
essere.
Presente dunque sin dalle prime fasi del suo pensiero, la necessità di
mettere in luce il modo di essere dell’umano, differenziandolo
dall’animale, si fa strada in maniera preponderante negli anni successivi
alla pubblicazione di Essere e tempo. Le ragioni di ciò potrebbero, sulle
prime, essere ricondotte a circostanze esteriori, per così dire culturali: il
1928 è l’anno in cui nasce ufficialmente l’antropologia filosofica. Escono
infatti La posizione dell’uomo nel cosmo di Scheler e Die Stufen des Organi-
schen und der Mensch [I livelli dell’organico e l’uomo] di Plessner, che pongo-

13 M. Scheler, «Die Stellung des Meschen im Kosmos» (1928), trad. it. di R. Padellaro,

La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., pp. 167 sgg.


14 M. Heidegger, Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs, Klostermann, Frankfurt a.M.,

1975, trad. it. di R. Cristin e A. Marini, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, Il Melan-
golo, Genova, 1999, p. 163.

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no in una forma più acuta la necessità di elaborare la specificità antropo-


logica sulla base di differenze strutturali tra l’essere umano e gli altri vi-
venti. E proprio questo spinge certamente Heidegger a sviluppare le ana-
lisi di Essere e tempo prima nella direzione di una metafisica dell’esserci e
poi ad impegnarsi in un esame dell’animalità, quale emerge a partire dalle
lezioni del 1929-30 sui Concetti fondamentali della metafisica15 e continua a
tornare in momenti decisivi dello sviluppo del suo pensiero. In ciò egli è
certamente sollecitato da un intero clima culturale, ma il motivo deter-
minante che lo spinge a fare i conti con la questione dell’animalità deve
forse essere rintracciato in un’esigenza interna e in una difficoltà teorica.

3. Uomo, animalità e mondo


Secondo Heidegger, solo l’uomo ha un mondo, o meglio, è formatore
di mondo, mentre l’animale è povero di mondo e la pietra ne è del tutto
priva. Interrogarsi sulla nozione di mondo è dunque una maniera per
fare emergere, attraverso un’analisi comparativa, la specificità dell’essere
dell’uomo rispetto agli animali non umani. Ora, nel determinare la no-
zione di mondo Heidegger nota che noi non vediamo “stimoli”, “sensa-
zioni”, e allo stesso modo non vediamo neanche oggetti meramente per-
cettivi, ma abbiamo a che fare con oggetti d’uso, con cose che servono a un
qualche fine, con mezzi dunque, e ciò significa che «il modo più imme-
diato del commercio intramondano non è il conoscere semplicemente
percettivo, ma il prendersi cura maneggiante e usante, fornito di una
propria “conoscenza”»16. È solo alla prassi manipolativa che, per esem-
pio, si rivela il deterioramento di uno strumento, mentre la più precisa
determinazione percettiva non potrebbe mai scoprire nulla di simile. Gli
oggetti dell’esperienza sono originariamente, prima che la riflessione filo-
sofica intervenga, velando con costruzioni metafisiche questo terreno,
pragmata.
Ma non si potrebbe allora dire che anche un animale ha un mondo?
In effetti, si è fatto spesso notare che vi sono scimmie che fabbricano stru-
menti, e che si trasmettono delle abitudini. Per esempio, due gruppi di
scimmie, geneticamente identiche, separate da un fiume, hanno svilup-
pato abitudini estremamente diverse. Oppure, vi sono gruppi in cui i ma-
schi, in segno di sottomissione al maschio dominante, imitano la postura
delle femmine e mostrano il sedere. Certo, quando un piviere si allonta-
na trascinando l’ala come se fosse spezzata e non potesse volare, portando

15 M. Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt – Endlichkeit – Einsamkeit, Kloster-

mann, Frankfurt a.M., 1983, trad. it. di P. Coriando, Concetti fondamentali della metafisica.
Mondo – finitezza – solitudine, a cura di C. Angelino, Il Melangolo, Genova, 1992.
16 M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), Niemeyer, Tübingen, 198415, trad. it. di P. Chiodi,

Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1976, p. 92.

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così lontano dalla sua progenie un potenziale aggressore e attuando una


evidente strategia di “inganno”, “l’inganno” è una disposizione innata
ristretta alla difesa dei piccoli. Nelle scimmie antropomorfiche troviamo
tuttavia strategie di inganno che lasciano supporre non soltanto la pre-
senza di credenze, ma anche la capacità di attribuire credenze agli altri viventi,
e dunque di considerarli dei sistemi intenzionali. Se prendiamo animali
come i delfini, i gorilla o gli scimpanzè, sembrerebbe dunque emergere
un «tipo di animale non-umano ignorato da Heidegger», e questo tipo di
animale «è in grado di discriminare particolari, riconoscere individui, no-
tare le loro assenze, salutare i loro ritorni, e rispondere ad essi come cibo o
come fonte di cibo, come compagni o materia di gioco, come qualcosa a cui
si deve obbedienza o da cui ricevere protezione e così via»17.
Ora, questa capacità sembrerebbe doverci indurre a parlare di essere
nel mondo e di essere con gli altri anche rispetto a essi. Del resto, non si
tratta di scoperte sbalorditive, destinate a sconvolgere il nostro modo di
pensare. Argomenti di questo tipo dovevano certamente essere presenti a
Heidegger. Köhler aveva infatti già fatto scalpore con i suoi studi
sull’intelligenza delle scimmie, le quali erano per esempio capaci di uti-
lizzare dei bastoni come strumenti per raggiungere un determinato sco-
po, e ciò sembrava dimostrare che tra le scimmie antropoidi e l’uomo vi
è un passaggio continuo18. Del resto, Scheler, già nel 1913, si era con-
frontato con la questione dell’Homo faber e con le scimmie che usano u-
tensili, argomentando che «non è il fatto di usare una cosa come mezzo
volto a un fine a conferirle l’unità essenziale dell’“utensile”»19. Un anima-
le, secondo Scheler, non ha utensili. Quando una scimmia si serve di ba-
stoni per raggiungere un certo scopo, o quando usa dei bastoncini per
estrarre le termiti da mangiare, essa non usa utensili, «poiché a distinguere
l’utensile da un oggetto “usato come semplice mezzo”, è per l’appunto
l’unità rigorosa della forma di un materiale, la quale costituisce nel con-
tempo quell’unità intrinseca significativa che trascende quel significato
occasionale conferito all’oggetto stesso da tutti quegli scopi per cui viene
momentaneamente usato»20. Uno strumento è un utensile solo quando
esso è la concretizzazione empirica di un’idealità, e di conseguenza un
essere vivente si rapporta a uno strumento solo quando afferra la sua
forma ideale, quando è capace di intenzionarla senza passare per la me-
diazione di un esemplare empirico che occorre di fatto nella percezione,

17 A. MacIntyre, Dependent Rational Animals. Why Human Being Need Virtues, Carus Pu-

blishing Company, 1999, trad. it. M. D’Avenia, Animali razionali dipendenti. Perché gli
uomini hanno bisogno delle virtù, Vita e Pensiero, Milano, 2001, p. 48.
18 W. Köhler, The Mentality of Apes, Routledge & Kegan, London 1921, trad. it. di G. Pet-

ter, L’intelligenza nelle scimmie antropoidi, Giunti Barbèra, Firenze 1960.


19 M. Scheler, «Sull’idea dell’uomo», cit., p. 64.
20 Ivi.

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quando può dunque relazionarsi a questo significato senza sostenersi su


una datità percettiva.
Heidegger riprende in Essere e tempo considerazioni simili, ma le inseri-
sce in un nuovo contesto, in cui gioca un ruolo centrale la nozione di
mondo. Un essere si rapporta a un utensile solo quando, indipendente-
mente dall’azione che sta facendo, lo strumento è una possibilità presen-
te, anche quando non è dato percettivamente, anche quando non è a
portata di mano “oggettiva”. L’uomo ha un mondo perché per lui gli strumenti
sono sempre alla mano. Per questo Heidegger usa il termine Zuhandenheit.
Così, per esempio, per una scimmia il sasso per schiacciare la noce diven-
ta una possibilità solo quando l’istinto la porta a scoprire questa possibi-
lità, e quando vede il sasso, mentre per un essere umano la penna, l’auto
e tutti gli altri strumenti sono sempre alla mano, sono sempre disponibi-
li, anche quando non sono percettivamente presenti, e anche quando le
somiglianze relative alla forma percettiva vengono meno21. Dagli esperimenti
di Köhler era del resto emerso che in determinate condizioni visive la
capacità degli scimpanzè di utilizzare le canne veniva meno. Lo psicolo-
go tedesco aveva cercato di spiegare ciò sulla base della “labilità della
forma”. E non vi è dubbio che Heidegger darebbe una spiegazione com-
pletamente diversa: l’animale non ha un rapporto con oggetto in quanto senso
(sasso, bastone), ma solo con somiglianze percettive che fanno scattare un istinto.
Per questo può divenire significativa la labilità della forma22. L’animale
può discriminare tra forme percettive, ma non comprende significati.

21 Guido Petter nota lucidamente che gli animali studiati da Köhler «giungono a scoprire

o a stabilire fra un oggetto ed un altro dei rapporti di ordine spaziale e dinamico, che uti-
lizzano poi per modificare a proprio favore la situazione, solo a condizione che tali oggetti sia-
no entrambi percettivamente presenti (è questo il primo dei limiti dell’intelligenza senso-
motoria). Se uno di essi è introdotto nel campo percettivo un certo tempo dopo che ne è
stato escluso l’’altro, il rapporto fra i due oggetti non viene più stabilito, e l’animale non si
dedica in genere alla ricerca attiva dell’oggetto che non è più visibile, e che in relazione col
primo potrebbe assumere la funzione di uno strumento» (G. Petter, «Il significato delle
ricerche di Köhler sugli scimpanzè», in W. Köhler, op. cit., p. XX).
22 Köhler sembra invece in certi momenti confondere i due aspetti del problema. Per e-

sempio, quando allude al fatto che anche per l’essere umano la labilità della forma, per
esempio nel caso di una sedia pieghevole, può produrre gli stessi effetti di imbarazzo che
sembrano caratterizzare lo scimpanzè intento a innestare una canna sull’altra quando «for-
tuitamente, le canne sono poste nella sua mano in un certo modo, sono cioè quasi paralle-
le e si incrociano formando una X molto allungata» (W. Köhler, op. cit., p. 119). In questo
Heidegger resta allievo di Husserl, che non si era voluto fermare a una fenomenologia ile-
tica, considerando decisiva un’analisi degli atti e dei correlati noematici, mentre Köhler
sembra in effetti proprio risentire dell’impostazione di Carl Stumpf e di quella che po-
tremmo definire una fenomenologia empirica. Infatti, se volessimo dirlo in termini husser-
liani, l’essere umano sarebbe caratterizzato dalla capacità di avere atti posizionali, atti dos-
sici in senso autentico, mentre l’animale sarebbe ancorato alle forme sensibili, e dunque
incapace di cogliere il senso oggettuale. Per l’animale non vi sono noemi, e non vi sono
perché gli restano interdetti gli atti posizionali.

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Differenza antropologica e animalità in Heidegger

Riprendendo Husserl, che aveva notato come in ogni vissuto si rispec-


chi l’intera corrente coscienza, Heidegger sviluppa l’idea secondo cui per
un essere umano in ogni utensile è presente l’intera rete di rimandi
all’interno della quale quell’utensile è inserito ed è quel che è: l’uomo ha
utensili solo perché ha un mondo. In nucleo del problema emerge in Essere e
tempo, dove Heidegger fa notare che ogni cosa dell’esperienza è un mez-
zo, ma «un mezzo isolato è ontologicamente impossibile»23. Con questa
affermazione si vuole indicare che è solo perché viviamo all’interno di
una totalità di rimandi che possiamo aspettarci qualcosa e un oggetto
d’uso può essere tale, cioè un mezzo atto a. Il martello è un martello solo
perché serve per piantare il chiodo, che serve a sua volta per tenere appe-
so il quadro etc., e ciò significa che «prima del singolo mezzo, è già sco-
perta una totalità di mezzi»24. Apprendiamo un mezzo come tale solo
quando, rapportandoci a esso, ci rapportiamo a una totalità di relazioni
all’interno delle quali si svolge la nostra vita, e se qualcosa è un mezzo
solo all’interno di una totalità di rimandi allora, quando un animale usa
qualcosa per raggiungere un certo scopo, non si rapporta a un mezzo.
Vedremo infatti che nell’animale qualcosa diventa utilizzabile solo nella
misura in cui entra nel cerchio dell’istinto, nella misura in cui mette in
moto un istinto e si pone al suo servizio, ma senza potersi manifestare come
qualcosa, perché qualcosa può manifestarsi nel suo essere solo all’interno
di una totalità di rimandi che è un’apertura determinata, manifestandosi
nel suo uso possibile, indipendentemente dal fatto di essere attualmente
chiamato a soddisfare una necessità vitale.
Se così stanno le cose dobbiamo allora chiederci che cosa Heidegger
intenda con “mondo”, e per fare questo può essere utile seguirlo nell’a-
nalisi di un esempio che forse, più di tanti discorsi, ci fa comprendere la
peculiarità della sua impostazione. In Logica. Il problema della verità, Hei-
degger nota che una lavagna «è presente in carne ed ossa, in senso vero e
proprio, nella più propria effettiva presenza che essa possa mai avere,
proprio quando la si usa in quel che essa è. In questo modo, essa è aperta
in senso vero e proprio, mentre se ci fosse qui un selvaggio, pur vedendo-
la, non la vedrebbe in quel che essa è»25. Ora, se lasciamo da parte il fa-
stidio per la disinvoltura con la quale Heidegger impiega il termine “sel-
vaggio”, possiamo notare che quell’individuo in un certo senso potrebbe
fare uso della lavagna, ma non conformemente al suo significato, e dunque
senza comprenderla nel suo essere. Se si trattasse di una lavagna mobile
potrebbe per esempio utilizzarla per nascondersi nel caso fosse inseguito.
In questo caso ne farebbe un uso, ma non si rapporterebbe all’oggetto in

23 M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 423.


24 Ivi, p. 95.
25 M. Heidegger, Logik. Die Frage nach der Wahrheit, Klostermann, Frankfurt a.M., 1976,

trad. it. di U.M. Ugazio, Logica. Il problema della verità, Mursia, Milano, 1986, p. 71.

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quanto tale, non mostrerebbe di avere alcuna comprensione dell’essere


(del significato) di quell’oggetto, e quindi non potrebbe usarlo come
quell’oggetto che è, cioè come una lavagna. Egli non la vede «in quel che
essa è» significa che non ne comprende il significato, e che il significato
non è un pensiero, ma l’uso possibile di una cosa all’interno di un certo
mondo, il suo senso all’interno di una totalità di rimandi. Per esempio, se
avesse visto due lavagne diverse, poniamo una nera, posta in un’aula, e
una lavagnetta dove i bambini scrivono con i pennarelli, e qualcuno gli
avesse detto, in entrambi i casi: «lavagna», non vi è dubbio che, sin
quando non ne avesse compreso l’uso, non gli sarebbe stato possibile at-
tribuire lo stesso nome a due oggetti così diversi, né in generale vedere
una lavagna. Se gli indichiamo qualcosa da guardare, egli non sa proprio
che cosa debba osservare. E anche se glielo indicassimo con il dito non
saprebbe che cosa gli stiamo indicando: se sia il materiale, i segni che sono
presenti su di essa, o qualche altra cosa ancora. Inoltre, anche se avesse
compreso che cosa vogliamo che guardi, il termine “lavagna”, così come
l’oggetto che ora ha messo a fuoco da un punto di vista percettivo, con-
tinuerebbe ad essere privo di significato. Per questo, pur essendo data a
quell’essere umano da un punto di vista sensoriale, la lavagna non fa in
senso proprio parte del suo mondo, poiché non rappresenta per lui una pos-
sibilità d’azione, d’uso. Con essa non può intraprendere niente. Come del
resto accadrebbe a noi qualora fossimo trasposti in una cultura estranea e
tra oggetti di cui ci è ignoto il “senso”. Il che significa che qualcosa è un
mezzo solo quando è in ogni momento a nostra disposizione, anche
quando non ci è percettivamente dato, il che è possibile solo se si com-
prende la cosa nel suo essere, dunque se si sa dire a che cosa serve
all’interno di un mondo. Del resto, questo emerge già se osserviamo co-
me un bambino entra nel mondo: «Alla domanda del bambino, che cosa
sia una data cosa, si risponde dicendo cosa serve-a-fare, in quanto si de-
termina il reperibile a partire da ciò che se ne fa. Questa determinazione
e interpretazione stabilisce ad un tempo la relazione all’in-essere, all’aver-
a-che-fare con la rispettiva cosa, e soltanto con una tale interpretazione
questa cosa può propriamente entrare nel mondo-circostante come qual-
cosa di presente, comprensibile, sia pure provvisoriamente, perché infatti
è autenticamente compresa soltanto allorché siamo noi stessi entrati nella
opportunità offerta dalla cosa del mondo circostante»26. Questa totalità
di rimandi costituisce un’apertura di senso al cui interno le cose appaio-
no e ottengono il loro significato e senza di essa non apparirebbe niente:
per questo il mondo è trascendentale, cioè la condizione di manifestatività
dell’ente. Le cose sono in virtù del loro essere inserite in un mondo, in un
sistema di rimandi che costituisce il loro essere, il quale ha dunque un
carattere e uno statuto interamente differenziale. Per esempio, in un

26 M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., p. 322.

146
Differenza antropologica e animalità in Heidegger

mondo in cui non ci sono mezzi per scriverci sopra, in cui non esiste la
cultura della scrittura in senso ampio e qualcosa come l’addestramento
scolastico, l’uso e il significato della lavagna non può emergere, né può
essere compreso. Il che significa che i significati non abitano l’interiorità
tabernacolare di una coscienza, bensì il mondo, il quale è dunque, per
un essere umano, la totalità delle sue possibilità d’azione, la totalità di ciò che
può fare, pensare, desiderare27.
Ora, che il mio mondo sia la totalità delle mie possibilità d’azione si-
gnifica che per l’essere umano, a differenza di quanto aveva pensato la
tradizione, rapportarsi a se stesso non significa rapportarsi riflessivamente a
un soggetto atemporale, a un nucleo di identità che si mantiene costante
e che accompagna tutte le mie rappresentazioni, bensì al proprio poter-
essere, cioè alla proprie possibilità d’azione, e quindi al proprio aver-da-
essere a partire dal proprio aver già e dal proprio esser-già. Noi ci rappor-
tiamo a noi stessi rapportandoci al nostro futuro, consumando le nostre possibili-
tà. Ed è solo per questo che un essere umano può sentirsi divorato dal
tempo, avvertire il flusso del tempo come qualcosa che consuma la sua
esistenza, come lo svanire di possibilità d’esistenza ed infine dell’esi-
stenza stessa. E queste possibilità non sono nella mente, intrapsichiche,
oppure nel cervello: sono nel mondo, storicamente determinate. Di con-
seguenza, esistere per l’uomo non significa soltanto vivere, essere qualco-
sa di presente, ma rapportarsi a se stesso in quanto poter-essere, cioè non
come a una realtà, ma come a una possibilità28. Per questo Heidegger ritiene
debba essere considerata non sufficientemente radicale la nozione stessa
di “persona”, e che diventi centrale per l’essere umano il rapporto con
quella possibilità che, realizzandosi, annullerà tutte le altre possibilità,
poiché rapportandoci alla morte ci rapportiamo a noi stessi in quanto
totalità. Solo perché è in un mondo di possibilità e perché dunque è pos-
sibilità nel fondo del suo essere, l’essere umano può, unico tra gli enti,
rapportarsi a se stesso come a una totalità, che è quanto accade
nell’esperienza della morte intesa come la possibilità più certa per un es-
sere umano, e dunque costitutiva del suo essere in quanto ente finito.
Vorremmo dire: è perché si rapporta a se stesso come a una totalità finita
che l’essere umano rompe con l’ordine naturale. Mentre dall’organismo
più primitivo al primate più simile all’uomo vige la stessa regola: “man-

27 E. Tugendhat, Selbstbewußtsein und Selbstbestimmung. Sprachanalytische Interpretationen,

Suhrkamp, Franfurt a. M., 1979, pp. 171 sgg.


28 E. Tugendhat ha notato che il guadagno irrinunciabile che dobbiamo ad Heidegger

consistite nell’avere mostrato che «l’autocoscienza dell’uomo non deve essere compresa
come riflessione dell’io su se stesso, bensì come un riferimento alla vita che sta davanti
[auf das bevorstehende Leben]» (E. Tugendhat, «Zeit und Sein in Heideggers “Sein und
Zeit”», in Id., Aufsätze 1992-2000, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 2001, p. 189).

147
Vincenzo Costa

gia, sopravvivi, riproduciti”, e come se l’essere umano avesse scritto nel


suo certificato di nascita: “Che cos’è questa faccenda?”29.

4. L’essenza metafisica dell’essere umano


Noi non seguiremo tutta questa problematica. Ci chiederemo invece:
perché l’essere umano ha un mondo e l’animale ne è privo? È questa la
domanda che ci sembra imporsi. E da questo punto di vista il problema
del mondo sembra condurci al peculiare modo di essere, all’essenza me-
tafisica dell’essere umano. In Essere e tempo Heidegger nota infatti che il
mondo è un modo di essere dell’esserci. Del resto, in una famosa lettera a
Husserl del 22 ottobre 1927 egli chiarisce: «Qual è il modo di essere
dell’ente nel quale il “mondo” si costituisce? Questo è il problema cen-
trale di Essere e tempo: quello di un’ontologia fondamentale dell’esserci
[Dasein]. Si tratta di mostrare che il tipo di essere dell’esserci umano è
totalmente diverso da quello di tutti gli altri enti e che esso, in quanto
tale, racchiude in sé la possibilità della costituzione trascendentale»30. Il
punto decisivo è dunque che la condizione di possibilità dell’aprirsi di
un mondo deve essere cercata nel modo di essere dell’uomo, il che sem-
brerebbe alludere al fatto che il fondamento dell’apparire della differenza on-
tologica (l’apparire dell’ente nel suo essere) deve essere cercato nella struttura della
differenza antropologica. In altri termini: se qualcosa può manifestarsi co-
me un mezzo ciò accade perché si è aperto un mondo, una rete di rela-
zioni, e questa può aprirsi solo perché l’essere umano è in se stesso tra-
scendenza, cioè capacità di trascendere il presente, di conservare il già-
stato anticipando il futuro, lasciandosi determinare nel suo presente dal futuro
(dalla possibilità). In effetti, nei Principi metafisici della logica, l’ultimo cor-
so tenuto a Marburgo nell’estate del 1928, Heidegger scrive che «il carat-
tere estatico del tempo rende possibile lo specifico carattere di oltrepassamento pro-
prio dell’esserci, la trascendenza, e quindi anche il mondo»31. Se la manife-
statività dell'ente è qualcosa che accade, essa accade sin quando e solo perché
c’è l’esserci. La differenza accade con noi come accadimento fondamentale
del nostro esserci. Ma non potrebbe accadere senza l'esser-ci. Solo l’essere
umano è trascendenza, perché solo l’essere umano intrattiene un rappor-
to con il tempo. Così, per esempio, in Logik. Die Frage nach dem Wesen der

29 Traiamo questa suggestione da D.C. Dennett, Darwin’s dangerous idea. Evolution and the

meanings of life, Simon and Schuster, New York 1995, trad. it. a cura di S. Frediani, L’idea
pericolosa di Darwin. L’evoluzione e i significati della vita, Boringhieri, Torino, 1997, p. 419.
30 Lettera di Heidegger a Husserl del 22 ottobre 1927, in E. Husserl, Phänomenologische

Psychologie, Nijhoff, Den Haag, 1962, trad. it. di R. Cristin, in E. Husserl – M. Heidegger,
Fenomenologia, Unicopli, Milano, 1999, p. 145.
31 M. Heidegger, Metaphysische Anfangsgründe der Logik, Klostermann, Frankfurt a.M.,

1978, trad. it. di G. Moretto, Principi metafisici della logica, Il Melangolo, Genova, 1990, p.
289.

148
Differenza antropologica e animalità in Heidegger

Sprache, un corso del semestre estivo del 1934, Heidegger nota che «pie-
tre, piante e animali sono, conformemente al calcolo [rechnungsmässig],
nel tempo, ma non sono temporali nel senso che in ciò si mostri il loro
proprio essere»32. Dunque: si dà differenza ontologica solo sin quando e
perché si dà differenza antropologica, e la peculiarità dell’essere umano
consiste nel suo stare sotto il dominio del tempo, mentre gli altri viventi
non vengono intaccati nel loro presente da quel nulla o non essere che è
il futuro, e proprio per questo vivono nella realtà e non nella possibilità.
Nell’azione non ne va del loro proprio essere, perché agire non significa
per loro determinare chi sono, prendere posizione o posto nel mondo. Proprio
per questo – chiarisce Heidegger nei Principi metafisici della logica –
«l’essenza metafisica dell’esserci in quanto trascendente è la sola ad avere
la possibilità di procurare all’ente diverso da sé l’ingresso nel mondo»33.
Rapportandosi a se stesso come a delle possibilità da consumare, l’uomo
si rapporta alle cose che possono essere utilizzate, poiché esse sono la
maniera in cui uso le mie possibilità. L’in quanto, il senso oggettuale di
un utensile è per l’uomo una possibilità d’azione. Per questo esse diven-
gono ciò che sono, si manifestano nel loro essere, all’interno di
un’apertura di senso. Fuori di questa, in sé, non sono niente. Ricollegan-
doci alle incisive riflessioni di Ernst Tugendhat, possiamo dire che qual-
cosa come l’apertura «si fonda per Heidegger nel rapporto dell’esserci
con se stesso, quindi nell’esistenza. Si può forse illustrare questa idea
senza dubbio strana in questo modo: solo dove un ente ha un rapporto
pratico con se stesso, esso ha qualcosa come un’apertura»34. Heidegger
definisce l’essere umano non a partire dalla coscienza, o detto in maniera
più attuale, della mente, bensì a partire da un’apertura rappresentata da
possibilità pratiche d’azione. Proprio per questo l’esserci non si riferisce a
singoli enti, a singoli oggetti, ma si muove all’interno di una totalità di
possibilità d’azione, e agendo determina se stesso, si espone alla riuscita o
alla perdita, al senso o al non senso. Per questo, solo a un essere umano
la vita nella sua totalità può apparire sensata o insensata. Al contrario –
lo vedremo – l’animale non ha un mondo, non ha strumenti, e, secondo
Heidegger, non ha le mani.

5. La povertà di mondo dell’animale


Dato il nesso tra differenza ontologica e differenza antropologica, non
ci stupiremo che la problematica dell’animalità sia già preparata in Essere
e tempo, dove Heidegger aveva lasciato aperta la questione relativamente

32 M. Heidegger, Logik. Die Frage nach dem Wesen der Sprache, Klostermann, Frankfurt

a.M., 1998, p. 133.


33 M. Heidegger, Principi metafisici della logica, cit., p. 253.
34 E. Tugendhat, «Zeit und Sein in Heideggers “Sein und Zeit”», cit., p. 188.

149
Vincenzo Costa

alle emozioni degli animali e al loro rapporto con il tempo, e cioè se gli
animali possano essere in una situazione emotiva, che è certamente de-
terminante nell’aprire un mondo. In particolare, egli aveva notato che «è
un problema a sé il modo in cui lo stimolo e la modificazione dei sensi so-
no da intendere ontologicamente in un essere semplicemente-vivente,
nonché se e in qual modo, in generale, l’essere degli animali sia, ad e-
sempio, costituito da un tempo»35. Benché dunque già abbozzato, prepa-
rato in Essere e tempo, il problema viene tuttavia affrontato in maniera e-
splicita e specifica a partire dalle lezioni tenute nel semestre invernale
1929/30, e poi ripresa con una certa insistenza negli scritti e nelle lezioni
successive.
Nella discussione sull’animalità un ruolo decisivo aveva tradizional-
mente giocato la nozione di istinto36. Quest’ultimo sembra caratterizzare
la vita animale, e Heidegger la riprende, ma non per contrapporla a quel-
la di abitudine e di intelligenza, tracciando dunque attraverso questi con-
cetti la differenza tra l’animale e l’essere umano, bensì per contrapporla a
quella di stimolo, una nozione di cui con tutta evidenza Heidegger diffi-
da in profondità, e con essa l’intero impianto comportamentista e
l’interpretazione dell’azione come risposta. Una concezione che deve es-
sere rifiutata non solo riguardo alla vita umana, ma al vivente in generale.
Infatti, l’istinto rappresenta nell’animale ciò che il progetto o l’apertura
interpretativa è nella vita umana e storica. Esso è un tipo di informazione
inerente alla vita, differente dall’in-formazione che ha luogo quando un
essere è in un mondo. Così come l’esserci non ha a che fare con stimoli,
bensì con oggetti d’uso che sono tali all’interno di un mondo, neanche
un animale ha a che fare con meri stimoli, perché siamo di fronte a una
messa in forma istintuale degli stimoli, dato che l’istinto produce una regola-
zione che ordina la sequenza dei possibili stimoli sulla base di «un istinto
fondamentale che incita e stimola attraversando l’intera sequenza degli
stimoli»37. Ciò che può penetrare nell’ambito ambientale dell’animale è
dunque determinato dall’istinto, mentre nel caso dell’essere umano ciò
che appare è determinato dall’apertura storica di un mondo, cosicché un
greco e noi, pur avendo identiche informazioni genetiche, viviamo in
mondi differenti: noi siamo esseri storici nel fondo del nostro essere. Dove vi è
uomo vi è storia e dove vi è storia vi è uomo. Questi due concetti, presi
in senso pregnante, circoscrivono l’unità di una costellazione concettua-
le.

35 M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 415.


36 Scheler, che Heidegger sembra qui fondamentalmente seguire, aveva insistito sul fatto
che l’istinto «non è affatto “attività intellettuale meccanizzata”, bensì una forma speciale
dello spirito; esso non è neppure un riflesso più complesso, oppure qualcosa di riconduci-
bile ai “tropismi”: esso è lo spirito che domina e indirizza i più svariati movimenti verso
un’azione avente un’unità significativa» (M. Scheler, «Sull’idea dell’uomo», pp. 65-66).
37 M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., pp. 294-295.

150
Differenza antropologica e animalità in Heidegger

L’apertura al mondo, nel caso dell’animale, sarebbe dunque la regola-


zione istintuale. Da essa scaturiscono, secondo un ordine, degli stimoli
che spingono in avanti l’organismo, ma in tutto ciò non vi è alcun cen-
tro unificatore. Certo, l’animale «non si perde nel momento in cui un
impulso istintuale verso qualcosa lascia se stesso dietro a sé, bensì, come
noi diciamo, si mantiene nell’istinto, ed è se stesso in questo istinto e in
questa pratica»38. Nell’animale non vi è un sé che diriga gli istinti, non vi
è una rete di significati che ristrutturi la componente istintuale, le infor-
mazioni di carattere biologico. E non vi è un sé perché non vi è un poter-
essere, perché l’animale non si rapporta a se stesso come a delle possibilità
da consumare. Per poterlo fare, dovrebbe potersi rapportare al futuro,
dovrebbe poter prendere posizione rispetto a se stesso, a chi vuole essere,
il che è reso impossibile dal cerchio istintuale al cui interno egli vive.
Heidegger insiste sul fatto che «il comportamento dell’animale non è un
fare e agire, come la condotta dell’uomo, bensì un praticare, termine col
quale indichiamo che in qualche modo ogni pratica dell’animale è carat-
terizzata dall’esser-sospinti da ciò che è istintuale»39. Il che significa che
l’essere dell’animale non conosce la categoria della possibilità, o dell’impos-
sibilità, e proprio per questo le sue non sono azioni. Ciò che penetra nel
mondo dell’animale, ciò che lo colpisce, non sono possibilità d’azione
che sollecitano la sua libertà. Ed è per questo che l’animale non ha, come
abbiamo precedentemente accennato, strumenti. Qualcosa può sollecita-
re l’animale solo quando l’istinto permette di fare apparire il suo uso possibile. È
uno strumento solo quando l’istinto ne permette l’apparire ai fini
dell’appagamento. Ma il suo uso, il suo essere strumento non è determi-
nato dalla rete differenziale all’interno del quale è qualcosa, e quindi non
è quello che è indipendentemente dall’istinto momentaneo, dunque dal
presente. E quindi non può essere preso di mira “fuori contesto”, al di là
di certe circostanze determinate. E qui non ci vuole molto a capire come
ciò implichi una limitazione nel rapporto con il tempo, un essere ancora-
to al presente. Quello che conta per Heidegger non è dunque la prassi, la
capacità di utilizzare strumenti, di avere credenze e di attribuire creden-
ze. Quello che distingue l’essere umano è il fatto che tutti questi com-
portamenti (intenzionali) avvengono sullo sfondo del mondo: l’essere uma-
no, agendo, prende posizione nella totalità e non rispetto a singoli ogget-
ti. Per questo, uno scimpanzè usa delle cose senza comprenderle nel loro
essere, in fondo come accade a noi quando usiamo qualcosa improvvisan-
done un uso, che però resta confinato a quell’azione. Per esempio, usare
dei libri per raggiungere qualcosa posto in alto è un gesto
dell’intelligenza, ed in quanto tale è comune sia all’uomo che agli anima-
li intelligenti. Ma programmare di prendere una scala per andare a racco-

38 Ivi, p. 299.
39 Ivi, p. 304.

151
Vincenzo Costa

gliere le olive, non riguarda soltanto un livello superiore di intelligenza e


di capacità organizzativa: è qualcosa che può fare solo chi comprende
un’intera rete di rimandi e di significati, di relazioni temporali e spaziali,
e dunque un mondo. Ed è proprio questo quello che manca all’animale,
e non l’intelligenza. Qui vi è uno stacco. Dall’essere assorbiti dal presen-
te, al quale ci si può rapportare in maniera più o meno intelligente, in
maniera più o meno determinata dall’istinto o dall’abitudine (come può
accadere in certi animali), all’essere aperto al futuro, e dunque al mondo,
non vi è passaggio continuo. E questa rottura separa due forme di vita.
Certo, l’animale può usare dei bastoncini per cercare di raggiungere un
obiettivo, mostrando così di muoversi in una pratica, di avere
un’intelligenza, ma «l’istinto non scompare quando l’animale si mantie-
ne in una pratica, bensì proprio nella sua pratica l’istintuale è ciò che
è»40. L’animale può cioè maturare delle abitudini, ma queste non danno
origine a un mondo, perché il mondo dell’animale resta determinato
dall’istinto, e perché l’abitudine ha delle somiglianze strutturali con l’istinto41.
Indipendentemente dall’istinto che lo porta a usarlo per raggiungere un
certo scopo, il bastone non è il bastone che serve a, non è dunque una
possibilità sempre alla mano. Il vero discrimine tra l’animalità e l’umanità
non va tracciato sulla base della nozione di istinto e intelligenza, poiché
l’intelligenza resta, nell’animale, al servizio dell’istinto. È necessario, in-
vece, introdurre la categoria di possibilità, che è un nulla, qualcosa che
non esiste, ed è per questo che l’essere umano è l’essere che si rapporta al
nulla. Nell’essere umano l’intelligenza, che può certo accomunarlo ad altri
animali, è al servizio della possibilità, e ciò perché questo ente in ogni azio-
ne avverte un riverbero, si sente situato, in gioco: ne va di se stesso. In
ogni azione si collassano tutti i rimandi, ed è per questo che critiche a
Heidegger come quelle di MacIntyre non colgono nel segno. Ogni azio-
ne ha luogo e può essere compresa come presa di posizione rispetto a un
mondo, a una totalità di possibilità pratiche, e quindi come prese di po-
sizione rispetto a se stessi, poiché in ogni azione noi determiniamo chi siamo.
E poiché solo all’interno di un mondo qualcosa si svela nel suo essere,
all’animale restano inaccessibili le cose nel loro essere.
Il che non vuol dire che all’animale sia negato ogni accesso al mondo.
Se prendiamo una lucertola, essa non è semplicemente presente al sole
sulla pietra riscaldata. Spostata via da lì, non rimane ferma, ma cerca di
nuovo la pietra. Essa ha dunque un rapporto con il mondo, non è senza
accesso a ciò che è accanto ad essa e in mezzo al quale si trova come vi-
vente, e tuttavia il sole in cui essa si riscalda non le è dato in quanto sole.
È dunque l’accessibilità all’ente che sarebbe negata all’animale. Emerge così

40 Ivi, p. 305.
41 Su questo tema si veda H. Bergson, Les deux sources de la morale et de la religion (1932),
trad. it. di A. Pessina, Le due fonti della morale e della religione, Laterza, Bari, 1995.

152
Differenza antropologica e animalità in Heidegger

che la differenza tra il mondo dell’animale e quello dell’essere umano


non è una differenza di grado. E per vederci più chiaro dobbiamo chie-
derci: a che cosa si rapporta l’animale, e in che modo si trova in relazio-
ne con ciò che esso cerca come nutrimento, si procura come preda, scac-
cia come nemico?
Secondo Heidegger, il comportamento e le sue modalità non sono
raggi che fanno correre avanti l’animale come su delle corsie. Essendo
determinato dall’istinto, l’animale è presso di sé, ma questo essere presso
di sé «non ha nulla dell’ipseità dell’uomo che ha una condotta in quanto
persona», perché nell’animale il sé non ha rapporto con il tempo.
L’animale è invece come stordito: «Lo stordimento è la condizione di
possibilità grazie a cui l’animale, secondo la sua essenza, si comporta in un
ambiente, ma non in un mondo»42. Con stordimento Heidegger intende
dunque il carattere fondamentale dell’esser-coinvolto in sé dell’animale,
il suo essere avvolto nell’istinto invece di essere aperto al mondo e al po-
ter-essere. L’animale, infatti, non ha un rapporto con il tempo. Egli è
spinto dall’istinto. Nel suo comportamento, è riferito a qualcosa, e qui
sembrerebbe essere fondamentalmente simile all’uomo. Tuttavia, Hei-
degger vuole mettere in luce che la maniera in cui l’uomo è riferito e la
maniera in cui lo è l’animale sono fondamentalmente diverse. L’ape cer-
ca il cibo. Ma non ha coscienza del sussistere del cibo, per esempio non pren-
de in considerazione il fatto che ci sia ancora cibo da succhiare o meno.
L’animale è caratterizzato da un istinto da soddisfare, e non da un mondo cui
rapportarsi. E di ciò è possibile rendersi conto tagliando l’addome
dell’ape. Si capisce allora che l’ape cessa di succhiare quando un istinto le
dice che è sazia, il che vuol dire che l’animale non si rapporta al cibo, ma
alla propria fame o alla propria sazietà. In questo modo si capisce che
l’essere-riferito-a dell’animale non è il sussistere del cibo, ma semplice-
mente la sazietà che inibisce l’istinto. E questo vuol dire che «il succhiare
dai fiori non è un avere una condotta in rapporto al fiore in quanto qualcosa
di sussistente o non sussistente»43. L’ape passa da un istinto ad un altro.
Essa non cessa di succhiare. Semplicemente, un altro istinto ha la meglio.
Per questo essa non ha un mondo, non si rapporta agli oggetti e non ha
una condotta. L’ape avverte un istinto, o semplicemente la fame; o me-
glio: fa tutt’uno con il suo istinto, ma non comprende ciò verso cui l’istinto si
dirige. Certo, l’istinto non resta fisso, quasi che l’animale fosse stregato.
Esso spinge invece continuamente verso qualcosa: verso il fiore, verso
l’alveare. Ma questi non emergono in quanto alveare o in quanto fiore,
cioè in quanto unità di senso, bensì solo in quanto ciò su cui si dirige
l’istinto o come stimolo che fa scattare l’istinto.

42 M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., pp. 305-306.


43 Ivi, pp. 310-311.

153
Vincenzo Costa

Qui si potrebbe certo osservare che non è lecito estendere queste con-
siderazioni sulle api agli animali superiori. In effetti, un gorilla vede le
termiti, il bastoncino, e usa quest’ultimo per cibarsi. Ma questo vuol dire
solo che il gorilla ha un mondo percettivo più ampio dell’ape. In questo
mondo di forme percettive non vi è tuttavia spazio per sensi oggettuali,
cioè, nel linguaggio di Heidegger, per l’apparire dell’essere della cosa, del-
la cosa nel suo in quanto, perché nel mondo animale il bastoncino diventa
uno strumento utile solo quando l’istinto permette di scoprirlo in questa funzione.
Ma al di là di questa scoperta istintuale, e dunque legata al presente, che
dura finché l’istinto spinge in una certa direzione, quel bastoncino non è
un mezzo atto a…, mentre per un essere umano una penna è uno stru-
mento, se ne comprende l’uso possibile anche quando niente lo sollecita a
usarla in questo senso. Per questo Heidegger può dire che «nello stordimen-
to l’ente per il comportamento dell’animale non è manifesto, non è di-
schiuso, ma appunto per questo neppure chiuso. […] Lo stordimento è
l’essenza dell’animale, vuol dire: in quanto tale l’animale non si trova in una
manifestatività dell’ente. Né il suo cosiddetto ambiente, né esso stesso sono mani-
festi in quanto enti. Poiché a causa del suo stordimento e della totalità delle
sue abilità l’animale è messo in ciclo all’interno di una molteplicità di
istinti, non ha sostanzialmente la possibilità di entrare in relazione con
l’ente che esso stesso non è, così come con l’ente che esso stesso è»44. Le
cose non possono manifestarsi all’animale perché questi non può riferirsi
alla vita che gli sta davanti, perché non ha un aver-da-essere, e dunque
non è aperto al futuro. Di conseguenza, il mondo dell’animale non è costitui-
to dagli enti, cioè da unità di senso, bensì dal cerchio istintuale. E questo è
del resto la conseguenza del fatto che l’istinto svolge nell’animale la fun-
zione che il mondo svolge nell’uomo.
Sul carattere fondamentale dell’istinto Heidegger è estremamente chia-
ro, e non si accontenta di un generico richiamo, poiché vuole fare emer-
gere il carattere unitario della vita istintuale, dato che ogni istinto è in sé
determinato da un venir-sospinto verso gli altri istinti. Da questo cerchio
istintuale l’animale non può uscire, e qualcosa può entrare
nell’esperienza dell’animale solo se può inserirsi in esso. Infatti,
«l’animale, in ogni suo comportamento, non può mai autenticamente en-
trare in relazione con qualcosa in quanto tale. L’animale è circondato dal cer-
chio del reciproco venir-sospinto-verso dei suoi istinti»45. Per l’animale
l’ente esiste solo in quanto è correlato all’istinto, ma non è niente al di
fuori di questo rapporto all’istinto. Esso viene colpito da qualcosa, ma
questo qualcosa non si manifesta in quanto qualcosa, in quanto sole, al-
veare, bastoncini per termiti. Vi è un essere stimolato che si innesta
all’interno del cerchio dell’istinto. Essendo l’animale avvolto dall’istinto,

44 Ivi, p. 317.
45 Ivi, p. 319.

154
Differenza antropologica e animalità in Heidegger

le cose non emergono in quanto possibilità d’azione, e dunque nel loro


“in quanto”. Mentre l’essere umano è determinato dall’apertura che de-
cide delle proprie possibilità d’azione, nel caso dell’animale lo spazio di
gioco è determinato dall’istinto: «L’esser-capace di… istintuale e al-
servizio, la totalità dell’abilità coinvolta in sé, è un venir-sospinti-verso da
parte degli istinti, il quale circonda l’animale, di modo che proprio que-
sto cerchio ambientale rende possibile il comportamento nel quale
l’animale è riferito ad altro. Riferito ad altro, ma l’altro non è manifesto in
quanto ente. […] L’altro viene preso-dentro in questa apertura
dell’animale nella maniera che definiamo disinibizione. Poiché l’esser-
capace compenetra e domina il modo di essere dell’animale, l’ente che
ha tale modo di essere può, se entra in relazione con altro, incontrare
soltanto ciò che “colpisce” l’esser-capace, che lo mette in moto. Tutto il
resto non è a priori in grado di penetrare nel cerchio ambientale
dell’animale»46. Qualcosa può penetrare nel cerchio ambientale dell’a-
nimale soltanto se l’istinto lo permette: la cosa disinibisce l’istinto, lo fa
scattare, ed è solo in questo senso che si è in relazione con essa: la cosa
entra in relazione con l’animale nel senso che è l’occasione per una modifica del
cerchio ambientale istintuale. Essa appare per l’animale solo quando l’istinto
ne permette l’apparire, ma proprio per questo non appare in quanto
quella cosa che è, cioè come un’unità di senso. In realtà, per l’animale, la
cosa non c’è: c’è un istinto soddisfatto o da soddisfare, un istinto più for-
te che scaccia un altro più debole. O uno stimolo che fa scattare un istin-
to. E ciò significa che non appare l’alterità della cosa, tanto meno l’alterità
dell’altro essere vivente. Così, per esempio il sole penetra nel cerchio am-
bientale dell’ape solo nel senso che attiva un certo istinto, ma non in
quanto sole. E la stessa cosa accade con la lucertola che, spostata da una
pietra, vi ritorna. Essa non ha rapporto né con la pietra né con il suolo,
se rapporto significa comprensione dell’essere della pietra. La lucertola si
rapporta solo ad un istinto da soddisfare: l’essere scaldata. «L’esser-
circondato dell’animale dal venir-sospinto-verso dei suoi istinti è in sé un
esser-aperto per ciò che disinibisce. Il rinchiudersi in un cerchio dunque
non è una segregazione, bensì appunto un aprente tracciare un cerchio
ambientale all’interno del quale può disinibire questo o quel disinibente.
Il comportamento dell’animale non si riferisce mai e poi mai, come a noi
potrebbe sembrare, a cose sussistenti e al loro assembramento, bensì cir-

46 Ivi, pp. 324-325. Qui Heidegger segue del resto Scheler, secondo cui «lo stimolo sen-

soriale li limita a liberare il corso rigidamente ritmico dell’attività istintiva, senza però de-
terminare le modalità di tale corso. Stimoli sensoriali olfattivi, o stimoli sensoriali ottici,
possono anche liberare una stessa attività: per cui le sensazioni che producono tale libera-
zione non debbono neppure aver il medesimo modo, per così dire la medesima qualità. È
tuttavia valida l’affermazione contraria: ciò che un animale può rappresentarsi o sentire, è
determinato e dominato a priori dalla relazione dei suoi istinti innati alla struttura
dell’ambiente» (M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., pp. 127-128).

155
Vincenzo Costa

conda se stesso con un cerchio disinibente, nel quale è prescritto che cosa
può colpire, come occasione motrice, il suo comportamento»47.
Né l’animale, come abbiamo prima accennato, ha un rapporto con il
tempo. Ora, di per sé questo non è ovvio, ed Heidegger prende in consi-
derazione il fatto che le scienze naturali parlano di un senso del tempo
presente negli animali. In effetti, «se gli animali hanno un senso del tem-
po, se il loro accadere vivente non decorre soltanto nel tempo, ma il vi-
vente stesso ha un senso per il tempo e si dirige conformemente al tempo
ed è determinato dal tempo, allora il tempo in quanto temporalità non è
un determinazione distintiva dell’uomo e riservata all’uomo»48. E del re-
sto, il fatto che gli uccelli inizino a costruire il nido in certi momenti, che
volino in un certo momento verso il sud, non testimonia innegabilmente
che essi hanno un senso del tempo? Per Heidegger, tutto ciò non dimo-
stra nulla. Questi dati osservativi devono essere interpretati nel senso già
chiarito del cerchio disinibente: vi sono stati atmosferici, climatici etc.,
che ridestano e attivano strutture istintuali. Gli animali non percepiscono
le stagioni dell’anno, non si rapportano ad esse, ma a meri mutamenti
climatici. La posizione di Heidegger non rifiuta quindi la ricerca empiri-
ca, la prende invece sul serio sul suo stesso terreno, interrogandosi però
sui suoi presupposti metafisici: «Attraverso ricerche sul senso del tempo
degli animali non viene dimostrato che gli animali hanno un tale senso e
un rapporto con il tempo. Il senso del tempo non è un risultato scientifi-
co, bensì viene presupposto prima di ogni ricerca con una affermazione
metafisica pre-afferrante sulla base di una supposta acritica corrispondenza
tra l’essere animale e l’uomo»49. In realtà, che soltanto l’uomo abbia un
senso del tempo, può emergere da un fatto abbastanza semplice: che solo
di un essere umano diciamo che sta perdendo tempo: «solo l’uomo ha
tempo o non ha tempo, solo l’uomo perde tempo»50. E per questo solo
l’essere umano può esperire qualcosa come l’angoscia di fronte alla mor-
te, dunque la propria finitezza, o la noia, e cioè un tempo che non passa
e che non si sa come far passare, che sono appunto le analisi con cui
Heidegger, non a caso, apre le lezioni del 1929-30.
L’animale è dunque equipaggiato con una serie di istinti, e questi pre-
delineano che cosa può fungere da occasione motrice per lo scatenarsi di
un certo istinto. Il sole entra come occasione motrice nel cerchio am-
bientale dell’ape solo nella misura in cui, all’interno dell’istinto del ritor-
no, non è presente il profumo o altri segni ambientali che servano a met-
tere in moto un certo istinto o mettersi al servizio dell’istinto fondamen-
tale del ritorno. Il polline è solo l’occasione che mette in moto l’istinto

47 M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., pp. 325-326.


48 M. Heidegger, Logik. Die Frage nach dem Wesen der Sprache, cit., p. 138.
49 Ivi, p. 139.
50 Ivi, p. 145.

156
Differenza antropologica e animalità in Heidegger

del succhiare, e continua ad esserlo sin quando non si raggiunge la sazie-


tà. In tutto ciò, non vi è mondo, e questo significa che non vi è storia, e
dunque spirito, che caratterizza appunto l’essere umano. Heidegger nota
del resto che ogni animale non si circonda con questo cerchio disiniben-
te in secondo momento. Esso fa invece parte della sua intrinseca orga-
nizzazione. L’animale è assorbito nell’istinto, cosicché la cosa scompare
in questo essere assorbito: non può manifestarsi in quanto ente: «Ciò che
disinibisce, che scioglie l’esser-inibito dell’istinto e fa sì che la pratica sia
sospinta-verso il disinibente e che l’animale si muova così in istinti de-
terminati, questo disinibente deve per sua essenza costantemente tirarsi
indietro, non è qualcosa che permane, di fronte all’animale come un possibile
oggetto – né immutato, né mutato. Al sottrarsi del disinibente corrisponde
nel comportamento l’essenziale non-poter-entrare-in-relazione con esso,
come potrebbe avvenire se il disinibente fosse oggettuale come qualcosa
di sussistente»51. In questo senso, l’animale è povero di mondo, poiché
per esso non si dà, né può strutturalmente darsi, una manifestatività
dell’ente.

6. Il linguaggio e il tempo
Questo cerchio è stato spezzato con l’uomo, che vive all’interno di
una rete di rimandi tra unità di significato, e al cui interno le unità di si-
gnificato possono manifestarsi. E le ragioni – lo abbiamo visto – vengo-
no da Heidegger individuate appunto nella metafisica dell’esserci, nella
peculiare relazione che l’essere umano intrattiene con se stesso e dunque
con il mondo. Ma certamente resta da chiedersi: in virtù di che cosa
l’uomo ha spezzato il cerchio istintuale e ha potuto rapportarsi a se stes-
so come a un poter-essere? In virtù di che cosa si è di conseguenza aperta
la manifestatività dell’ente?
Heidegger, già nelle lezioni del 1929-30 è in direzione del linguaggio
che si avvia: è il linguaggio che apre il mondo umano, che fa sì che le cose
brillino nella manifestatività dell’essere: «Lo stordimento è (comportan-
dosi così) al contempo l’esser-assorbito della pratica, nella quale l’animale
è aperto in relazione ad altro. Se parliamo a partire dall’animale, non
possiamo concepire questo altro come ente, che possiamo comprendere
sempre e soltanto per mezzo della denominazione linguistica. Ma, anche
senza sviluppare oltre questo punto, nella denominazione linguistica è
insita già da sempre, come in ogni linguaggio, la comprensione
dell’ente»52. Questo accenno non trova tuttavia sviluppo nel corso del
1929-30, senza dubbio perché Heidegger non è ancora in grado di artico-

51 M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., p. 327.


52 Ivi, p. 331.

157
Vincenzo Costa

lare il nesso tra differenza ontologica, differenza antropologica e linguag-


gio.
Un passo significativo in questa direzione lo troviamo in un ciclo di
lezioni del semestre estivo del 1934 (Logik. Die Frage nach dem Wesen der
Sprache [Logica. La questione dell’essenza del linguaggio]). Qui, Heidegger
inizia a sviluppare l’idea secondo cui ciò che fa sì che le cose appaiano in
quanto unità di senso, ciò che fa sì che vi sia comprensione – e dunque,
nello stesso tempo, differenza ontologica e differenza antropologica – è il
linguaggio. Quando Jacques Derrida – con intento polemico – scrive che
secondo Heidegger, l’incapacità dell’animale «di indicare con i nomi non
è semplicemente linguistica; essa è piuttosto un’incapacità di dire il fe-
nomeno, un’incapacità fenomenologica; di fatto, la fenomenicità in quanto
tale e l’in quanto tale stesso non si danno all’animale, al quale l’essere
dell’ente non si svela», coglie certamente nel segno53. In effetti, per Hei-
degger, gli animali non possono rapportarsi ad oggetti, né avere un rap-
porto autentico con il tempo, che poi significa rapportarsi a se stessi co-
me a un poter-essere e al mondo come a una totalità di possibilità, per-
ché «non possono parlare [reden], [perché] non possiedono alcun lin-
guaggio»54. In questo emerge il nesso che salda l’essere temporali, l’essere
mortali e l’essere dei parlanti: «I mortali sono coloro che possono esperi-
re la morte come morte. L’animale non lo può. Ma anche il parlare è
precluso all’animale. Come per un lampo improvviso balza qui allo
sguardo il rapporto costitutivo tra morte e linguaggio»55. Solo un essere
che parla può rapportarsi a se stesso come a una totalità, può vivere la
sua finitezza, e dunque un rapporto con il tempo, ed è per questo che
solo un essere che parla è temporale nel fondo del suo essere: «Se gli a-
nimali fossero capaci di parlare, allora dovrebbero avere un rapporto al
tempo, dovrebbero essere temporali nella loro vita, in quanto esiste un
rapporto reciproco tra linguaggio e tempo»56. Noi possiamo dunque de-
cidere a priori se l’essere animale ha un senso del tempo, poiché la con-
dizione di possibilità della percezione dei rapporti temporali è rappresen-
tata dal linguaggio. Certo, gli animali usano segni, segnali, avvisi, ma tut-

53 J. Derrida, De l’esprit. Heidegger et la question, Galilée, Paris, 1987, trad. it. di G. Zaccaria,

Dello spirito. Heidegger e la questione, Feltrinelli, Milano, 1989, p. 58.


54 M. Heidegger, Logik. Die Frage nach dem Wesen der Sprache, cit., p. 139. Sulla questione

del linguaggio in riferimento alla differenza antropologica Heidegger avvierà nel 1939 un
approfondito confronto con Herder. La documentazione di questo confronto è adesso
disponibile in M. Heidegger, Vom Wesen der Sprache. Die Metaphysik der Sprache und die We-
sung des Wortes. Zu Herders Abhandlung “Über den Ursprung der Sprache”, Klostermann, Fran-
kfurt a.M., 1999, un testo e un rapporto che non ci è possibile analizzare in queste pagine,
ma da cui un lavoro più ampio sulla differenza antropologica e la questione dell’animalità
in Heidegger non potrebbe certamente prescindere.
55 M. Heidegger, Unterwegs zur Sprache, Neske, Pfullingen, 1959, trad. it. di A. Caracciolo,

In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano, 1973, p. 169.


56 M. Heidegger, Logik. Die Frage nach dem Wesen der Sprache, cit., p. 139.

158
Differenza antropologica e animalità in Heidegger

to ciò non significa affatto che essi parlino. In primo luogo perché
l’essenza del linguaggio non risiede nel comprendersi, e in secondo luogo
perché gli animali non parlano di e su qualcosa. E qui è ragionevole sup-
porre che Heidegger segua fondamentalmente Scheler, il quale aveva os-
servato che vi è una differenza fondamentale tra il linguaggio animale e
quello umano: «Tutto un mondo – scrive Scheler – separa però anche la
parola più primitiva dall’espressione. L’elemento affatto nuovo, che ap-
pare nella parola, è costituito dal fatto che questa non rimanda sempli-
cemente, come fa l’espressione, a un vissuto, ma sospinge anzitutto, e
dunque nella sua funzione primaria, verso un oggetto mondano»57. Gli ani-
mali in realtà non parlano affatto, né possono farlo, perché non dispon-
gono di parole, e non dispongono di parole perché non hanno nulla di
cui e su cui parlare58. È vero che vi sono dei segnali, attraverso i quali un
animale può per esempio avvisare i suoi simili di un pericolo incomben-
te, ma questo non è linguaggio, perché non vengono veicolati significati,
né si intende inclinare l’attenzione degli altri animali verso il pericolo,
inteso come un oggetto di cui si sta parlando. Secondo Scheler, «il mo-
vimento espressivo può solo diffondere su tutto il branco, mediante un
contagio psichico, lo stato d’animo che esso esprime. In questo caso non
si può parlare neanche di una vera forma di partecipazione, nel senso che
l’espressione indichi delle circostanze pericolose, e che questa indicazione
venga appunto “compresa”»59. Nel caso del segnale animale non vi è co-
municazione, perché non vi sono significati che vengano comunicati. Vi
è solo un segnale che attiva delle reazioni psichiche in tutto il branco, e
queste reazioni psichiche sono istintuali: «Ai vegetali e agli animali –

57 M. Scheler, «Sull’idea dell’uomo», cit., p. 57. In tutto questo è certamente decisivo

l’influsso di Von Humboldt, che Scheler cita ripetutamente, e in particolare dell’idea se-
condo la quale perché l’uomo possa veramente comprendere una sola parola, non come
semplice impressione sensibile, ma come suono articolato che designa un concetto, il lin-
guaggio deve già esistere in lui in tutta la sua coerenza. Del resto, l’idea secondo cui agli
animali è negato l’accesso alla parola rappresenta una caratteristica dell’intera tradizione
ermeneutica, così come giunge ad esprimersi sino a Gadamer, secondo il quale «di un lin-
guaggio degli animali si può parlare solo per aequivocationem» (H.G. Gadamer, Wahrheit und
Methode, J.C.B. Mohr, Tübingen, 1960, trad. it. di G. Vattimo, Verità e metodo, Bompiani,
Milano, 1994 p. 509). Il che non significa che l’uomo sia vincolato a uno specifico lin-
guaggio. Ricollegandosi alla tradizione dell’antropologia filosofica, Gadamer ha notato che
questa ha mostrato «che la struttura linguistica del mondo non significa affatto che l’uomo
sia prigioniero di un ambiente rigidamente schematizzato nel linguaggio» (ivi, p. 508).
58 Quest’idea non deve necessariamente significare che prima deve esserci un mondo di

significati, e che solo successivamente emergano le parole, giungendo così a considerare il


linguaggio «un’espressione alla seconda potenza», come interpreta il fenomeno Plessner
(Die Stufen des Organischen und der Mensch, cit., p. 340). Ciò sarebbe forse stato accettato da
Heidegger all’epoca di Essere e tempo, ma non in seguito, almeno nella misura in cui parola
e cosa emergono in un movimento unitario. In ogni caso, questo è probabilmente uno dei
problemi principali che l’antropologia filosofica e la filosofia di Heidegger ci lasciano in
eredità.
59 M. Scheler, «Sull’idea dell’uomo», cit., p. 58.

159
Vincenzo Costa

scriverà Heidegger nella Lettera sull’“umanesimo” – manca il linguaggio


perché essi sono ognora imbrigliati nel proprio ambiente, senza mai esse-
re liberamente posti nella radura dell’essere che, sola, è il “mondo”»60.
Per Heidegger, come per Scheler, se è vero che la cosa c’è solo dove
c’è il nome, è anche vero che un suono è una parola solo dove esso ri-
mandi a un significato. Proprio questo, la nozione di mondo e quella di
linguaggio sono due modi di indicare un fenomeno unitario. L’esserci si
distingue dall’animale perché ha un mondo, perché si rapporta all’in
quanto, ha un mondo solo perché è temporale, ed è temporale solo per-
ché ha un linguaggio. Va allora da sé che l’enigma dell’apparire del mon-
do e della peculiarità dell’essere umano, in fondo l’enigma della differen-
za ontologica e di quella antropologica rimandi a una radice unitaria:
all’essenza del linguaggio. Il nesso tra queste questioni, e in fondo la con-
tinuità tra le lezioni del 1929 e quelle del 1934 emerge del resto proprio
nelle conclusioni del corso, dove Heidegger nota che «in quanto il potere
del tempo come temporalità costituisce la nostra essenza, siamo esposti
nella manifestatività dell’ente, e ciò significa: l’essere nella totalità, come
esso ci regge [durchwaltet] e ci domina [umwaltet], è il mondo»61. E sin qui,
la differenza rispetto a Essere e tempo non è poi così grande. Questa emer-
ge però quando Heidegger fa un passo ulteriore, teso a mostrare che il
linguaggio è l’accadere dell’essere umano e del mondo. Il linguaggio, per Hei-
degger, non è infatti un sistema di segni, né concerne l’apparire di signi-
ficati. Linguaggio non significa soprattutto e principalmente la possibilità
di portare ragioni, di essere dunque animali razionali62, poiché «il lin-
guaggio è avvento [Ankunft] diradante-velante dell’essere stesso»63. Di per
sé, queste espressioni suonano sufficientemente enigmatiche, e fanno
parte di uno stile che non deve necessariamente essere imitato né ripreso.
Da esse si può tuttavia trarre l’indicazione, che non è peraltro possibile

60 M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, cit., p. 279.


61 M. Heidegger, Logik. Die Frage nach dem Wesen der Sprache, cit., p. 168.
62 Proprio per questo è necessario non confondere la posizione di Heidegger con quella

che si è recentemente delineata in alcuni autori della filosofia analitica quali Donald Davi-
dson e John McDowell, i quali tracciano la differenza antropologica proprio ricorrendo al
linguaggio, ma inteso in quanto totalità di atteggiamenti proposizionali (cfr. per esempio
D. Davidson, «Rational Animals», trad. it. di S. Gozzano, «Animali razionali», in S. Goz-
zano, a cura di, Mente senza linguaggio. Il pensiero e gli animali, Editori Riuniti, Roma, 2001,
pp. 119-132 e J. McDowell, Mind and World, Harvard, 1994, trad. it. di C. Nizzo, Mente e
mondo, Einaudi, Torino, 1999, pp. 123 sgg.). L’avvio di un confronto, che è forse sempre
più necessario, dovrebbe invece probabilmente prendere le mosse dall’idea secondo cui
l’essere umano, parlando, si rapporta alla nozione di verità, intesa come un che di primiti-
vo.
63 M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, cit., p. 279.

160
Differenza antropologica e animalità in Heidegger

sviluppare in queste pagine, secondo cui l’atto originario del parlare non
è la struttura giudicativa, bensì il puro denominare poetico, l’onomazein64.
In questo senso, secondo Heidegger, la gradevolezza della valle, il ma-
re tempestoso, l’esserci delle macchine, l’agire storico, il lavoro scientifico
– «tutto ciò è linguaggio, ottiene e perde il suo essere solo nell’accadere
del linguaggio»65. Esse sono solo in quanto appaiono come un significa-
to, nella luce di una comprensione, e l’apparire di significati è linguaggio.
Ma se così stanno le cose, «il linguaggio è il regnare del medium [Mitte]
che è formatore di mondo [weltbildenden] e che preserva [bewahrenden]
l’esserci storico di un popolo»66. Dal punto di vista filosofico, questa fra-
se ha un significato assai peculiare: adesso non è più l’uomo ad essere forma-
tore di mondo, bensì il linguaggio. L’uomo si rapporta al tempo e a se stesso
perché cade sotto il dominio del linguaggio. Ma ciò significa che l’essere
umano ha perduto la sua posizione di privilegio nella totalità dell’essere,
e con ciò viene meno la nozione stessa di differenza antropologica, o la
metafisica dell’esserci. Dobbiamo invece dire che la sua posizione gli
viene assegnata dalla sua appartenenza al linguaggio. È perché parla che è
un esserci, un essere nel mondo, dunque formatore di mondo, e non perché è uomo
che parla. Lo spostamento è decisivo. Non è in virtù di una determinata
differenza antropologica che vi è differenza ontologica, e dunque che vi
è mondo. Al contrario: vi è differenza antropologica solo in quanto
l’uomo appartiene al linguaggio, nella misura in cui l’uomo viene investito
dalla luce dell’essere. Se è vero che, per dirla con Nietzsche, l’uomo è
l’unico ente che può promettere, ciò accade perché è una promessa del
linguaggio. È il linguaggio che apre un mondo al cui interno l’essere u-
mano può soggiornare. Con questa frase possiamo considerare conclusa
una fase, e cogliere l’aprirsi di un’altra. Qui il problema diviene: “qual è il
modo d’essere del linguaggio?”, invece di quella: “qual è il modo d’essere

64 K. Held, «Heidegger e il principio della fenomenologia», in Aut-aut, n. 223-224, 1988,

p. 106. Una descrizione del carattere di mezzo caratteristico del mondo umano condur-
rebbe probabilmente a considerare ogni mezzo un’opera d’arte. Heidegger ha del resto
indicato questa possibile considerazione: «La pietra è priva di Mondo. Piante e animali
sono egualmente senza Mondo. Essi appartengono al velato afflusso di un ambiente di cui
fanno parte. La contadina, al contrario, ha un mondo, perché soggiorna nell’aperto
dell’ente. Il mezzo, col suo affidamento, dà a questo Mondo una necessità e una vicinanza
appropriate. Con l’aprirsi di un Mondo, ogni cosa acquista il ritmo del suo sostare e del
suo muoversi, la sua lontananza e la sua vicinanza» (M. Heidegger, «Der Ursprung des
Kunstwerkes» (1936), trad. it. di P. Chiodi, «L’origine dell’opera d’arte», in Sentieri interrotti,
La Nuova Italia, Firenze, 1985, p. 30).
65 M. Heidegger, Logik. Die Frage nach dem Wesen der Sprache, cit., p. 169.
66 Ivi. Qui non ci impegniamo, ma non per mancanza di vigilanza critica, sul senso poli-

tico di questa frase, pronunciata nel 1934 e in un momento importante della storia politica
di Heidegger. La decostruzione e la critica della deriva politica di certe affermazioni di
Heidegger incombe ancora come un compito inderogabile, ma ciò non deve – credo –
impedirci di cogliere gli elementi fenomenologicamente descrittivi della sua ricerca filoso-
fica.

161
Vincenzo Costa

dell’esserci?”. E l’intero asse della problematica che si sposta, dall’uomo al


linguaggio, e a quel linguaggio che apre un mondo, un tema che non pos-
sibile sviluppare in questo contesto e davanti al quale ci arrestiamo, per-
ché è la soglia varcando la quale la problematica dell’antropologia filosofica si
svuota in direzione di un’analisi filosofica del modo d’essere del linguaggio.

7. Il gesto e la parola
Su un punto è però forse utile indugiare. Se la questione si sposta sul
piano del linguaggio, con essa si sposta anche il fronte della possibile na-
turalizzazione. Un naturalismo attrezzato riproporrà la questione dell’es-
sere natura dell’uomo cercando di mostrare l’origine naturale del lin-
guaggio. Se giungiamo a ravvisare la differenza antropologica nel lin-
guaggio, nella misura in cui possiamo mostrare come il linguaggio sia sor-
to attraverso processi naturali, attraverso tappe evolutive, giungiamo a
ribadire il fatto che l’uomo deve essere pensato come un essere che sta
dentro la natura, come un prodotto del processo evolutivo. Lungo que-
sto percorso, giunge ad assumere una posizione centrale la questione della
mano.
A una posizione secondo cui l’uomo emerge con il linguaggio, e il lin-
guaggio emerge con l’uomo, cosicché l’essere del linguaggio resta un e-
nigma, una posizione naturalistica ribatterà che certo è più sensato pen-
sare che sia il linguaggio ad avere creato l’uomo, e non l’uomo il linguag-
gio, a condizione di aggiungere che l’ominide ha creato il linguaggio. Ed
in questo processo attraverso cui l’ominide crea il linguaggio, un ruolo
centrale gioca la mano, o meglio il divenire mano della mano. Si potreb-
be infatti sostenere che il processo di formazione dell’uomo, e dunque
l’apparire di un essere che ha un mondo, che è formatore di mondo, av-
viene attraverso un progressivo formarsi della mano. In particolare, il pol-
lice comincia ad assumere una funzione particolare che rende la mano
particolarmente abile nella presa. Questo sviluppo della mano implica a
sua volta uno sviluppo del cervello, all’interno di una dialettica positiva
che dall’ominide porta a sapiens. Una vota liberatosi il pollice, la mano
può agire nei modi più diversi67.
Ora, questo problema delle mani come origine dell’uomo è già pre-
sente in Aristotele e Anassagora, e Scheler, richiamando questo prece-
dente, aveva tra l’altro sostenuto che forse non vi è formazione del polli-
ce nell’uomo, bensì una sua perdita da parte di certi primati. Ma non è
su questo che intendiamo impegnarci qui. Citiamo questo dibattito solo
per fare emergere come esso fosse presente ad Heidegger. Non è quindi a

67 E. Morin, Le paradigme perdu: la nature humaine, Edition du Seuil, Paris 1973, trad. it. di

E. Bongiovanni, Il paradigma perduto. Che cos’è la natura umana, Feltrinelli, Milano, 1999,
pp. 58 sgg.

162
Differenza antropologica e animalità in Heidegger

caso che questi, nel 1952, scriva che «solo un essere parlante, ossia pen-
sante, può avere le mani e compiere così, attraverso la manipolazione,
opere della mano»68. Per Heidegger non c’è differenza tra pensare e co-
struire un armadio. Entrambi questi movimenti accadono all’interno del
linguaggio, sono resi possibili da un sistema di significati. Per esempio,
all’interno di un mondo in cui vi è la lavorazione del legno, la costruzio-
ne di abitazioni rudimentali, la raccolta delle olive, può essere scoperta la
scala, mentre un animale che occasionalmente usa delle casse per arrampicarsi
non si rapporta a un’unità di significato. Un animale può servirsi di una sca-
la, ma non può avere un rapporto con essa in quanto significato, com-
prendendola nel suo essere, tanto è vero che in circostanze sfavorevoli
non nota la scala. Un oggetto è un’unità di significato perché attorno ad
esso si concentra un mondo: la raccolta delle olive, i cicli dell’anno. La
scala non è solo un oggetto d’uso, ma un oggetto attorno a cui si orga-
nizza un mondo, la divisione del tempo, delle occupazioni, i rapporti tra
gli uomini etc. Proprio per questo «la mano è qualcosa di particolare. La
mano appartiene secondo la rappresentazione abituale al nostro organi-
smo corporeo. Ma l’essenza della mano non si lascia mai determinare
come un organo prensile del corpo, né spiegare sulla base di tale deter-
minazione. Anche la scimmia ad esempio possiede organi prensili, ma
non per questo ha le mani. La mano si distingue da ogni altro organo
prensile, come zampe, artigli, zanne, infinitamente, ossia tramite
un’abissalità essenziale»69. Ancora una volta, è il tema del linguaggio ad
essere decisivo: la mano è uno strumento per parlare, e solo un essere che
ha linguaggio può dunque avere le mani, cioè esplicitare significati implici-
tamente contenuti in un mondo, come accade nella scoperta della scala. Non
si può pensare l’origine del linguaggio a partire dalla mano, perché la
mano non c’è prima del linguaggio, prima che un mondo si sia schiuso,
né si può pensare l’origine del linguaggio a partire dal gesto, perché il ge-
sto è proprio solo di un essere che parla e che pensa. La mano è già lin-
guaggio e pensiero: «Ma l’opera della mano è più ricca di quanto non
siamo disposti a credere usualmente. La mano non soltanto afferra e
prende, non soltanto prende e urta. La mano porge e riceve, e non sol-
tanto le cose, ma anche porge se stessa e riceve se stessa nell’altra mano.

68 M. Heidegger, Was heißt Denken? (1954), trad. it. a cura di G. Vattimo, Che cosa significa

pensare. Chi è lo Zarathustra di Nietzsche, Sugarco, Milano 1978, p. 108.


69 Ivi. Di qui si potrebbe forse prendere le mosse per avviare un confronto con Plessner,

il quale aveva notato che «anche il più semplice utensile, è utensile solo nella misura in cui
è presente in esso uno stato di cose, in quanto è colto un rapporto d’essere [Seinsverhalt].
L’arma più primitiva, lo strumento più semplice diventa utilizzabile solo a queste condi-
zioni. Se si crede che le cose del nostro commercio e uso ricevano il senso integrale, la loro
intera esistenza solo a partire dalla mano del costruttore […] si vede soltanto una mezza
verità. […] L’uomo può inventare solo nella misura in cui scopre» (H. Plessner, Die Stufen
des Organischen und der Mensch, cit., p. 321). E poco oltre: «Il prius di cercare e trovare è
invece la correlatività di uomo e mondo» (ivi, p. 322).

163
Vincenzo Costa

La mano trattiene. La mano regge. La mano traccia dei segni, perché


probabilmente l’uomo è un segno. […] Ogni movimento della mano in
ciascuna delle sue opere si compie attraverso l’elemento del pensiero, in
esso si mostra come gesto»70. Un gesto è un gesto solo perché manifesta
un pensiero, e non perché soddisfa un istinto. Quando Heidegger dice
che la scimmia non possiede mani, ma solo organi prensili, egli non in-
tende dunque stabilire alcun principio di valore, bensì solo indicare che
la mano appartiene al linguaggio. Per questo le osservazioni di Jacques
Derrida non sono forse del tutto pertinenti. Egli, riferendosi al discorso
appena accennato, ha notato: «Dogmatico nella forma, questo enunciato
tradizionale presuppone un sapere empirico o positivo i cui titoli, prove
e contrassegni non vengono però mostrati. Come la maggior parte di co-
loro che parlano dell’animalità da filosofi o da persone di buon senso,
Heidegger non tiene in gran conto un certo tipo di “sapere zoologico”,
sapere che si accumula, si differenzia e si affina intorno a quanto è pola-
rizzato dal termine così generale e confuso di animalità»71. Heidegger par-
lerebbe dunque con un eccesso di generalità dell’animale, dimenticando
che vi sono animali assai diversi. Si tratta di una critica che non coglie il
nucleo del problema. Ciò che Heidegger sta avanzando non è un pro-
blema relativo alle differenze tra gli animali, o tra gli animali e l’animale
umano, bensì la specificità dell’essere umano. Solo quest’ultimo è una
creazione del linguaggio, cosicché solo lui può avere le mani. Ma soprat-
tutto non deve sfuggire qual è la posta in gioco per Heidegger: la natura-
lizzazione del concetto di mondo e del linguaggio stesso.
In questo modo, abbiamo visto che Heidegger tende a accentuare la
discontinuità, poiché in ogni continuità egli sembra vedere il pericolo di
una ricaduta naturalistica. Nella sua critica della prospettiva trascendenta-
le, così come dell’impostazione di Lotze che con il naturalismo aveva
rotto, egli individua un al di qua e un al di là della critica. Accetta l’idea
che l’uomo viva in un mondo di significati, ma questi non sono eterni.
L’uomo non partecipa di una ragione eterna, ma è consegnato ad apertu-
re storiche. E questo implica il rifiuto di una determinazione eternistica
dell’essenza dell’uomo, che è una conseguenza della maniera in cui è sta-
ta determinata la sua differenza dagli altri viventi. Se l’uomo fosse diffe-
rente dall’animale perché partecipa di un regno di valori intemporali, al-
lora, dato che la sua peculiarità consiste solo in questa partecipazione, la
sua essenza sarebbe immutabile, come la razionalità che lo differenzia
dagli altri viventi. Da questi esiti Heidegger intende allontanarsi, ma non
per riprendere la tematica secondo cui l’uomo è un essere “instabile” in
quanto la sua natura biologica è instabile. La tematica di Nietzsche, e in

70 M. Heidegger, Che cosa significa pensare, cit., p. 109.


71 J. Derrida, «La main de Heidegger (Geschlecht II)», trad. it. di G. Scibilia e G. Chiu-
razzi, La mano di Heidegger, a cura di M. Ferraris, Laterza, Bari, 1991, p. 48.

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Differenza antropologica e animalità in Heidegger

fondo caratteristica dell’antropologia filosofica, andrà invece ripresa nel


senso che l’uomo è instabile perché è storico, perché è temporale nel fondo
del suo essere. E ciò vorrà dire che l’essenza dell’uomo potrà essere de-
terminata soltanto riflettendo sulla natura del tempo e del linguaggio e su
che cosa vuol dire che l’uomo parla e che si rapporta al tempo.

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