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di Vincenzo Costa
*
Felice Cimatti ha letto e commentato una prima versione di questo saggio. Gli sono
debitore per i molti suggerimenti e per un’infinità di sollecitazioni, ma soprattutto per a-
vermi fatto comprendere che la problematica dell’animalità può essere un degno terreno di
ricerca filosofica.
1 M. Heidegger, Kant und das Problem der Metaphysik (1929), Klostermann, Frankfurt a.M.,
1973, trad. it. a cura di V. Verra, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Bari, 1985, p. 11.
2 Così Helmuth Plessner, nella prefazione alla seconda edizione del suo Die Stufen des Or-
ganischen und der Mensch, ha notato che «l’analisi esistenziale non può tuttavia essere intesa
come un mero procedimento relativo all’elaborazione dell’ontologia fondamentale, perché
– secondo Heidegger – l’essere umano, la sua essenza o natura si determina soltanto a par-
tire dal suo rapporto (che si trasforma storicamente) all’essere» (H. Plessner, Die Stufen des
Organischen und der Mensch. Einleitung in die philosophische Anthropologie (1928), de Gruyter,
Berlin, 1975, p. x).
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3 M. Heidegger, «Brief über den Humanismus» (1946), trad. it. di F. Volpi, «Lettera
liana, un tema su cui non è possibile indugiare in queste pagine, si veda U. Regina, «Per
una soggettività non più animale. Heidegger critico di Husserl», in Giornale di metafisica,
XIV, 1, 1992, pp. 67-84.
5 M. Scheler, «Zur Idee des Menschen» (1913), trad. it. di R. Padellaro, «Sull’idea
dell’uomo», in La posizione dell’uomo nel cosmo, a cura di M.T. Pansera, Armando, Roma,
1999.
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6 Ivi, p. 69.
7 Ivi, p. 73.
8 Ivi, p. 72.
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valori che sono indipendenti da quelli vitali, cioè i valori del sacro e i valo-
ri spirituali»9.
Ora, rispetto a chi aveva visto l’emergere dell’intelligenza come un
faux pas della natura, come l’inizio di una malattia chiamata civilizzazio-
ne, come una via senza uscita imboccata dalla vita, Scheler vede in essa
l’affermarsi di un essere che si rapporta a dei valori, a delle unità di signi-
ficato, e tra queste una in particolare, decisiva per il costituirsi del-
l’umano: l’idea di Dio: «Un quid nuovo, relativo all’essenza e alla specie
– e non al grado – appare non nell’Homo naturalis, ma solo nell’uomo
“storico”, in relazione con Dio; in quell’uomo che acquista una sua unità
solo in virtù di ciò che deve essere e diventare: e precisamente in virtù
dell’idea di Dio, di una persona infinita e perfetta»10. Solo con l’apparire
dell’idea di Dio emerge qualcosa come l’uomo in quanto spirito, in
quanto essere che si rapporta intenzionalmente a un mondo di valori tra-
scendenti, cioè non rinvenibili nella struttura biologica ed istintuale.
Niente, dal punto di vista della conformazione anatomica, del funzio-
namento neurofisiologico, giustifica e dà ragione del rapportarsi a Dio.
Gli animali non credono in Dio, e neanche possono essere atei. Solo
nell’uomo emerge questo problema. Di qui la definizione che dell’uomo
Scheler si sente di dare: «L’“uomo”, inteso in questo senso del tutto nuo-
vo, è l’intenzione e il gesto della “trascendenza” stessa, l’essere che prega
e cerca Dio»11.
È contro questa determinazione dell’umano che Heidegger dirige la
propria vena polemica già nelle lezioni del 1923, dove nota che in questo
modo Scheler «pesca a caso nella vecchia teologia […], ma mentre i vec-
chi teologi almeno vedevano che si trattava di teologia, Scheler capovol-
ge tutto e in questo modo corrompe sia la teologia, sia la filosofia. Que-
sto metodo dello specifico distogliere lo sguardo dall’effettivo è applicato
nel libro con grande acume»12. Il procedere di Scheler va dunque secon-
do Heidegger rifiutato perché, nonostante l’apparenza, non procede fe-
nomenologicamente, non si sofferma in una descrizione paziente
dell’esistenza effettiva. Al contrario, sotto l’apparenza di un’esplicitazio-
ne intenzionale vengono semplicemente proiettate categorie di origine
teologica che non emergono dal reperto fenomenologico. In particolare,
ciò che dell’impianto di Scheler deve essere rifiutato è l’idea che sottende
a quelle considerazioni: che l’uomo concreto sia una dualità. Da una par-
9 M. Scheler, Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik. Neuer Versuch der
Grundlegung eines ethischen Personalismus, Francke Verlag, Bern 1980, trad. it. di G. Caronel-
lo, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale del valori, San Paolo, Milano, 1996, p. 356.
10 M. Scheler, «Sull’idea dell’uomo», cit., p. 77.
11 Ivi, p. 67.
12 M. Heidegger, Ontologie (Hermeutik der Faktizität), Klostermann, Frankfurt a.M., 1988,
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13 M. Scheler, «Die Stellung des Meschen im Kosmos» (1928), trad. it. di R. Padellaro,
1975, trad. it. di R. Cristin e A. Marini, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, Il Melan-
golo, Genova, 1999, p. 163.
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mann, Frankfurt a.M., 1983, trad. it. di P. Coriando, Concetti fondamentali della metafisica.
Mondo – finitezza – solitudine, a cura di C. Angelino, Il Melangolo, Genova, 1992.
16 M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), Niemeyer, Tübingen, 198415, trad. it. di P. Chiodi,
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17 A. MacIntyre, Dependent Rational Animals. Why Human Being Need Virtues, Carus Pu-
blishing Company, 1999, trad. it. M. D’Avenia, Animali razionali dipendenti. Perché gli
uomini hanno bisogno delle virtù, Vita e Pensiero, Milano, 2001, p. 48.
18 W. Köhler, The Mentality of Apes, Routledge & Kegan, London 1921, trad. it. di G. Pet-
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21 Guido Petter nota lucidamente che gli animali studiati da Köhler «giungono a scoprire
o a stabilire fra un oggetto ed un altro dei rapporti di ordine spaziale e dinamico, che uti-
lizzano poi per modificare a proprio favore la situazione, solo a condizione che tali oggetti sia-
no entrambi percettivamente presenti (è questo il primo dei limiti dell’intelligenza senso-
motoria). Se uno di essi è introdotto nel campo percettivo un certo tempo dopo che ne è
stato escluso l’’altro, il rapporto fra i due oggetti non viene più stabilito, e l’animale non si
dedica in genere alla ricerca attiva dell’oggetto che non è più visibile, e che in relazione col
primo potrebbe assumere la funzione di uno strumento» (G. Petter, «Il significato delle
ricerche di Köhler sugli scimpanzè», in W. Köhler, op. cit., p. XX).
22 Köhler sembra invece in certi momenti confondere i due aspetti del problema. Per e-
sempio, quando allude al fatto che anche per l’essere umano la labilità della forma, per
esempio nel caso di una sedia pieghevole, può produrre gli stessi effetti di imbarazzo che
sembrano caratterizzare lo scimpanzè intento a innestare una canna sull’altra quando «for-
tuitamente, le canne sono poste nella sua mano in un certo modo, sono cioè quasi paralle-
le e si incrociano formando una X molto allungata» (W. Köhler, op. cit., p. 119). In questo
Heidegger resta allievo di Husserl, che non si era voluto fermare a una fenomenologia ile-
tica, considerando decisiva un’analisi degli atti e dei correlati noematici, mentre Köhler
sembra in effetti proprio risentire dell’impostazione di Carl Stumpf e di quella che po-
tremmo definire una fenomenologia empirica. Infatti, se volessimo dirlo in termini husser-
liani, l’essere umano sarebbe caratterizzato dalla capacità di avere atti posizionali, atti dos-
sici in senso autentico, mentre l’animale sarebbe ancorato alle forme sensibili, e dunque
incapace di cogliere il senso oggettuale. Per l’animale non vi sono noemi, e non vi sono
perché gli restano interdetti gli atti posizionali.
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trad. it. di U.M. Ugazio, Logica. Il problema della verità, Mursia, Milano, 1986, p. 71.
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mondo in cui non ci sono mezzi per scriverci sopra, in cui non esiste la
cultura della scrittura in senso ampio e qualcosa come l’addestramento
scolastico, l’uso e il significato della lavagna non può emergere, né può
essere compreso. Il che significa che i significati non abitano l’interiorità
tabernacolare di una coscienza, bensì il mondo, il quale è dunque, per
un essere umano, la totalità delle sue possibilità d’azione, la totalità di ciò che
può fare, pensare, desiderare27.
Ora, che il mio mondo sia la totalità delle mie possibilità d’azione si-
gnifica che per l’essere umano, a differenza di quanto aveva pensato la
tradizione, rapportarsi a se stesso non significa rapportarsi riflessivamente a
un soggetto atemporale, a un nucleo di identità che si mantiene costante
e che accompagna tutte le mie rappresentazioni, bensì al proprio poter-
essere, cioè alla proprie possibilità d’azione, e quindi al proprio aver-da-
essere a partire dal proprio aver già e dal proprio esser-già. Noi ci rappor-
tiamo a noi stessi rapportandoci al nostro futuro, consumando le nostre possibili-
tà. Ed è solo per questo che un essere umano può sentirsi divorato dal
tempo, avvertire il flusso del tempo come qualcosa che consuma la sua
esistenza, come lo svanire di possibilità d’esistenza ed infine dell’esi-
stenza stessa. E queste possibilità non sono nella mente, intrapsichiche,
oppure nel cervello: sono nel mondo, storicamente determinate. Di con-
seguenza, esistere per l’uomo non significa soltanto vivere, essere qualco-
sa di presente, ma rapportarsi a se stesso in quanto poter-essere, cioè non
come a una realtà, ma come a una possibilità28. Per questo Heidegger ritiene
debba essere considerata non sufficientemente radicale la nozione stessa
di “persona”, e che diventi centrale per l’essere umano il rapporto con
quella possibilità che, realizzandosi, annullerà tutte le altre possibilità,
poiché rapportandoci alla morte ci rapportiamo a noi stessi in quanto
totalità. Solo perché è in un mondo di possibilità e perché dunque è pos-
sibilità nel fondo del suo essere, l’essere umano può, unico tra gli enti,
rapportarsi a se stesso come a una totalità, che è quanto accade
nell’esperienza della morte intesa come la possibilità più certa per un es-
sere umano, e dunque costitutiva del suo essere in quanto ente finito.
Vorremmo dire: è perché si rapporta a se stesso come a una totalità finita
che l’essere umano rompe con l’ordine naturale. Mentre dall’organismo
più primitivo al primate più simile all’uomo vige la stessa regola: “man-
consistite nell’avere mostrato che «l’autocoscienza dell’uomo non deve essere compresa
come riflessione dell’io su se stesso, bensì come un riferimento alla vita che sta davanti
[auf das bevorstehende Leben]» (E. Tugendhat, «Zeit und Sein in Heideggers “Sein und
Zeit”», in Id., Aufsätze 1992-2000, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 2001, p. 189).
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29 Traiamo questa suggestione da D.C. Dennett, Darwin’s dangerous idea. Evolution and the
meanings of life, Simon and Schuster, New York 1995, trad. it. a cura di S. Frediani, L’idea
pericolosa di Darwin. L’evoluzione e i significati della vita, Boringhieri, Torino, 1997, p. 419.
30 Lettera di Heidegger a Husserl del 22 ottobre 1927, in E. Husserl, Phänomenologische
Psychologie, Nijhoff, Den Haag, 1962, trad. it. di R. Cristin, in E. Husserl – M. Heidegger,
Fenomenologia, Unicopli, Milano, 1999, p. 145.
31 M. Heidegger, Metaphysische Anfangsgründe der Logik, Klostermann, Frankfurt a.M.,
1978, trad. it. di G. Moretto, Principi metafisici della logica, Il Melangolo, Genova, 1990, p.
289.
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Sprache, un corso del semestre estivo del 1934, Heidegger nota che «pie-
tre, piante e animali sono, conformemente al calcolo [rechnungsmässig],
nel tempo, ma non sono temporali nel senso che in ciò si mostri il loro
proprio essere»32. Dunque: si dà differenza ontologica solo sin quando e
perché si dà differenza antropologica, e la peculiarità dell’essere umano
consiste nel suo stare sotto il dominio del tempo, mentre gli altri viventi
non vengono intaccati nel loro presente da quel nulla o non essere che è
il futuro, e proprio per questo vivono nella realtà e non nella possibilità.
Nell’azione non ne va del loro proprio essere, perché agire non significa
per loro determinare chi sono, prendere posizione o posto nel mondo. Proprio
per questo – chiarisce Heidegger nei Principi metafisici della logica –
«l’essenza metafisica dell’esserci in quanto trascendente è la sola ad avere
la possibilità di procurare all’ente diverso da sé l’ingresso nel mondo»33.
Rapportandosi a se stesso come a delle possibilità da consumare, l’uomo
si rapporta alle cose che possono essere utilizzate, poiché esse sono la
maniera in cui uso le mie possibilità. L’in quanto, il senso oggettuale di
un utensile è per l’uomo una possibilità d’azione. Per questo esse diven-
gono ciò che sono, si manifestano nel loro essere, all’interno di
un’apertura di senso. Fuori di questa, in sé, non sono niente. Ricollegan-
doci alle incisive riflessioni di Ernst Tugendhat, possiamo dire che qual-
cosa come l’apertura «si fonda per Heidegger nel rapporto dell’esserci
con se stesso, quindi nell’esistenza. Si può forse illustrare questa idea
senza dubbio strana in questo modo: solo dove un ente ha un rapporto
pratico con se stesso, esso ha qualcosa come un’apertura»34. Heidegger
definisce l’essere umano non a partire dalla coscienza, o detto in maniera
più attuale, della mente, bensì a partire da un’apertura rappresentata da
possibilità pratiche d’azione. Proprio per questo l’esserci non si riferisce a
singoli enti, a singoli oggetti, ma si muove all’interno di una totalità di
possibilità d’azione, e agendo determina se stesso, si espone alla riuscita o
alla perdita, al senso o al non senso. Per questo, solo a un essere umano
la vita nella sua totalità può apparire sensata o insensata. Al contrario –
lo vedremo – l’animale non ha un mondo, non ha strumenti, e, secondo
Heidegger, non ha le mani.
32 M. Heidegger, Logik. Die Frage nach dem Wesen der Sprache, Klostermann, Frankfurt
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alle emozioni degli animali e al loro rapporto con il tempo, e cioè se gli
animali possano essere in una situazione emotiva, che è certamente de-
terminante nell’aprire un mondo. In particolare, egli aveva notato che «è
un problema a sé il modo in cui lo stimolo e la modificazione dei sensi so-
no da intendere ontologicamente in un essere semplicemente-vivente,
nonché se e in qual modo, in generale, l’essere degli animali sia, ad e-
sempio, costituito da un tempo»35. Benché dunque già abbozzato, prepa-
rato in Essere e tempo, il problema viene tuttavia affrontato in maniera e-
splicita e specifica a partire dalle lezioni tenute nel semestre invernale
1929/30, e poi ripresa con una certa insistenza negli scritti e nelle lezioni
successive.
Nella discussione sull’animalità un ruolo decisivo aveva tradizional-
mente giocato la nozione di istinto36. Quest’ultimo sembra caratterizzare
la vita animale, e Heidegger la riprende, ma non per contrapporla a quel-
la di abitudine e di intelligenza, tracciando dunque attraverso questi con-
cetti la differenza tra l’animale e l’essere umano, bensì per contrapporla a
quella di stimolo, una nozione di cui con tutta evidenza Heidegger diffi-
da in profondità, e con essa l’intero impianto comportamentista e
l’interpretazione dell’azione come risposta. Una concezione che deve es-
sere rifiutata non solo riguardo alla vita umana, ma al vivente in generale.
Infatti, l’istinto rappresenta nell’animale ciò che il progetto o l’apertura
interpretativa è nella vita umana e storica. Esso è un tipo di informazione
inerente alla vita, differente dall’in-formazione che ha luogo quando un
essere è in un mondo. Così come l’esserci non ha a che fare con stimoli,
bensì con oggetti d’uso che sono tali all’interno di un mondo, neanche
un animale ha a che fare con meri stimoli, perché siamo di fronte a una
messa in forma istintuale degli stimoli, dato che l’istinto produce una regola-
zione che ordina la sequenza dei possibili stimoli sulla base di «un istinto
fondamentale che incita e stimola attraversando l’intera sequenza degli
stimoli»37. Ciò che può penetrare nell’ambito ambientale dell’animale è
dunque determinato dall’istinto, mentre nel caso dell’essere umano ciò
che appare è determinato dall’apertura storica di un mondo, cosicché un
greco e noi, pur avendo identiche informazioni genetiche, viviamo in
mondi differenti: noi siamo esseri storici nel fondo del nostro essere. Dove vi è
uomo vi è storia e dove vi è storia vi è uomo. Questi due concetti, presi
in senso pregnante, circoscrivono l’unità di una costellazione concettua-
le.
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38 Ivi, p. 299.
39 Ivi, p. 304.
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40 Ivi, p. 305.
41 Su questo tema si veda H. Bergson, Les deux sources de la morale et de la religion (1932),
trad. it. di A. Pessina, Le due fonti della morale e della religione, Laterza, Bari, 1995.
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Qui si potrebbe certo osservare che non è lecito estendere queste con-
siderazioni sulle api agli animali superiori. In effetti, un gorilla vede le
termiti, il bastoncino, e usa quest’ultimo per cibarsi. Ma questo vuol dire
solo che il gorilla ha un mondo percettivo più ampio dell’ape. In questo
mondo di forme percettive non vi è tuttavia spazio per sensi oggettuali,
cioè, nel linguaggio di Heidegger, per l’apparire dell’essere della cosa, del-
la cosa nel suo in quanto, perché nel mondo animale il bastoncino diventa
uno strumento utile solo quando l’istinto permette di scoprirlo in questa funzione.
Ma al di là di questa scoperta istintuale, e dunque legata al presente, che
dura finché l’istinto spinge in una certa direzione, quel bastoncino non è
un mezzo atto a…, mentre per un essere umano una penna è uno stru-
mento, se ne comprende l’uso possibile anche quando niente lo sollecita a
usarla in questo senso. Per questo Heidegger può dire che «nello stordimen-
to l’ente per il comportamento dell’animale non è manifesto, non è di-
schiuso, ma appunto per questo neppure chiuso. […] Lo stordimento è
l’essenza dell’animale, vuol dire: in quanto tale l’animale non si trova in una
manifestatività dell’ente. Né il suo cosiddetto ambiente, né esso stesso sono mani-
festi in quanto enti. Poiché a causa del suo stordimento e della totalità delle
sue abilità l’animale è messo in ciclo all’interno di una molteplicità di
istinti, non ha sostanzialmente la possibilità di entrare in relazione con
l’ente che esso stesso non è, così come con l’ente che esso stesso è»44. Le
cose non possono manifestarsi all’animale perché questi non può riferirsi
alla vita che gli sta davanti, perché non ha un aver-da-essere, e dunque
non è aperto al futuro. Di conseguenza, il mondo dell’animale non è costitui-
to dagli enti, cioè da unità di senso, bensì dal cerchio istintuale. E questo è
del resto la conseguenza del fatto che l’istinto svolge nell’animale la fun-
zione che il mondo svolge nell’uomo.
Sul carattere fondamentale dell’istinto Heidegger è estremamente chia-
ro, e non si accontenta di un generico richiamo, poiché vuole fare emer-
gere il carattere unitario della vita istintuale, dato che ogni istinto è in sé
determinato da un venir-sospinto verso gli altri istinti. Da questo cerchio
istintuale l’animale non può uscire, e qualcosa può entrare
nell’esperienza dell’animale solo se può inserirsi in esso. Infatti,
«l’animale, in ogni suo comportamento, non può mai autenticamente en-
trare in relazione con qualcosa in quanto tale. L’animale è circondato dal cer-
chio del reciproco venir-sospinto-verso dei suoi istinti»45. Per l’animale
l’ente esiste solo in quanto è correlato all’istinto, ma non è niente al di
fuori di questo rapporto all’istinto. Esso viene colpito da qualcosa, ma
questo qualcosa non si manifesta in quanto qualcosa, in quanto sole, al-
veare, bastoncini per termiti. Vi è un essere stimolato che si innesta
all’interno del cerchio dell’istinto. Essendo l’animale avvolto dall’istinto,
44 Ivi, p. 317.
45 Ivi, p. 319.
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Differenza antropologica e animalità in Heidegger
46 Ivi, pp. 324-325. Qui Heidegger segue del resto Scheler, secondo cui «lo stimolo sen-
soriale li limita a liberare il corso rigidamente ritmico dell’attività istintiva, senza però de-
terminare le modalità di tale corso. Stimoli sensoriali olfattivi, o stimoli sensoriali ottici,
possono anche liberare una stessa attività: per cui le sensazioni che producono tale libera-
zione non debbono neppure aver il medesimo modo, per così dire la medesima qualità. È
tuttavia valida l’affermazione contraria: ciò che un animale può rappresentarsi o sentire, è
determinato e dominato a priori dalla relazione dei suoi istinti innati alla struttura
dell’ambiente» (M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., pp. 127-128).
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conda se stesso con un cerchio disinibente, nel quale è prescritto che cosa
può colpire, come occasione motrice, il suo comportamento»47.
Né l’animale, come abbiamo prima accennato, ha un rapporto con il
tempo. Ora, di per sé questo non è ovvio, ed Heidegger prende in consi-
derazione il fatto che le scienze naturali parlano di un senso del tempo
presente negli animali. In effetti, «se gli animali hanno un senso del tem-
po, se il loro accadere vivente non decorre soltanto nel tempo, ma il vi-
vente stesso ha un senso per il tempo e si dirige conformemente al tempo
ed è determinato dal tempo, allora il tempo in quanto temporalità non è
un determinazione distintiva dell’uomo e riservata all’uomo»48. E del re-
sto, il fatto che gli uccelli inizino a costruire il nido in certi momenti, che
volino in un certo momento verso il sud, non testimonia innegabilmente
che essi hanno un senso del tempo? Per Heidegger, tutto ciò non dimo-
stra nulla. Questi dati osservativi devono essere interpretati nel senso già
chiarito del cerchio disinibente: vi sono stati atmosferici, climatici etc.,
che ridestano e attivano strutture istintuali. Gli animali non percepiscono
le stagioni dell’anno, non si rapportano ad esse, ma a meri mutamenti
climatici. La posizione di Heidegger non rifiuta quindi la ricerca empiri-
ca, la prende invece sul serio sul suo stesso terreno, interrogandosi però
sui suoi presupposti metafisici: «Attraverso ricerche sul senso del tempo
degli animali non viene dimostrato che gli animali hanno un tale senso e
un rapporto con il tempo. Il senso del tempo non è un risultato scientifi-
co, bensì viene presupposto prima di ogni ricerca con una affermazione
metafisica pre-afferrante sulla base di una supposta acritica corrispondenza
tra l’essere animale e l’uomo»49. In realtà, che soltanto l’uomo abbia un
senso del tempo, può emergere da un fatto abbastanza semplice: che solo
di un essere umano diciamo che sta perdendo tempo: «solo l’uomo ha
tempo o non ha tempo, solo l’uomo perde tempo»50. E per questo solo
l’essere umano può esperire qualcosa come l’angoscia di fronte alla mor-
te, dunque la propria finitezza, o la noia, e cioè un tempo che non passa
e che non si sa come far passare, che sono appunto le analisi con cui
Heidegger, non a caso, apre le lezioni del 1929-30.
L’animale è dunque equipaggiato con una serie di istinti, e questi pre-
delineano che cosa può fungere da occasione motrice per lo scatenarsi di
un certo istinto. Il sole entra come occasione motrice nel cerchio am-
bientale dell’ape solo nella misura in cui, all’interno dell’istinto del ritor-
no, non è presente il profumo o altri segni ambientali che servano a met-
tere in moto un certo istinto o mettersi al servizio dell’istinto fondamen-
tale del ritorno. Il polline è solo l’occasione che mette in moto l’istinto
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Differenza antropologica e animalità in Heidegger
6. Il linguaggio e il tempo
Questo cerchio è stato spezzato con l’uomo, che vive all’interno di
una rete di rimandi tra unità di significato, e al cui interno le unità di si-
gnificato possono manifestarsi. E le ragioni – lo abbiamo visto – vengo-
no da Heidegger individuate appunto nella metafisica dell’esserci, nella
peculiare relazione che l’essere umano intrattiene con se stesso e dunque
con il mondo. Ma certamente resta da chiedersi: in virtù di che cosa
l’uomo ha spezzato il cerchio istintuale e ha potuto rapportarsi a se stes-
so come a un poter-essere? In virtù di che cosa si è di conseguenza aperta
la manifestatività dell’ente?
Heidegger, già nelle lezioni del 1929-30 è in direzione del linguaggio
che si avvia: è il linguaggio che apre il mondo umano, che fa sì che le cose
brillino nella manifestatività dell’essere: «Lo stordimento è (comportan-
dosi così) al contempo l’esser-assorbito della pratica, nella quale l’animale
è aperto in relazione ad altro. Se parliamo a partire dall’animale, non
possiamo concepire questo altro come ente, che possiamo comprendere
sempre e soltanto per mezzo della denominazione linguistica. Ma, anche
senza sviluppare oltre questo punto, nella denominazione linguistica è
insita già da sempre, come in ogni linguaggio, la comprensione
dell’ente»52. Questo accenno non trova tuttavia sviluppo nel corso del
1929-30, senza dubbio perché Heidegger non è ancora in grado di artico-
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53 J. Derrida, De l’esprit. Heidegger et la question, Galilée, Paris, 1987, trad. it. di G. Zaccaria,
del linguaggio in riferimento alla differenza antropologica Heidegger avvierà nel 1939 un
approfondito confronto con Herder. La documentazione di questo confronto è adesso
disponibile in M. Heidegger, Vom Wesen der Sprache. Die Metaphysik der Sprache und die We-
sung des Wortes. Zu Herders Abhandlung “Über den Ursprung der Sprache”, Klostermann, Fran-
kfurt a.M., 1999, un testo e un rapporto che non ci è possibile analizzare in queste pagine,
ma da cui un lavoro più ampio sulla differenza antropologica e la questione dell’animalità
in Heidegger non potrebbe certamente prescindere.
55 M. Heidegger, Unterwegs zur Sprache, Neske, Pfullingen, 1959, trad. it. di A. Caracciolo,
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Differenza antropologica e animalità in Heidegger
to ciò non significa affatto che essi parlino. In primo luogo perché
l’essenza del linguaggio non risiede nel comprendersi, e in secondo luogo
perché gli animali non parlano di e su qualcosa. E qui è ragionevole sup-
porre che Heidegger segua fondamentalmente Scheler, il quale aveva os-
servato che vi è una differenza fondamentale tra il linguaggio animale e
quello umano: «Tutto un mondo – scrive Scheler – separa però anche la
parola più primitiva dall’espressione. L’elemento affatto nuovo, che ap-
pare nella parola, è costituito dal fatto che questa non rimanda sempli-
cemente, come fa l’espressione, a un vissuto, ma sospinge anzitutto, e
dunque nella sua funzione primaria, verso un oggetto mondano»57. Gli ani-
mali in realtà non parlano affatto, né possono farlo, perché non dispon-
gono di parole, e non dispongono di parole perché non hanno nulla di
cui e su cui parlare58. È vero che vi sono dei segnali, attraverso i quali un
animale può per esempio avvisare i suoi simili di un pericolo incomben-
te, ma questo non è linguaggio, perché non vengono veicolati significati,
né si intende inclinare l’attenzione degli altri animali verso il pericolo,
inteso come un oggetto di cui si sta parlando. Secondo Scheler, «il mo-
vimento espressivo può solo diffondere su tutto il branco, mediante un
contagio psichico, lo stato d’animo che esso esprime. In questo caso non
si può parlare neanche di una vera forma di partecipazione, nel senso che
l’espressione indichi delle circostanze pericolose, e che questa indicazione
venga appunto “compresa”»59. Nel caso del segnale animale non vi è co-
municazione, perché non vi sono significati che vengano comunicati. Vi
è solo un segnale che attiva delle reazioni psichiche in tutto il branco, e
queste reazioni psichiche sono istintuali: «Ai vegetali e agli animali –
l’influsso di Von Humboldt, che Scheler cita ripetutamente, e in particolare dell’idea se-
condo la quale perché l’uomo possa veramente comprendere una sola parola, non come
semplice impressione sensibile, ma come suono articolato che designa un concetto, il lin-
guaggio deve già esistere in lui in tutta la sua coerenza. Del resto, l’idea secondo cui agli
animali è negato l’accesso alla parola rappresenta una caratteristica dell’intera tradizione
ermeneutica, così come giunge ad esprimersi sino a Gadamer, secondo il quale «di un lin-
guaggio degli animali si può parlare solo per aequivocationem» (H.G. Gadamer, Wahrheit und
Methode, J.C.B. Mohr, Tübingen, 1960, trad. it. di G. Vattimo, Verità e metodo, Bompiani,
Milano, 1994 p. 509). Il che non significa che l’uomo sia vincolato a uno specifico lin-
guaggio. Ricollegandosi alla tradizione dell’antropologia filosofica, Gadamer ha notato che
questa ha mostrato «che la struttura linguistica del mondo non significa affatto che l’uomo
sia prigioniero di un ambiente rigidamente schematizzato nel linguaggio» (ivi, p. 508).
58 Quest’idea non deve necessariamente significare che prima deve esserci un mondo di
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Vincenzo Costa
che si è recentemente delineata in alcuni autori della filosofia analitica quali Donald Davi-
dson e John McDowell, i quali tracciano la differenza antropologica proprio ricorrendo al
linguaggio, ma inteso in quanto totalità di atteggiamenti proposizionali (cfr. per esempio
D. Davidson, «Rational Animals», trad. it. di S. Gozzano, «Animali razionali», in S. Goz-
zano, a cura di, Mente senza linguaggio. Il pensiero e gli animali, Editori Riuniti, Roma, 2001,
pp. 119-132 e J. McDowell, Mind and World, Harvard, 1994, trad. it. di C. Nizzo, Mente e
mondo, Einaudi, Torino, 1999, pp. 123 sgg.). L’avvio di un confronto, che è forse sempre
più necessario, dovrebbe invece probabilmente prendere le mosse dall’idea secondo cui
l’essere umano, parlando, si rapporta alla nozione di verità, intesa come un che di primiti-
vo.
63 M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, cit., p. 279.
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Differenza antropologica e animalità in Heidegger
sviluppare in queste pagine, secondo cui l’atto originario del parlare non
è la struttura giudicativa, bensì il puro denominare poetico, l’onomazein64.
In questo senso, secondo Heidegger, la gradevolezza della valle, il ma-
re tempestoso, l’esserci delle macchine, l’agire storico, il lavoro scientifico
– «tutto ciò è linguaggio, ottiene e perde il suo essere solo nell’accadere
del linguaggio»65. Esse sono solo in quanto appaiono come un significa-
to, nella luce di una comprensione, e l’apparire di significati è linguaggio.
Ma se così stanno le cose, «il linguaggio è il regnare del medium [Mitte]
che è formatore di mondo [weltbildenden] e che preserva [bewahrenden]
l’esserci storico di un popolo»66. Dal punto di vista filosofico, questa fra-
se ha un significato assai peculiare: adesso non è più l’uomo ad essere forma-
tore di mondo, bensì il linguaggio. L’uomo si rapporta al tempo e a se stesso
perché cade sotto il dominio del linguaggio. Ma ciò significa che l’essere
umano ha perduto la sua posizione di privilegio nella totalità dell’essere,
e con ciò viene meno la nozione stessa di differenza antropologica, o la
metafisica dell’esserci. Dobbiamo invece dire che la sua posizione gli
viene assegnata dalla sua appartenenza al linguaggio. È perché parla che è
un esserci, un essere nel mondo, dunque formatore di mondo, e non perché è uomo
che parla. Lo spostamento è decisivo. Non è in virtù di una determinata
differenza antropologica che vi è differenza ontologica, e dunque che vi
è mondo. Al contrario: vi è differenza antropologica solo in quanto
l’uomo appartiene al linguaggio, nella misura in cui l’uomo viene investito
dalla luce dell’essere. Se è vero che, per dirla con Nietzsche, l’uomo è
l’unico ente che può promettere, ciò accade perché è una promessa del
linguaggio. È il linguaggio che apre un mondo al cui interno l’essere u-
mano può soggiornare. Con questa frase possiamo considerare conclusa
una fase, e cogliere l’aprirsi di un’altra. Qui il problema diviene: “qual è il
modo d’essere del linguaggio?”, invece di quella: “qual è il modo d’essere
p. 106. Una descrizione del carattere di mezzo caratteristico del mondo umano condur-
rebbe probabilmente a considerare ogni mezzo un’opera d’arte. Heidegger ha del resto
indicato questa possibile considerazione: «La pietra è priva di Mondo. Piante e animali
sono egualmente senza Mondo. Essi appartengono al velato afflusso di un ambiente di cui
fanno parte. La contadina, al contrario, ha un mondo, perché soggiorna nell’aperto
dell’ente. Il mezzo, col suo affidamento, dà a questo Mondo una necessità e una vicinanza
appropriate. Con l’aprirsi di un Mondo, ogni cosa acquista il ritmo del suo sostare e del
suo muoversi, la sua lontananza e la sua vicinanza» (M. Heidegger, «Der Ursprung des
Kunstwerkes» (1936), trad. it. di P. Chiodi, «L’origine dell’opera d’arte», in Sentieri interrotti,
La Nuova Italia, Firenze, 1985, p. 30).
65 M. Heidegger, Logik. Die Frage nach dem Wesen der Sprache, cit., p. 169.
66 Ivi. Qui non ci impegniamo, ma non per mancanza di vigilanza critica, sul senso poli-
tico di questa frase, pronunciata nel 1934 e in un momento importante della storia politica
di Heidegger. La decostruzione e la critica della deriva politica di certe affermazioni di
Heidegger incombe ancora come un compito inderogabile, ma ciò non deve – credo –
impedirci di cogliere gli elementi fenomenologicamente descrittivi della sua ricerca filoso-
fica.
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Vincenzo Costa
7. Il gesto e la parola
Su un punto è però forse utile indugiare. Se la questione si sposta sul
piano del linguaggio, con essa si sposta anche il fronte della possibile na-
turalizzazione. Un naturalismo attrezzato riproporrà la questione dell’es-
sere natura dell’uomo cercando di mostrare l’origine naturale del lin-
guaggio. Se giungiamo a ravvisare la differenza antropologica nel lin-
guaggio, nella misura in cui possiamo mostrare come il linguaggio sia sor-
to attraverso processi naturali, attraverso tappe evolutive, giungiamo a
ribadire il fatto che l’uomo deve essere pensato come un essere che sta
dentro la natura, come un prodotto del processo evolutivo. Lungo que-
sto percorso, giunge ad assumere una posizione centrale la questione della
mano.
A una posizione secondo cui l’uomo emerge con il linguaggio, e il lin-
guaggio emerge con l’uomo, cosicché l’essere del linguaggio resta un e-
nigma, una posizione naturalistica ribatterà che certo è più sensato pen-
sare che sia il linguaggio ad avere creato l’uomo, e non l’uomo il linguag-
gio, a condizione di aggiungere che l’ominide ha creato il linguaggio. Ed
in questo processo attraverso cui l’ominide crea il linguaggio, un ruolo
centrale gioca la mano, o meglio il divenire mano della mano. Si potreb-
be infatti sostenere che il processo di formazione dell’uomo, e dunque
l’apparire di un essere che ha un mondo, che è formatore di mondo, av-
viene attraverso un progressivo formarsi della mano. In particolare, il pol-
lice comincia ad assumere una funzione particolare che rende la mano
particolarmente abile nella presa. Questo sviluppo della mano implica a
sua volta uno sviluppo del cervello, all’interno di una dialettica positiva
che dall’ominide porta a sapiens. Una vota liberatosi il pollice, la mano
può agire nei modi più diversi67.
Ora, questo problema delle mani come origine dell’uomo è già pre-
sente in Aristotele e Anassagora, e Scheler, richiamando questo prece-
dente, aveva tra l’altro sostenuto che forse non vi è formazione del polli-
ce nell’uomo, bensì una sua perdita da parte di certi primati. Ma non è
su questo che intendiamo impegnarci qui. Citiamo questo dibattito solo
per fare emergere come esso fosse presente ad Heidegger. Non è quindi a
67 E. Morin, Le paradigme perdu: la nature humaine, Edition du Seuil, Paris 1973, trad. it. di
E. Bongiovanni, Il paradigma perduto. Che cos’è la natura umana, Feltrinelli, Milano, 1999,
pp. 58 sgg.
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Differenza antropologica e animalità in Heidegger
caso che questi, nel 1952, scriva che «solo un essere parlante, ossia pen-
sante, può avere le mani e compiere così, attraverso la manipolazione,
opere della mano»68. Per Heidegger non c’è differenza tra pensare e co-
struire un armadio. Entrambi questi movimenti accadono all’interno del
linguaggio, sono resi possibili da un sistema di significati. Per esempio,
all’interno di un mondo in cui vi è la lavorazione del legno, la costruzio-
ne di abitazioni rudimentali, la raccolta delle olive, può essere scoperta la
scala, mentre un animale che occasionalmente usa delle casse per arrampicarsi
non si rapporta a un’unità di significato. Un animale può servirsi di una sca-
la, ma non può avere un rapporto con essa in quanto significato, com-
prendendola nel suo essere, tanto è vero che in circostanze sfavorevoli
non nota la scala. Un oggetto è un’unità di significato perché attorno ad
esso si concentra un mondo: la raccolta delle olive, i cicli dell’anno. La
scala non è solo un oggetto d’uso, ma un oggetto attorno a cui si orga-
nizza un mondo, la divisione del tempo, delle occupazioni, i rapporti tra
gli uomini etc. Proprio per questo «la mano è qualcosa di particolare. La
mano appartiene secondo la rappresentazione abituale al nostro organi-
smo corporeo. Ma l’essenza della mano non si lascia mai determinare
come un organo prensile del corpo, né spiegare sulla base di tale deter-
minazione. Anche la scimmia ad esempio possiede organi prensili, ma
non per questo ha le mani. La mano si distingue da ogni altro organo
prensile, come zampe, artigli, zanne, infinitamente, ossia tramite
un’abissalità essenziale»69. Ancora una volta, è il tema del linguaggio ad
essere decisivo: la mano è uno strumento per parlare, e solo un essere che
ha linguaggio può dunque avere le mani, cioè esplicitare significati implici-
tamente contenuti in un mondo, come accade nella scoperta della scala. Non
si può pensare l’origine del linguaggio a partire dalla mano, perché la
mano non c’è prima del linguaggio, prima che un mondo si sia schiuso,
né si può pensare l’origine del linguaggio a partire dal gesto, perché il ge-
sto è proprio solo di un essere che parla e che pensa. La mano è già lin-
guaggio e pensiero: «Ma l’opera della mano è più ricca di quanto non
siamo disposti a credere usualmente. La mano non soltanto afferra e
prende, non soltanto prende e urta. La mano porge e riceve, e non sol-
tanto le cose, ma anche porge se stessa e riceve se stessa nell’altra mano.
68 M. Heidegger, Was heißt Denken? (1954), trad. it. a cura di G. Vattimo, Che cosa significa
il quale aveva notato che «anche il più semplice utensile, è utensile solo nella misura in cui
è presente in esso uno stato di cose, in quanto è colto un rapporto d’essere [Seinsverhalt].
L’arma più primitiva, lo strumento più semplice diventa utilizzabile solo a queste condi-
zioni. Se si crede che le cose del nostro commercio e uso ricevano il senso integrale, la loro
intera esistenza solo a partire dalla mano del costruttore […] si vede soltanto una mezza
verità. […] L’uomo può inventare solo nella misura in cui scopre» (H. Plessner, Die Stufen
des Organischen und der Mensch, cit., p. 321). E poco oltre: «Il prius di cercare e trovare è
invece la correlatività di uomo e mondo» (ivi, p. 322).
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