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INTRODUZIONE AD HEIDEGGER

Essere e tempo è stato pubblicato nel 1927. Quest’opera, così come era stata progettata, doveva
essere divisa in due parti. La prima parte tratta dell’interpretazione dell’esserci in riferimento alla
temporalità e la comprensione del tempo come orizzonte trascendentale del problema dell’esserci.
Questa prima parte si suddivide in tre sezioni: l’analisi dell’esserci, esserci e temporalità, tempo ed
essere. La seconda parte riguardava invece la distruzione fenomenologica dell’ontologia e doveva
essere divisa a sua volta in altre tre sezioni dedicate rispettivamente a Kant, Cartesio e Aristotele.
Così come fu pubblicata nel 1927, l’opera si ferma alla seconda sezione della prima parte.
Essere e tempo nasce da un’idea semplice: l’essere non è (come invece sono gli enti determinati),
ma si dà, si offre, come un fenomeno che si lascia vedere al tempo stesso anche si occulta
perdendosi nella dispersione dell’esserci. Il compito di una comprensione dell’essere non spetta
però alla gnoseologia, in quanto è l’essere che si manifesta da sé stesso nello spazio d’apertura che è
l’esserci. Queste parole lasciano intuire che tutto si gioca all’interno di una trasformazione
ontologica della fenomenologia husserliana. In quest’opera di manifesta il pieno distacco di
Heidegger sia dal neokantismo ma anche dalla fenomenologia. Già nello studio su Scoto emerge il
tentativo heideggeriano di un superamento della logica e il rifiuto di considerare le categorie solo
come funzioni del pensiero. La necessità di riconoscere “l’effettività dell’esistenza”, ossia la sua
storicità, rende impossibile vedere l’uomo come un soggetto puro. Inoltre, parallelamente ad Essere
e tempo, Heidegger elabora un’interpretazione della Critica della ragion pura in esplicita polemica
con il neokantismo. Mentre per i neokantiani l’opera di Kant si risolve nella fondazione di una
teoria della conoscenza, Heidegger rivendica la centralità del problema della metafisica. Questo
allontanamento dal neokantismo corrisponde ad un avvicinamento alla fenomenologia di Husserl,
che Heidegger considera suo maestro. Heidegger vede nella fenomenologia il modo per allargare il
suo discorso nella direzione di quella “concretezza” e storicità cui alludono le ultime pagine dello
studio su Scoto. Mentre il neokantismo privilegiava la scienza, nel suo carattere matematizzante,
come unica forma di conoscenza, per Husserl l’atto conoscitivo si risolve nell’intuizione, che è un
“incontrare” le cose in carne e ossa. Inoltre per Heidegger, in linea con Husserl, il fenomeno non è
un concetto contrapposto alla cosa in sé. Il fenomeno non è, come invece pensava Kant, l’apparire
di qualcosa (un oggetto empirico) che si distingue dalla cosa in sé. Il fenomeno è per Heidegger
proprio la cosa in sé: il fenomeno è l’essere dell’ente. In un corso del 1925 intitolato Prolegomeni
alla storia del concetto di tempo, Heidegger afferma che la grande novità della fenomenologia è che
in un unico fenomeno intenzionale si raccolgono sia l’atto che intenziona sia la cosa intenzionata
(sia noesis che noema). Ma il distacco di Heidegger da Husserl si manifesta in un punto ben preciso:
Husserl ha identificato l’ente intenzionate con la coscienza intesa in senso cartesiano, ossia come
qualcosa di separato dal mondo naturale. Di conseguenza anche l’ente intenzionato viene ridotto ad
un’essenza oggettiva costituita negli atti di coscienza. Paradossalmente quello che si deve imputare
ad Husserl è di non essere stato abbastanza fenomenologo. Per esserlo bisogna interrogarsi
sull’essere dell’ente intenzionale, ma per far questo bisogna arrivare a porre anche “il problema
dell’essere stesso”. Anche Dilthey occupa un posto fondamentale in Essere e tempo. Ciò che
Heidegger apprezza di Dilthey è la centralità della vita storica, tuttavia per Heidegger bisogna
radicalizzare il concetto di vita in senso ontologico per evitare di enfatizzarla in qualcosa come una
“filosofia della vita” alla Simmel o alla Splengler. Dilthey non ha mai posto la questione sulla stessa
storicità, la questione sul senso dell’essere. Dilthey è colui che ha voluto portare la “vita” nella
comprensione filosofica assicurando a questa un fondamento ermeneutico nella vita stessa. Solo
che, quando Dilthey parla di “io” l’intende ancora sul modello della sostanza cartesiana e lo stesso
concetto di vita storica rimane indeterminato. Così ogni ricerca storica non può fermarsi a
un’indagine positiva sugli eventi del passato, né alla descrizione psicologico- trascendentale di una
coscienza storica, ma deve risalire alla questione sul senso esistenziale del tempo. Essere e tempo è
stato oggetto di numerosi fraintendimenti. Si tende a dimenticare che la questione intorno cui ruota
l’opera è l’essere, e si preferisci prestare un’attenzione esclusiva all’analisi dell’esistenza umana
che essa svolge. “Esistenzialismo” in Heidegger non significa il prevalere dell’interesse per
l’esistenza umana, il problema centrale è l’essere. Esistenzialismo sta a significare da un lato, che
questo problema gli si propone proprio a causa dell’incapacità della filosofia del suo tempo, ancora
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dominata dalla concezione classica dell’essere come semplice presenza, di pensare la storicità e la
vita nella sua effettività. D’altro canto il termine sta ad indicare che una riproposizione del
problema dell’essere può essere fatta soltanto mettendo in discussione quel fenomeno che non si
lascia mai cogliere entro le categorie metafisiche tradizionali. Essere e tempo non fu mai portato a
termine: la parte che doveva recare il titolo "Tempo ed essere" non fu scritta. Dirà successivamente
Heidegger, nella celebre Lettera sull‘umanismo del 1947, che l’opera dcl 1927 era stata lasciata in
sospeso perché il "linguaggio della metafisica", l’unico disponibile, non riusciva a esprimere in
modo adeguato la "verità dell’essere". Proprio il mancato completamento dell’opera del 1927 fu
all’origine di una serie di letture della filosofia heideggeriana che la interpretavano come una
variante dell’ "esistenzialismo", indirizzo di pensiero che era nato in Germania fra le due guerre in
relazione alla cosiddetta "rinascita kierkegaardiana", trovando poi particolare diffusione in Francia.
Destò dunque sorpresa il fatto che Heidegger, nella Lettera sull’umanismo, distinguesse nettamente
il suo pensiero da quello esistenzialistico, criticando in particolare alcune tesi sviluppate da Jean-
Paul Sartre nel saggio del 1946 L’esistenzialismo è un umanismo. In questo testo il filosofo
francese accomunava alla propria riflessione l’opera heideggenana del 1927. Alla celebre
affermazione sartriana che "siamo su un piano dove c’è solamente l’uomo" che valeva come una
presa di posizione urnanistico-atea, Heidegger replicava che, per lui, l’essenziale non è l’uomo, ma
l’essere. L’analitica esistenziale è solo il primo compito, esso consisterà nel chiarire il senso
dell’essere dell’esserci come “temporalità” ( Zeitlichkeit) e nel mostrare infine che lo stesso senso
dell’essere in generale va compreso come “temporalità originaria” (temporalitat)

L’essere dell’uomo come essere nel mondo:

La metafisica ha sempre identificato l’essere con la presenza, cioè l’obiettività. È ciò che “sussiste”,
“si dà”. Non a caso, l’essere supremo della metafisica è Dio, che è eterno, cioè presenza totale.
Poiché quindi il concetto di essere è concepito in rapporto a una determinazione temporale
specifica, il presente, la riproposizione del problema dell’essere va fatta sempre in rapporto al
tempo. E ciò avviene partendo dall’analisi di quell’ente che pone il problema domandandosi quale
sia il senso dell’essere. Per comprendere la domanda sull’essere bisogna analizzare l’essere stesso
della domanda. È come se la formula “che significa essere?” corrispondesse con quella “che vuol
dire domandare?”. Poiché l’uomo è costitutivamente apertura all'essere, e dunque ne ha sempre una
comprensione preconcettuale, interrogare l'esserci significa studiare le strutture del suo modo
d'essere, cioè l'esistenza. l’esserci umano è quell’ente che si pone problema del proprio essere e, di
riflesso, dell’essere degli enti che sono differenti dall’uomo, questo motivo Heidegger compie
un’analisi delle strutture costitutive dell’esserci. Heidegger inizia la sua analisi partendo da quella
che definisce la “quotidianità” o “medietà”. Partire dalla quotidianità significa riconoscere che
l’essere dell’uomo è caratterizzato dal trovarsi di fronte ad un insieme di possibilità e non tutte è
detto che si realizzino. Dire che l’uomo è in quanto può essere significa dire che l’essenza
dell’uomo è l’esistenza. Questo significa che l’essenza dell’uomo è non avere un’essenza.
Dobbiamo stare attenti anche al termine “esistenza” che Heidegger intende come ex-sistere, star
fuori, oltrepassare la realtà presente in direzione della possibilità. In virtù di ciò i caratteri che
l’analitica esistenziale mette in luce non possono essere definiti come “proprietà” ma come
“possibili maniere d’essere”. La prima nozione che incontriamo nell’analitica è quella di essere nel
mondo. L’uomo si rapporta a delle possibilità, questo rapporto non è però astratto ma è
concretamente situato in un mondo fatto di cose ed altre persone. Il termine tedesco per “esistenza”
è Dasein, letteralmente esser-ci. Il termine indica proprio che l’esistenza è concretamente situata, ci
è. Andando più affondo scopriamo che il mondo non è qualcosa di diverso dall’esserci, il mondo è
un esistenziale, cioè un carattere dell’esserci stesso. Nella quotidianità, le cose che incontriamo nel
mondo prima di essere semplici presenze, cioè realtà dotate di una loro obiettività, sono degli
strumenti per noi. L’utilizzabilità è quindi il modo in cui le cose si presentano nella nostra
esperienza anzitutto. L’uomo incontra le cose assumendole in un progetto, cioè assumendole come
strumenti. Tutto questo ci fa capire che anche la semplice-presenza si rivela come un modo derivato
dell’utilizzabilità, che è il vero modo d’essere delle cose. Tuttavia lo strumento non è mai isolato, è
sempre strumento-per, cioè ha il carattere del rimando. Ogni strumento rimanda al suo fine, alle
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persone che lo usano, al materiale di cui è fatto ecc… Lo strumento però è fatto per un certo
impiego e il rimando è quindi solo un carattere in più. Solo il segno ha come carattere fondamentale
il rimando, nel segno l’utilità corrisponde alla rimandatività nel senso della connessione con altro. I
segni sono un po’ come le “istruzioni per l’uso” dei vari strumenti che incontriamo nel mondo. Noi
impariamo ad utilizzare le cose attraverso i discorsi. Mediante i segni noi disponiamo del mondo e
quindi siamo nel mondo. Questa connessione tra mondità e significatività prepara già il venir in
primo piano del linguaggio nella speculazione successiva.

La costituzione esistenziale dell’esserci:

L’esserci è nel mondo anzitutto come comprensione. Questo significa che l’esserci non si rapporta
ad un insieme di oggetti per poi attribuirgli in un secondo momento dei significati. L’esserci è
originariamente in intimità con una totalità di significati. Il mondo ci si dà solo perché già da
sempre abbiamo un certo “patrimonio di idee” che ci guidano alla scoperta delle cose. Dobbiamo
però fare attenzione, non ci troviamo qui d’innanzi ad una filosofia delle “visioni del mondo” nel
senso soggettivistico del termine. La conoscenza va piuttosto intesa come interpretazione, nel senso
di articolazione di una conoscenza originaria. La conoscenza è l’articolazione del rapporto
originario con il mondo.

La situazione affettiva e l’essere gettato:

Il terzo esistenziale che incontriamo è la situazione affettiva. L’esserci, in quanto essere nel mondo,
ha già da sempre una tonalità affettiva: le cose sono già sempre fornite di un valore emotivo. Si
tratta di una pre- comprensione ancora più originaria della comprensione stessa. Lo stesso incontro
con le cose nel mondo sensibile è possibile perché ci troviamo sempre in una situazione affettiva. È
evidente qui la polemica contro il neokantismo che considera l’uomo come un soggetto puro e
disinteressato alle cose. La situazione affettiva ci rivela però anche un’altra cosa importante:
l’esserci è progetto gettato. La gettatezza indica il fatto che la la tonalità affettiva attraverso cui il
mondo appare all’esserci non dipende dall’esserci stesso. Per cui si crea una situazione duplice:
l’affettività è un aspetto costitutivo del nostro essere nel mondo, in quanto è il modo stesso
attraverso cui le cose si danno, e cioè sono, ma è anche qualcosa che non comprendiamo nei suoi
fondamenti. Questo non significa che l’affettività sia una caratteristica trascendentale di una ragione
pura, in quanto è ciò che ogni individuo ha di più proprio. L’esserci è così finito, pur essendo colui
che apre e fonda il mondo, è egli stesso gettato in questa apertura che quindi non gli appartiene.
Questa struttura gettata dell’esserci è ciò che Heidegger chiama effettività dell’esistenza. Effettività
ed esser-gettato in tedesco sono sinonimi. L’effettività metta in luce quel pre ( pre-comprensione)
che abbiamo nominato nel paragrafo precedente. Il fatto che la conoscenza non è altro che
articolazione di una comprensione originaria non è altro che l’espressione della finitezza
dell’esserci.

Essere-gettato e deiezione. Autenticità e inautenticità:

Nella quotidianità media l’esserci partecipa in modo acritico ad un certo mondo storico-sociale, ai
suoi pregiudizi. L’esserci incontra il mondo già sempre alla luce di certe idee che ha respirato
nell’ambiente sociale in cui vive. Questo significa che l’esserci è nel mondo nella mentalità
anonima del si, la mentalità pubblica. In quanto gettata nel mondo del “si” l’esistenza è sempre
originariamente inautentica. Questa è la deiezione. L’autenticità (eigentlichkeit) è collegata invece
all’aggettivo eigen che significa “proprio”. Autentico è l’esserci che si appropria delle cose e
quindi di sé automaticamente. La chiacchiera parla di tutto, anche delle cose con cui non si ha un
rapporto diretto. L’autenticità significa invece rapportarsi direttamente della cosa e appropriarsene.
Tutto ciò può essere attestato dalla nostra esperienza comune: parlare con cognizione di causa si
può solo quando abbiamo sperimentato direttamente ciò di cui stiamo parlando. Questo
sperimentare non è mai inteso in senso scientifico, ma appunto come un “fare esperienza”.
Autenticità significa quindi rapportarsi in modo diretta con una cosa e appropriarsene, tuttavia
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poiché le cose non sono mai semplici presenza, bensì strumenti, appropriarsi della cosa significa
assumerla nel proprio progetto di esistenza. Nella mentalità del si non c’è mai veramente un
progetto, le cose di cui parla il si non sono mai scelte e decise da qualcuno. Questo significa che il
progetto implica sempre una scelta, una decisione progettante. Nel si le cose sono slegate e non si
presentano nella loro natura di possibilità, ma solo come “oggetti”. Anche la visione metafisica
delle cose come semplici-presenza si rivela legata all’inautenticità. Ora Heidegger può dire che
l’esserci è cura. La cura è “avanti a sé – essere già in” (un mondo) in quanto esser-presso (l’ente
che si incontra nel mondo). La Cura è la totalità delle strutture dell'esserci, che si prende cura e ha
cura. La struttura di questa cura è circolare; infatti mentre da una parte progetta in avanti, nel futuro,
dall'altra la situazione emotiva gli fa sentire la propria gettatezza che lo fa tornare indietro. La cura
è l’essere dell’esserci. - Essere avanti a sé: l’esserci è l’ente che comprende l’essere e in questo
senso è progetto - Essendo già in un mondo (fatticità): l’esserci comprendente l’essere non è mai un
soggetto senza mondo ma è già da sempre gettato in un mondo - Esser presso (decadimento):
esistere fattuale significa che l’esserci è già sempre immedesimata in un mondo di cui si prende
cura e in questo esser-presso egli decade, cioè fugge dalla sua fatticità. Richiamiamo qui la nozione
di essere gettato che è fondamentale. Abbiamo detto che lo scopo di Heidegger è quello di
concretizzare quell’io che il trascendentalismo pensava sempre come un io puro. Heidegger ha
mostrato invece che l’io può fare quella funzione di apertura del mondo che il trascendentalismo gli
assegna proprio nella misura in cui non è puro ma concretamente situato. La nozione di essere
gettato ha mostrato che il progetto stesso è storicamente qualificato, cioè “finito”. L’essere gettato è
la radice stessa di tutte le strutture esistenziali dell’esserci. La cura è il modo con cui Heidegger
intende la differenza ontologica tra l’esserci e gli enti intramondani. Alla luce della “cura” cambia il
concetto di realtà che diviene qualcosa che viene aperto nella comprensione dell’esserci. Già qui
viene elaborato un’ inversione di senso dell’alétheia (dis-velamento) ossia la scoperta dell’ente nel
suo fuori uscire dal nascondimento, grazie all’apertura ontologica dell’esserci al quale spetta il
compito di essere vero (scoprente) o non vero (coprente).

Esserci e temporalità. L’essere per la morte:

La Cura costituisce l’esserci come una “totalità unitaria” che però allo stesso tempo manca sempre
di qualcosa (è sempre un aver-da- essere). Questa mancanza non può essere colmata da un ente
perché ciò significherebbe rimanere ancorati all’ambito sella semplice presenza. È essenziale che
questa mancanza sia costitutiva dell’esserci e inoltre questa totalità deve essere considerata sempre
come una possibilità. L’analisi parte dalla morte come quella esperienza che fa si che l’esserci non
sia più nel modo della possibilità, è un’esperienza che tocca l’esserci nel suo stesso ci, non ci è più.
Heidegger ha detto fin dall’inizio che gli esistenziali devono essere concepiti come possibilità e non
come semplici presenza quindi anche la morte deve essere concepita come una possibilità che
costituisce l’esserci come progetto. Anzì la morte è la possibilità più propria per l’esserci perché lo
tocca nella sua stessa essenza di progetto mentre tutte le altre possibilità si collocano all’interno del
progetto. Il primo aspetto della morte è la sua insuperabilità: la morte è la possibilità
dell’impossibilità di ogni altra possibilità. La morte è quindi la possibilità autentica dell’esserci ma
è anche allo stesso tempo autentica possibilità nel senso che sempre una possibilità finché c’è
l’esserci. La morte può costituire l’esserci come un tutto perché lo apre alle sue possibilità più
autentiche. Questo richiede però l’anticipazione, che significa considerare le altre possibilità nella
loro natura di pure possibilità. Con l’anticipazione si riconosce il carattere non definitivo delle
possibilità che la vita ci presenta. Com’è possibile il passaggio all’esistenza autentica? Ciò avviene
partendo dalla “voce della coscienza”. Nel suo richiamare l’esserci la coscienza non dice “nulla” in
quanto il fondamento dell’esserci è una “nullità”. È nella forma dell’aver da essere, cioè deve essere
il fondamento di sé ma d’altra parte, in quanto gettato, l’esserci non può disporre di questo essere-
gettato. Ciò che rende autentico l’esserci è la decisione anticipatrice della morte che implica che le
varie possibilità entro le quali l’esserci inautentico è disperso vengano scelte come proprie. La
risolutezza precorritrice, come accettazione della propria singolarità finita, costituisce l’esistere
autentico dell’esserci, e comporta che quest’ultimo, comprendendosi a partire dalla sua possibilità
ultima, sia aperto al futuro. Ma, secondo Heidegger, la risolutezza precorritrice è anche sempre un
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ritornare sul proprio esser-gettato, vale a dire sul proprio esser-stato, sul passato. In questo modo
l’esserci è in grado di vivere autenticamente nella situazione di volta in volta effettiva, ossia di
abitare il mondo presente a lui circostante in modo responsabile e risoluto. Nelle modalità
fondamentali del futuro, del passato e del presente si dispiega la temporalità come senso autentico
della cura. Va osservato che, fra le modalità temporali, il futuro ha un primato caratteristico: solo in
quanto si progetta sul proprio futuro autentico, l’esserci comprende il passato ed è in grado di vivere
la propria situazione presente. Si comprende ora come la temporalità sia il fondamento della "cura",
vale a dire della totalità delle strutture dell’esistenza. L’uomo calcola, fa piani, agisce; e per far
questo ha bisogno di situare gli eventi all’interno di una successione ininterrotta di istanti. Egli
tuttavia, per Heidegger, non si trova semplicemente "calato" nel tempo, nella stona intesa come
successione di eventi: al contrario, egli esiste storicamente solo in quanto il suo essere è
costitutivamente temporale. La storia stessa non è altro che lo storicizzarsi dell’esserci.
Originariamente storico è l’esserci, mentre le cose hanno una storia solo in quanto appartengono a
un certo mondo storico, vale a dire a una certa apertura storica dischiusa dall’esserci stesso. Ma
l’esserci esiste sempre come esser-con-gli altri. Il suo storicizzarsi assume così il carattere del
"destino comune" e con questo concetto Heidegger indica lo storicizzarsi della comunità, del
popolo. Non dobbiamo confondere l’impostazione Heideggeriana con quella Agostiniana del tempo
come distensio animi. Agostino infatti fonda il tempo nella coscienza dell’uomo, mentre il
significato della temporalità per Heidegger non coinvolge solo l’essere dell’uomo ma l’essere come
tale. Attenzione: non è che la temporalità si fondi sulla decisione ma la decisione è possibile solo
come fatto temporale, sicché l’esserci è costituito radicalmente dalla temporalità.

Risultati e prospettive dell’ontologia fondamentale:

La messa in luce della temporalità come senso dell’essere dell’esserci avrebbe dovuto costituire il
passaggio alla terza sezione che doveva intitolarsi “Tempo ed essere”. Il primo approccio all’essere
ci ha condotto a riconoscere il carattere inadeguato della nozione di semplice-presenza per
descrivere il modo d’essere dell’esserci. D’altra parte poiché ci è apparso che ci fosse un rapporto
peculiare tra l’essere e l’esserci (giacché è solo nel progetto aperto dell’esserci che gli enti
vengono all’ essere) ipotizziamo che il carattere temporale dell’esserci significhi una certa
temporalità dell’essere stesso. Così la temporalità dell’essere dovrebbe manifestarsi come “base”
più originaria della temporalità dell’esserci. Per procedere verso questo ulteriore ricerca devono
però essere affrontati prima due problemi

1) se l’ente non è semplice-presenza ma utilizzabilità perché nel pensiero metafisico l’essere viene
innanzitutto concepito a partire dalla semplice presenza? Questa riduzione finisce per avere il
predominio su cosa?

2) In secondo luogo si tratta di capire come sia possibile per l’esserci la comprensione dell’essere. Il
fatto che ci sia una originaria precomprensione dell’essere è attestato dal fatto che la nozione di
essere l’esserci non la ricava da nessun’ente intramondano, al contrario ogni ente viene all’essere
soltanto nel progetto che l’esserci apre. Il che implica quindi un trascendimento dell’ente da parte
dell’esserci, un suo rapportarsi prima all’essere e poi all’ente. Ma il problema è come si può
costituire, sulla base di questa trascendenza, il discorso filosofico sull’essere?Heidegger dirà che
Essere e tempo è rimasto interrotto per il venir meno del linguaggio, cioè per l’impossibilità di
sviluppare ulteriormente la ricerca utilizzando il linguaggio filosofico ereditato dalla tradizione
metafisica.La metafisica quindi in quanto eredità di un linguaggio e di un insieme di schemi mentali
appare come il principale impedimento a passare dalla comprensione implicita dell’essere a una
comprensione filosofica. Nella sua successiva riflessione filosofica Heidegger rifletterà proprio su
questi temi: significato e storia della metafisica, comprensione dell’essere e linguaggio ad esso
adeguato.

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Il problema storico della differenza ontologica:

Gli obiettivi del secondo Heidegger sono essenzialmentedue: 1) riappropriarsi delle esperienze della
storia dell’ontologia antica, medievale e moderna in cui emerge il problema della differenza
ontologica tra essere ed ente. 2) capire il motivo delle difficoltà a comprendere il significato
originario di essere e quello di uomo. Il corso del semestre estivo del 1927 intitolato I problemi
fondamentali della fenomenologia è presentato dallo stesso Heidegger come una “nuova
elaborazione della III sezione della prima parte di Essere e tempo” ossia quella riguardante “tempo
ed essere”. In questo corso egli riprende il problema della distinzione radicale tra l’ente e l’essere,
definito come il problema della distinzione ontologica. Questo è il problema portante dell’intera
storia del pensiero occidentale. In questo saggio vengono delineate le quattro testi fondamentali
sull’essere. La cosa più rilevante che emerge è che la distinzione tra essere ed ente è una distinzione
pre- ontologica, cioè anche in mancanza di un esplicito concetto di essere, essa ci è latente
nell’esistenza dell’esserci, poiché a quest’ultima, sul fondamento della temporalità, appartiene
l’unità di comprensione dell’essere e rapporto con l’ente. È solo per questo motivo che la
distinzione ancora non esplicita può trasformarsi in differenza esplicitamene compresa. Ma allora il
senso dell’essere in generale, ossia la temporalità, non è altro che la sua pura differenziazione
rispetto all’ente.

Kant e il problema della metafisica:

In Kant pure è centrale il rapporto tra sensibile e intellegibile, la sua risposta tocca punti di
elaborazione molto alti. Infatti a muovendo dalla CRP, la risposta alla domanda “Che cos’è l’ente”?
sarà: l’ente è qualcosa che si costituisce a partire dalle condizioni sotto le quali soltanto può essere
esperito da quell’ente finito, particolare che è l’uomo. In questo senso la CRP non può essere
compresa come una mera epistemologia, si tratta piuttosto di una SCHIETTA ONTOLOGIA, un
tentativo di dare una risposta alla domanda che è alal base della metafisica: una fondazione della
metafisica stessa. Kant vuole dire che ogni conoscenza ontica è resa possibile soltanto in virtù di un
sapere preliminare relativo alle condizioni sotto le quali soltanto tale ente si manifesta. Dunque una
conoscenza ontica può adeguarsi all’oggetto solo se tale ente è già manifesto, è già stato condotto
nell’apparire, conosciuto nella costituzione del suo essere.

Il problema del nulla:

Il saggio su l’essenza del fondamento parte dall’analisi del principio di ragion sufficiente, formulato
da Leibniz ma presente in tutta la storia della metafisica: tutto ciò che esiste ha una causa o
fondamento. Sulla base dei risultati raggiunti da Essere e tempo questo principio deve essere messo
in discussione: il princ ipio di ragion sufficiente vale solo perché c’è l’esserci che progettandosi
istituisce il mondo in cui l’ente appare. Il vero fondamento è allora l’esserci stesso in quanto
comprende, prima dell’ente, l’essere, aprendo così l’orizzonte dentro cui diventano visibili gli enti.
Ma in che senso l’esserci è fondamento? Il problema è che l’esserci non può né essere fondato
perché è proprio lui che apre quest’orizzonte dentro cui si colloca ogni rapporto di fondazione, ma
non può essere nemmeno fondamento ultimo perché l’esserci non è semplice presenza, ma non è
altro che progetto, non è che l’esserci “sia” e poi progetta il mondo, ma è progetto. L’esserci è
fondamento solo come Ab-grund, assenza di fondamento. L’ abgrund esprime proprio il fatto
che l’essere non è l’ente e quindi non può appar ire che nella forma della negazione. Il nesso tra il
problema del nulla e il problema dell’essere viene in luce in che cos’è la metafisica?. Tutte le
scienze dice Heidegger ipongono il problema della conoscenza dell’ente e di nient’altro. Ma che
cos’è questo niente? Per elaborare questo problema dobbiamo vedere in qualche esperienza appare
questo nulla. Il nulla appare a livello emotivo nell’angoscia. L’angoscia si rivela proprio come la
paura del nulla e in essere e tempo viene definita come “apertura specifica dell’esserci”. L’angoscia
si spiega soltanto ammettendo che, in essa, l’esserci si sente minacciato non da un ente in
particolare, ma dall’esistenza in quanto tale: l’angoscia è proprio quella esperienza attraverso cui
l’essere avverte di non essere un ente de mondo come gli altri, avverte la sua trascendenza. Il nulla
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fa emergere ciò che nell’ente non si riduce ad ente. Ciò che emerge qui è la connessione del
problema del nulla e della angoscia con quello dell’essere: dal nulla viene ogni ente in quanto
ente. Dobbiamo sottolineare in quanto: Non vogliamo dire che dal nulla arriva la “realta”
dell’ente intesa come semplice presenza, dal nulla proviene l’essere dell’ente come collocarsi
dentro al mondo nella luce proiettata dall’esserci.

Verità e non-verità:

Heidegger parte dalla nozione metafisica di verità come conformità della proposizione alla cosa. Ma
la conformità è possibile solo se è già accessibile, cioè solo se è già aperto un ambito entro cui
l’esserci può rapportarsi all’ente. Cercare di conformarsi alla cosa significa assumere la cosa come
norma del nostro giudicare, è in gioco qui la libertà: l’essenza della verità è la libertà. Non intesa
in senso soggettivo in quanto non è l’uomo a disporre della libertà, è la libertà a disporre
dell’esserci in quanto lo costituisce in un’apertura cioè in un rapporto originario con gli enti. Questo
significa che l’uomo può entrare in rapporto con gli enti in quanto è già sempre gettato in una certa
apertura storica, cioè già da sempre dispone di un insieme di criteri, norme, pregiudizi in base ai
quali l’ente gli si fa accessibile. Se la verità è quindi apertura e svelamento, la non verità va pensato
come velamento, oscuramento. Tutto ciò è indicato dalla parola aletheia dove quella a è un alfa
privativo ed indica quindi che il manifestarsi della verità come svelamento presuppone un originario
celarsi e nascondersi da cui proviene la verità. Questa connessione di verità e non verità si mostra
nel fatto che ogni verità è il manifestarsi di un ente singolo o di un gruppo di enti, mai
l’apparire dell’ente come tale nella sua totalità. Anzi gli enti singoli e i gruppi di enti ci
appaiono proprio in quanto la totalità dell’ente non viene in primo piano come tale. Questo
velamento della totalità dell’ente che permette ai singoli enti di apparire è la non-verità connessa
essenzialmente alla verità. L’esserci può essere quindi nella verità o nella non verità solo perché è
la verità come svelamento che implica anche sempre un nascondimento. La deiezione stessa si
fonda nell’essenza della verità.

Nietzsche e la fine della metafisica:

La metafisica giunge alla sua conclusione nel pensiero di Nietzsche. Nietzsche è un pensatore a cui
Heidegger ha dedicato una costante attenzione. Il Nietzsche di Heidegger ha una posizione
centralissima nello sviluppo di Heidegger successivo ad Essere e tempo perché la riflessione sulla
storia della metafisica viene a costituire il proseguimento dell’analitica esistenziale, attraverso
quest’opera Heidegger si avvicina ulteriormente alla chiarificazione del senso dell’essere a cui
essere e tempo tendeva. La metafisica si compie con Nietzsche perché quest’ultimo presenta se
stesso come il primo vero nichilista: e l’essenza della metafisica è appunto il nichilismo. Tuttavia
proprio nel momento in cui ha creduto di liberarsi della metafisica attraverso l’esercizio di un
nichilismo compiuto, Nietzsche ha paradossalmente ripetuto lo stesso dispositivo di pensiero della
metafisica, e con ciò ha mostrato la nascosta dimensione metafisica del nichilismo e l’altrettanta
dimensione nichilistica della metafisica. Heidegger inizia mettendo in discussione la celebre frase
“Dio è morto”. Per Heidegger questa sentenza non indica lo stato finale di dissoluzione dell’anto
ordine del mondo platonico-cristiano ma questa sentenza era presente fin dall’inizio della storia
del pensiero metafisico occidentale. Cioè Dio muore come esito e il mondo sovrasensibile
tramonta non perché gli uomini si siano staccati dalla metafisica ma perché quest’ultima si è
compiuta nella sua essenza. Nietzsche concepisce l’essere dell’ente come volontà di potenza,
espressione che Heidegger cambia in volontà di volontà. Potenza infatti non è altro che possibilità
di disporre di qualcosa, cioè, di volere. Che la volontà voglia solo volere significa che essa è puro
volere senza un vero “voluto”. “volontà di volontà” indica quindi la totale infondatezza che
caratterizza l’essere alla conclusione della metafisica. In Nietzsche si compie quindi il destino della
metafisica, l’essere viene concepito come l’ente nella sua totalità. Nietzsche vuole oltrepassare il
nichilismo con la sua dottrina del superuomo. Anche qui si ripete però la contraddizione: il
superuomo, che fa propria la volontà di potenza, viene a coincidere con il soggetto moderno,
quello che pone davanti a se stesso l’ente come oggetto. Il punto quindi è proprio questo:
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Nietzsche pensa il nichilismo in senso nichilistico, non a partire dall’essere stesso, ma a partire
dai valori. In tal senso proprio Nietzsche viene visto da Heidegger come il platonico più
sfrenato della storia della metafisica occidentale.

Storia della metafisica:

In Platone il vero è l’idea, cioè l’ente in quanto visibile all’intelletto. Ciò che conta qui nella
verità è ormai lo svelarsi, l’apparire nella presenza e viene dimenticato l’oscuro e il nascosto da
cui l’apparire viene. Se il vero è visibile, in questo senso, ciò che importa è il percepire bene quel
che si svela: la verità è il veder giusto, e riflettere tale rapporto nella proposizione che è vera solo se
è conforme a ciò che si manifesta. Tutto ciò si manifesta ancora di più in Aristotele. Aristotele
concepisce l’essere in due sensi: come che cosa (eidos) cioè l’essenza e come che ( ousia)
l’esistenza effettiva: ed è proprio all’atto di esistere che egli attribuisce in modo primario
l’essere, piuttosto che all’essenza o eidos. Se da un lato questo privilegiare l’energhia pone
aristotele più vicino all’origine del concetto ai aletheia, in quanto pensare l’essere come atto
significa pensarlo come il punto di arrivo di un processo, quindi come un “venire da”, tutta proprio
perché l’energhia è ormai distinta dall’eidos, la concezione aristotelica dell’essere finisce per
rappresentare un passo in più verso l’identificazione dell’essere con ciò che è presente. La
concezione aristotelica dell’essere come energia è quella che domina tutto il Medioevo latino che
traducendo il termine greco con actualitas e attribuendo l’attualità anzitutto a Dio, accentua il fatto
che l’essere è presenza ma anche causalità,fondazione. Attribuire la causalità all’essere significa
però collocarlo fra gli enti, pensandolo come ciò che possiede il carattere della presenza in modo
così costitutivo da poterlo conferire agli altri enti. Il punto di arrivo è Cartesio che trae le
conseguenza implicite alla concezione greca dell’essere come idea e come energia. Se solo ciò che
ha una forma (idea) ed è effettivamente presente (ousia) è vero, l’essere vero ha come suo
carattere fondamentale è la certezza che il soggetto ne ha e ne può acquistare con
l’applicazione del metodo.

Il soggetto:

Anche la parola soggetto, che nella filosofia moderna indica senz’altro l’io dell’uomo, subisce un
processo di sviluppo significativo all’interno della metafisica. Il termine greco hypokeimenon
significa il permanere di ciò che è, rispettivamente, di volta in volta. Il latino subjectum tradisce
il significato originario di hypokeimenon, accentuandone i senso di fondamento che regge tutti i
carattere “accidentali”, le proprietà dell’ente. Nella filosofia moderna il soggetto è l’io dell’uomo
che diventa il fondatore della realtà davanti al quale si deve legittimare l’essere delle cose: la
nozione di oggettività di cui la filosofia moderna fa tanto uso, è sempre correlativa a quella di
soggetto: la realtà obiettiva è quella che si mostra e dimostra tale al soggetto: l’obiettività
nasce come certezza che il soggetto ha di quell’ente. l’identificazione dell’essere delle cose con la
certezza che l’io ne ha si esprime soprattutto nella tecnica: nella misura in cui è sempre più
generalmente un prodotto tecnico, il mondo è, nel suo essere, prodotto dell’uomo. L’obiettività si
raggiunge nel laboratorio dello scienziato ed è quindi anche essa un prodotto dell’attività del
soggetto. I grandi sistemi metafisici dell’ottocento si spiegano quindi così, da questa volontà del
soggetto di ridurre tutto a sé. Già la forma del sistema, come riduzione del reale ad un unico
principio, non poteva che sorgere se non in quest’epoca dell’io concepito come volontà di riduzione
della totalità dell’ente a se stesso.

La chora:

Questo è un concetto fondamentale all’interno della filosofia platonica. Lo ritroviamo nel Timeo ed
è legato alla questione del divenire. Divenire significa: venire all’essere. In questo processo noi
distinguiamo:
1) il diveniente

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2) ciò in cui il diveniente diviene, il medium nel quale un diveniente diviene per poi, una volta
divenuto, uscir fuori.
3) il modello a cui il diveniente deve adeguarsi.

Se consideriamo il secondo termine, il medium, ciò in cui il diveniente diviene, noi lo chiamiamo
spazio. I Greci però non hanno alcuna parola che significhi per “spazio” nel senso dell’estensione.
Per i greci esiste la chora che non significa né luogo ne spazio, ma ciò che risulta occupato di
volta in volta da quello che vi si trova. Le diverse cose hanno ciascuna il proprio spazio, il
luogo appartiene alla cosa stessa. Ora, affinché questo processo del divenire sia possibile questo
“spazio” deve risultare spoglio di ogni aspetto in modo da poter accogliere tutti gli aspetti del
diveniente. Se lo “spazio” avesse un suo proprio aspetto non potrebbe esserci una buona
realizzazione del modello. Lo “spazio” quindi non deve effettivamente presente un proprio
aspetto e una propria apparenza. Chora potrebbe significare quindi ciò che si separa da ogni
aspetto particolare, ciò che si sottrae e in tal modo fa posto a qualcos’altro.

La concezione del tempo:

Il kairós è l'ora critica, il momento grave e decisivo, il supremo pericolo in cui tutti i rivolgimenti
sono possibili, in cui l'alleato di ieri si può rivelare il più insidioso nemico o, al contrario, il più
spietato nemico può divenire il migliore alleato. L'istante cruciale comporta sempre una rottura, un
taglio praticato in maniera decisa e tempestiva all'interno di un continuum spaziale o temporale e il
kairós può indicare sia l'agente della rottura che la parte tagliata, la divisione, la crepa. la
determinazione cairologica è ancora più evidente nella concezione della temporalità tipica dei primi
cristiani, nella cui esperienza vissuta, secondo Heidegger, consiste la loro stessa religiosità.85
Riprendendo un passo della Prima Lettera ai Corinti86, Heidegger, così scrive: «Kairós
synestalménos. Resta ancora soltanto [nur-noch] poco tempo, il cristiano vive costantemente
nell'«ancora soltanto», che accresce la sua angustia. La temporalità concentrata è costitutiva della
religiosità cristiana: un «ancora soltanto»; non c'è tempo per rimandare».87 L'inquietudine e
l'angoscia dei primi cristiani derivano da questo raccorciarsi del tempo, dal suo progressivo
estinguersi e 'fallire' che può interpretarsi come il prevalere della dimensione cairologica su quella
cronologica ed aioinica: il tempo diventa un varco sempre più stretto e difficile da percorrere,
un'apertura, una fessurazione da cui può transitare l'evento. Il «tempo che resta» è un tempo
cairologico; esso designa quello che potremmo chiamare il tempo «messianico», ovvero non la fine
del tempo, ma il tempo della fine. Nonostante la loro profonda differenza qualitativa, kairós e
chronos sono, infatti, intimamente connessi, come già risulta dalla definizione di Ippocrate, secondo
cui il chronos è ciò in cui vi è poco kairós e il kairós è ciò in cui vi è poco chronos, che così
Agamben commenta: «Il kairós non dispone di un altro tempo, ciò che afferriamo quando
afferriamo un kairós non è un altro tempo, ma solo un chronos contratto e abbreviato

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