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HEIDEGGER (1889-1976)

A. Il primo HEIDEGGER

1. L’opera “ESSERE e TEMPO”

1.1. Premessa: spiegazione dei termini.


*ENTI: sono le cose del mondo, oggetti, animali e uomini...
*ESSERE: Come aveva già sottolineato Aristotele, l'essere in quanto essere, non è una cosa, ma
l'orizzonte su cui si possono definire e riconoscere le singole cose. Non è l’ente, ma ciò che rende
visibile l’ente. E’ una x enigmatica che non si riesce a definire, ma che stimola alla ricerca. Il fatto
che sia indefinibile, non ci “dispensa dal problema del suo senso, ma, al contrario, lo rende
necessario” (Heidegger).
*ESSERCI (dasein). In tedesco "da-sein", cioè "essere qui". In italiano diventa "esser-ci". Il dasein
è l’ente-uomo che ha come modo d’essere specifico l’esistenza. E’ il “singolo–uomo”, con
un’esistenza spazio-temporale: essere qui-ora, nel tempo finito, senza nessuna apertura al tempo
eterno; e con un’esistenza aperta al mondo (essere-nel-mondo).
*TEMPO. L’uomo è un essere “gettato” nel mondo (ex-sistere) e pro-“getta” in avanti le sue
possibilità. Il “tempo”, per Heidegger, non si aggiunge all’esistenza, ma è l’esistenza stessa. Il
tempo si identifica con l’Esserci: l’uomo è tempo (=progetto). Infatti, L’uomo si fa carico del suo
“passato”, vive come “presente”, attualizzando in ogni istante le sue possibilità, e si proietta verso il
futuro. L’uomo proiettato nel futuro, si apre continuamente a ciò che non è ancora. La temporalità
è l’essenza stessa della vita umana. L’intuizione di Heidegger, secondo la quale l’uomo si identifica
con il tempo, può essere illustrata con una nota immagine di Borges: «Il tempo è la sostanza di cui
sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma
io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco».
*COMPRENSIONE ESISTENZIALE-ONTOLOGICA. Espressione usata per indicare l’indagine
filosofico-teoretica sulle strutture fondamentali dell’esistenza, chiamati “esistenziali”, quali: essere
nel mondo,ex-sistere, temporalità, esistenza autentica e in autentica, dittatura del sì, essere per la
morte. La comprensione esistenziale deve assumere come suo metodo quello fenomenologico di
Husserl, cioè puntare direttamente sulla cosa da analizzare (fotografarla). E poichè l’esistenza è
sempre quella concreta del singolo (la mia, la tua…così come aveva sostenuto Kierkegaard) è
evidente che l’analisi esistenziale-ontologica si radica sempre nella *CONDIZIONE ESISTENSIVA-
ONTICA, che è l’esistenza concreta del singolo uomo. Per questo motivo Heidegger comincia a
esaminare l’uomo in quella che egli chiama quotidianità, medietà; la situazione, cioè, in cui l’uomo
(l’esserci) si trova innanzitutto e per lo più.

1.2. “Essere e Tempo”


All'inizio dell'opera, Heidegger dichiara di condividere sostanzialmente l'antica affermazione
aristotelica secondo cui il problema della filosofia è chiarire che cosa è l'essere. Ma a questa
domanda si deve dare una risposta articolata in termini diversi rispetto a qualsiasi altra. Se, per
esempio, alla domanda "cosa è "uomo", "animale", "casa", ecc., si può rispondere dando una
definizione, quest'operazione è inattuabile se ci domandiamo "cosa è l'essere", dato che l'essere è
appunto quell'orizzonte all'interno del quale ritagliamo le definizioni dei vari enti. E se l'essere è
quell'orizzonte ultimo su cui si stagliano tutte le cose tranne l'essere stesso, allora non ci si dovrà
interrogare sulla definizione dell'essere, ma sul senso dell'essere. Però, per provare a comprendere il
senso dell'essere si deve analizzare l’esistenza di quell'ente particolarissimo che si pone il problema
dell’essere: l’uomo: " l'uomo significa colui che può pensare ". In “Essere e il tempo”, Heidegger fa

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“epochè” (Husserl), cioè “mette tra parentesi Dio”, nel senso che interroga l’uomo “sospendendo il
giudizio” su Dio.
Quella di Heidegger è un’ opera ambigua. L'ambiguità sta nel fatto che ci troviamo di fronte ad
un'opera che, nelle intenzioni dell'autore, doveva essere ontologica (studio dell’essere) ma poi
analizza l'esistenza. Ed è per questo motivo che molti pensatori hanno visto in Heidegger il punto di
partenza per le riflessioni esistenzialistiche. Ma Heidegger si è sempre rifiutato di essere
considerato un esistenzialista e ha polemizzato con gli esistenzialisti. Stando a quanto abbiamo
finora detto, possiamo dare ragione ad Heidegger: il suo obiettivo resta sempre e comunque quello
ontologico e se anche in "Essere e tempo" risalta l'analitica esistenziale, ciò non toglie che essa resti
un mero strumento. Infatti, sia nella sua prima fase (quella "esistenzialista") sia nella seconda (che
sarà "ermeneutica") l'essere (e non l’esistenza) resta al centro dell'indagine.

1.3. L’Esistenza
Per capire l’essere e il senso dell’essere bisogna, dunque, capire qual è il modo d’essere dell’esserci.
Il modo d’essere dell’uomo è L’esistenza. La prima caratteristica dell’esistenza è che l’uomo è
l’unico tra gli enti che può comprendere e rapportarsi all’essere. La seconda è che l’esistenza non è
determinata e fissa, ma è un insieme di possibilità che l’uomo deve scegliere. Ex-sistere significa
stare al di fuori e al di là di sé (per questo è trascendenza), nella dimensione della possibilità e del
progetto, è un venir fuori di continuo verso il futuro (come aveva già sottolineato Kierkegaard). Ciò
significa che l’uomo è un ente che non è mai solo ciò che è in quel determinato momento, ma anche
quello che progetta di essere per il futuro. Sotto questo profilo, per Heidegger, solo l'uomo esiste.
Le cose sono ciò che sono (cioè semplici presenze), ma non esistono. “La pietra è, ma non esiste.
L’albero è, ma non esiste. Il cavallo è, ma non esiste. L’angelo è, ma non esiste. Dio è, ma non
esiste… L’uomo soltanto esiste” (Heidegger). La pietra, l’albero, il cavallo, l’angelo, Dio,
racchiudono in se stessi tutto il proprio significato, cioè non hanno possibilità di trascendersi e
progettarsi in modo diverso da ciò che sono. L’uomo, invece, non è mai tutto in se stesso, ma è ciò
che progetta di essere o non essere, si trascende di continuo, quasi come se pendesse in avanti. Di
fronte a lui c’è sempre la possibilità della scelta. Di conseguenza, l’uomo non è una sostanza (cioè
una realtà predeterminata) ma un “essere possibile” (un insieme di possibilità che richiedono una
scelta): è ciò che lui stesso progetta e sceglie di essere. L’uomo, in definitiva, non è legato, come gli
altri enti naturali, alla situazione in cui si trova, ma è libero, plastico, metamorfico: può diventare
sempre qualcosa di nuovo. In questo suo trascendere la realtà in vista della possibilità, l’esserci è un
ente permanentemente in gioco tra esistenza autentica e inautentica(v. avanti).

2. ESSERE-NEL-MONDO
L’uomo è “Essere-nel-mondo”. Heidegger lo scrive con i trattini, per sottolineare come l’essere-nel-
mondo dell’uomo non è un semplice essere nel mondo come è quello degli altri enti (pietra,
sentiero, albero…che sono semplici presenze), ma è un “abitare” nel mondo, “utilizzando” le cose
per progettarsi. Le cose sono nel mondo perché servono all’uomo, sono strumenti finalizzati al suo
esistere (v. avanti). Inoltre, il mondo non è un qualcosa che esiste prima della nostra coscienza: al
contrario, si trova ad esistere solo nella misura in cui ci sono coscienze (uomini) che si relazionano
a qualcosa (come aveva già sottolineato Husserl). Con quest'asserzione, però, Heidegger non
intende avvicinarsi alle tesi idealistiche e, soprattutto, fichteane dell'Io che pone il non-Io: infatti,
non è la coscienza che produce il mondo in sè, ma, semplicemente, per Heidegger, il mondo è
l'insieme delle cose utilizzabili. Che poi ci sia un mondo indipendente da noi e dalla nostra
coscienza, ad Heidegger non interessa (è epoché, “messo tra parentesi”), perché per noi esiste solo e
soltanto il mondo con cui la nostra coscienza si relaziona, quel mondo è l'insieme delle cose che
possiamo utilizzare.

3. LA CURA

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Come abbiamo detto sopra, il “mondo”, per Heidegger, non è la somma degli oggetti contenuti
nello spazio, ma è il piano globale di utilizzabilità delle cose. Le cose (dal sole al pane, dal libro alla
casa, dal sentiero alle stelle) sono utensili funzionali ai progetti umani. Il mondo è l’insieme delle
preoccupazioni, dei desideri, dei progetti, delle conoscenze dell’uomo. L’uomo non è nel mondo
come una parte nel tutto (cioè come un libro nella libreria), ma come uno che ne ha cura. L’uomo a
differenza degli altri enti è quello che pone in questione il senso dell’essere, e abita nel mondo
avendone cura. Essere-nel-mondo, vuol dire, dunque, prendersi cura delle cose che gli occorrono,
mutarle, manipolarle, ripararle, costruirle. La cura è la struttura fondamentale dell’uomo. Heidegger
riprende una favola del poeta Igino, rielaborata dal Goethe nel Faust, secondo la quale la “cura” è
sinonimo di “Homo”, fatto di Humus. La favola termina con queste parole: “Cura enim quia prima
finxit, teneat quamdiu vixerit” (Igino): poiché, infatti, fu la Cura che per prima diede forma a
questo essere (l’uomo), fin che esso viva la Cura lo possieda. L’uomo, quindi, è un Essere gettato
(ex-sistere) nel mondo e si prende Cura delle cose, utilizzandole, comprendendole, interpretandole e
inserendole nei suoi progetti. Le cose sono subordinate ai bisogni e agli scopi dell’uomo. La loro
utilizzabilità è iscritta nel loro essere. “Le cose”, infatti, esistono perché devono essere utilizzate
dall’uomo. Il loro senso è interpretato in rapporto alle “possibilità di utilizzo”: la casa per abitare, il
sentiero per camminare, la stella per orientarsi.. Come l’uomo sa “chi può essere” solo quando sa
che “cosa può fare di sé” (cioè solo quando sa che progetto avere), così l’uomo sa che cos’è una
cosa solo quando sa come utilizzarla.

3.1. L’attività pratica precede quella teoretica


Da Aristotele in poi era invalsa l'idea che l'uomo avesse nell'ambito della realtà un atteggiamento
teoretico-conoscitivo da cui derivava quello pratico. Tutto era un’applicazione del sapere, dalla
politica alla tecnica, dall’etica al commercio. Heidegger stravolge questa concezione antichissima e
sostiene che la modalità originaria della coscienza è pratica, volta all'azione, poiché tende a usare le
cose e a crearsi un mondo di cose utilizzabili. L’uomo, per lo più, non è nel mondo secondo la
modalità della conoscenza, ma secondo la modalità del commercio, ovvero della manipolazione
degli enti. Le cose, per lo più, non sono primariamente oggetti di studio, ma strumenti di azione.
L'attività conoscitiva non è più, aristotelicamente, alla base della natura umana ma, al contrario, è
uno dei tanti modi in cui si possono utilizzare le cose come strumenti dell'esistenza. Tutto ciò non
toglie valore alla conoscenza, infatti è impossibile operare nel mondo senza conoscere le cose del
mondo. La conoscenza è importante e, per Heidegger, è da intendersi come “interpretazione”,
“ermeneutica” (v. avanti).

3.2. Il Mondo e la Visione ambientale preveggente


Visione ambientale preveggente nel pensiero del filosofo vuol dire che uno strumento è sempre
strumento per qualcos’altro, non può mai venir considerato isolatamente. Ogni cosa utilizzabile
rimanda a qualcos’altro di utilizzabile, attraverso una serie di rinvii. Così, per esempio, lo scrittoio
rimanda alla penna, la penna all’inchiostro… alla carta… alla cartella…. all’esame...alla
professione. Perché il singolo strumento possa apparire “utile”, occorre che sia visibile la totalità in
cui esso si inserisce. La totalità degli strumenti è il Mondo. In questo senso il mondo viene prima
delle singole cose. Noi possiamo accedere alle singole cose, conoscerle e manipolarle praticamente,
solo se in qualche modo, ci è aperto tutto l’orizzonte del mondo in cui si inseriscono. (una pausa per
riflettere: non pensate che quando uno non apre il libro è perché non il libro non rimanda ad altri
“strumenti” o progetti?). L’incontro con la singola cosa implica e presuppone questa apertura
generale del mondo, come di uno sfondo senza di cui la cosa non potrebbe apparire. Lo strumento è
tale solo in un progetto più ampio, solo come elemento di una totalità di rimandi e di significati che
mettono capo all’uomo. In questo modo possiamo dire che il mondo viene prima delle singole cose
e l’uomo viene prima del mondo, perché (come abbiamo già sottolineato) è grazie all’Esserci che
tutte le cose acquistano significato.
3.3. Esistenza autentica e in-autentica

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L’uomo, dunque, si trova gettato nel mondo con tutte le possibilità d’essere o non essere se stesso,
cioè di autodeterminarsi o meno. In greco " autòs ", significa "se stesso". Nell’esistenza
“aut”entica l’uomo scopre anzitutto se stesso, in quella “in-aut”entica, invece, l’uomo non realizza
se stesso. Ma l’uomo è nel mondo insieme agli altri, quindi si prende cura non solo delle cose ma
anche degli altri uomini. Noi possiamo prenderci cura di essi in modo in-autentico, cioè ponendoci
al loro posto, dominandoli e rendendoli dipendenti da noi; oppure in modo autentico, aiutandoli nel
loro prendersi cura in modo autonomo e libero. Inoltre, la forma in-autentica è un puro stare insieme
agli altri; quella autentica è un vero coesistere. Precisiamo meglio.

4. ESISTENZA INAUTENTICA (anonima)


L’esistenza in-autentica è ignorare se stessi e precipitare nell’esistenza impersonale e anonima. E’
incapacità di accettarsi come si è, nel proprio poter essere e nella propria possibilità di apertura al
mondo, agli altri e alle cose. Alcune caratteristiche dell’esistenza inautentica.

4.1. La dittatura del sì…


L’esistenza inautentica è un puro stare insieme, in cui prevale l’esteriorità dei rapporti. E’ l’esistenza
di “tutti e nessuno”, nel senso che il singolo è ciò che “sono tutti” in modo apparente e superficiale.
E’ l’uomo che si uniforma acriticamente al costume e all’opinione del contesto sociale in cui è
inserito. Il segno dell’omologazione è l’anonima impersonalità del “Si”: Si dice… si afferma…si
fa… Si muore. E’ il “Das-man”, la dittatura del sì, che obbedisce all’assioma: la cosa sta così
perché così si dice. L’uomo non si sente responsabile di ciò che “si dice”, allinea il proprio modo di
esistere e di progettarsi a quello degli altri. Questo atteggiamento nasce nel momento in cui l'uomo
rinuncia alle proprie scelte per comportarsi nel modo in cui lo spinge a comportarsi il "Si…", cioè la
collettività. E così egli diventa una "cosa" priva di progettualità, viene passivamente trascinato dalla
corrente e si trova di fronte alla scelta conformistica (non sceglie a partire da se stesso).
Nell’esistenza in-autentica non si tiene conto della propria “finitezza”, si ignora “la morte” come la
costante e la più certa possibilità della propria esistenza. La morte viene vista come una realtà che
non è ancora presente “per me”, ma riguarda gli altri: “si muore…morirò, ma non ora”.

4.2. La chiacchiera, la curiosità e l’equivoco


Le figure tipiche dello stile esistenziale inautentico sono la chiacchiera, la curiosità e l’equivoco.
Nel momento in cui cedo al "Si", non parlo più di cose che coscientemente sento mie e di cui voglio
parlare con gli altri. Al contrario, "chiacchiero" avvalendomi del comune modo di pensare e tendo a
parlare delle cose nel modo in cui tutti ne parlano. Il linguaggio diventa chiacchiera inconsistente,
e insignificante; l’esistenza, dominata dalla chiacchiera, è vuota, irrequieta, incapace di soffermarsi
e riflettere, e per riempirsi va alla ricerca ossessiva della novità, cioè si apre alla curiosità, che è un
morboso desiderio di tutto ciò che è nuovo; la curiosità diventa equivocità. L’equivoco nasce dalla
falsa convinzione di aver compreso e afferrato il senso di ciò di cui si parla, senza sapere che il
senso è stato completamente frainteso dalla chiacchiera e dalla curiosità: non si sa di chi e di che si
parla (si dice…!) e nessuno è responsabile di ciò che si dice.

4.3. La deiezione
Il prendersi cura, nell’esistenza in-autentica, diventa “preoccupazione”. L’uomo fugge da sé ed è
sempre preoccupato delle cose (riecheggia il tema del divertissement di Pascal). L’esistenza
inautentica rappresenta la caduta dell’uomo nel “passato”, è tipica dell’uomo che si fa assorbire dai
fatti, facendosi dominare dalle cose e dai commerci con il mondo. Più che usare le cose
progettandosi, diventa egli stesso uno “strumento” simile alle cose. E’ l’uomo che si adegua
comodamente alle opinioni correnti e che non è capace di “uscire da sé”, di ex-sistere. Questa
caduta dell’uomo a livello fattuale (abbandonato tra i fatti e al determinismo che li governa),
Heidegger la chiama deiezione, cioè il trasformarsi dell’uomo in una cosa come le altre (diventa una
semplice presenza). Noi sappiamo che le cose non pro-gettano, quindi un uomo uguale alle cose è

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uno che non pro-getta, non è affacciato sul futuro. Ciò richiama alla mente la vita estetica di don
Giovanni delineata da Kierkegaard, una vita in cui l'unica vera scelta che si compie è quella di non
scegliere, cioè di lasciarsi vivere passivamente:
Questa situazione non si può eliminare, perché è un costitutivo dell’uomo. L’esistenza inautentica,
infatti, non è condannata da Heidegger, perché è una struttura esistenzaziale dell’uomo: è un
costitutivo del “poter essere “ dell’uomo. Questa esistenza inautentica comprende buona parte della
nostra esistenza: dagli affari quotidiani, alla vita mondana e alla conoscenza scientifica.

4.4. Il Tempo
Quando si ha un tempo inautentico? (che è lo stesso dire quando si ha un’“esistenza inautentica”).
Si ha quando l’esistenza diventa cura (preoccupazione) del successo, della riuscita, facendosi
assorbire dalle cose da fare. L’uomo diventa uno dei tanti tra gli altri, vive un’esistenza anonima
(Si…). L’uomo, sottoposto alla dittatura della massa (si…), invece di progettare in avanti le sue
possibilità, cade all’indietro, assorbito dai problemi quotidiani. Il presente invece di pro-gettare
l’uomo verso il futuro, lo inchioda al passato. L’uomo cade nella noia di un’esistenza banale e
alienata (si sentono gli echi della filosofia di Schopenhauer di un’esistenza sospesa tra dolore e
noia).

5. ESISTENZA AUTENTICA
In "autentico", come abbiamo già detto, è racchiusa la radice greca " autòs " , che significa "se
stesso"; l’esistenza, pertanto, sarà autentica quando è se stessa, quando è propria fino in fondo.
Alla base dell’esistenza autentica, c’è la scelta, la decisione progettante, l’assunzione di
responsabilità. E’ l’esistenza che si comprende a partire da se stessi, dalla possibilità più propria
dell’uomo che è “la morte”. L’uomo si progetta come esistenza autentica quando esce dal Si…
anonimo e si appropria di sé, quando cioè nelle scelte mette in gioco se stesso come l'Abramo di
Kierkegaard. Vediamo come.

5.1. La Coscienza
Chi richiama l’uomo a una vita autentica? E’ la voce della coscienza! E’ questo provocatorio
silenzio che aiuta l’uomo a passare dall’esteriorità della vita all’interiorità, ponendosi la domanda
fondamentale (quaestio mihi factus sum): perché esisto? qual è il senso dell’essere e dell’esistenza?
Qual è la fine? La coscienza fa cogliere all’uomo la sua precarietà e fragilità: è gettato nel mondo,
non sa da dove viene ed è un essere finito, muore.

5.2. Vivere-per-la-morte
Se l’esistenza è “possibilità”, l’uomo è proiettato verso il futuro: può sempre essere qualcuno che
non è ancora. Tra le infinite possibilità dell’uomo l’unica cosa certa è proprio la sua “fine”, l’unica
possibilità permanente dell’esistenza è la morte. Si può scegliere di sposarsi o non sposarsi, di
diventare medico o ingegnere, ma non si può scegliere di non morire.. Finché “esisto”, la morte è
una minaccia permanente. Con la morte “non esisto più”, e si annullano tutte le altre possibilità e
progetti. La morte non è un “fatto” come lo sono gli altri, perché è “propria” del singolo individuo.
L’uomo è solo di fronte alla morte (nella vita autentica non può dire “si muore”, ma “muoio”). Tutte
le altre attività pongono l’uomo nell’anonimato tra gli altri uomini, mentre la morte isola l’uomo
con se stesso. In conclusione: l’esistenza autentica è un vivere per la morte. Il che non vuol dire
suicidarsi, ma “dare senso all’esistenza per mezzo dell’esperienza del nulla possibile(= morte)”. E’
l’esistenza di chi non si fa prendere dai fatti quotidiani, dal si…, ma accetta e progetta la sua vita
guardando in faccia la morte con coraggio. Bisogna avere il coraggio di vivere accettando la propria
finitezza, nella piena consapevolezza che il nostro orizzonte di vita è limitato e “finito”.

5.3. L’angoscia

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Mentre nell’esistenza inautentica si prova l’emozione della paura (=Kierkegaard) che è un
sentimento nei confronti di un oggetto preciso, nell’esistenza autentica si prova la situazione
emotiva dell’angoscia che è un sentimento che pone l’uomo di fronte all’esistenza “finita” e labile,
di fronte al “nulla” (la morte). Circa il futuro tutto è incerto, eccetto la morte. In questo modo
l’angoscia rivela all’uomo il significato autentico dell’esistenza, che consiste nell’accettare la
morte. La morte ricorda all’uomo la non-definitività di ognuna delle possibilità concrete che la vita
ci presenta. Heidegger dice infatti che è proprio il carattere finito dell'esistenza e l'angoscia che ne
deriva a conferire un senso alla vita: è proprio l'angoscia, ovvero l'aver sempre presente la
finitudine della propria esistenza, a dare un senso autentico alle scelte che si compiono.

5.4. Il Tempo dell’esistenza autentica


Nel Tempo dell’esistenza autentica, il vivere è amor fati è un vivere per la morte. In Nietzsche
l’amor fati era volontà di accettare il passato come “voluto”, di assumerlo in vista del rafforzamento
della nostra volontà di potenza. In Heidegger l’amor fati è fedeltà alla morte. E’ un vivere l’istante,
un vivere con distacco le esperienze relative della vita, è un accettare la propria finitezza. Il tempo
più importante è il futuro. La vita autentica è di chi, per mezzo dell’esperienza anticipatrice della
morte, vive con distacco. Nell’esistenza in-autentica si esorcizza l'idea della morte, la si lascia
indeterminata e in realtà si nasconde la paura effettiva che la certezza della morte suscita. Il saggio
che vive l’esistenza autentica, invece, affronta l'angoscia della morte. Scopre così che " la morte è
la possibilità più propria dell'esser-ci ". La morte, infatti, è la cosa che più di tutte ci appartiene ed
è nostra fino in fondo, tant'è che nessun altro può viverla al posto nostro. Essa è anzi l'unica
certezza della nostra esistenza, in quanto, pur non potendo sapere pressoché nulla di ciò che ci
accadrà in futuro, ciononostante possiamo con certezza affermare che, prima o poi, ci toccherà
morire. Non si presenta solo nell’ultimo momento, ma in ogni istante. Perciò l’uomo è in ogni
momento l’essere- per-la-morte.
Il primo Heidegger non alza la fronte verso il cielo, in un tempo infinito e ultraterreno. “L’uomo di
Heidegger poggia il piede nel breve spazio della sua finititudine e si protende sull’abisso, per
assaporare il brivido mortale dell’abbandono, l’amore del vuoto: questa vertigine è l’angoscia che
rende libera e autentica l’esistenza” (L. Stefanini). E. Stein fa notare che l’angoscia scompare se
invece dell’essere-per-la-morte, l’uomo è l’essere-per-Dio. Il limite di Heidegger, secondo la
filosofa, è dato dal fatto che ha pensato il tempo senza l’eterno, e contro Heidegger, evoca a modo
suo il “Canto del nottambulo” dello “Zarathustra”:” Dice il dolore perisci! Ma ogni piacere vuole
eternità, vuole profonda, profonda eternità”. Anche il filosofo della “morte di Dio” pensa al tempo
nell’orizzonte dell’eterno. Ma a differenza di Nietzsche, che lega a questo pensiero la dottrina
imamnentistica dell’eterno ritorno, E. Stein intende la vita eterna dopo la vita mortale.

Conclusione di Essere e il Tempo


La voce della coscienza, richiamandoci al senso della morte, ci svela la nullità di ogni progetto.
L’esistenza umana è strutturalmente negativa (doppia negatività):1. l’uomo non è fondamento di se
stesso, è un progetto “gettato” nel mondo (da dove viene?); 2. l’unica possibilità a cui non può
sottrarsi è la morte (il nulla).

B. Il secondo Heidegger

1. LA SVOLTA – LA KEHRE
“Essere e tempo” è un ‘opera incompiuta perché priva della sezione “Tempo ed essere”. In questa
sezione doveva essere discusso il problema del senso dell’essere in generale. Anche se Essere e
tempo rimase incompiuto, integrazioni rispetto all'opera possono essere considerati Kant e il
problema della metafisica (1929), L'essenza del fondamento (1929) e Che cos'è la metafisica
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(1929). L’opera è incompiuta per due motivi. E’ incompiuta perché , per il filosofo, il linguaggio
della metafisica è insufficiente per affrontare il problema dell’essere. Ma è incompiuta anche
perché, per Heidegger, non si può conoscere il senso dell’essere interrogando l’uomo, perchè si
arriva al Nulla: l’uomo è un essere-per-la-morte. Contro l’ottimismo degli idealisti (Hegel) e dei
positivisti, questa conclusione fa del primo Heidegger un filosofo pessimista (c’è sicuramente
l’influsso della grande guerra). La morte fa sì che il mondo appaia rivestito di nullità. La morte
decapita l’uomo e gli strappa la possibilità d’infuturarsi. Dovendo morire l’uomo si trova in questo
mondo senza casa (così come diceva Nietzsche). Nel primo Heideggere manca la speranza.
Negli anni ’30 c’è una svolta: invece di interrogare l’uomo (che è un essere per la morte) si
interroga l’ESSERE stesso (l’Essere è). Abbiamo così il passaggio dal primo al secondo Heidegger:
il problema dell’essere e del senso dell’essere in generale viene affrontato dal punto di vista
dell’essere e non dell’uomo: bisogna pensare l’uomo in rapporto all’essere e non l’essere in
rapporto all’uomo. La svolta si è espressa negli scritti seguenti: Hölderlin e l'essenza della poesia
(1937); La dottrina platonica della verità (1942); L'essenza della verità (1943); Lettera
sull'umanismo (1947); Holzwege (Sentieri interrotti, 1950); Introduzione alla metafisica (1956);
Che cosa significa pensare (1954); Conferenze e saggi (1954); Che cos'è questo - La filosofia?
(1956); Sulla questione dell'essere (1956); Identità e differenza (1957); Il principio del fondamento
(1957); La rassegnazione (1959); In cammino verso il linguaggio (1959); Nietzsche (2 voll., 1961);
Il problema della cosa (cioè della Metafisica!) (1962); La questione del pensiero (1969).

2. HEIDEGGER BIFRONTE?
I e II Heidegger: continuità o rottura? Diciamo che c’è una rottura nella continuità. Secondo alcuni
interpreti, il problema centrale nella filosofia heideggeriana resterebbe sempre lo stesso (il senso
dell’essere), ma la prospettiva è diversa. Nel I periodo, Heidegger fa dipendere la comprensione
dell’essere da una preliminare comprensione dell’esistenza umana; nel secondo, fa dipendere la
comprensione dell’esistenza umana da una preliminare comprensione dell’essere.
Fra le conseguenze più rilevanti della svolta è la tendenza a pensare l’uomo non come soggetto di
iniziative autonome, ma come luogo e tramite della rivelazione dell’essere. L’uomo diventa
destinatario di iniziative promosse non da lui ma da ciò che è più di lui: dall’essere. Da questa
prospettiva dipende anche il nuovo modo di considerare la verità, la libertà, l’arte, il linguaggio....
Queste non dipendono più dall’uomo, ma “dallo svelamento” dell’essere. E ciò che cercheremo di
approfondire.

3. LA DIFFERENZA ONTOLOGICA e il problema metafisico del NULLA


Nei saggi L’essenza del fondamento, e che cos’è la metafisica?, Heidegger affronta il problema
della differenza ontologica tra l’essere è l’ente e il problema del nulla. Premettiamo che il
ragionamento di Heidegger non è facile. Tentiamo di essere chiari. L’essere non è l’uomo (esserci),
non è neppure l’ente ( mondo, cose…), ma (Heidegger usa delle metafore) è bosco, è radura, è luce
che illumina e lascia nell’ombra, è l’orizzonte che rende visibile l’ente. Questo orizzonte che noi
chiamiamo “essere”, è “nec-ens”, non-ente, cioè “ni-ente, nulla”. L’essere, dunque, è la negazione
dell’ente: è il nulla dell’ente. Il Ni-ente è l’ Essere che costituisce lo sfondo originario (la luce)
grazie a cui l’ente diventa accessibile. Da qui la conclusione paradossale di Heidegger: il niente e
l’essere sono la stessa cosa. L’essere è il non-è-ente, che rende visibile l’ente.
Per Heidegger è possibile fare esperienza del nulla e ciò avviene nell’angoscia. Infatti con
l’esperienza emotiva dell’angoscia, l’ente sprofonda nel non-essere. Infatti diciamo che
“nell’angoscia uno è spaesato”, cioè fa l’esperienza del nulla.

4. LA STORIA DELLA METAFISICA OCCIDENTALE E L’OBLIO DELL’ESSERE


Chi entra in una stanza piena di oggetti ma priva di finestre e di porte, dominata da buio, non vede
alcunché. Con la luce le cose si rendono visibili. Nella stanza, una volta illuminata, capita spesso di
prestare attenzione agli oggetti, non alla luce che li rende visibili. Così è successo a chi ha fatto

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metafisica (scienza dell’essere) quando ha fermato il suo sguardo sugli enti e ha trascurato ciò che li
fa essere (la luce, cioè l’essere). In questo sta la dimenticanza-oblio della metafisica classica: si è
occupata dell’essere come se fosse un oggetto del pensiero umano, un ente come gli altri enti del
mondo e ha trascurato la differenza ontologica tra ente e essere. Heidegger esclude che l’essere e
Dio possano essere un oggetto del pensiero. Quando Dio diventa oggetto del pensiero lo si inscrive
nella metafisica “teologica”, che è sempre “oblio dell’essere”. Per il filosofo noi possiamo
camminare verso Dio, verso l’essere (che in Heidegger non si identificano), ma non possiamo
possederli con il nostro pensiero. L’atteggiamento dell’uomo è quello di chi “ascolta” l’essere che si
rivela (v. avanti).

4.1. Da Platone a Nietzsche: la storia di un errore


Come per un tiratore è più difficile centrare il bersaglio che sbagliare, così è per la vita e per il
pensiero umano. Infatti, il fallimento dell'esistenza è sempre più facile, sta sempre lì in agguato,
mentre invece la sua riuscita è più difficile. Nella vita è più facile rovinare la propria esistenza. La
scelta autentica è sempre più difficile e più faticosa di quella in-autentica, Perché l'esistenza
richiede ognora di essere progettata, essa rappresenta un peso, una difficoltà da gestire e da
amministrare, rispetto alla quale, appunto, noi rischiamo sempre di cadere in errore. Ma è difficile
centrare il bersaglio anche a livello di pensiero. La metafisica, infatti, è il rispecchiamento a livello
filosofico di questa tendenza connaturata alla specie umana a fallire piuttosto che a riuscire. La
metafisica è stata per Heidegger un destino, un errore, nel quale la storia umana è caduta. In questo
errore metafisico si rispecchia quella tendenza che c’è in ciascuno di noi di poter più facilmente
errare che riuscire. La metafisica è caduta in errore, perché ha voluto esprimere con un linguaggio
finito una realtà infinita, ha dimenticato l’essere e ha ridotto la metafisica a una forma di pensiero
umano (=oblio dell’essere).
Questo “errore epocale” comincia con Platone che identifica l’essere con l’Idea, un archetipo che è
sempre frutto del pensiero umano. Platone esprime l’esigenza dell’uomo di affermarsi come figura
principesca che vuole dominare il mondo (“Soggettità”). Con Cartesio e Leibniz, la “soggettità”
diventa “soggettività”, il desiderio principesco si potenzia: l’essere è ciò che si presenta al soggetto
nella certezza del cogito. La storia della metafisica occidentale continua, configurandosi sempre più
come la storia dell'affermazione dell’uomo come soggetto di conoscenza e azione nei rapporti con il
mondo. Infatti, con gli idealisti e i positivisti, la realtà è un prodotto dell’Io. L’essere, ridotto a
soggettività umana ( a misura d’uomo), raggiunge il suo culmine con Nietzsche che identifica
l’essere con la volontà di potenza. L’uomo è diventato super-uomo, libero creatore di valori e di
significati, e non riconosce nessun essere oltre la sua volontà di potenza. Con il pensiero
nietzschiano della volontà di potenza viene portato alle estreme conseguenze il concetto metafisico
della soggettità: tutto "ciò che è", uomo o natura che sia, è espressione di una potenza, di una forza,
di una energia del soggetto-uomo, concepita in termini di volontà. Con Nietzsche la volontà di
potenza esprime un modo di interpretare il dominio dell’uomo sul mondo, e in questo modo,
facendo dell’uomo la regola e la misura delle cose, secondo Heidegger, non ha fatto altro che
portare al massimo grado l’oblio occidentale dell’essere iniziato con Platone. Contrariamente alle
sue premesse, per Heidegger, Nietzsche non è antimetafisico, ma metafisico, perché si muove
all’interno dell’oblio occidentale dell’essere. Per cui il superamento della metafisica occidentale
non può avvenire tramite Nietzsche, ma contro Nietzsche e oltre Nietzsche.

4.2. La metafisica di Platone ha portato l’occidente al nichilismo


Per Heidegger, platonismo e nichilismo sono termini indissociabili. Con il platonismo, infatti,
matura la convinzione che ci sia un mondo vero, che non è da noi immediatamente raggiungibile, e
un mondo apparente che è il mondo sensibile nel quale noi ci troviamo. Questa frattura tra i due
mondi dà avvio a una dinamica che si concluderà solo con il nichilismo. L’esito è nichilista perché
una volta posto come mondo vero una realtà che non può essere raggiunta, si arriva alla
svalutazione dello stesso mondo vero. Infatti, progressivamente questo carattere di idealità, in

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origine forse ancora accessibile ai sapienti, viene sempre più svanendo e sminuendo, fino alla
consunzione dei valori assoluti che sono posti come ideali e che avrebbero dovuto orientare il
mondo sensibile. Alla fine di questo percorso di svalutazione dell'ideale, noi abbiamo
l'appiattimento su un mondo che è solo sensibile. Questo mondo, essendo solo sensibile, privo di
una stella polare di orientamento, è diventato anche un mondo senza senso (v. Nietzsche), privo di
significato, in cui tutto si riduce al nulla: è il mondo del nichilismo.
In definitiva, la metafisica si configura come un tipo di pensiero di cui dell’essere alla fine non ne è
più nulla. Da ciò l’equazione: metafisica = nichilismo.

5. LA VERITA’
Da Platone a Nietzsche la verità è diventata “ciò che risulta visibile agli occhi della mente”. In
questo modo, l’essere è stato relativizzato-finitizzato nella mente, e la verità è diventata una
proprietà del conoscere umano: adaequatio rei et intellectus. La verità, con Platone, è fondata sulla
“giustezza” del pensiero umano. Raggiunge la verità chi riesce a giudicare le cose secondo la giusta
misura (cioè la misura dell’intelletto umano). Dopo Platone, altre filosofie hanno ridotto la verità a
una “proprietà” dell’uomo: Aristotele con la diànoia (conoscenza razionale), Tommaso con
l’”intellectus”, Cartesio con il Cogito, Nietzsche con la volontà di potenza. Lo stesso Hegel ha
espresso con linguaggio finito ciò che è infinito. La riduzione dell’essere alla misura del pensiero
umano ha portato Nietzsche a dire che la “verità è una specie di errore”, intendendo dire che la
verità dipende dall’uomo che erra (è umana, troppo umana). Contro i filosofi, da Platone a
Nietzsche, Heidegger afferma che la verità non dipende dalla misura della mente umana, ma è
l’essere stesso che si manifesta e si rivela, e che non è mai imprigionabile nelle categorie del
pensiero umano. L’iniziativa non è dell’uomo, ma dell’essere. Rifacendosi all’etimo di verità, “a-
lètheia” (svelamento), Heidegger parla di verità come svelamento (rivelazione) dell’essere
all’uomo; svelamento che non dipende dalla misura dell’intelletto umano, ma è opera dell’essere
stesso. L’essere si svela perché è velato, per questo la sua manifestazione è sempre un alternarsi tra
un nascondersi e un rendersi manifesto. Come la luce implica l’oscurità, così la verità implica la
non-verità. La verità (intesa come svelamento dell’esssere) ha un carattere chiaroscurale ed erratico.
E poiché non si svela mai completamente, l’uomo erra nel cercare la verità.

6. LA LIBERTA’
La libertà non consiste nel libero arbitrio, ma nell’abbandono alla luce dell’essere che si svela.
Heidegger, partendo dal concetto classico di verità come “adaequatio rei et intellectus”, fa una
precisazione. Prima che l’uomo adegui il suo intelletto all’essere, è necessario che l’essere gli si
sveli attraverso le cose esistenti e che l’uomo stesso sia aperto all’essere, cioè “lasci parlare
l’essere”. Questa apertura dell’uomo all’essere, Heidegger la chiama libertà. Una libertà intesa nel
senso “ontologico” di “lasciar svelare l’essere”. Questa libertà è il dono stesso dell’essere all’uomo.
(con un paragone possiamo dire che l’uomo libero è simile a chi si fa abbronzare dal sole che gli
dona i suoi raggi). Più l’uomo si apre all’ascolto dell’essere, più è libero e più è nella verità In tal
senso, verità e libertà si identificano, in quanto per l’uomo, essere libero significa abbandonarsi allo
svelamento dell’essere. Ora se la verità consiste nello svelamento dell’essere, chi si abbandona
all’essere che si manifesta è a contatto con la verità.

7. COSA è l’ESSERE? LE EPOCHE DELL’ESSERE


L’essere è ineffabile, per questo Heidegger sottolinea la difficoltà di definire e comprendere
l’essere. Al posto delle definizioni usa una serie di concetti-metafore come “luce, orizzonte, bosco,
radura”. L’essere non-è-l’ente e neppure l’ente supremo (Dio), ma è ciò che entifica l’ente, cioè lo
lascia essere. E’ l’orizzonte al cui interno gli enti diventano manifesti. L’Essere è un evento che si
rivela e si vela nelle varie “epoche” della storia ( che sono parziali svelamenti e nascondimenti
dell’essere), e non si svela mai totalmente. L’uomo è aperto al passaggio dell’essere, ne avverte la

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presenza nascosta ma imperitura dell’essere, senza mai poterlo definire e comprendere totalmente,
ma facendosi solo “pastore”, custode dell’essere (v. avanti).

7.1. Pensiero rammemorante


In greco ,“epochè” vuol dire “sospensione”, e quando Heidegger afferma che l’essere è epocale,
vuole dire che si manifesta e si sospende (=si nasconde). In ogni epoca l'essere si manifesta e, al
contempo, si nasconde. E ciò avviene anche attraverso il pensiero dei grandi filosofi (la metafisica
stessa, da Platone a Nietzsche, è un modo di manifestarsi dell’essere). Lo svelamento dell’essere
non è mai totale, è nel chiaroscuro: l’essere (come la verità) si svela e si nasconde, e mentre
illumina l’uomo, lo svia o lo fa errare. Dunque, nelle pagine scritte dai vari filosofi e pensatori c'è
un detto (che è un manifestarsi dell'essere) e un non-detto (che è un tenersi nascosto dell'essere). Per
questo altri filosofi e pensatori esplicitano ciò che era nascosto nel pensiero di chi li ha preceduti.
Heidegger parla esplicitamente di " pensiero rammemorante ", cioè di pensiero come memoria.
Vuol dire che l’essere è presente e nascosto nelle parole, e noi moderni possiamo approfittare del
fatto che viviamo in un'altra epoca, in cui l'essere si manifesta diversamente, per far emergere
(rammemorare) dal pensiero degli antichi il loro non-detto. Grazie alle nuove disvelazioni
dell'essere realizzatesi nelle nuove epoche storiche, possiamo in altri termini far emergere cose che i
pensatori del passato hanno detto inavvertitamente senza saperlo (v. più avanti il discorso sul
linguaggio e sull’Ermeneutica). Heidegger, oltre alla metafora del bosco (v. avanti) usa un'antica
parola tedesca che significa, contemporaneamente, "illuminazione" e "radura". La radura, quella
parte del bosco in cui non vi sono piante, è dunque il luogo in cui si realizza una vera e propria
illuminazione. Le radure sono il luogo in cui si può far luce su di esso.

7.2. Pensare è ringraziare


Il pensiero umano non può possedere mai la verità. L’uomo non può mai svelare totalmente il senso
dell’essere. L’uomo è solo il custode, il pastore (fa la guardia all’essere, alla verità). Contro la
protervia del pensiero moderno che vuole possedere la verità e dimostrare razionalmente l’esistenza
dell’essere, Heidegger afferma che bisogna mantenersi aperti al mistero. Ai procedimenti
dimostrativi, Heidegger oppone il suo: “pensare (Denken) è ringraziare (Danken)”. Il pensiero
consiste nell’affidamento all’essere e nel ringraziamento. Questo concetto di “pensare è ringraziare”
spiega la vicinanza di Heidegger alla problematica religiosa.

8. LA POLEMICA ANTIUMANISTICA
Heidegger considera umanistica ogni dottrina che fa dell’uomo la misura dell’essere, subordinando
l’essere all’uomo. Contro l’umanesimo (di Sartre) Heidegger afferma che l’uomo non è il padrone
dell’ente ma il pastore dell’essere. Questa nuova posizione affiora soprattutto nella "Lettera
sull'umanismo" (1947), con la quale Heidegger critica la prospettiva sartreana emersa in
"L'esistenzialismo è un umanismo". Il pensatore tedesco prende le distanze dall'esistenzialismo, a
cui rinfaccia di assegnare il primato a quell'ente che è l'uomo, dimenticandosi dell'essere.
Nel I Heidegger, l’esistenza in rapporto all’essere è principalmente progetto: l’iniziativa è
dell’uomo. Con il II Heidegger l’esistenza diventa e-statico stare-dentro la verità dell’essere:
l’iniziativa è dell’essere. E’ l’essere infatti che “getta” l’uomo nel mondo e lo destina all’esistenza:
l’uomo è un progetto gettato dall’essere. In sintesi l’uomo esiste dentro orizzonti storico-culturali
che precedono la sua progettualità cosciente. Tali orizzonti gli appartengono ma lui non è l’autore.
L’arte, per esempio, (v. avanti) non è il compiersi di un’attività creatrice dell’artista, ma è l’essere
stesso che si pone in opera per mezzo dell’artista. L’opera d’arte cessa di essere produzione umana
per diventare un evento dell’essere stesso. La stessa cosa riguarda il linguaggio (v. più avanti), non
è l’uomo che parla ma è il linguaggio che parla per mezzo di lui. Il primato è dell’essere che getta
l’uomo nel mondo, che gli consegna il linguaggio. “quel che conta è l’essere, non l’uomo”.
Questo non significa una svalutazione della dignità dell’uomo, perché, secondo Hediegger, la
dignità dell’uomo non consiste nel “dominio”, ma nella custodia della verità dell’essere da parte

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dell’uomo. Non bisogna confondere l’hegelismo con antiumanesimo di Heidegger. Nel sistema di
Hegel, infatti, non c’è posto per il singolo, assorbito dalla totalità dell’idea. Quando, invece,
Heidegger parla di primato dell’essere, intende dire che l’essere dona all’uomo la verità del
linguaggio, dell’arte, della storia…, e l’uomo risponde responsabilmente all’appello dell’essere.
Anzi la libertà dell’uomo (come abbiamo visto) consiste proprio nell’ascoltare e rispondere
all’essere che si svela.

8.1. L’uomo pastore dell’essere


L'uomo deve infatti mettersi " in ascolto dell'essere " , quasi come se in attesa di una rivelazione
improvvisa. L'uomo non è più il protagonista (come invece era in "Essere e tempo"), ma è il
collaboratore dell'essere; o, per usare un'espressione heideggeriana divenuta celebre, l'uomo è il
"pastore dell'essere ". Il pastore non è il proprietario del gregge, ma è semplicemente colui che lo
custodisce. Allo stesso modo, l'uomo è tenuto a custodire l'essere senza per questo divenirne il
padrone.

9. DOVE SI SVELA L’ESSERE? IL LINGUAGGIO POETICO


L’uomo è tale in quanto “parla”, è per sua natura parlante. Parla sempre, nella veglia e nel sonno. E’
proprio il linguaggio che fa dell’uomo quell’essere vivente che egli è in quanto uomo. Noi
appariamo e ci apriamo agli altri enti grazie al linguaggio: “nessuna cosa è dove la parola manca”
(Stefan Gorge).
Il linguaggio non è la semplice estrinsecazione fonica dell’interiorità, né un semplice segno e
strumento di comunicazione. Il linguaggio è la casa dell’essere. L'espressione heideggeriana
rimanda inevitabilmente alla convinzione degli antichi secondo la quale il tempio è la casa di Dio,
nel senso che è il luogo in cui Dio si manifesta meglio. Similmente, nella prospettiva heideggeriana,
l'essere si manifesta al meglio nel linguaggio, la casa dell’essere. Casa in cui l’uomo non è il
padrone ma l’ospite. In questa dimora dell’essere che è il linguaggio, abita l’uomo, come
“guardiano dell’essere”. E dire che l'uomo abita nella casa dell'essere, cioè nel linguaggio, significa
riconoscere che il linguaggio non è uno strumento che l'uomo si dà. Al contrario, egli nasce e vive
nel linguaggio, giacchè la sua vita è calata in esso, dall'inizio alla fine. Il linguaggio è qualcosa di
cui disponiamo e tuttavia dispone di noi. Quante parole dette dagli antichi vengono riprese e
reinterpretate? Si pensi al mito di Edipo di Sofocle, alla Divina Commedia di Dante, alla parola
“evoluzionismo” in Darwin. Gli autori hanno usato delle parole con un senso che neppure loro, che
le hanno “inventate”, hanno colto completamente (la stessa cosa vale per noi nei confronti dei
posteri). In questo senso è il linguaggio che ci possiede e dispone di noi. Il linguaggio è consegnato
a noi in quanto lo parliamo, ma si appropria di noi in quanto, con le sue strutture, delimita fin
dall’inizio il campo della nostra possibile esperienza del mondo. Noi, infatti, possiamo pensare e
parlare del mondo solo restando dentro i limiti imposti dalle strutture linguistiche.
L’essere si svela proprio nel linguaggio, ma non in quello scientifico, né in quello impersonale della
chiacchiera, ma in quello poetico e filosofico: quando il pensiero filosofico dialoga con la poesia si
avvicina all’essenza del linguaggio. Partendo dalla convinzione che l’essere si svela nel linguaggio,
Heidegger si è dedicato allo studio delle etimologie e ha cercato nuove parole.
I filosofi e i poeti svelano, attraverso le parole, il significato dell’essere. Ma l’uomo (poeta o
filosofo) può parlare solo in quanto ascolta in silenzio e si affida al linguaggio dell’essere. L’uomo
parla solo in quanto ascolta, solo in quanto risponde all’appello dell’essere. Il vero ascolto è quello
che non si limita a prendere atto di ciò che esplicitamente è detto in un discorso ma richiama (fa
memoria, evoca) ciò che non è detto esplicitamente. Ascoltare vuol dire risalire dalla parola a
significato che in essa vive. E’ richiamare ciò che non è espresso totalmente ma è ben presente nella
parola. La poesia è la lingua primitiva che dando il nome alle cose, ha fondato l’essere. Questa
fondazione non è una creazione (come volevano gli idealisti), ma un dono dell’essere stesso. Il
linguaggio non crea le cose ma “le dice”, cioè dà loro un significato. Ma a questo punto
l’argomento si sposta sull’ermeneutica.

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10. L’ERMENEUTICA
Se l’uomo è ospite nella casa dell'essere, cioè nel linguaggio, significa riconoscere che l’uomo, in
questa casa dell’essere, non può mai ipotizzare una conoscenza veramente oggettiva, non può mai
possedere la verità assoluta e definitiva.
Se le cose sono nel linguaggio e come linguaggio, il compito del pensiero diventa quello di
interpretare il linguaggio, diventa “ermeneutica”. Ma l’emeneutica del linguaggio (come abbiamo
già sottolineato) è quella che porta ad “ascoltare”, non a “possedere” l’essere. Questo è sempre
totalmente Altro, non è mai pienamente comprensibile o imprigionabile in alcune e fisse categorie
interpretative. L’”essere è differenza inesauribile”. La scienza ermeneutica prende atto del fatto
che nel linguaggio c’è più il non-detto che il detto, per questo si mette in cammino. L’ermeneutica
è un itinerario, un compito infinito e incessante, una continua interpretazione e discussione.
All’ermeneutica ha dedicato i suoi studi Gadamer, allievo di Heidegger. Le interpretazioni,
secondo Gadamer, vanno all’infinito. L’interpretazione è un compito infinito e
possibile, perché sempre nuove interpretazioni sono possibili. La crescita del
sapere comporta l’eliminazione di un’interpretazione e l’urgenza di formularne
un’altra. Un’interpretazione definitiva non ci sarà mai. Torniamo ad Heidegger.
Molto rilevante è una raccolta di saggi il cui titolo è traducibile tanto con "Sentieri del bosco"
quanto con "Sentieri interrotti": Heidegger paragona l’ermeneutica ai sentieri del bosco che non
portano da nessuna parte, ma che permettono solo di addentrarsi nel bosco. Con quest'immagine,
Heidegger vuole dirci che l'essere è come un bosco e che i sentieri non sono strade verso l'essere,
ma strade all'interno di esso, cosicché si può girovagare all'interno dell'essere, senza un criterio
che ci permetta di attingerlo o che pretenda di attingere certezze incontrovertibili, ma si accontenta
di semplici “segnavia”. Tra quello che noi comprendiamo dell’essere e l’essere stesso c’è un
abisso. Per questo, come abbiamo già sottolineato, l’uomo non è il padrone dell’essere, ma il
custode, l’attendente dell’essere. Ed è anche in virtù di questa constatazione che Heidegger si
allontana sempre più dalla filosofia per accostarsi alla poesia (intesa come manifestarsi dell'essere
nel linguaggio).
Questo periodo “ermeneutico” di Heidegger è caratterizzato da una profonda religiosità: l’essere è
mistero. Questo mistero si fa parola e si fa dono all’uomo nel linguaggio. Per questo “pensare è
ringraziare” per il favore che l’essere fa all’uomo, manifestandosi per mezzo della parola.

10.1. FERMIAMOCI UN ATTIMO!


Quest'ultima fase del pensiero di Heidegger è anche la più complessa e forse la più provocatoria. I
suoi stessi allievi (è il caso di Gadamer), e gli esponenti di quella koinè ermeneutica di cui Heidegger
è stato in un certo senso l'iniziatore (si pensi a Derrida o Ricoeur in Francia), prendono nettamente le
distanze da quel dire "ineffabile" che "avrebbe perduto il terreno sotto i piedi", rimandando a luoghi
impercorribili per il pensiero. Per un verso, il pensiero di Heidegger può apparire astratto e lontano
dai problemi più concreti e più immediati del mondo della vita. In realtà dietro questa dedizione al
problema dell’essere, Heidegger manifesta un’attenzione sensibilissima e capillare per le
manifestazioni patologiche che lacerano il mondo contemporaneo, quali la svalutazione dei valori,
la perdita del centro, le crisi di identità. Heidegger è stato un lettore attento di tali fenomeni, un
interprete acuto, un pensatore che ha voluto farsi carico di queste patologie e dei problemi da
risolvere. Infatti, una volta riconosciuto queste malattie del mondo contemporaneo, ha cercato le
cause che le hanno provocate, per poterle sanare con un’efficace terapia. La causa, per Heidegger,
di questo destino patologico è la dimenticanza dell’essere. Dimenticando l'essere, l'uomo si è
concentrato sull'ente per dominarlo e padroneggiarlo. Questo lo si comprenderà meglio affrontando
la problematica collegata alla tecnica.

11. METAFISICA E TECNICA


11.1 La tecnica come espressione della dionisiaca volontà di potenza

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Anche la tecnica è un’epoca dell’essere. E, molto hegelianamente, Heidegger sostiene che ogni
manifestazione dell'essere è legittima. Quindi anche la tecnica ha, in quanto espressione dell'essere,
una sua legittimità. Ma la tecnica è sempre una forma esasperata della metafisica, è espressione
della dionisiaca volontà di potenza. La dionisiaca volontà di potenza non riconosce nessun altro
essere oltre se stessa. La tecnica è figlia del nichilismo perché è l’espressione di un soggettivismo
umano esaltato e vuoto d’essere. La metafisica classica è responsabile della storia dello
smarrimento dell’essere. Questo smarrimento ha trasformato l’uomo in padrone e predone
dell’ente, ritenendo la natura un puro oggetto da sfruttare e dominare. Tale è stato la sviluppo della
tecnica nella storia: puro dominio dell’uomo sul mondo. Per Heidegger, Nietzsche è il vero profeta
della tecnica, il teorico del dominio incondizionato dell’uomo sul mondo. Nietzsche si credeva
antimetafisico e inattuale, invece è la massima espressione della metafisica occidentale e molto
attuale. Infatti la tecnica è figlia dell’esaltazione della prepotenza dell’uomo e dello smarrimento
dell’essere. L’occidente è la terra dell’”occasus”, cioè del tramonto e dell’uccisione (occido)
dell’essere e Nietzsche ne è il profeta. Infatti Nietzsche ha portato al massimo grado ciò che aveva
iniziato a fare Platone con la sua metafisica: ha fatto dell’uomo la regola e la misura di tutte le cose,
portando a termine l’oblio occidentale dell’essere.

11.2. La tecnica moderna: “impianto” e riduzione delle “cose” a risorse


Gli antichi, consideravano la tecnica come un rendere manifesto (dis-velato) ciò che prima non era
tale. La tecnica era un pro-durre, un manifestare ciò che era nella natura; era un costruire-“rendere
presente” una casa, una ruota, un mulino a vento… che prima risultavano assenti. In questo senso la
tecnica si limitava a favorire l’opera della natura e a seguirla nei suoi autonomi meccanismi. La
tecnica moderna, invece, è un trarre fuori dalla natura un’energia da accumulare e da impiegare,
mettendola a servizio dell’uomo. Il mulino a vento diventa centrale idroelettrica o nucleare. L’aria
cessa di essere vento in poppa per diventare fornitura di ossigeno; il suolo cessa di essere ciclica
fecondità naturale per diventare agricoltura programmata… L’essenza della tecnica moderna
consiste nell’essere una gigantesca macchina imposta alla realtà e a servizio della volontà di
potenza dell’uomo. Heidegger, a tale proposito, parla di Gestell , cioè di “impianto” o “dispositivo”
della tecnica (in Italiano letteralmente si traduce come: piedistallo, scaffale, suppellettile). Gestell
indica una struttura, un impianto, che ha il carattere particolare di essere un qualcosa di costruito
dall'uomo, un artefatto, che funge da struttura portante di un qualcosa. È un termine allora che per
Heidegger può adattarsi a indicare ciò che la tecnica rappresenta rispetto alla natura. La natura è ciò
che cresce spontaneamente, che ha in se stesso il principio della propria genesi e del proprio
movimento, il principio della propria nascita e del proprio perire. La tecnica, invece, rappresenta
rispetto alla natura ciò che è artefatto, costruito, prodotto, ciò che è freddo. Ebbene, Heidegger si
serve di questo concetto per indicare quell'atteggiamento che nel mondo contemporaneo è diventato
predominante e ha soffocato la spontaneità della crescita delle cose che sono per natura.
L'«impianto» come essenza della tecnica è una sistematica riduzione delle cose a «risorse», ossia è
una trasformazione di esse in mezzi di riserva per la produzione. L'«impianto» o «dispositivo»
della tecnica sono espressione della «dimenticanza dell'essere»; con l’oblio dell’essere, le cose
vengono svuotate del loro vero senso.

11.3. Il pericolo della tecnica e il suo superamento


La storia della tecnica, dunque, ha seguito la stessa storia della metafisica. La tecnica, infatti, ha
come causa l’oblio dell’essere (nichilismo) e come effetto lo smarrimento dell’uomo che si ha con
la grande guerra, i campi di sterminio, le camere a gas, le bombe a idrogeno… Ma, “L'impianto”
«è sempre un'epoca dell'essere». Ma questa epoca “dell’'impianto”, dice Heidegger, può essere
superata «dall'avvento di un altra epoca». E per l'avvento di una nuova epoca, l'uomo può e deve
dare un suo contributo.
Bisogna precisare che l’atteggiamento di Heidegger di fronte alla tecnica non è di fuga, ma di
approfondimento. Heidegger ritiene che oggi ciò che è veramente inquietante non è il fatto che il

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mondo diventi un mondo completamente tecnico, ma che l'uomo non sia affatto preparato a questa
trasformazione del mondo. L'aspetto pericoloso, agli occhi del filosofo, appare consistere nel fatto
che la vita diventi unidimensionale (cioè solo tecnicistica), priva di alternative e che l'uomo
dimentichi un altro modo di incontrare il mondo, vivendo in esso.
La filosofia, riflettendo sull’essere, deve interessarsi della tecnica, aiutando l’uomo a ritrovare la via
della luce. Per poter andare oltre il destino della tecnica, per Heidegger, è indispensabile vivere fino
in fondo questo destino. E' necessario bere il calice fino in fondo per poter avviare un nuovo inizio.
In questo “andare-oltre” il mondo tecnicistico, l'uomo non deve assumere degli atteggiamenti
semplicemente di ritorno, di conservazione del pretecnico, perché la tecnica consumerebbe e
roderebbe qualsiasi tentativo di questo genere (non si possono portare indietro le lancette
dell’orologio). Per oltrepassare la tecnica è indispensabile, invece, lasciare che la tecnica si
dispieghi in tutte le sue potenzialità. Dice hegelianamente Heidegger: “è necessario che gli aspetti
negativi vengano vissuti fino in fondo per poter sperare in un cambiamento radicale”. Tanto più
che Hölderlin (il poeta preferito di Heidegger) ha insegnato che " dove è il pericolo, cresce anche
ciò che salva ". Il vantaggio della tecnica, se proprio vogliamo vedere come Hegel " la rosa nella
croce ", sta nel far emergere la vera e profonda natura della metafisica e del suo tipico dominio
dell'uomo sull'essere. Solo se si prende coscienza dell'erramento della metafisica, che si è avuto con
la tecnica, si prospetta anche la possibilità di una nuova epoca dell’essere. E qualcosa di simile
Heidegger lo pensava anche del nazismo: dopo averlo letto, in un periodo in cui simpatizzava
ancora per esso, come destino scelto attivamente dal popolo tedesco, egli maturò sempre più la
convinzione che il nazismo non fosse positivo in sé, ma solo nella misura in cui, come la tecnica,
faceva emergere in una forma estrema l'errore/erramento della metafisica.

11.4. Etica e tecnica. Fermiamoci …ancora!


Il pensiero di Heidegger sulla tecnica ci provoca. Non possiamo non riflettere. Le invenzioni
tecnologiche sono in sé positive e utili all’uomo. Si pensi solo a quante vite si salvano, grazie alle
tecnologie presenti negli ospedali. Tuttavia non si può eludere il problema circa il rapporto tra la
tecnica e l’etica. La tecnica ha annullato la differenza tra bene e male, perché vede il male non
come cosa negativa, ma come un’occasione per il suo sviluppo. La morte causata dagli esperimenti
atomici, dal materiale tossico presente nei telefonini e in tanti elettrodomestici, le conseguenza
nefaste del consumo di cibi transgenici, la manipolazione degli embrioni non interessano alla
tecnica: sono i martiri immolati sull’altare del progresso tecnico che ha come fine solo la sua
glorificazione. La tecnica segue il comandamento secondo cui “una cosa si fa perché tecnicamente
si può fare e conviene economicamente”. La tecnica può essere criticata, oltraggiata, smentita,
contraddetta, e non si ferma mai, non muore. Anzi un suo errore o una sua smentita non solo non la
distrugge, ma al contrario la potenzia. Un disastro ecologico, dalla desertificazione al buco
nell’ozono, dalla bomba atomica all’inquinamento causato dai rifiuti tossici, non determina la
distruzione della tecnica, ma diventa energia che brucia e avvia verso nuove ricerche, in vista di
risultati migliori. La tecnica non è divorata, ma divora i propri errori. Questo se da una parte è
positivo perché permette alla tecnica di perfezionarsi, dall’altra pone degli interrogativi etici molto
seri. La tecnica è onnipotente e libera nel suo espandersi o c’è un limite che gli viene imposto
dall’etica?

11.5. La tecnica non si fa catturare dall’etica


Come risponde il filosofo all’interrogativo posto? Heidegger su questo problema è molto scettico.
Non è un caso che nel suo pensiero manchi una riflessione sull’etica. La spiegazione è stata data dal
filosofo stesso. Se il mondo è dominato dalla tecnica, risultano vani tutti i tentativi di catturare la
tecnica entro le forme dell’etica o della morale. Nel mondo della tecnica ogni etica e ogni virtù è
diventata impossibile. Non c'è più spazio per un regolamento morale dell'agire dell'uomo, perché
tutto è già regolato secondo i ritmi e gli ordini della tecnica. Per questo motivo, secondo alcuni
filosofi, la tecnica è l’incarnazione della volontà di potenza di Nietzsche: vuole solo se stessa, il

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proprio potenziamento. Se quella macroazione, che è lo sviluppo dell'umanità secondo i ritmi della
tecnica, ha una inesorabilità che è pari alla inesorabilità dei movimenti geologici, ebbene, l'etica e la
virtù in questo mondo, secondo un’espressione di Volpi, hanno ormai soltanto la bellezza dei
fossili. (l’espressione può solo causare un riso amaro e un interrogativo inquietante: domineremo la tecnica
o saremo dominati dalla tecnica?)

12. L’ARTE
Heidegger, con la conferenza L’origine dell’opera d’arte ricompresa in Sentieri interrotti, dalla
concezione dell’essere come “nulla” dell’ente, perviene alla dottrina dell’essere come “evento”.
Che cos’è un’opera d’arte? L’arte, per il filosofo, si configura come “il porsi-in opera-della verità”,
è l’automanifestazione dell’essere-verità. Cosa vuol dire? Poiché la verità coincide con “il non-
essere-nascosto dell’ente” dire che l’arte è la messa in opera della verità significa che il nucleo
dell’opera d’arte è quello di mostrare il significato autentico delle cose. Dunque, non l’arte come
imitazione della vera realtà (come voleva Platone), ma l’arte che mette in opera la verità delle cose.
L’illuminarsi di un mondo per mezzo della verità fatta opera d’arte non corrisponde a una
illuminazione totale. Infatti, la verità si configura sempre come un’apertura che è, nello stesso
tempo, chiusura. Anche nell'opera d'arte (soprattutto nei quadri) assistiamo sempre a un gioco tra il
detto e il non-detto, cosicché si cerca di far emergere dalla materia qualche significato, come se
l'artista si facesse portavoce dell'essere. E nell'opera d'arte l'essere si manifesta e si nasconde
contemporaneamente: sicché il critico di oggi può leggere in essa dei significati che l'autore non
sapeva di averci messo. Questo giustifica anche il fatto che spesso il critico tira fuori concetti che
l'artista non conosceva, ma che ciononostante erano presenti nell'opera d'arte. In questo modo, viene
anche giustificata la pluralità delle interpretazioni della medesima opera.
Ogni arte è Poesia (=pòiesis= creazione, produzione). Per questo, Heidegger sarà portato a vedere la
manifestazione dell’essere in modo particolare nel linguaggio poetico.

13. SOLO UN DIO CI PUO’ SALVARE


E. Stein riteneva Heidegger un ateo, perché in “Essere e Tempo” aveva interrogato l’uomo senza
metterlo in relazione a Dio, aveva tenuto conto del tempo senza pensare all’eterno. Infatti all’opera
di Heidegger rispose con la sua “Essere finito ed Essere Eterno”. Ma la Stein non ha avuto modo di
conoscere la svolta del filosofo, una svolta che lo ha portato a interrogarsi più apertamente su Dio.
H.G. Gadamer in un’intervista affermava che Heidegger (che era stato novizio gesuita e studioso di
teologia) ha «passato tutta la vita a cercare Dio: proprio questa è la chiave del suo pensiero», e che
alla fine in certo senso lo aveva trovato. In effetti, Heidegger nell'ultima conferenza di Brema
scrive: «Se Dio viva, oppure rimanga morto, non si decide mediante la religiosità degli uomini, e
ancora meno, mediante le aspirazioni teologiche della filosofia e della scienza naturale». E nella
celebre intervista pubblicata dalla rivista «Der Spiegel» (il 13 maggio 1976, 13 giorni prima di
morire) diceva: «Ormai solo un Dio ci può salvare». Heidegger è convinto che il pensiero è
impotente nell’affrontare il discorso dell’essere: l’uomo da solo non può salvarsi, solo Dio può
salvarlo, aiutandolo a scoprire il senso dell’essere. Quale Dio? Forse l’essere di cui parla si
identifica con Dio? Secondo alcuni interpreti, Heidegger non identifica l’essere né con il Dio delle
religioni (Dio creatore), né con il Dio della filosofia, né con il fondamento del mondo (Demiurgo,
Motore immobile, Sostanza, Natura, Ragione…). Però, contro questa interpretazione, c’è quella di
J.B.Lotz, che ne “Il valore religioso della filosofia dell’essere in M. Heidegger”, a p. 258, riporta la
testimonianza del fratello di Heidegger: “quando mio fratello parla dell’essere, ultimamente,
intende riferirsi a Dio … In quest’epoca di mancanza di Dio, Heidegger pensa che gli uomini non
siano capaci di accogliere il mistero di Dio. Perciò parla dell’essere e tace su Dio“. E B. Welte,
che tenne il discorso funebre nel giorno della sepoltura di Heidegger (secondo il rito cattolico, per
volontà esplicita del filosofo), scrisse: “ <Colui che cerca> può essere l’iscrizione di tutta la sua
vita e il suo pensiero. <Colui che trova> può essere la scritta cifrata della sua morte… Egli
cercava attendendo…il Dio divino e il suo fulgore”.

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Che l’essere di cui parla Heidegger si identifichi o meno con Dio, può essere anche irrilevante. Ciò
che interessa è sapere che Heidegger è stato sempre aperto alla ricerca di Dio. Contro i positivisti e
i neo-empiristi logici, secondo i quali il problema di Dio è un problema senza senso, Heidegger ha
dimostrato che se da una parte il pensiero filosofico-finito dell’uomo non può “pensare” la
metafisica e Dio, dall’altra non può non pensare l’essere e Dio come problema. Il senso della nostra
vita dipende da come si pensa Dio. Per Heidegger Dio è il totalmente Altro, è l’Inesprimibile, che
sta al di là di ogni presenza e di ogni determinazione. A Dio ci si abbandona fiduciosi, senza la
pretesa di catturarlo con i nostri pensieri. Possiamo sintetizzare quanto detto, affermando che
Heidegger ha voluto mettere gli uomini sulla strada dell’essere e in tal modo ha voluto prepararli ad
accogliere il “ritorno” di Dio. Il pensiero poetico e filosofico nel quale si manifesta l’essere, infatti,
predispone l’uomo all’attesa di Dio. La riflessione heideggeriana su Dio si trasforma in “attesa”.

14. ADESIONE AL NAZISMO di Heidegger


La sua adesione al nazismo è un fatto inquietante. Oggi i critici sono ancora divisi sui motivi che
hanno spinto uno dei più grandi filosofi del ‘900 ad aderire al nazismo. Heidegger inizialmente
scambia il fervore nazionalista di Hitler per una ripresa morale della Germania e dell'Occidente nel
suo insieme, tanto che non esita a prendere posizione a favore del nazismo. Proprio per via di
quest'adesione, dopo il 1945, Heidegger fu emarginato dagli ambienti culturali tedeschi. Essa risulta
particolarmente fastidiosa se teniamo presente che il suo maestro, Husserl, fu espulso dalla
Germania in quanto ebreo e Heidegger gli prese il posto negli ambienti accademici. In veste di
rettore dell'università di Friburgo, nel 1933, pronunciò un acceso discorso di prolusione all’anno
accademico, in cui tesseva le lodi del nazismo. In quel discorso, in sostanza, viene dato un giudizio
positivo dell'ideologia nazionalista hitleriana, non in quanto ideologia razzista ma in quanto
portatrice di energie nuove. Il discorso, tuttavia, suscitò reazioni negative nell'ambiente filosofico
internazionale, tanto che fu bollato da Benedetto Croce, in un articolo apparso su La critica, come
«indecente e servile». Ma, per onestà, è bene ricordare che egli si è sempre assunto le sue
responsabilità. E del resto la sua adesione al nazismo durò pochissimo: dopo il celebre discorso in
cui elogiava il nazismo, Heidegger se ne allontanò, ritirandosi all'interno della vita accademica (nel
’34 si dimise dal rettorato), e arrivò perfino ad opporsi vivamente all'espulsione nazista degli
insegnanti ebrei. In quegli stessi anni, inoltre, il filosofo si accostò al poeta Hölderlin, attirando su
di lui i sospetti delle autorità naziste.
Tutta questa confusa e triste vicenda costerà purtroppo al filosofo un prezzo umano altissimo: egli
perde infatti l'amicizia dei più prestigiosi rappresentanti della cultura tedesca. Fino allo scoppio
della seconda guerra mondiale, Heidegger continua la sua attività di insegnamento e produzione.
Nel 1945, viene interrogato dalla commissione di epurazione voluta dai vincitori della guerra. In
seguito a tale inchiesta gli verrà proibito di insegnare fino al 1949. Sartre (nonostante il disaccordo
culturale) contribuirà grandemente alla riabilitazione internazionale del collega tedesco.

15. PENSATORE SCOMODO E AMBIVALENTE


Entrato a pieno titolo tra i massimi filosofi del nostro secolo, Heidegger continua ad essere un
pensatore scomodo e ambivalente, di cui risulta difficile tracciare un quadro interpretativo unitario.
La sua influenza sul pensiero filosofico occidentale è oggi unanimamente riconosciuta di
incalcolabile importanza, anche per ciò che riguarda la filosofia italiana (basti pensare a Vattimo).
Insomma, tutta la cultura occidentale, anche quella che si oppone duramente all'"irrazionalismo"
ermeneutico heideggeriano, deve fare i conti con la presenza di questa gigantesca personalità,
scomparsa a Baden-Wurtemberg il 26 maggio 1976.

Don Antonio D’Angelo

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Professor Volpi

Vorrebbe riassumerci brevemente che cosa ha sostenuto in quell'occasione?


Il discorso di Heidegger sul superamento della metafisica è in sé duplice: può in primo luogo
trattarsi di una rinuncia alla metafisica, di un volgerle le spalle, nel senso per cui la metafisica

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sarebbe un percorso sbagliato, che dobbiamo lasciarci dietro. Questo è il primo significato e il
discorso heideggeriano vi rientra facilmente, visto che la parola Überwindung nella lingua tedesca
significa soprattutto: ciò che io supero, lo vinco; e ciò che ho vinto, me lo lascio dietro. Ma il
discorso di Heidegger sul superamento della metafisica non è mai inteso in questo senso, perché
secondo me il confronto pensante e filosofico di Heidegger con la storia della metafisica non
appartiene alla cosiddetta critica della metafisica, quindi alle dottrine del positivismo o della
filosofia analitica (si tratta di correnti filosofiche che non prendono affatto sul serio la filosofia e la
metafisica, bensì considerano le domande della metafisica come domande apparenti). Heidegger,
invece, si è confrontato nel suo cammino di pensiero con le diverse epoche della storia della
filosofia occidentale in modo molto dettagliato e prendendole altamente sul serio; le sue domande,
anche quelle fondamental-ontologiche, non sono completamente altre e al di là della metafisica
tradizionale, ma al contrario sono le domande tradizionali della metafisica colte nella loro
originarietà: la domanda circa l'essere, circa l'essenza del mondo, circa l'essenza del tempo, circa
l'essenza dello spazio, circa l'essenza del movimento e la domanda inclusa in tutte queste, quella
circa l'essenza dell'uomo. Queste sono le domande tradizionali che Heidegger trae dalla storia della
filosofia. Non si è inventato domande totalmente nuove. Si rivela in questo caso un profondo
pensatore storico e pensare storicamente significa: rivolgersi alla storia, comprendere la storia in sé,
nei suoi motivi di pensiero, afferrare tali motivi di pensiero e domandare se essi debbano essere ri-
petuti più originariamente. Si tratta proprio della ri-petizione (così come Heidegger la presenta in
apertura ad Essere e Tempo ), cioè del tornare-indietro dell'originaria domanda circa l'essere posta
all'inizio della storia della metafisica, affinché essa possa ora essere posta più originariamente. Ma
porre più originariamente, innanzitutto in modo fondamental-ontologico, la domanda sull'essere, e
con essa tutte le altre domande (circa l'essenza della verità, l'essenza del mondo etc.), non significa
affatto un totale lasciare indietro le domande impostate inizialmente, bensì proprio in dialogo con
quelle poste inizialmente o con la forma iniziale (forma di domanda) di queste domande circa
l'essenza, ottenere la forma originaria della domanda. L'espressione “superamento della metafisica”
si rivela dunque un'espressione infelice, visto che la maggior parte delle volte sembra alludere al
superamento di qualcosa che non è più valido. Mettiamola così: la posizione fondamental-
ontologica delle tradizionali domande metafisiche circa l'essenza era la prima via di Heidegger e a
partire da questa prima via si è venuta formando la seconda via, l'altra via, la via della storia
dell'essere, dove egli parla con sguardo retrospettivo alla metafisica del primo inizio e con sguardo
anticipante al pensiero della storia dell'essere dell'altro inizio (che Heidegger intende dispiegare). A
questo proposito occorre precisare che Heidegger, quando parla della storia dell'essere, non intende
solamente il pensiero futuro; la storia dell'essere, piuttosto, assume nel contempo il primo inizio e
l'altro inizio da dispiegare; e se il primo inizio appartiene internamente alla storia dell'essere, non
deve trattarsi allora di una via che, per così dire, corre all'esterno della storia della metafisica; essa
stessa, invece, costituisce già il primo inizio dell'essenziamento della verità proprio nel modo del
toglimento, del togliersi del disvelamento dell'essere a favore del disvelamento dell'ente nel suo
essere. E questo essere è l'enticità dell'ente ed è il grande tema della storia della metafisica. Ma se le
cose stanno così, allora rimane imperdibile, anche per il pensiero dell'altro inizio, il pensiero
metafisico del primo inizio, poiché esso appartiene pur sempre alla storia dell'essere che è da
pensare. Per questo motivo, Heidegger afferma nella sezione 96 dei Contributi alla filosofia (che è
intitolata: «Le grandi filosofie»), che le grandi filosofie, e intende con ciò le grandi figure della
storia della metafisica, sono montagne invincibili e insuperabili.
Ciò significa: le grandi metafisiche sono insuperabili, ossia non possono essere vinte; non poter
essere vinte ed essere insuperabili dal punto di vista del pensiero significa: essere invincibili.
Filosofie, poiché esse traggono la loro propria verità esattamente dalla storia dell'essere. La storia
della metafisica viene vista in questi termini da Heidegger, come storia delle grandi filosofie, di
insuperate e insuperabili montagne; montagne che possono essere esperite solo nel loro ergersi e
solamente così possono essere interpretate. Non è possibile che la metafisica possa essere letta
diversamente, per esempio come un voler superare, come una volontà-di-vincere da parte di una

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posizione metafisica. Quando Heidegger si appresta alla comprensione della metafisica nel senso
della storia dell'essere, occorre dire che la storia della metafisica è la prefigurazione di ciò che
Heidegger ha sviluppato in primo luogo in senso fondamental-ontologico e poi nel senso della storia
dell'essere. La storia della metafisica, cioè, intesa come primo inizio, si accompagna sempre al
pensiero dell'altro inizio. E questo è ora un rapporto totalmente altro: per questa comprensione della
metafisica intesa come insuperabili e insuperate montagne la parola Überwindung non va più bene.
E ci sono anche alcuni luoghi testuali (io sono stato recentemente colpito da uno di questi passi), nei
quali Heidegger, accennando a questo significato del superamento, nel senso del vincente lasciarsi-
dietro, lo rifiuta e afferma che tale significato (il vincente lasciarsi-dietro) è quello che tuttavia più
spesso ci viene in mente quando udiamo la parola Überwindung .

2) Nella sua relazione Lei parla anche della differenza tra Grundfrage e Leitfrage . In che cosa
consiste precisamente questa differenza?
Questa differenza è straordinariamente importante. Heidegger ha introdotto questa differenza per la
prima volta nel 1930 nel corso di lezione intitolato “Sull'essenza della libertà umana”: con il
termine Leitfrage egli intende la domanda conduttrice per la metafisica. Egli la riporta nella
formulazione aristotelica “Che cos'è l'ente?”. E questa domanda non viene liquidata come una
domanda falsa, piuttosto viene mostrato che questa Leitfrage ha dal canto suo un fondamento che la
rende possibile, e questo è proprio la Grundfrage - Grundfrage che prima viene posta in senso
fondamental-ontologico, poi nel senso della storia dell'essere. La Grundfrage non domanda ‘che
cosa è', non più solamente “Che cos'è l'ente?” ma piuttosto “Che cos'è l'essere?, ma ora non nel
senso della quiddità dell'essere, piuttosto “come perviene all'essenziamento l'essere?” Quindi la
metafisica domanda “Che cos'è l'ente?”, l'essere nel senso del “che cos'è” dell'ente ( ousia ) e la
Grundfrage domanda “come perviene all'essenziamento l'essere nella sua verità?”. E questa
domanda circa il modo di essenziamento della verità dell'essere è la Grundfrage , poiché essa
domanda circa il fondamento (fondamento non nel senso di causa, piuttosto fondamento nel senso
di fondamento fondante, nel quale la Leitfrage si fonda e mediante il quale viene resa possibile).
Anche in questo esempio si vede molto bene come Heidegger riprenda la Leitfrage metafisica e
vada oltre in direzione di una domanda più originaria, pur senza presentare la Leitfrage metafisica
come falsa o sbagliata.

3) Nell'ultimo corso marburghese ( Principi metafisici della logica ), Heidegger parla di svolta e di
capovolgimento (nell'Appendice al § 10). Di svolta egli parla anche nella celebre conferenza
Sull'essenza della verità (1930). Qual è la differenza tra questi due concetti di svolta?
Il concetto di ‘Svolta' compare per la prima volta all'interno del pensiero ontologico fondamentale,
nell'ultimo corso di lezioni marburghesi (1928); si tratta di una ‘Svolta' che fin dall'inizio è prevista
come capovolgimento, come ‘Svolta' della ontologia fondamentale nella metaontologia, dove
questo capovolgimento, questa ‘Svolta', è già preconcepita nella concezione della ontologia
fondamentale. L'ontologia fondamentale non basta a se stessa. Essa è piuttosto la preparazione per
la metaontologia, per la metafisica ontica degli ambiti dell'essere che fanno parte dell'ente in totale,
laddove la metaontologia naturalmente rimane sempre connessa all'ontologia fondamentale. Questa
‘Svolta' la chiamo fondamental-ontologica, e da questa ‘Svolta' fondamental-ontologica occorre
differenziare nettamente la svolta nel senso della storia dell'essere, quindi ciò che Heidegger chiama
la ‘Svolta' nella Lettera sull'Umanismo , che è il passaggio dall'approccio fondamental-ontologico a
quello nel senso della storia dell'essere.
Ma questa Kehre ha come presupposto che il modo di essenziamento della verità dell'essere venga
visto e compreso in quanto ‘Evento'. Ed ‘Evento' è un concetto per la reciproca co-appartenenza
della verità dell'essere e dell'essere dell'uomo, quindi dell'essere del Ci. Ciò è in sé un cor-
rispondente rapporto – Heidegger lo chiama Gegenschwung nei Beiträge zur Philosophie – ma
all'interno di questa struttura di rapporti cor-rispondenti un certo rapporto possiede un primato sugli
altri, ossia quel rapporto che egli chiama anche Ereignung . La Ereignung non è la stessa cosa dell'

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Ereignis ; Ereignung significa la maggior parte delle volte per Heidegger quel rapporto primario, la
verità ad-veniente, l'ad-veniente gettarsi della verità dell'essere, il gettarsi per l'essere dell'uomo, per
l'essere progettante dell'uomo, che dal getto ad-veniente viene lasciato accadere come gettato,
gettato nella verità dell'essere, affinché ottenga la Cura di sé, ottenga la Cura proprio nel modo del
progettare, del progettante aprire di ciò che si getta ad-veniendo, cosicché la struttura formale dell'
Ereignis suoni: il getto ad-veniente nel contro-slancio per il progetto avvenuto da ciò. E questo
concetto di Ereignis , potremmo dire, è l'Evento dell'essere. Il concetto di ‘Evento' di cui si parla a
proposito del seminario aristotelico tenuto a Marburgo nel 1928, invece, non è già l'‘Evento'
dell'essere, bensì è chiaramente l'‘Evento' dell'esser-ci. Quando l'Esistere viene compreso come
evento, allora si tratta dell'evento dell'esserci, esso è ancora preso in considerazione sul fondamento
dello stesso concetto di evento che Heidegger ha utilizzato già all'inizio del 1919 durante il semestre
straordinario di guerra, l'appropriarsi del vivere nel suo esser proprio. Il concetto di ‘Evento'
sviluppato in questo seminario del 1928 non si distingue quasi per niente o addirittura affatto dal
concetto di evento del 1919. Non si può dunque affermare che, poiché Heidegger nel corso di un
seminario su Aristotele nel 1928 ha parlato di evento, egli abbia già portato a compimento una
‘Svolta' nel 1928. Questo lo ritengo falso, assolutamente falso.
Il corso estivo del 1928, I principi metafisici della Logica e il seguente seminario su Aristotele, si
mantengono ancora completamente nell'ambito dei concetti di trascendenza e orizzonte. Heidegger
intende la trascendenza come ‘Evento', ma la trascendenza è il modo d'essere dell'Esserci,
dell'essere dell'Esserci che comprende il mondo. Dunque si tratta, per quanto riguarda questo
concetto di evento del 1928, sempre dell'‘Evento' dell'Esserci, ma non ancora dell'‘Evento'
dell'essere. Ma la conferenza Sull'essenza della verità dell'anno 1930 si rivela un primo e decisivo
passo verso il pensare nel senso della storia dell'essere, poiché ora la verità (la verità originaria,
l'essenza della verità) viene compresa come verità svelantesi-coprentesi e in questo accadere
svelantesi-coprentesi si trova proprio il gettarsi della svelantesi-coprentesi verità dell'essere in
quanto Ci e per l'essere del Ci.
Qui mi riferisco alla prima versione di questa conferenza che risale al 1930, sebbene ad essere
pubblicata nel 1943 sia stata la quarta edizione rielaborata. Il tratto fondamentale di questa
conferenza, il suo impianto, è quello del 1930, ma le realizzazioni dei passi di pensiero sono
rielaborati; è per questo che solo nel 1943 compare la parola Ereignis , mentre nel 1930 questa
espressione non era ancora presente, sebbene la conferenza Sull'essenza del fondamento (1929) si
muova già nello stato di cose dell'‘Evento', poiché la verità dell'essere viene già pensata
storicamente. Essa viene pensata dal punto di vista storico, nel quale viene visto che la verità non
solamente come nella ontologia fondamentale è originariamente o meno originariamente apertura,
ma piuttosto che ciò che egli innanzitutto chiama apertura è in sé un accadere della verità dello
svelantesi velamento e del velantesi svelamento. E quando Heidegger alla fine della conferenza
Sull'essenza della verità dice che è stata prevista una seconda conferenza che avrebbe tematizzato il
passaggio dall'essenza della verità alla verità dell'essenza – ci sono anche nel lascito alcune
annotazioni, nelle quali questo passaggio di pensiero è brevemente schizzato – egli intende la svolta
dall'essenza della verità alla verità dell'essenza; questa svolta della quale Lei mi domanda è già la
svolta nel senso della storia dell'essere, poiché la domanda circa l'essenza della verità si rivolta, e si
è già rivoltata nel corso di questa conferenza, nella verità dell'essenziamento, nella verità
dell'essenza. Ciò ora significa infatti: nel dis-velamento dell'essenza dell'essere. La verità
dell'essenza non è un semplice rivolgimento dell'essenza della verità, piuttosto in questo caso verità
significa qualcosa di diverso rispetto alla prima formula e anche essenza significa qualcosa di
diverso. Nella formula: “l'essenza della verità”, il termine essenza significa innanzitutto la
correttezza, e poi viene mostrato dove questa correttezza si fondi, cioè nell'apertura e così via; ma
nel rivolgimento (la verità dell'essenza) il termine verità indica il disvelamento dell'essenza ora non
più nel senso dell'essenza, bensì dell'essenziamento dell'essere. Dunque questa seconda conferenza,
non elaborata né pubblicata, avrebbe tratto dalla conferenza pubblicata la conseguenza di
tematizzare propriamente l'essenziamento storico della verità dell'essere, poiché la conferenza stessa

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si muove precisamente già nella tematizzazione della originaria essenza della verità. Ma egli ancora
non dice expressis verbis che questa originaria essenza della verità, che viene pensata nella
conferenza, sia la verità non più dell'ente bensì dell'essere. E affinché ciò venga mostrato, bisogna
che giunga a compimento la seconda conferenza.
Dunque questa tesi Sull'essenza della verità appartiene al territorio della svolta nel senso della storia
dell'essere, cioè al territorio del ritorno della fondamental-ontologica posizione della domanda circa
l'essere nella posizione della domanda nel senso della storia dell'essere e questo concetto di svolta
rimanda alla fine della conferenza Sull'essenza della verità già alla ‘Svolta' nell'Evento. Dunque,
entrambi questi concetti di ‘Svolta', soprattutto il concetto di ‘Svolta' fondamental-ontologica,
devono essere tenuti rigorosamente separati dal concetto di ‘Svolta' nel senso della storia
dell'essere. Quest'ultimo comincia per la prima volta laddove l'Evento è Evento dell'essere e non più
principalmente l'Evento dell'Esserci. E il primo concetto di Evento appartiene, possiamo dire,
all'evento dell'Esserci, all'evento della vita. La vita avviene nel suo avvenire. Al posto della vita noi
possiamo inserire l'Esserci, quindi l'evento dell'Esserci.

4) Come quarta domanda vorrei porLe un problema che ho già sottoposto all'attenzione del suo
collega Costantino Esposito. Nella sua relazione Lei ha parlato di metaontologia, interpretandola
nei termini di una ontologia regionale. A questo proposito Heidegger afferma che Aristotele parla
di due direzioni della filosofia: la prote philosophia (ontologia fondamentale) e la theologike
philosophia (metaontologia). Di queste due direzioni della filosofia, dice Aristotele, l'autentica
filosofia deve essere pensata come theologike philosophia . Nello stesso tempo Heidegger sostiene
che il tema della theologike philosophia , cioè Dio ( to theion ), che è naturalmente anche il tema
della metaontologia, debba essere definito come das Umgreifende und Überwältigende
(l’onniabbracciante e l’incombente), das Übermächtige (l’onnipotente). Tutte determinazioni che
non fanno pensare a nulla di regionale…
La Sua domanda coglie il punto. Io vorrei fissare la differenza tra ontologia fondamentale e
metaontologia (in quanto ontologia regionale) non tanto sul rapporto tra filosofia prima e teologia,
sebbene Heidegger vi faccia riferimento – si tratta comunque di un passo oscuro – bensì in
riferimento alla moderna, leibniziano-wolffiana, accademica partizione della metafisica in
metaphysica generalis e metaphysica specialis . Partizione della quale Heidegger ha sempre molto
parlato nelle sue lezioni su Kant. Io direi così: l'ontologia fondamentale è la forma originaria della
metaphysica generalis . Mentre la metaphysica generalis è orientata nella metafisica alla Leitfrage ,
l'originaria fondazione della metaphysica generalis attraverso l'ontologia fondamentale è orientata
alla Grundfrage , e così come all'interno della metafisica la metaphysica generalis prepara le tre
metafisiche, ora per analogia l'ontologia fondamentale prepara la metaontologia dell'ente in totale.
Quando Heidegger fa riferimento nel suo corso di lezioni al concetto aristotelico di filosofia prima e
di teologia, secondo me ha davanti agli occhi quanto segue: questa differenza-relazione viene
accolta anche nella determinazione leibniziano-wolffiana della metaphysica generalis e della
metaphysica specialis , che sta lì dietro, poiché ciò che per Aristotele è la teologia, nella
metaphyisica specialis è esattamente la teologia razionale. Credo che Heidegger con questo
riferimento alla distinzione aristotelica di filosofia prima e teologia avesse davanti agli occhi ciò che
stava alla base della distinzione tra metaphysica generalis e metaphysica specialis , poiché questa
distinzione di Aristotele è entrata nella distinzione scolastica di metaphysica generalis e
metaphysica specialis , e ora per Heidegger le metafisiche speciali non sono la metafisica
dell'anima, la metafisica del mondo e la metafisica di Dio, bensì le metafisiche speciali dei diversi
ambiti dell'essere. La distinzione heideggeriana tra ontologia fondamentale e metaontologia è, lungo
la Grundfrage , la più originariamente fondata distinzione tra generalis e specialis .

5) Ci sono delle critiche che vorrebbe fare a Heidegger?


Una prima critica consiste già nel modo in cui qui per esempio ho interpretato la comprensione
della metafisica da parte di Heidegger. La mia critica, dunque, all'utilizzo della parola

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“superamento”. Senza dubbio Heidegger, come nessun altro pensatore ha intrapreso una nuova via.
Deve essere visto molto chiaramente che egli ha portato le grandi fondamentali domande
metafisiche in una nuova forma del domandare. Si tratta di un'incomparabile prestazione da parte di
Heidegger. Diversamente da lui, tuttavia, io vorrei mantenere con pari diritti, se è lecito che io per
una volta mi esprima così, la strada che la metafisica ha finora percorso. E qui si deve sempre di
nuovo combattere contro Heidegger (in fondo egli già salvaguarda la strada della metafisica
tradizionale, ed è normale che un uomo che in quaranta lezioni ha quasi esclusivamente trattato la
storia della metafisica, ad un certo punto tagli corto con essa, la metta da parte e si occupi delle sue
proprie cose).
Sono stato invitato a Bologna a un congresso sul tema “Metafisica e nichilismo – Löwith e
Heidegger interpreti di Nietzsche” e lì ho tenuto una conferenza dal titolo “Sottrazione e
annientamento: sulla differenza essenziale tra metafisica e nichilismo”. Una critica successiva, che
si riallaccia alla prima e che abbiamo toccato brevemente, è la seguente: Heidegger, seppure in un
senso elevato, intende la critica alla metafisica come critica al nichilismo. Questo non posso
condividerlo. C'è in lui, per esempio nel trattato del volume 69 dell'opera completa, La storia
dell'essere , una grandiosa interpretazione nel senso della storia dell'essere di ciò che il nichilismo è
nel nostro tempo; lì si parla dell'annientamento, l'annientamento di tutta la significatività; egli
sostiene che la significatività e ciò che è decisivo – qui ha naturalmente in mente il dominio
dell'essenza della scienza moderna e della tecnica moderna – vengano annientate, e precisamente
annientate irrimediabilmente. Questa è un'analisi del nichilismo, ma questo carattere di
annientamento è secondo me, da un punto di vista qualitativo, altra cosa rispetto a ciò che nella
metafisica accade come ritrarsi. Heidegger interpreta la sottrazione, il ritirarsi della verità dell'essere
nella metafisica, precisamente in modo che ciò che aumenta e si accresce venga inteso come un
aumentare di ciò che rispetto all'essere è nulla. Quindi un aumentare del fondamentale tratto
nichilistico della metafisica. Si tratta secondo me di una visione troppo ristretta. Direi addirittura
così: fenomenologicamente – e io insisto sempre molto sull'atteggiamento fenomenologico – non
realmente manifestabile. C'è il nichilismo, ma esso non è solamente il ritrarsi della verità dell'essere,
bensì l'accadere dell'annientamento. E perciò dico: da un punto di vista fenomenologico c'è una
differenza essenziale, una differenza qualitativa tra sottrazione e annientamento. Questo ho
principalmente trattato in quella conferenza ed è stato così ben accolto, dai colleghi italiani e dagli
uditori, che voglio lavorarci ancora. Una terza critica (critica che viene in luce anche nell'ultima
parte della mia relazione) consiste nella visione da parte di Heidegger della teologia nel senso della
storia dell'essere come totalmente altra rispetto alla teologia cristiana. Nel senso della storia
dell'essere di Heidegger, dunque, si tratta della dipartita del Dio cristiano in connessione con
Nietzsche ed il suo “Dio è morto” a vantaggio di questo atteso, con Hölderlin naturalmente, e futuro
apparire del divino. Ciò non posso ugualmente condividerlo. E' in sé un incomparabile passaggio di
pensiero, ma anche le argomentazioni sull'ultimo Dio risultano fenomenologicamente non più
dimostrabile. La finitezza del filosofare per me si mostra ai limiti di ciò che non è più
fenomenologicamente dimostrabile. Come preparazione per l'apparire dell'ultimo Dio, Heidegger
dice già molto bene nella Lettera sull'Umanismo che l'evento in sé, solamente quando la verità
dell'essere tornerà ad avere valore, potrà accadere; quando egli afferma che il sacro, e nel sacro la
dimensione del divino e nella dimensione del divino il Dio potrà accadere, egli intende (sebbene
egli non lo dica nella lettera sull'Umanismo) naturalmente l'ultimo dio; ciò lo ritengo
fenomenologicamente del tutto comprensibile, dimostrabile.
A queste dichiarazioni posso pienamente aderire, ma questo Dio che deve apparire può essere anche
il Dio cristiano, esattamente come Heidegger ha meravigliosamente detto nella sua lezione di libera
docenza, nella sua introduzione alla fenomenologia della religione, nella sua interpretazione delle
lettere di Paolo, dei Galati e dei Tessalonicensi. Per quanto riguarda la religiosità cristiana e l'attesa
del Dio cristiano, del ritorno di Cristo nell'ambito delle lettere paoline, la dimostrazione diviene
positiva in base alla liberazione da lui effettuata rispetto all'interpretazione filosofica. Ciò si mostra
come fenomeno poiché libero rispetto allo stravolgimento effettuatone dalla ontologia greco-

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aristotelica. E secondo la mia opinione, ma qui io stesso sono solamente all'inizio, ciò che
Heidegger ha affrontato nel primo corso di lezioni da libero docente in riferimento alle lettere
paoline, all'interno della sua analisi della vita fattizia, della effettiva esperienza di vita, deve essere
pensato conformemente alla cosa stessa insieme al pensiero dell'evento.
Questi sarebbero tre inizi per una critica, nella quale io non voglio superare Heidegger (sarei
completamente pazzo). Un Fichte poteva andare più in alto di Kant, Fichte va oltre Kant, e io ho
spesso detto che il Fichte di Heidegger ancora non c'è, Derrida non è il Fichte di Heidegger. E
tuttavia io vorrei filosofare con Heidegger, poiché ciò è in sé affascinante; nel pensiero di Heidegger
è raccolta l'intera filosofia occidentale, ma con certe modificazioni, e in queste modificazioni
consistono le mie critiche.

- Professor Volpi, l'opera filosofica di Heidegger presenta a prima vista una certa paradossalità. Per
un verso Heidegger richiama all'attenzione del pensiero filosofico temi e problemi estremamente
rarefatti e astratti, per altro verso invece, nel nostro secolo, forse nessuno ha svolto una critica
dell'epoca moderna più radicale della sua. Da questo punto di vista il tempo storico entra
prepotentemente nell'orizzonte della filosofia di Heidegger. Può cercare di sciogliere questo
paradosso? (1)

- Riguardo al concetto di "sottrazione" dell'essere, c'è un tema che troviamo sin dagli esordi del
pensiero di Heidegger: l'idea, presente nei testi giovanili, secondo la quale la vita umana è
posseduta da una tendenza a "rovinare", a cadere fuori di sé, a perdersi nel mondo delle cose e a non
potersi quindi ritrovare se non in una forma, reificata. Può parlarci di questo nucleo teorico, che
Heidegger elabora negli anni Venti e che attraverso continui mutamenti sfocerà nel concetto di
storia della metafisica?(2)
- Cartesio e Leibniz sono per Heidegger i pensatori nei quali è possibile rintracciare i caratteri
distintivi della modernità: l'affermazione della centralità del soggetto e della sua attività
rappresentativa, attività che riduce tutti gli enti a oggetti disponibili per essere dominati da parte
dell'uomo. In che senso quella che Heidegger chiama la "soggettità" costituisce la struttura chiave
della metafisica e quindi della nostra stessa epoca? (3)
- L'epoca moderna, come Lei ha appena detto, dai suoi esordi con Cartesio fino all'illuminismo di
Nietzsche, intrattiene dunque profondi legami con il mondo greco. In che senso per Heidegger il
platonismo e il nichilismo sono termini indissociabili? (4)
- Il nichilismo moderno trova, secondo Heidegger, la sua più compiuta realizzazione
nell'organizzazione tecnico-scientifica del mondo, propria dell'epoca contemporanea. Potrebbe
parlarci di una parola, di difficile traduzione, che Heidegger adopera, cioè il Gestell, per
caratterizzare il mondo contemporaneo? (5)
- In quale misura l'atteggiamento di Heidegger nei confronti della tecnica è un atteggiamento di
critica - e quindi di negazione - e in quale misura invece è un atteggiamento di accettazione, un dire
sì all'epoca della tecnica intesa come destino? (6)
- Perché, soprattutto nella sua opera tarda, Heidegger assume una posizione fortemente critica nei
confronti della scienza? Che senso dobbiamo attribuire alla sua nota espressione secondo la quale
"la scienza non pensa"?(7)
- Che rapporto ha questa posizione di Heidegger sulla scienza con posizioni di altri filosofi -
pensiamo a Hegel o anche a Husserl - per i quali la filosofia ha un compito fondativo rispetto alla
scienza, poiché in un certo modo essa rappresenta l'autoconsapevolezza della totalità entro cui si
inscrivono le scienze?(8)

- Un'altra delle categorie della tradizione occidentale che Heidegger tenta di demolire è quella
dell'etica. Perché Heidegger asserisce l'impossibilità di un'etica nell'epoca moderna? (9)
- Che rapporto intercorre tra la critica della modernità di Heidegger e le altre espressioni di quella
che in Germania fu denominata la Kulturkritik, la "critica della civiltà". C'è continuità tra le

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posizioni di Heidegger con quelle, anch'esse estreme, di Spengler, di Scheler e dell'ultimo Husserl?
(10)
- Professor Volpi, la critica della modernità di Heidegger, per certi suoi aspetti essenziali, evoca
quella che in un noto libro i padri della cosiddetta Scuola di Francoforte, Adorno e Horkheimer,
chiamarono la "dialettica dell'Illuminismo". Che cosa unisce e che cosa invece separa, la teoria
critica dei francofortesi dal pensiero heideggeriano? (11)
- Perché Heidegger, nel 1946, rompendo un lungo silenzio con la famosa Lettera sull’umanismo,
sconfessa clamorosamente le interpretazioni esistenzialiste delle note analisi di Heidegger in Essere
e tempo e rivendica il carattere antiumanistico del proprio pensiero? (12)

1. Professor Volpi, l'opera filosofica di Heidegger presenta a prima vista una certa
paradossalità. Per un verso Heidegger richiama all'attenzione del pensiero filosofico temi e
problemi estremamente rarefatti e astratti, per altro verso invece, nel nostro secolo, forse
nessuno ha svolto una critica dell'epoca moderna più radicale della sua. Da questo punto di
vista il tempo storico entra prepotentemente nell'orizzonte della filosofia di Heidegger. Può
cercare di sciogliere questo paradosso?
Il pensiero di Heidegger può apparire, per la sua concentrazione sulla questione dell'essere, un
pensiero estremamente astratto e lontano dai problemi più concreti e più immediati del mondo della
vita. In realtà dietro questa dedizione al problema ontologico, Heidegger manifesta una attenzione
sensibilissima e capillare per quelli che sono gli sconvolgimenti radicali del mondo contemporaneo.
Pensiamo a fenomeni come la svalutazione dei valori, la perdita del centro, le crisi di identità e a
tutte quelle espressioni di una crisi profonda che lacerano il mondo contemporaneo e che hanno
trovato in Heidegger un lettore, un interprete molto acuto e molto attento. Da questo punto di vista
si può dire dunque che in Heidegger vi sia, accanto all'attenzione per problema dell'essere,
un'attenzione altrettanto forte e sensibile per le manifestazioni patologiche della contemporaneità,
rispetto alle quali egli si propone come un pensatore che intende farsi carico di queste patologie allo
stesso modo in cui ci si fa carico di problemi da risolvere. Il collegamento che deve essere fatto è il
seguente: per Heidegger, una volta che noi abbiamo riconosciuto queste malattie del mondo
contemporaneo, dobbiamo anche essere in grado di ritrovare le cause che le hanno provocate, per
potere riparare, rimediare o evidentemente sanare ciò che queste cause e questi motivi hanno
prodotto. E più radicale sarà la ricerca di queste cause, più in profondità andremo nella ricerca di
ciò che si è prodotto a livello di superficie storica, tanto più efficace sarà la terapia.
Noi non ovviamo ai problemi della tecnica e del nichilismo attraverso la ricerca di palliativi di
superficie, andando di causa in causa, e impigliandoci sempre più nella dinamica "diabolica", che il
fenomeno della tecnica ha innescato - "diabolica" perché con le soluzioni dei problemi, ai quali noi
ci troviamo di fronte, inneschiamo ulteriori problemi e, quindi, una catena infinita di rimandi. È
proprio per questo che Heidegger va alla ricerca di una causa profonda di questo malessere, di
questo destino patologico della contemporaneità, e ritrova questa causa profonda, attraverso una
serie di passaggi che potrebbero essere esplicati, in una sottrazione dell'essere stesso. Vi è una
dimensione profonda che Heidegger indica con un nome, l' "essere", la quale non è più presente
all'uomo contemporaneo: una dimensione nella quale l'uomo contemporaneo avrebbe o maturerebbe
una consapevolezza della sua impotenza, della sua finitudine, della sua limitatezza e quindi della
precarietà del suo progetto tecnico di padroneggiamento operativo e conoscitivo della realtà.
L'uomo contemporaneo ha rimosso tale dimensione per potere dedicare ed esplicare tutte le sue
energie proprio a questa opera di impossessamento totale e capillare di tutto ciò che è.
Dimenticando l'essere, l'uomo si può concentrare sull'ente per dominarlo e padroneggiarlo. È questa
dimenticanza dell'essere, probabilmente, la causa più profonda, la causa metafisica delle patologie
del mondo contemporaneo. E dunque si capisce allora, anche se qui la mia esposizione è
estremamente sommaria e abbreviata, la connessione che Heidegger vede tra un problema così
astratto come la questione dell'essere e le questioni più scottanti del mondo contemporaneo.
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2. Riguardo al concetto di "sottrazione" dell'essere, c'è un tema che troviamo sin dagli esordi
del pensiero di Heidegger: l'idea, presente nei testi giovanili, secondo la quale la vita umana è
posseduta da una tendenza a "rovinare", a cadere fuori di sé, a perdersi nel mondo delle cose
e a non potersi quindi ritrovare se non in una forma, reificata. Può parlarci di questo nucleo
teorico, che Heidegger elabora negli anni Venti e che attraverso continui mutamenti sfocerà
nel concetto di storia della metafisica?
Per Heidegger la storia della metafisica è una vicenda, un destino che ha anch'esso delle radici
profonde e di cui vanno ricercate le cause. Heidegger individua o segue fondamentalmente due
cammini per arrivare a riconoscere queste cause. Un primo cammino è appunto quello da lui messo
in atto nella prima fase del suo pensiero, soprattutto nei corsi tenuti nell'Università di Friburgo, nei
primi anni Venti, e poi successivamente, tra il 1923 e il 1928, a Marburgo. Nel corso di questo suo
cammino speculativo Heidegger cerca di mostrare come la metafisica e ciò che essa rappresenta non
sia per l'uomo occidentale un evento casuale, ritenendo che essa sia il frutto di una dinamica insita
in quel movimento particolarissimo che è la vita stessa dell'uomo.
La vita dell'uomo ha in sé un movimento che orienta e indirizza la vita, innanzi tutto e per lo più,
verso delle modalità di attuazione, che sono per lo più inautentiche. Questo perché la scelta
autentica è sempre più difficile e più faticosa di quella inautentica. Quando noi ci prefiggiamo di
centrare un bersaglio, il colpire il centro è sempre la cosa più difficile che riesce in un modo e in un
modo soltanto, mentre, per lo più, noi, in maniera anche abbastanza facile, noi riusciamo ad
avvicinarci, a centrare il bersaglio, ma il centro, appunto, è uno e uno soltanto. Dal che risulta la
facilità di sbagliare e la difficoltà di centrare. Ebbene, per Heidegger la vita umana è un qualcosa di
analogo, è un progetto, la cui riuscita può avvenire in un modo, e in un modo soltanto, e che invece
può andar male e fallire in molteplici modi. Il fallimento dell'esistenza è sempre più facile, sta
sempre lì in agguato, mentre invece la sua riuscita è più difficile. Quindi c'è nella vita questa
tendenza a rovinare, cioè a trovare, a cadere in attuazioni, che non sono all'altezza di una scelta
autentica.
La metafisica con ciò che di negativo essa rappresenta agli occhi di Heidegger - cioè il progetto
della soggettività umana nella sua pretesa di padroneggiare tutto l'ente, in quanto ente che è lì
presente davanti, disponibile, come un materiale da sfruttare -, è il rispecchiamento a livello
filosofico-teorico di questa tendenza connaturata alla specie umana a fallire piuttosto che a riuscire.
Proprio perché l'esistenza richiede ognora di essere progettata, essa rappresenta un peso, una
difficoltà da gestire e da amministrare, rispetto alla quale, appunto, noi rischiamo sempre di cadere
in errore. E la metafisica è stata per Heidegger un destino, un errore, nel quale la storia umana è
caduto. In questo errore metafisico si rispecchia dunque su un piano destinale, complessivo, quella
tendenza che noi possiamo constatare in ciascuno di noi, quando ci troviamo di fronte al dover
scegliere tra l'autentico e l'inautentico e verifichiamo la facilità con cui cadiamo nell'inautentico e la
difficoltà di scegliere invece la forma di vita autentica. Nella prospettiva di Heidegger, una
dinamica simile si verifica nella storia del pensiero e nella storia della civiltà occidentale.

3. Cartesio e Leibniz sono per Heidegger i pensatori nei quali è possibile rintracciare i
caratteri distintivi della modernità: l'affermazione della centralità del soggetto e della sua
attività rappresentativa, attività che riduce tutti gli enti a oggetti disponibili per essere
dominati da parte dell'uomo. In che senso quella che Heidegger chiama la "soggettità"
costituisce la struttura chiave della metafisica e quindi della nostra stessa epoca?
Per Heidegger è necessario distinguere tra soggettività e soggettità. La soggettività è una forma più
radicale e più pervicace di "soggettità", che inizia, appunto, in epoca moderna. Ma poiché per
Heidegger l'esigenza dell'uomo di affermarsi come figura principesca che domina tutto l'ente non è
presente solo nel mondo moderno, ma anche nel pensiero greco antico, a cominciare da Platone,
egli deve introdurre questa differenziazione e usare il concetto di soggettità per indicare proprio
questo atteggiamento già presente nei Greci, che trova poi in Descartes, in Leibniz e nella

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metafisica moderna un suo potenziamento nella soggettività moderna. Ecco dunque che allora per
Heidegger si può configurare una matrice unitaria di tutta la storia occidentale, come storia della
metafisica, in cui verrebbe ad affermarsi l'uomo come soggetto di conoscenza e azione nei rapporti
con il mondo e con gli enti, e quindi un successivo potenziamento di questo progetto con il pensiero
moderno, in cui tutto viene visto alla luce di questo principio, che diventa il principio della
soggettività. Secondo Heidegger, con il pensiero nietzschiano della volontà di potenza viene portato
alle estreme conseguenze il concetto metafisico della soggettità, la quale nasce con Platone in forma
ancora debole - forma che Heidegger designa appunto come soggettità -, e si potenzia nella
soggettività moderna, trovando infine la sua espressione massima ed estrema nella concezione di
Nietzsche, secondo la quale tutto "ciò che è", uomo o natura che sia, è espressione di una volontà di
potenza, di una forza, di una energia concepita in termini di volontà, intesa come determinazione
propria di un soggetto.

4. L'epoca moderna, come Lei ha appena detto, dai suoi esordi con Cartesio fino
all'illuminismo di Nietzsche, intrattiene dunque profondi legami con il mondo greco. In che
senso per Heidegger il platonismo e il nichilismo sono termini indissociabili?
Platonismo e nichilismo sono termini indissociabili perché, secondo Heidegger, il nichilismo non è
altro che una forma rovesciata di platonismo o meglio è la conseguenza estrema a cui il platonismo
ha portato se si considera quest'ultimo come quella forma di pensiero caratterizzata dalla dottrina
dei due mondi.
Con il platonismo, infatti, matura la convinzione che il mondo così com'è, cioè il mondo sensibile
così come ce lo attestano i sensi, non è un mondo vero, ma è solo un'illusione, un'apparenza, la
quale ci rimanda inevitabilmente a un qualcosa d'altro, a un essere che non sia solo apparenza ma
abbia i caratteri della stabilità e della verità. Si distingue così tra un mondo vero, che non è a noi
disponibile o da noi raggiungibile immediatamente e un mondo apparente che è il mondo nel quale
noi ci troviamo. Ma in questo modo, cioè attribuendo i caratteri di verità a un mondo che a noi non
è accessibile, noi poniamo una frattura, una dicotomia, che risulta, nell'interpretazione che dà
Heidegger della storia occidentale, decisiva per questa storia stessa e che dà avvio a una dinamica
che si concluderà solo con il nichilismo. In che senso? Nel senso che, una volta che si è distinto
radicalmente tra mondo vero e mondo apparente, tra mondo sensibile e mondo ideale, e si è
concepita questa distinzione come una frattura, si è al tempo stesso dichiarato che quel mondo, che
noi poniamo come mondo vero, è un qualcosa che noi non possediamo, ma questa irraggiungibilità
significa allo stesso tempo una svalutazione del carattere d'essere di quel mondo che pure noi
poniamo come mondo vero.
Progressivamente questo carattere di idealità, in origine forse ancora accessibile ai pochi, ai
sapienti, viene sempre più svanendo e sminuendo, fino a consumarsi nel fenomeno della
svalutazione dell'ideale, nella consunzione dei valori che sono posti come ideali e che dovrebbero,
in principio, orientare il mondo sensibile. Alla fine di questo percorso di svalutazione dell'ideale,
noi abbiamo la consunzione, l'appiattimento su un mondo che è solo sensibile, ma che, essendo solo
sensibile, privo di una stella polare di orientamento, è diventato un mondo senza senso, privo di
significato, in cui tutto si riduce al nulla: è il mondo del nichilismo.

5. Il nichilismo moderno trova, secondo Heidegger, la sua più compiuta realizzazione


nell'organizzazione tecnico-scientifica del mondo, propria dell'epoca contemporanea.
Potrebbe parlarci di una parola, di difficile traduzione, che Heidegger adopera, cioè il Gestell,
per caratterizzare il mondo contemporaneo?
Questo termine, Gestell, è un termine particolare perché esso è di uso comune nella lingua tedesca,
dalla quale Heidegger lo riprende, caricandolo però di un significato filosofico ed elevandolo a
concetto chiave per indicare quella forma planetaria che contrassegna l'epoca contemporanea, e cioè
la forma della tecnica. Gestell significa, nel linguaggio comune, un qualcosa di costruito e di
artefatto, significa propriamente una "montatura di occhiali", per esempio; significa, però, anche un

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"cavalletto", significa anche un "telaio". Brillen-gestell "montatura di occhiali", Fahrrad-gestell, il
"telaio di una bicicletta", Gestell "il trespolo di un artigiano". Dunque indica una struttura, un
impianto, che ha il carattere particolare di essere un qualcosa di costruito dall'uomo, un artefatto,
che tiene assieme, funge da struttura portante di un qualcosa. È un termine allora che per Heidegger
può adattarsi a indicare ciò che la tecnica rappresenta rispetto alla natura.
La tecnica rappresenta rispetto alla natura ciò che è artefatto, costruito, prodotto, mentre la natura è
ciò che cresce spontaneamente, ha in se stesso il principio della propria genesi e del proprio
movimento, il principio della propria nascita e del proprio perire, mentre l'artefatto è un qualcosa di
morto, di freddo. Ebbene, Heidegger si serve di questo concetto per indicare quell'atteggiamento
che nel mondo contemporaneo è diventato predominante e ha soffocato la spontaneità della crescita
delle cose che sono per natura. Per illustrare questo concetto Heidegger ricorre alla Fisica di
Aristotele, e precisamente a un celeberrimo passo in cui si dice che: "mentre da un albero nasce un
albero, da un letto non nasce un letto". Entrambi sono legno, ma uno è legno vivente, che ha in sé il
principio della propria nascita, della propria crescita e della propria morte, cioè il proprio ciclo
vitale, naturale, l'altro invece è un legno morto, è un impianto ovvero una struttura. Gestell è
dunque il termine che sta a significare questo secondo elemento. Ma c'è di più, perché la parola si
compone in tedesco di una radice, che è "-stell", la quale significa il "porre".
Il "porre" è per Heidegger una modalità tipica del mondo della tecnica. Noi poniamo un qualcosa, lo
costruiamo e non lo lasciamo essere secondo la sua modalità naturale. In tedesco vi sono alcuni
verbi composti con questa radice, "er-stellen", "vor-stellen", "be-stellen", che significano
rispettivamente: "pro-durre", "ra-(p)presentare", "ordinare", che sono tutte modalità che concorrono
a formare il mondo della tecnica. La produzione, l'ordinazione, la rappresentazione sono tutte
disposizioni proprie del mondo della tecnica. E dunque la parola "Ge-stell", che esprime attraverso
il suffisso "ge" qualcosa di collettivo, che serve a raccogliere, a indicare, oltre all'impianto, l'insieme
delle modalità del "porre", che costituiscono e rappresentano gli atteggiamenti fondamentali
dell'uomo dominato dalla tecnica. Per queste due ragioni, dunque, "Gestell" viene scelto da
Heidegger come termine chiave, come parola e concetto fondamentale per esprimere l'essenza della
tecnica.

6. In quale misura l'atteggiamento di Heidegger nei confronti della tecnica è un atteggiamento


di critica - e quindi di negazione - e in quale misura invece è un atteggiamento di accettazione,
un dire sì all'epoca della tecnica intesa come destino?
L'atteggiamento di Heidegger unisce in sé entrambe le cose, in apparenza contraddittorie, proprio
perché Heidegger è convinto che, per poter andare oltre il destino della tecnica, sia indispensabile
vivere fino in fondo questo destino. E' necessario bere il calice fino in fondo per poter cominciare a
cedere a un nuovo inizio.
Per Heidegger, in sostanza, non si va oltre la tecnica assumendo degli atteggiamenti di reazione
rispetto ad essa. Nel vortice del nichilismo della tecnica l'uomo non deve assumere, come dire, degli
atteggiamenti semplicemente di ritorno, di battaglia, di conservazione del pretecnico, perché la
tecnica consumerebbe e roderebbe qualsiasi tentativo di reagire. Proprio perché per Heidegger essa
è una potenza epocale non può essere riscattata attraverso degli atteggiamenti di semplice reazione
o di conservazione. Per oltrepassare la tecnica è indispensabile lasciare che la tecnica si dispieghi in
tutte le sue potenzialità. L'unico atteggiamento possibile che Heidegger vede in questo dispiegarsi
della tecnica consiste nell'aiutare la tecnica a sviluppare tutte le sue possibilità fino all'estremo, e
dunque un atteggiamento che, come dire, raccolga le risorse ancora integre, per poter mantenere
l'equilibrio nel vortice che la mobilitazione totale della tecnica ha scatenato.

7. Perché, soprattutto nella sua opera tarda, Heidegger assume una posizione fortemente
critica nei confronti della scienza? Che senso dobbiamo attribuire alla sua nota espressione
secondo la quale "la scienza non pensa"?

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Quando Heidegger dice che la scienza non pensa, non fa una critica alla scienza, ma intende
soltanto indicare qual è il suo ambito, e quindi indicare e riconoscere quei confini che la scienza
stessa si impone. La scienza non pensa nel senso che essa indaga intorno a un qualcosa che essa
assume come oggetto senza metterlo in questione come tale.
La fisica, per esempio, analizza quell'oggetto, che essa assume come dato e che è l'insieme dei
fenomeni fisici, l'insieme dei movimenti naturali. Ma la tecnica non pensa mai a che cosa è la
natura, la physis, come tale. Dunque dice che la fisica non pensa la physis, significa semplicemente
riconoscere ciò che la fisica di fatto pratica e fa e dice che c'è qualcosa che eccede questo studio e
che è precisamente quel qualcosa da cui tutto questo studio dipende, cioè la definizione della fisica
stessa. Che cos'è la fisica? Non ce lo dice la fisica. Che cos'è la matematica? Non ce lo dice la
matematica, ma ogni volta la fisica e la matematica presuppongono questo loro ambito d'oggetto e
d'indagine proprio, per poter lavorare con esso. Ebbene, per Heidegger il compito del pensiero è
appunto quello di andare al di là di una disciplina particolare e interrogarsi intorno a tutto ciò che,
nelle discipline particolari, viene presupposto come ovvio e dato come scontato. Questo è per
Heidegger il compito più proprio del pensiero.

8. Che rapporto ha questa posizione di Heidegger sulla scienza con posizioni di altri filosofi -
pensiamo a Hegel o anche a Husserl - per i quali la filosofia ha un compito fondativo rispetto
alla scienza, poiché in un certo modo essa rappresenta l'autoconsapevolezza della totalità
entro cui si inscrivono le scienze?
Credo che, a prima vista, l'atteggiamento di Heidegger, soprattutto per l'effetto paradossale che la
sua affermazione produce, quando egli ci dice che la scienza non pensa, induca a credere che il suo
atteggiamento nei confronti della scienza sia un atteggiamento escludente, cioè che cassi la scienza
dall'ambito della riflessione filosofica per poter partire verso una direzione nella quale la scienza
non ha più nulla da dire. Questo per un certo verso è anche vero nel senso che ciò che ad Heidegger
interessa non è fare una epistemologia, una teoria filosofica che rifletta su ciò che fa la scienza. Ma
non è vero nel senso che per Heidegger questo suo relegare la scienza entro il proprio confine non
significa ignorare ciò che la scienza, e soprattutto la sua realizzazione nella tecnica, ha
rappresentato. Dunque dietro una apparente espunzione della scienza dall'ambito delle questioni
filosoficamente rilevanti, nel senso che la filosofia comincia là dove cessa il sapere scientifico, è in
realtà una operazione che Heidegger compie per poter poi ritirare in ballo la scienza e la tecnica in
maniera molto più generale e onnipervasiva di quella che può essere invece messa in atto da
un'epistemologia, che è sempre un pensiero ancillare al servizio di una pratica scientifica
determinata. Dunque Heidegger, in realtà, nel provocare la scienza con questa sua affermazione,
richiama in ballo la scienza e la tecnica come un destino epocale, invitando a riflettere più
profondamente su ciò che esse sono e rappresentano per l'uomo contemporaneo.

9. Un'altra delle categorie della tradizione occidentale che Heidegger tenta di demolire è
quella dell'etica. Perché Heidegger asserisce l'impossibilità di un'etica nell'epoca moderna?
Poco dopo la pubblicazione di Essere e tempo un amico chiese ad Heidegger quando egli avrebbe
scritto un opera di etica. Heidegger ha dato una spiegazione molto convincente, a mio avviso, delle
ragioni per le quali nel suo pensiero manchi un'etica, così come essa è stata tradizionalmente intesa.
Per Heidegger risulta impossibile dedicarsi alla riflessione etica, alla compilazione di un trattato di
etica, dopo che egli è giunto alla sua diagnosi del mondo moderno, come mondo pervaso
dall'atteggiamento tecnico di dominio. Se la diagnosi che Heidegger dà del mondo contemporaneo -
e cioè un mondo determinato dall'essenza della tecnica-, è pertinente, tutti i tentativi di catturare la
tecnica entro delle forme di etica o di morale, tutti gli sforzi di regolare quel comportamento e
quell'agire dell'uomo, che si sono scatenati secondo delle modalità tecniche, risultano dei tentativi
vani.
Nel mondo della tecnica ogni etica e ogni virtù è diventata impossibile. Non c'è più spazio per un
regolamento morale dell'agire dell'uomo, perché tutto è già regolato secondo i ritmi e gli ordini

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della tecnica. Questa è la convinzione di Heidegger e, se questa convinzione è pertinente, risulta
allora chiaro che là dove noi constatiamo il deserto che cresce, ogni tentativo di recuperare delle
oasi di felicità attraverso l'etica, rimane un tentativo destinato al fallimento. Se quella macroazione,
che è lo sviluppo dell'umanità secondo i ritmi della tecnica, ha una inesorabilità che è pari alla
inesorabilità dei movimenti geologici, ebbene, l'etica e la virtù in questo mondo hanno ormai
soltanto la bellezza dei fossili.

10. Che rapporto intercorre tra la critica della modernità di Heidegger e le altre espressioni di
quella che in Germania fu denominata la Kulturkritik, la "critica della civiltà". C'è continuità
tra le posizioni di Heidegger con quelle, anch'esse estreme, di Spengler, di Scheler e dell'ultimo
Husserl?
Va detto innanzitutto che certamente Heidegger viene profondamente influenzato dal clima che è
ingenerato dalla Kulturkritik tedesca dei primi decenni del Novecento e che è una riflessione che si
sviluppa a ridosso della crisi più generale della Repubblica di Weimar e che combinerà con la
grande crisi del 1929. Non è per caso che gran parte dell'intelligenza critica di quel tempo cominci a
riflettere sul mondo contemporaneo e sulla crisi che caratterizza questo mondo. Quindi c'è una
connessione, in tutti questi pensatori o perlomeno nelle motivazioni che hanno portato questi
pensatori a concentrarsi su una diagnosi del presente. Dopo la fine della Prima guerra mondiale, si
ingenera una crisi che è avvertita un po' ovunque, si ingenera un sentimento che la "belle époque"
sia veramente terminata e che qualcosa di nuovo sia sopraggiunto. Un equilibrio si è rotto e si tratta
di trovare nuove misurazioni, nuovi orientamenti. Vi è dunque il senso diffuso di un tramonto della
civiltà occidentale, che soprattutto Spengler nella sua opera Il tramonto dell'Occidente, porterà ad
un'espressione molto radicale e di grande successo. Rispetto tuttavia a Spengler e a tutti coloro, che
si accompagnano in piccolo o in grande a questa critica della civiltà, Heidegger si differenzia nella
radicalità dell'impostazione del problema. Per Heidegger non si tratta di fermarsi alle manifestazioni
di superficie della crisi né di arrestarsi a una ricerca di corto respiro delle cause che l'hanno
ingenerata, ma si tratta di effettuare una ricerca, un'anamnesi profonda, radicale, che risalga fin alle
origini della civiltà occidentale, fino a trovare le vere motivazioni, le motivazioni più profonde che
hanno portato a questa critica. E dunque c'è un rapporto di superficie con tutti costoro, ma c'è uno
scarto radicale, nella radicalità dell'approccio che Heidegger rivendica come proprio.

11. Professor Volpi, la critica della modernità di Heidegger, per certi suoi aspetti essenziali,
evoca quella che in un noto libro i padri della cosiddetta Scuola di Francoforte, Adorno e
Horkheimer, chiamarono la "dialettica dell'Illuminismo". Che cosa unisce e che cosa invece
separa, la teoria critica dei francofortesi dal pensiero heideggeriano?
Le due scuole, quella heideggeriana e quella francofortese, stanno naturalmente agli antipodi, sono
due aree culturali, che, per ragioni filosofiche e politiche, si sono sempre combattute su due fronti
opposti, estremamente opposti. Anzi, tra Adorno e Heidegger ci furono parecchie occasioni di
polemica e Adorno scrisse anche un "pamphlet" per combattere il linguaggio, il pensiero e la
terminologia usata da Heidegger. Quindi in apparenza le due posizioni sono radicalmente
contrastanti: da una parte la posizione dei francofortesi, allineata su una interpretazione ispirata al
marxismo del mondo contemporaneo e quindi su una critica di questo tipo, dall'altra la posizione
heideggeriana associata piuttosto a una dimensione di pensiero conservatrice.
Tuttavia ad un'analisi più attenta delle articolazioni interne di queste due posizioni, è possibile
rintracciare delle assonanze, anzi dei paralleli molto forti, che, in qualche critico, sono stati messi in
luci come dei paralleli sotterranei che finiscono per allineare le due posizioni su una quasi comune
interpretazione della dinamica della civiltà occidentale. Da che cosa dipende per Heidegger questa
dinamica? Abbiamo già detto che in lui gli esiti del mondo contemporaneo dipendono da un certo
modo di interpretare l'epistème e il lògos greci. Ebbene, che cosa fanno Adorno e Horkheimer in
Dialettica dell'Illuminismo? Interpretano, da un punto di vista marxista, esattamente lo stesso
fenomeno che Heidegger ha interpretato in questo modo, e cioè l'alienazione che caratterizza la

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civiltà contemporanea. Non solo, ma che cosa fanno più propriamente Adorno e Horkheimer
rispetto alla tradizione marxista alla quale dichiarano di richiamarsi? Operano un allargamento, uno
sfondamento che finisce per portarli alle stesse tesi che Heidegger ha sostenuto anche se da un
punto di vista naturalmente diverso. Adorno e Horkheimer non spiegano più l'alienazione del
mondo contemporaneo, riportandola in termini marxisti alle condizioni di produzione capitalistica,
cioè non riportano le cause dell'alienazione al mondo moderno e al modo in cui in esso
l'organizzazione della produzione è stata messa in atto, attraverso le forme capitalistiche di
produzione, ma dicono che l'alienazione del mondo contemporaneo ha radici più lontane, che sono
riconducibili a quel progetto che loro vedono simboleggiato nella figura di Odisseo, di Ulisse,
l'astuzia della ragione dell'astuto Odisseo, che si eleva a dominare tutte le avversità della natura e
del destino. si eleva come soggetto-padrone di tutto ciò che è. È con questa razionalità strumentale,
padrona e dominatrice di tutto, delle cose e della tyche, che nasce quel progetto che porta fino alla
perversione dell'Illuminismo nel suo contrario.
L'Illuminismo, che è un progetto di emancipazione, e quindi di utilizzazione in funzione
emancipatrice della razionalità, sbocca in un rovesciamento dell'emancipazione nell'alienazione. Ma
questo progetto non è, come dicevo, ricondotto a una causa, marxisticamente identificata nelle
condizioni capitalistiche di produzione, ma è ricondotto al progetto stesso di dominio razionale
della realtà, cioè all'inizio della civiltà occidentale con i Greci, a quel progetto che Heidegger stesso
considera come l'innescamento del destino metafisico dell'Occidente. Dunque, nonostante le
divergenze e le diversità effettivamente sussistenti tra le due posizioni, si può parlare di una
convergenza sulla diagnosi della filosofia della storia dell'Occidente.

12. Perché Heidegger, nel 1946, rompendo un lungo silenzio con la famosa Lettera
sull’umanismo, sconfessa clamorosamente le interpretazioni esistenzialiste delle note analisi di
Heidegger in Essere e tempo e rivendica il carattere antiumanistico del proprio pensiero?
Heidegger precisa la sua posizione, che non era mai stata esistenzialistica, in relazione a numerosi
fraintendimenti in cui essa era stata ridotta o costretta o semplicemente recepita. Questo perché, fin
dagli inizi, Heidegger imposta il problema dell'esistenza umana non in termini di un attaccamento
razionalistico alle dinamiche più proprie dell'esistenza stessa, ma imposta il problema in una
prospettiva fortemente ontologica - come la citazione da Platone che sta in Essere e tempo sta a
dimostrare. Qui si parla del problema dell'essere ed è tale problema ciò che interessa primariamente
Heidegger.
È per arrivare al problema dell'essere che Heidegger pone la questione di quale sia quell'ente
privilegiato in grado di porsi quel problema. E poiché questo ente privilegiato è l'uomo, l'esistenza
umana, ovvero l'"Esserci" secondo l'espressione di Heidegger, è necessario, per arrivare a quel
problema, produrre un'analisi di questo ente particolare e individuare la ragione per la quale esso si
distingue, ossia proprio per la sua capacità di porre il problema dell'essere. Se ora noi riducessimo
questo sforzo che Heidegger produce di arrivare al problema dell'essere attraverso un'analisi
dell'esistenza al semplice risultato di averci fornito delle categorie per lumeggiare l'esistenza umana,
dimenticheremmo probabilmente quello che è il punto finale a cui Heidegger intende arrivare. E
dunque ci occluderemmo lo sguardo su una parte considerevole del suo pensiero, presente certo fin
dagli inizi, anche se sfocata - perché agli inizi si tratta di trovare l'accesso a quel problema -, ma poi
seguita come un filo conduttore unitario fino alla fine del suo cammino speculativo.
Una seconda ragione per la quale l'interpretazione esistenzialistica di Heidegger è riduttiva, è il fatto
che essa non vede come l'interpretazione heideggeriana delle categorie dell'esistenza non sia svolta
a partire dalle analisi di pensatori esistenzialistici come Kierkegaard, ma viene fatta utilizzando, in
riferimento all'ontologia, determinazioni che risalgono al pensiero greco, in particolare ad
Aristotele. Ciò che ad Heidegger interessa è dunque mettere in luce qual è il modo d'essere proprio
dell'esistenza umana. E con questo naturalmente finisce per fornire degli strumenti preziosissimi
anche per l'analisi dell'esistenza, ma non è questo il fine ultimo al quale Heidegger pensa di dover
arrivare.

30
Martin Heidegger nacque a Messkirch, nel Baden-Württemberg, il 26 settembre 1889. Dopo aver
cominciato studi di teologia a Friburgo in Brisgovia, cambiò facoltà per dedicarsi allo studio delle
scienze naturali, della matematica e della filosofia. I suoi primi interessi filosofici si orientano verso
lo studio del pensiero aristotelico (in un primo tempo attraverso la mediazione di Brentano e del
teologo Carl Braig) e di quello di Husserl. Nel 1913 conseguì il dottorato discutendo (relatore il
filosofo cattolico A. Schneider e correlatore H. Rickert) una dissertazione dal titolo La dottrina del
giudizio nello psicologismo, in cui polemizza con la concezione psicologistica della logica. Nel
1915 ottenne la libera docenza con un lavoro su La dottrina delle categorie e del significato in
Duns Scoto (fondato però sulla Grammatica speculativa che non è autentica, e che è da attribuirsi
allo scotista Tommaso da Erfurt). Il lavoro, presentato dal neo-kantiano Heinrich Rickert, risente
anche dell'influenza di Emil Lask nonché di Edmund Husserl. Nello stesso anno, consegue la venia
legendi con una lezione sul tema Il concetto di tempo nella scienza della storia. Nel 1915 fu
chiamato a prestare servizio militare dal quale - assegnato al servizio postale e poi a quello
metereologico - si congedò nel 1918, potendo peraltro mantenere i contatti con l'università. Nel
1919, ritornato a Friburgo, cominciò la sua collaborazione con Husserl del quale divenne assistente
e al quale dedicò il suo capolavoro, Essere e tempo (1927), pubblicato sullo Jahrbuch für
Philosophie und Phänomenologische Forschung. Rimase a Friburgo fino al 1923, anno in cui, per
interessamento di Paul Natorp, fu nominato professore a Marburgo. Professore prima a Marburgo,
poi a Friburgo e per breve tempo rettore di questa Università, Heidegger si tenne appartato dalla
cultura ufficiale nel periodo del nazismo, per quanto in un discorso pronunciato da lui come rettore
nel 1933, L'autoaffermazione dell'università tedesca, traspaiano i suoi legami con il regime (che
non sono tuttora chiari e che in questi ultimi anni hanno dato luogo ad accese polemiche, sulle quali
è ancora prematuro fare il punto). Il discorso suscitò reazioni negative nell'ambiente filosofico
internazionale, tanto che fu bollato da Benedetto Croce, in un articolo apparso su La critica, come
«indecente e servile». Essere e tempo rimase incompiuto, ma integrazioni rispetto all'opera possono
essere considerati Kant e il problema della metafisica (1929), L'essenza del fondamento (1929) e
Che cos'è la metafisica (1929).
Negli anni che seguirono a questi scritti, cioè a partire dal 1930 , l'indagine di Heidegger subisce
una svolta decisiva, che si è espressa negli scritti seguenti: Hölderlin e l'essenza della poesia

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(1937); La dottrina platonica della verità (1942); L'essenza della verità (1943); Lettera
sull'umanismo (1947); Holzwege (Sentieri interrotti, 1950); Introduzione alla metafisica (1956);
Che cosa significa pensare (1954); Conferenze e saggi (1954); Che cos'è questo - La filosofia?
(1956); Sulla questione dell'essere (1956); Identità e differenza (1957); Il principio del fondamento
(1957); La rassegnazione (1959); In cammino verso il linguaggio (1959); Nietzsche (2 voll., 1961);
Il problema della cosa (1962); La questione del pensiero (1969).
Heidegger è morto a Messkirch il 26 maggio del 1976.
RICERCA ESISTENZIALE
Nella prima fase della sua filosofia (Sein und Zeit, 1927; Essere e Tempo), intento di Heidegger
è di ritrovare la via per porre la domanda "Che cosa è l'essere?". Per rispondere a questa
domanda occorre chiedersi, oltre a che cosa sia ciò che si domanda e quale sia il risultato del
domandare, anche chi sia colui che è interrogato. Heidegger dice che l'ente privilegiato cui la
domanda dev'essere rivolta è quello per il quale l'intendere, il comprendere, il porsi la
questione dell'accesso all'essere e al domandare stesso costituiscono un proprio e peculiare
modo d'essere. Questo ente è l'esserci (Dasein), l'uomo stesso che non è solo un ente fra gli
altri, ma nella sua stessa esistenza ha un costitutivo rapporto di comprensione per l'essere, che
fonda i contenuti della sua esperienza e fa sì che essi siano. Il rapporto di comprensione
dell'essere non comporta un particolare e specifico atteggiamento teoretico, ma inerisce
all'esserci stesso nel suo conquistare e scegliere le possibilità, che nella sua concreta vicenda di
singolo gli si propongono, di essere o non essere se stesso: esso è quindi anzitutto
comprensione esistentiva od ontica, in cui solo si può radicare la penetrazione esistenziale od
ontologica: nella nostra esistenza singola, cioè, sono innanzitutto radicate quelle strutture
dell'esserci che la filosofia ha il compito di analizzare e di portare dal piano della
comprensione immediata, vissuta, a quello della comprensione tematizzata e riflessa. L'esserci
ha come sua determinazione esistenziale l'essere-nel-mondo: la relazione con gli altri enti è
possibile solo perché il rivolgersi a essi non è puramente accidentale ed estrinseco (come se
l'uomo, oltre a essere in sé, avesse anche un mondo), ma appartiene alla struttura esistenziale
dell'esserci stesso. L'essere delle cose che incontriamo nel mondo si riduce alla loro
utilizzabilità. L'esserci si prende cura di quanto gli sopravviene, e tale prendersi cura è il
nostro modo proprio di coesistere con ogni altro ente nel nostro essere-nel-mondo. Anche gli
altri esserci si incontrano con noi nel nostro prender cura: ma noi possiamo prenderci cura di
essi ponendoci al loro posto, sottraendo loro il proprio prendersi cura e quindi dominandoli e
rendendoli dipendenti da noi, oppure aiutandoli nel loro prendersi cura, affinché divengano
trasparenti a se stessi e liberi nella propria cura. Nel primo caso si avrà una coesistenza
inautentica, nel secondo caso una autentica. Nella coesistenza inautentica, gli altri non
appaiono come tali, nella loro autentica individuazione; tutto si livella in un mondo
impersonale, dove il chi si trasforma nel si (man): si dice, si fa, si giudica come fanno gli altri,
e ci si distingue come ci si può distinguere, nella mediocrità della quotidianità. La deiezione,
l'essere gettati nel dominio del si, non è da intendersi come una caduta da un più alto stato
primitivo, ma è una determinazione esistenziale dell'esserci stesso, che nella sua fattualità si
allontana sempre più, come in un vortice, dal progettare e prendersi cura autentico. Solo con
il vivere per la morte ci si sottrae alla banalità quotidiana per raggiungere l'esistenza
autentica. Anche nella quotidianità sappiamo che si muore, ma questo si equivale a nessuno:
la morte è vista come un "caso" che appartiene a tutti e a nessuno e il coraggio di accettare
l'angoscia (come sentimento che rivela la nullità dell'esistenza) è continuamente distolto e
soffocato dal si quotidiano. La voce della coscienza (Gewissen) richiama però l'uomo alla
morte come alla sua possibilità più propria e insuperabile, che lo riguarda direttamente al di
fuori di ogni impersonalità e gli apre il suo essere. La progettazione dell'esistenza come vivere
per la morte lo colloca di fronte al nulla della sua esistenza e lo libera dalla cura. Ma questo
nulla non è una privazione di qualcosa: esso è la stessa finitezza costitutiva dell'esserci che si
presenta come tale e si definisce da sola: in essa l'essere come tale si attua e si rivela. A questo

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punto si riallaccia la successiva speculazione heideggeriana. Secondo una intera corrente di
interpretazioni, con l'affermazione della nullità costitutiva dell'esserci la ricerca di
un'ontologia giungerebbe a un punto morto e dovrebbe o risolversi a un abbandono della
ricerca sull'essere come tale, o decidere di eliminare il punto di partenza "esistenziale" per
rivolgersi direttamente all'essere. È questa la "svolta" (Kehre) che segnerebbe il passaggio dal
primo al secondo Heidegger, anche se egli ne nega l'esistenza, affermando che quanto da lui è
esposto nella prima fase del suo pensiero rappresenta l'accesso necessario a quanto è detto
nella seconda, mentre quest'ultimo costituisce il fondamento di possibilità di quello.
LA VERITÀ DELL'ESSERE
La rivelazione dell'essere e la sua trascendenza agli enti nella loro totalità costituiscono la
tematica dell'ultimo Heidegger (Hölderlin und das Wesen der Dichtung, 1937; Hölderlin e
l'essenza della poesia; Platons Lehre von der Wahrheit, 1940-47; La dottrina platonica della
verità). Un tale concetto di essere come manifestazione era già stato proprio dei presocratici, ma
la successiva metafisica, a partire da Platone, l'ha dissolto fondando l'essere sulla verità e
facendo di questa una giusta visione dell'ente. La storia della metafisica è un continuo procedere
verso l'identificazione completa dell'essere con il valore, con il percepire ( Leibniz) e infine con la
nietzschiana volontà di potenza (Nietzsche, 1961). Compito dell'ontologia è quindi una
"distruzione della metafisica", arrivata ormai al suo estremo compimento. Ma la storia stessa
della metafisica non è una deviazione accidentale: come occultamento dell'essere, essa
appartiene all'essere stesso, che è il manifestarsi. Similmente, il disvelamento dell'essere non
può nascere da un'iniziativa dell'uomo, ma è iniziativa dell'essere stesso. L'uomo è il custode
di questo svelarsi dell'essere: esso è gettato dall'essere, come pro-getto, in un'illuminazione
che lo conserva nella vicinanza dell'essere stesso (Brief über den Humanismus, 1949; Lettera
sull'umanesimo). All'essere l'uomo deve affidarsi, ascoltarlo e questo ascolto avviene
attraverso il linguaggio, particolarmente quello poetico, che è il luogo primario della
manifestazione dell'essere. Altre opere: Die Lehre vom Urteil im Psycologismus (1914; La
teoria del giudizio nello psicologismo), Vom Wesen des Grundes (1929; Dell'essenza del
fondamento). Was ist Metaphysik? (1929; Che cos'è la metafisica?), Holzwege (1950; Sentieri
interrotti), Was heisst Denken? (1954; Che significa pensare?), Zur Seinsfrage (1956; Sul
problema dell'essere), Was ist das: die Philosophie? (Che cos'è la filosofia?), Unterwegs zur
Sprache (1959; In cammino verso il linguaggio), Die Frage nach dem Ding (1962; Il problema
della cosa).

Tra le LettereOnLine del sito:


(Holzwege)
riflessioni su "Sentieri interrotti"
Catalogo libri di Martin Heidegger
libri consigliati:
- Il concetto di tempo
Martin Heidegger - Adelphi
Tra i grandi della filosofia del Novecento Heidegger è stato probabilmente colui che con
maggiore insistenza ci ha invitato a riflettere sul tempo, questa entità ovvia ed enigmatica
insieme. Nel breve, denso testo qui presentato, che risale al 1924 ma che apparve postumo nel
1989, egli analizza il fenomeno del tempo riconducendolo all’esistenza umana, nella sua
finitudine e nel carattere transeunte che per essenza la costituisce. Ha qui origine la
problematica di Essere e tempo, il libro del 1927 che rese celebre il suo giovane autore. E noi
abbiamo la possibilità di osservare il formarsi dell’originale terminologia heideggeriana e lo
svilupparsi dell’intuizione che condurrà all’«ermeneutica della fatticità» o «analitica
dell’esistenza», la cui tesi fondamentale è questa: la temporalità è l’essenza stessa della vita
umana. Meglio che attraverso prolissi svolgimenti concettuali, tale intuizione può essere
illustrata con una nota immagine di Borges: «Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è
un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è
un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco».
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- Che cos'è metafisica?
Martin Heidegger - Adelphi
Nel luglio del 1929 Heidegger tenne all’Università di Friburgo, dov’era tornato come successore
di Husserl, una magistrale Prolusione in cui, prescindendo dalle manifestazioni storiche della
metafisica e dal modo in cui essa è stata di volta in volta compresa, mostrava in che cosa
consistesse la sua essenza e quale rapporto intrattenesse con l’esistenza dell’uomo, con il suo
«esserci» (Dasein). Sospeso tra l’essere e il nulla, l’uomo giunge attraverso l’angoscia, che è
un’esperienza fondatrice, a porsi la questione-cardine: Perché è in generale l’ente e non
piuttosto il Niente?
A questo suo testo Heidegger aggiunse in seguito importanti precisazioni: un Poscritto nel 1943 e
un’Introduzione nel 1949 – entrambe incluse nella presente edizione.
Che cos’è metafisica?, con il Poscritto e l’Introduzione, già apparsi in Segnavia (1987), sono qui
presentati in edizione riveduta e arricchita di un’Appendice – che raccoglie le Prefazioni scritte
da Heidegger in occasione delle traduzioni giapponese e francesi – e di un esaustivo Glossario.
- Nietzsche
Martin Heidegger - Adelphi
Questa opera capitale, composta di testi stesi fra il 1936 e il 1946, non è né una monografia su
Nietzsche, né una nuova interpretazione – fra le tante – del suo pensiero e nemmeno la
ricostruzione di un capitolo di storia della filosofia. Come dichiarano le parole con cui il libro
esordisce, qui il nome di Nietzsche «sta a indicare la cosa in questione nel suo pensiero». Ora,
tale «cosa» (Sache) per Heidegger non è altro che la metafisica stessa, la gabbia speculativa
dell’Occidente, che in Nietzsche si manifesterebbe nella sua forma ultima, esasperata e
culminante. In questa prospettiva tutte le dottrine fondamentali di Nietzsche si rivelano a poco a
poco non già come tesi provocatorie e abrupte, bensì come maglie di una rete che è sul punto di
spezzarsi – ed è la rete che avvolge il pensiero a partire da Platone. Mentre, una volta che ci
fossimo accortamente, cautamente sfilati da tale rete, si aprirebbe quel territorio, quella
«radura» (Lichtung) oltre la metafisica dove Heidegger stesso sarebbe pronto ad offrirsi come
arcana guida. Assistiamo dunque in quest’opera non solo a un prodigioso sforzo di
comprensione e di esegesi, ma a un sottile, mortale duello, al tentativo – da parte di Heidegger –
di svincolarsi dall’alta tutela metafisica, ricacciando invece sotto la sua giurisdizione il primo,
irriducibile guastatore che l’aveva sfidata: Nietzsche stesso. Nessun duello speculativo, nel
nostro tempo, avrà avuto da insegnarci altrettanto. La morte di Dio e l’avvento del nichilismo, la
trasvalutazione di tutti i valori, l’arte come attività metafisica, il superuomo, ma soprattutto: la
volontà di potenza e l’eterno ritorno dell’uguale. Ciascuna di queste formule si manifestò in
Nietzsche come una folgorazione. Ma Heidegger non vuole rimanere abbagliato da quella luce
che a suo parere abbagliò Nietzsche stesso. Così egli ricostruisce infaticabilmente le sequenze
speculative che ogni volta preparano e predispongono la scena di tali folgorazioni. Così la
volontà di potenza e l’eterno ritorno ci appariranno come la risposta ai due interrogativi
fondamentali della metafisica, sul che cosa e sul come del mondo. E alla fine, quella soggiogante
figura che è la metafisica occidentale si dispiegherà dinanzi ai nostri occhi nel suo progressivo
articolarsi, fino alla sua estrema metamorfosi, a quell’estremo per eccellenza che è il suo sigillo e
corrisponde al nome di Friedrich.
- I concetti fondamentali della filosofia antica
Martin Heidegger - Adelphi
Il pensiero greco è l’alpha e l’omega della filosofia. Forte di questa convinzione – da lui tradotta
nella sentenza «la filosofia nasce grande» –, Heidegger ha caparbiamente cercato di mostrare
come i concetti fondamentali coniati dai Greci abbiano segnato il destino della civiltà
occidentale. Nel corso degli anni egli è perciò tornato di continuo a misurarsi con i pensatori
degli inizi, al punto da voler «pensare in modo più greco dei Greci». Questo volume – che
comprende il corso universitario tenuto a Marburgo nel semestre estivo 1926 – è la più completa
presentazione della filosofia antica che Heidegger ci abbia lasciato: egli vi illustra lo sviluppo del

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pensiero dai presocratici ad Aristotele, seguendo il filo conduttore dei testi originali e obbedendo
insieme all’esigenza di guidare anche il profano alla comprensione di quei vertici speculativi. Sul
modello del libro A della Metafisica di Aristotele, la prima storia della filosofia a noi nota,
Heidegger delinea un quadro magistrale della filosofia greca, folto di tutti i suoi principali
esponenti: la prima parte è dedicata all’interpretazione di Talete, Anassimandro, Anassimene,
Eraclito, Parmenide e gli eleati, Empedocle, Anassagora, gli atomisti, la sofistica e Socrate; la
seconda a Platone, e la terza, la più ampia, ad Aristotele, dopo il quale avrebbe inizio la
decadenza. Il risultato è un appassionante itinerario attraverso il pensiero greco.

L' opera di Martin Heidegger costituisce tutt'oggi, a più di dieci anni dalla sua morte, una delle
testimonianze più ricche e insieme più problematiche del pensiero del Novecento. Entrato a pieno
titolo tra i massimi filosofi del nostro secolo, Heidegger continua tuttavia ad essere un pensatore
scomodo e ambivalente, di cui risulta difficile tracciare un quadro interpretativo unitario.

Nato il 26 settembre del 1889 a Messkirch, in Turingia, da una modesta famiglia di fede cattolica,
sviluppa inizialmente un forte senso di appartenenza appunto alla minoranza cattolica tedesca che,
con il suo desiderio di riscatto antimodernista e nazionalista, segnerà profondamente la formazione
giovanile del futuro filosofo (fino al suo incontro con la fenomenologia husserliana).
Questa formazione rigidamente religiosa sfocia fra l'altro in un breve periodo di noviziato gesuita,
interrotto nel 1911 da una crisi psico-fisica che segna anche il suo primo allontanamento dalla
chiesa e dal pensiero teologico; la crisi spirituale di Heidegger coincide con l'inizio degli studi
logico-filosofici a Friburgo, e con la lettura, appunto, dell'opera di Husserl "Idee per una
fenomenologia pura". All'università partecipa comunque ai seminari di H. Rickert, laureandosi nel
1913 con una dissertazione su "La dottrina del giudizio nello psicologismo" (relatore il filosofo
cattolico A. Schneider, correlatore lo stesso Rickert).

Perfezionando tali studi, nel 1918 Heidegger ottiene la libera docenza in filosofia all'università di
Friburgo con una tesi su "La dottrina delle categorie
e del significato in Duns Scoto" e si trova ad essere assistente di Husserl, di cui in breve tempo
diventerà una sorta di "figlio spirituale". Intanto la Germania, sconfitta dalle potenze occidentali e
umiliata dalle sanzioni del trattato di Versaille, si incammina, tra crisi politiche ed economiche
sempre più convulse, verso il tragico destino della dittatura hitleriana. Heidegger, ottenuto un
incarico prestigioso all'università di Marburgo sulla scia di una fama accademica precoce ma già
clamorosa, nel 1927 pubblica il suo "capolavoro" "Essere e tempo", il testo che ha consacrato la sua
fama internazionale proiettandolo, nel giro di pochi anni, ai vertici della filosofia del Novecento. In
seguito a questo felice evento, nel '28 ottiene a Friburgo la cattedra che era stata di Husserl; inizia
così per Heidegger una stagione di feconda e febbrile produzione, che vede l'uscita di molte tra le
sue opere decisive: "Che cos'è metafisica?" ('29), "Sull'essenza del fondamento" ('29), "Lezioni
platoniche sulla verità" ('30).

Nel 1932 Hitler trionfa alle elezioni politiche e viene nominato cancelliere: si profila un lungo
periodo dominato dall'ideologia nazista. Heidegger inizialmente scambia il fervore nazionalista di
Hitler per una ripresa morale della Germania e dell'Occidente nel suo insieme, tanto che non esita a
prendere posizione a favore del nazismo. Nominato rettore all'università di Friburgo, nel 1933 tiene
un discorso di prolusione all'anno accademico divenuto uno dei testi più inquietanti del Novecento,
a causa dei drammi, delle incomprensioni e dell'errore personale di Hiedegger ivi contenuto. In quel
discorso, in sostanza, viene dato un giudizio positivo dell'ideologia nazionalista hitleriana, non in
quanto ideologia razzista ma in quanto portatrice di energie nuove.

In quegli stessi anni, inoltre, il filosofo si era accostato all'opera del poeta Hölderlin, da cui trasse

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spunto per la sua successiva "svolta" filosofica. Questa impostazione non è comunque gradita alle
autorità naziste, che cominciano a nutrire forti sospetti su di lui. E così, già nel '34, divergenze e
sospetti porteranno alle dimissioni di Heidegger dal rettorato e alla sua progressiva emarginazione.
Tutta questa confusa e triste vicenda costerà purtroppo al filosofo un prezzo umano altissimo: egli
perde infatti l'amicizia dei più prestigiosi rappresentanti della cultura tedesca, tra cui spiccano i
nomi dei filosofi Karl Jaspers e Hannah Arendt. Fino allo scoppio della seconda guerra mondiale,
Heidegger continua la sua attività di insegnamento e produzione, pubblicando tra l'altro "L'origine
dell'opera d'arte" ('36), "Dell'evento" ('37), "Sul concetto e sull'essenza della physis in Aristotele"
('39).

Nel 1945, viene interrogato dalla commissione di epurazione voluta dai vincitori della guerra. In
seguito a tale inchiesta gli verrà proibito di insegnare fino al 1949. Nel frattempo, ufficiali francesi
interessati alla filosofia prendono contatto con lui per un progetto di incontro con Sartre, il quale
contribuirà grandemente alla riabilitazione internazionale del collega tedesco. Il progetto fallisce,
ma comunque si avvia uno scambio epistolare tra i due filosofi che condurrà Heidegger a stendere
la famosa "Lettera sull'umanismo" con la quale prende decisamente le distanze dalla corrente
esistenzialista ormai diffusa in tutta Europa (la quale continuerà a vedere in lui un importante
rappresentante, almeno per la parte iniziale del suo pensiero).

Quella di Heidegger filosofo dell'esistenza, erede dell'esistenzialismo religioso di Kierkegaard, fu


anche l'interpretazione prevalente del suo pensiero fra le due guerre ("L'essere e il nulla" di Sartre è
largamente debitore di "Essere e tempo"); ma nella lettera a J. Beaufret, "Sull'umanismo" (1947),
Heidegger la respinse come una mossa falsa, un fraintendimento del progetto
finale dell'opera.

I problemi più rilevanti posti dalla filosofia di Heidegger emergono comunque soprattutto nelle opere
dell'ultimo periodo, il cui momento inaugurale è da ricercare proprio agli studi successivi la "Lettera
sull' Umanismo", che non presentano più la forma di veri e propri testi filosofici ma prediligono la
frammentarietà del breve saggio, della conferenza, del dialogo. Quest'ultima fase del pensiero di
Heidegger è anche la più complessa e forse la più provocatoria. I suoi stessi allievi (è il caso di
Gadamer), e gli esponenti di quella koinè ermeneutica di cui Heidegger è stato in un certo senso
l'iniziatore (si pensi a Derrida o Ricoeur in Francia), prendono nettamente le distanze da quel dire
"ineffabile" che "avrebbe perduto il terreno sotto i piedi", rimandando a luoghi impercorribili per il
pensiero.

La sua influenza sul pensiero filosofico occidentale è oggi unanimamente riconosciuta di


incalcolabile importanza, anche per ciò che riguarda la filosofia italiana (basti pensare a Vattimo).
Insomma, tutta la cultura occidentale, anche quella che si oppone duramente all'"irrazionalismo"
ermeneutico heideggeriano, deve fare i conti con la presenza di questa gigantesca personalità,
scomparsa a Baden-Wurtemberg il 26 maggio 1976.

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Heidegger e il problema della metafisica
Intervista a Friedrich-Wilhelm von Herrmann
di Federico Lijoi

1) In una relazione che Lei ha tenuto nell'ambito di un colloquio filosofico sulla metafisica nel
pensiero di Heidegger (mi riferisco alla conferenza che ha avuto luogo nella Facoltà di Filosofia della
Pontificia Università Lateranense e che è stata pubblicata nel libro La metafisica nel pensiero di
Heidegger , Urbaniana, University Press 2004) tenta di chiarire il concetto di “superamento della
metafisica”.
Vorrebbe riassumerci brevemente che cosa ha sostenuto in quell'occasione?
Il discorso di Heidegger sul superamento della metafisica è in sé duplice: può in primo luogo trattarsi
di una rinuncia alla metafisica, di un volgerle le spalle, nel senso per cui la metafisica sarebbe un
percorso sbagliato, che dobbiamo lasciarci dietro. Questo è il primo significato e il discorso
heideggeriano vi rientra facilmente, visto che la parola Überwindung nella lingua tedesca significa
soprattutto: ciò che io supero, lo vinco; e ciò che ho vinto, me lo lascio dietro. Ma il discorso di
Heidegger sul superamento della metafisica non è mai inteso in questo senso, perché secondo me il
confronto pensante e filosofico di Heidegger con la storia della metafisica non appartiene alla
cosiddetta critica della metafisica, quindi alle dottrine del positivismo o della filosofia analitica (si
tratta di correnti filosofiche che non prendono affatto sul serio la filosofia e la metafisica, bensì
considerano le domande della metafisica come domande apparenti). Heidegger, invece, si è confrontato
nel suo cammino di pensiero con le diverse epoche della storia della filosofia occidentale in modo
molto dettagliato e prendendole altamente sul serio; le sue domande, anche quelle fondamental-
ontologiche, non sono completamente altre e al di là della metafisica tradizionale, ma al contrario sono
le domande tradizionali della metafisica colte nella loro originarietà: la domanda circa l'essere, circa
l'essenza del mondo, circa l'essenza del tempo, circa l'essenza dello spazio, circa l'essenza del
movimento e la domanda inclusa in tutte queste, quella circa l'essenza dell'uomo. Queste sono le
domande tradizionali che Heidegger trae dalla storia della filosofia. Non si è inventato domande
totalmente nuove. Si rivela in questo caso un profondo pensatore storico e pensare storicamente
significa: rivolgersi alla storia, comprendere la storia in sé, nei suoi motivi di pensiero, afferrare tali
motivi di pensiero e domandare se essi debbano essere ri-petuti più originariamente. Si tratta proprio
della ri-petizione (così come Heidegger la presenta in apertura ad Essere e Tempo ), cioè del tornare-
indietro dell'originaria domanda circa l'essere posta all'inizio della storia della metafisica, affinché essa
possa ora essere posta più originariamente. Ma porre più originariamente, innanzitutto in modo
fondamental-ontologico, la domanda sull'essere, e con essa tutte le altre domande (circa l'essenza della
verità, l'essenza del mondo etc.), non significa affatto un totale lasciare indietro le domande impostate
inizialmente, bensì proprio in dialogo con quelle poste inizialmente o con la forma iniziale (forma di
domanda) di queste domande circa l'essenza, ottenere la forma originaria della domanda. L'espressione
“superamento della metafisica” si rivela dunque un'espressione infelice, visto che la maggior parte
delle volte sembra alludere al superamento di qualcosa che non è più valido. Mettiamola così: la
posizione fondamental-ontologica delle tradizionali domande metafisiche circa l'essenza era la prima
via di Heidegger e a partire da questa prima via si è venuta formando la seconda via, l'altra via, la via
della storia dell'essere, dove egli parla con sguardo retrospettivo alla metafisica del primo inizio e con
sguardo anticipante al pensiero della storia dell'essere dell'altro inizio (che Heidegger intende
dispiegare). A questo proposito occorre precisare che Heidegger, quando parla della storia dell'essere,
non intende solamente il pensiero futuro; la storia dell'essere, piuttosto, assume nel contempo il primo
inizio e l'altro inizio da dispiegare; e se il primo inizio appartiene internamente alla storia dell'essere,

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non deve trattarsi allora di una via che, per così dire, corre all'esterno della storia della metafisica; essa
stessa, invece, costituisce già il primo inizio dell'essenziamento della verità proprio nel modo del
toglimento, del togliersi del disvelamento dell'essere a favore del disvelamento dell'ente nel suo essere.
E questo essere è l'enticità dell'ente ed è il grande tema della storia della metafisica. Ma se le cose
stanno così, allora rimane imperdibile, anche per il pensiero dell'altro inizio, il pensiero metafisico del
primo inizio, poiché esso appartiene pur sempre alla storia dell'essere che è da pensare. Per questo
motivo, Heidegger afferma nella sezione 96 dei Contributi alla filosofia (che è intitolata: «Le grandi
filosofie»), che le grandi filosofie, e intende con ciò le grandi figure della storia della metafisica, sono
montagne invincibili e insuperabili.
Ciò significa: le grandi metafisiche sono insuperabili, ossia non possono essere vinte; non poter essere
vinte ed essere insuperabili dal punto di vista del pensiero significa: essere invincibili. Filosofie, poiché
esse traggono la loro propria verità esattamente dalla storia dell'essere. La storia della metafisica viene
vista in questi termini da Heidegger, come storia delle grandi filosofie, di insuperate e insuperabili
montagne; montagne che possono essere esperite solo nel loro ergersi e solamente così possono essere
interpretate. Non è possibile che la metafisica possa essere letta diversamente, per esempio come un
voler superare, come una volontà-di-vincere da parte di una posizione metafisica. Quando Heidegger si
appresta alla comprensione della metafisica nel senso della storia dell'essere, occorre dire che la storia
della metafisica è la prefigurazione di ciò che Heidegger ha sviluppato in primo luogo in senso
fondamental-ontologico e poi nel senso della storia dell'essere. La storia della metafisica, cioè, intesa
come primo inizio, si accompagna sempre al pensiero dell'altro inizio. E questo è ora un rapporto
totalmente altro: per questa comprensione della metafisica intesa come insuperabili e insuperate
montagne la parola Überwindung non va più bene. E ci sono anche alcuni luoghi testuali (io sono stato
recentemente colpito da uno di questi passi), nei quali Heidegger, accennando a questo significato del
superamento, nel senso del vincente lasciarsi-dietro, lo rifiuta e afferma che tale significato (il vincente
lasciarsi-dietro) è quello che tuttavia più spesso ci viene in mente quando udiamo la parola
Überwindung .

2) Nella sua relazione Lei parla anche della differenza tra Grundfrage e Leitfrage . In che cosa
consiste precisamente questa differenza?
Questa differenza è straordinariamente importante. Heidegger ha introdotto questa differenza per la
prima volta nel 1930 nel corso di lezione intitolato “Sull'essenza della libertà umana”: con il termine
Leitfrage egli intende la domanda conduttrice per la metafisica. Egli la riporta nella formulazione
aristotelica “Che cos'è l'ente?”. E questa domanda non viene liquidata come una domanda falsa,
piuttosto viene mostrato che questa Leitfrage ha dal canto suo un fondamento che la rende possibile, e
questo è proprio la Grundfrage - Grundfrage che prima viene posta in senso fondamental-ontologico,
poi nel senso della storia dell'essere. La Grundfrage non domanda ‘che cosa è', non più solamente
“Che cos'è l'ente?” ma piuttosto “Che cos'è l'essere?, ma ora non nel senso della quiddità dell'essere,
piuttosto “come perviene all'essenziamento l'essere?” Quindi la metafisica domanda “Che cos'è
l'ente?”, l'essere nel senso del “che cos'è” dell'ente ( ousia ) e la Grundfrage domanda “come perviene
all'essenziamento l'essere nella sua verità?”. E questa domanda circa il modo di essenziamento della
verità dell'essere è la Grundfrage , poiché essa domanda circa il fondamento (fondamento non nel
senso di causa, piuttosto fondamento nel senso di fondamento fondante, nel quale la Leitfrage si fonda
e mediante il quale viene resa possibile). Anche in questo esempio si vede molto bene come Heidegger
riprenda la Leitfrage metafisica e vada oltre in direzione di una domanda più originaria, pur senza
presentare la Leitfrage metafisica come falsa o sbagliata.

3) Nell'ultimo corso marburghese ( Principi metafisici della logica ), Heidegger parla di svolta e di
capovolgimento (nell'Appendice al § 10). Di svolta egli parla anche nella celebre conferenza
Sull'essenza della verità (1930). Qual è la differenza tra questi due concetti di svolta?
Il concetto di ‘Svolta' compare per la prima volta all'interno del pensiero ontologico fondamentale,
nell'ultimo corso di lezioni marburghesi (1928); si tratta di una ‘Svolta' che fin dall'inizio è prevista

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come capovolgimento, come ‘Svolta' della ontologia fondamentale nella metaontologia, dove questo
capovolgimento, questa ‘Svolta', è già preconcepita nella concezione della ontologia fondamentale.
L'ontologia fondamentale non basta a se stessa. Essa è piuttosto la preparazione per la metaontologia,
per la metafisica ontica degli ambiti dell'essere che fanno parte dell'ente in totale, laddove la
metaontologia naturalmente rimane sempre connessa all'ontologia fondamentale. Questa ‘Svolta' la
chiamo fondamental-ontologica, e da questa ‘Svolta' fondamental-ontologica occorre differenziare
nettamente la svolta nel senso della storia dell'essere, quindi ciò che Heidegger chiama la ‘Svolta' nella
Lettera sull'Umanismo , che è il passaggio dall'approccio fondamental-ontologico a quello nel senso
della storia dell'essere.
Ma questa Kehre ha come presupposto che il modo di essenziamento della verità dell'essere venga
visto e compreso in quanto ‘Evento'. Ed ‘Evento' è un concetto per la reciproca co-appartenenza della
verità dell'essere e dell'essere dell'uomo, quindi dell'essere del Ci. Ciò è in sé un cor-rispondente
rapporto – Heidegger lo chiama Gegenschwung nei Beiträge zur Philosophie – ma all'interno di questa
struttura di rapporti cor-rispondenti un certo rapporto possiede un primato sugli altri, ossia quel
rapporto che egli chiama anche Ereignung . La Ereignung non è la stessa cosa dell' Ereignis ;
Ereignung significa la maggior parte delle volte per Heidegger quel rapporto primario, la verità ad-
veniente, l'ad-veniente gettarsi della verità dell'essere, il gettarsi per l'essere dell'uomo, per l'essere
progettante dell'uomo, che dal getto ad-veniente viene lasciato accadere come gettato, gettato nella
verità dell'essere, affinché ottenga la Cura di sé, ottenga la Cura proprio nel modo del progettare, del
progettante aprire di ciò che si getta ad-veniendo, cosicché la struttura formale dell' Ereignis suoni: il
getto ad-veniente nel contro-slancio per il progetto avvenuto da ciò. E questo concetto di Ereignis ,
potremmo dire, è l'Evento dell'essere. Il concetto di ‘Evento' di cui si parla a proposito del seminario
aristotelico tenuto a Marburgo nel 1928, invece, non è già l'‘Evento' dell'essere, bensì è chiaramente
l'‘Evento' dell'esser-ci. Quando l'Esistere viene compreso come evento, allora si tratta dell'evento
dell'esserci, esso è ancora preso in considerazione sul fondamento dello stesso concetto di evento che
Heidegger ha utilizzato già all'inizio del 1919 durante il semestre straordinario di guerra, l'appropriarsi
del vivere nel suo esser proprio. Il concetto di ‘Evento' sviluppato in questo seminario del 1928 non si
distingue quasi per niente o addirittura affatto dal concetto di evento del 1919. Non si può dunque
affermare che, poiché Heidegger nel corso di un seminario su Aristotele nel 1928 ha parlato di evento,
egli abbia già portato a compimento una ‘Svolta' nel 1928. Questo lo ritengo falso, assolutamente falso.
Il corso estivo del 1928, I principi metafisici della Logica e il seguente seminario su Aristotele, si
mantengono ancora completamente nell'ambito dei concetti di trascendenza e orizzonte. Heidegger
intende la trascendenza come ‘Evento', ma la trascendenza è il modo d'essere dell'Esserci, dell'essere
dell'Esserci che comprende il mondo. Dunque si tratta, per quanto riguarda questo concetto di evento
del 1928, sempre dell'‘Evento' dell'Esserci, ma non ancora dell'‘Evento' dell'essere. Ma la conferenza
Sull'essenza della verità dell'anno 1930 si rivela un primo e decisivo passo verso il pensare nel senso
della storia dell'essere, poiché ora la verità (la verità originaria, l'essenza della verità) viene compresa
come verità svelantesi-coprentesi e in questo accadere svelantesi-coprentesi si trova proprio il gettarsi
della svelantesi-coprentesi verità dell'essere in quanto Ci e per l'essere del Ci.
Qui mi riferisco alla prima versione di questa conferenza che risale al 1930, sebbene ad essere
pubblicata nel 1943 sia stata la quarta edizione rielaborata. Il tratto fondamentale di questa conferenza,
il suo impianto, è quello del 1930, ma le realizzazioni dei passi di pensiero sono rielaborati; è per
questo che solo nel 1943 compare la parola Ereignis , mentre nel 1930 questa espressione non era
ancora presente, sebbene la conferenza Sull'essenza del fondamento (1929) si muova già nello stato di
cose dell'‘Evento', poiché la verità dell'essere viene già pensata storicamente. Essa viene pensata dal
punto di vista storico, nel quale viene visto che la verità non solamente come nella ontologia
fondamentale è originariamente o meno originariamente apertura, ma piuttosto che ciò che egli
innanzitutto chiama apertura è in sé un accadere della verità dello svelantesi velamento e del velantesi
svelamento. E quando Heidegger alla fine della conferenza Sull'essenza della verità dice che è stata
prevista una seconda conferenza che avrebbe tematizzato il passaggio dall'essenza della verità alla
verità dell'essenza – ci sono anche nel lascito alcune annotazioni, nelle quali questo passaggio di

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pensiero è brevemente schizzato – egli intende la svolta dall'essenza della verità alla verità
dell'essenza; questa svolta della quale Lei mi domanda è già la svolta nel senso della storia dell'essere,
poiché la domanda circa l'essenza della verità si rivolta, e si è già rivoltata nel corso di questa
conferenza, nella verità dell'essenziamento, nella verità dell'essenza. Ciò ora significa infatti: nel dis-
velamento dell'essenza dell'essere. La verità dell'essenza non è un semplice rivolgimento dell'essenza
della verità, piuttosto in questo caso verità significa qualcosa di diverso rispetto alla prima formula e
anche essenza significa qualcosa di diverso. Nella formula: “l'essenza della verità”, il termine essenza
significa innanzitutto la correttezza, e poi viene mostrato dove questa correttezza si fondi, cioè
nell'apertura e così via; ma nel rivolgimento (la verità dell'essenza) il termine verità indica il
disvelamento dell'essenza ora non più nel senso dell'essenza, bensì dell'essenziamento dell'essere.
Dunque questa seconda conferenza, non elaborata né pubblicata, avrebbe tratto dalla conferenza
pubblicata la conseguenza di tematizzare propriamente l'essenziamento storico della verità dell'essere,
poiché la conferenza stessa si muove precisamente già nella tematizzazione della originaria essenza
della verità. Ma egli ancora non dice expressis verbis che questa originaria essenza della verità, che
viene pensata nella conferenza, sia la verità non più dell'ente bensì dell'essere. E affinché ciò venga
mostrato, bisogna che giunga a compimento la seconda conferenza.
Dunque questa tesi Sull'essenza della verità appartiene al territorio della svolta nel senso della storia
dell'essere, cioè al territorio del ritorno della fondamental-ontologica posizione della domanda circa
l'essere nella posizione della domanda nel senso della storia dell'essere e questo concetto di svolta
rimanda alla fine della conferenza Sull'essenza della verità già alla ‘Svolta' nell'Evento. Dunque,
entrambi questi concetti di ‘Svolta', soprattutto il concetto di ‘Svolta' fondamental-ontologica, devono
essere tenuti rigorosamente separati dal concetto di ‘Svolta' nel senso della storia dell'essere.
Quest'ultimo comincia per la prima volta laddove l'Evento è Evento dell'essere e non più
principalmente l'Evento dell'Esserci. E il primo concetto di Evento appartiene, possiamo dire,
all'evento dell'Esserci, all'evento della vita. La vita avviene nel suo avvenire. Al posto della vita noi
possiamo inserire l'Esserci, quindi l'evento dell'Esserci.

4) Come quarta domanda vorrei porLe un problema che ho già sottoposto all'attenzione del suo
collega Costantino Esposito. Nella sua relazione Lei ha parlato di metaontologia, interpretandola nei
termini di una ontologia regionale. A questo proposito Heidegger afferma che Aristotele parla di due
direzioni della filosofia: la prote philosophia (ontologia fondamentale) e la theologike philosophia
(metaontologia). Di queste due direzioni della filosofia, dice Aristotele, l'autentica filosofia deve essere
pensata come theologike philosophia . Nello stesso tempo Heidegger sostiene che il tema della
theologike philosophia , cioè Dio ( to theion ), che è naturalmente anche il tema della metaontologia,
debba essere definito come das Umgreifende und Überwältigende (l’onniabbracciante e
l’incombente), das Übermächtige (l’onnipotente). Tutte determinazioni che non fanno pensare a nulla
di regionale…
La Sua domanda coglie il punto. Io vorrei fissare la differenza tra ontologia fondamentale e
metaontologia (in quanto ontologia regionale) non tanto sul rapporto tra filosofia prima e teologia,
sebbene Heidegger vi faccia riferimento – si tratta comunque di un passo oscuro – bensì in riferimento
alla moderna, leibniziano-wolffiana, accademica partizione della metafisica in metaphysica generalis e
metaphysica specialis . Partizione della quale Heidegger ha sempre molto parlato nelle sue lezioni su
Kant. Io direi così: l'ontologia fondamentale è la forma originaria della metaphysica generalis . Mentre
la metaphysica generalis è orientata nella metafisica alla Leitfrage , l'originaria fondazione della
metaphysica generalis attraverso l'ontologia fondamentale è orientata alla Grundfrage , e così come
all'interno della metafisica la metaphysica generalis prepara le tre metafisiche, ora per analogia
l'ontologia fondamentale prepara la metaontologia dell'ente in totale. Quando Heidegger fa riferimento
nel suo corso di lezioni al concetto aristotelico di filosofia prima e di teologia, secondo me ha davanti
agli occhi quanto segue: questa differenza-relazione viene accolta anche nella determinazione
leibniziano-wolffiana della metaphysica generalis e della metaphysica specialis , che sta lì dietro,
poiché ciò che per Aristotele è la teologia, nella metaphyisica specialis è esattamente la teologia

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razionale. Credo che Heidegger con questo riferimento alla distinzione aristotelica di filosofia prima e
teologia avesse davanti agli occhi ciò che stava alla base della distinzione tra metaphysica generalis e
metaphysica specialis , poiché questa distinzione di Aristotele è entrata nella distinzione scolastica di
metaphysica generalis e metaphysica specialis , e ora per Heidegger le metafisiche speciali non sono la
metafisica dell'anima, la metafisica del mondo e la metafisica di Dio, bensì le metafisiche speciali dei
diversi ambiti dell'essere. La distinzione heideggeriana tra ontologia fondamentale e metaontologia è,
lungo la Grundfrage , la più originariamente fondata distinzione tra generalis e specialis .

5) Ci sono delle critiche che vorrebbe fare a Heidegger?


Una prima critica consiste già nel modo in cui qui per esempio ho interpretato la comprensione della
metafisica da parte di Heidegger. La mia critica, dunque, all'utilizzo della parola “superamento”. Senza
dubbio Heidegger, come nessun altro pensatore ha intrapreso una nuova via. Deve essere visto molto
chiaramente che egli ha portato le grandi fondamentali domande metafisiche in una nuova forma del
domandare. Si tratta di un'incomparabile prestazione da parte di Heidegger. Diversamente da lui,
tuttavia, io vorrei mantenere con pari diritti, se è lecito che io per una volta mi esprima così, la strada
che la metafisica ha finora percorso. E qui si deve sempre di nuovo combattere contro Heidegger (in
fondo egli già salvaguarda la strada della metafisica tradizionale, ed è normale che un uomo che in
quaranta lezioni ha quasi esclusivamente trattato la storia della metafisica, ad un certo punto tagli corto
con essa, la metta da parte e si occupi delle sue proprie cose).
Sono stato invitato a Bologna a un congresso sul tema “Metafisica e nichilismo – Löwith e Heidegger
interpreti di Nietzsche” e lì ho tenuto una conferenza dal titolo “Sottrazione e annientamento: sulla
differenza essenziale tra metafisica e nichilismo”. Una critica successiva, che si riallaccia alla prima e
che abbiamo toccato brevemente, è la seguente: Heidegger, seppure in un senso elevato, intende la
critica alla metafisica come critica al nichilismo. Questo non posso condividerlo. C'è in lui, per
esempio nel trattato del volume 69 dell'opera completa, La storia dell'essere , una grandiosa
interpretazione nel senso della storia dell'essere di ciò che il nichilismo è nel nostro tempo; lì si parla
dell'annientamento, l'annientamento di tutta la significatività; egli sostiene che la significatività e ciò
che è decisivo – qui ha naturalmente in mente il dominio dell'essenza della scienza moderna e della
tecnica moderna – vengano annientate, e precisamente annientate irrimediabilmente. Questa è
un'analisi del nichilismo, ma questo carattere di annientamento è secondo me, da un punto di vista
qualitativo, altra cosa rispetto a ciò che nella metafisica accade come ritrarsi. Heidegger interpreta la
sottrazione, il ritirarsi della verità dell'essere nella metafisica, precisamente in modo che ciò che
aumenta e si accresce venga inteso come un aumentare di ciò che rispetto all'essere è nulla. Quindi un
aumentare del fondamentale tratto nichilistico della metafisica. Si tratta secondo me di una visione
troppo ristretta. Direi addirittura così: fenomenologicamente – e io insisto sempre molto
sull'atteggiamento fenomenologico – non realmente manifestabile. C'è il nichilismo, ma esso non è
solamente il ritrarsi della verità dell'essere, bensì l'accadere dell'annientamento. E perciò dico: da un
punto di vista fenomenologico c'è una differenza essenziale, una differenza qualitativa tra sottrazione e
annientamento. Questo ho principalmente trattato in quella conferenza ed è stato così ben accolto, dai
colleghi italiani e dagli uditori, che voglio lavorarci ancora. Una terza critica (critica che viene in luce
anche nell'ultima parte della mia relazione) consiste nella visione da parte di Heidegger della teologia
nel senso della storia dell'essere come totalmente altra rispetto alla teologia cristiana. Nel senso della
storia dell'essere di Heidegger, dunque, si tratta della dipartita del Dio cristiano in connessione con
Nietzsche ed il suo “Dio è morto” a vantaggio di questo atteso, con Hölderlin naturalmente, e futuro
apparire del divino. Ciò non posso ugualmente condividerlo. E' in sé un incomparabile passaggio di
pensiero, ma anche le argomentazioni sull'ultimo Dio risultano fenomenologicamente non più
dimostrabile. La finitezza del filosofare per me si mostra ai limiti di ciò che non è più
fenomenologicamente dimostrabile. Come preparazione per l'apparire dell'ultimo Dio, Heidegger dice
già molto bene nella Lettera sull'Umanismo che l'evento in sé, solamente quando la verità dell'essere
tornerà ad avere valore, potrà accadere; quando egli afferma che il sacro, e nel sacro la dimensione del
divino e nella dimensione del divino il Dio potrà accadere, egli intende (sebbene egli non lo dica nella

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lettera sull'Umanismo) naturalmente l'ultimo dio; ciò lo ritengo fenomenologicamente del tutto
comprensibile, dimostrabile.
A queste dichiarazioni posso pienamente aderire, ma questo Dio che deve apparire può essere anche il
Dio cristiano, esattamente come Heidegger ha meravigliosamente detto nella sua lezione di libera
docenza, nella sua introduzione alla fenomenologia della religione, nella sua interpretazione delle
lettere di Paolo, dei Galati e dei Tessalonicensi. Per quanto riguarda la religiosità cristiana e l'attesa del
Dio cristiano, del ritorno di Cristo nell'ambito delle lettere paoline, la dimostrazione diviene positiva in
base alla liberazione da lui effettuata rispetto all'interpretazione filosofica. Ciò si mostra come
fenomeno poiché libero rispetto allo stravolgimento effettuatone dalla ontologia greco-aristotelica. E
secondo la mia opinione, ma qui io stesso sono solamente all'inizio, ciò che Heidegger ha affrontato
nel primo corso di lezioni da libero docente in riferimento alle lettere paoline, all'interno della sua
analisi della vita fattizia, della effettiva esperienza di vita, deve essere pensato conformemente alla
cosa stessa insieme al pensiero dell'evento.
Questi sarebbero tre inizi per una critica, nella quale io non voglio superare Heidegger (sarei
completamente pazzo). Un Fichte poteva andare più in alto di Kant, Fichte va oltre Kant, e io ho spesso
detto che il Fichte di Heidegger ancora non c'è, Derrida non è il Fichte di Heidegger. E tuttavia io
vorrei filosofare con Heidegger, poiché ciò è in sé affascinante; nel pensiero di Heidegger è raccolta
l'intera filosofia occidentale, ma con certe modificazioni, e in queste modificazioni consistono le mie
critiche.
(Traduzione dal tedesco di Federico Lijoi. Un particolare ringraziamento va a Camilla Croce e Thomas
Erbel)

Il destino dell'uomo nella società tecnologica: intuizioni di un grande filosofo


Nella lettera sull'umanismo, del 1946, Martin Heidegger ha posto in termini espliciti (giacché molti
degli elementi di queste tesi erano già contenuti nei suoi lavori precedenti, soprattutto dopo la svolta
del suo pensiero negli Anni Trenta) le basi di quello che, sotto molti aspetti, si può chiamare
l'antiumanismo di molta filosofia contemporanea. Molti anni dopo, fece scalpore la famosa
affermazione di Foucault secondo cui l'uomo era una invenzione recente (delle scienze umane, in
fondo) e destinata forse a scomparire, considerata (ma fino a che punto a ragione?) il motto stesso
dello strutturalismo.
Erano gli anni in cui la cultura francese si ribellava all'esistenzialismo umanistico di Sartre, che per
quanto politicamente "corretto", rivoluzionario, appariva ancora troppo compromesso con una
visione eurocentrica della storia; ecco allora anche la presa di posizione di Lévi-Strauss, secondo cui
l'antropologia (con il metodo strutturale), dove studiare le società umane come si studiano le
formiche. Basti pensare all'insensibilità, anzi ostilità, del marxismo "ortodosso" (il Lukacs della
Distruzione della ragione) verso l'avanguardia artistica novecentesca e alla costante diffidenza dei
regimi comunisti per la psicoanalisi. Ma anche Adorno e i francofortesi non sono stati abbastanza
radicali nel pensare la complicità tra umanismo e metafisica, cioè oggettivismo e tendenziale
totalitarismo della razionalizzazione moderna: la dialettica negativa adorniana, e in genere il
messianismo utopico della scuola di Francoforte (anche di Benjamin) concludono in un'aporia (il
silenzio di Beckett; l'impossibilità di un ordine storico disalienato, giacché quando la redenzione non
è più utopia è già burocratismo e nuovo sistema di dominio).
Si può tentare di pensare alla luce di queste suggestioni di Heidegger il destino dell'identità nella
società post-moderna? O, anche più radicalmente: si può pensare il destino, in molti sensi
dissolutivo, dell'identità nella società della tecnologia, soprattutto informatica, come una chance e
non solo come un rischio di distruzione dell'umano? Possiamo cominciare a riflettere su una tale
possibilità domandandoci se davvero la dissoluzione del primato della presenza che si attua con
l'avvento delle tecniche della comunicazione a distanza - a cominciare dalla fotografia, dal telefono,
e dalla trasmissione sempre più rapida della scrittura - sia davvero una perdita di umanità o non
nasconda qualche chance emancipativa. La scuola di Heidegger, almeno il filone dei pensatori che
hanno seguito più costantemente la sua idea della differenza ontologica, ha sviluppato un pensiero

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che non idolatra la presenza e anzi vede nella sua progressiva dissoluzione, o indebolimento, il vero
filo conduttore di una possibile linea emancipativa della storia dell'essere.
Per cogliere - anche solo embrionalmente - la portata emancipativa del Ge-Stell (la società della
scienza e della tecnica) sulla traccia di Heidegger, occorrerà proprio difendere il Ge-Stell dalle
teorie di coloro che lo vogliono equiparare al ricupero del villaggio, sia pure, come dice McLuhan,
globale. Non pensiamo, cioè, che il mondo della tecnologia informatica vada "salvato", nella teoria
e nella pratica, facendone un elemento di ricupero della presenza (in Italia la pubblicità della
Telecom: "il telefono, la tua voce"). Siccome il valore umano, di verità, anche della presenza stava
proprio nella distanza, bisognerà vedere se (e anche operare perché) sia possibile che l'informatica
ricostruisca lo spessore della distanza che costituisce la ricchezza dell'esperienza umana del mondo.
Perché questo ha da fare con il problema dell'identità? Perché la storicità che era costitutiva
dell'esperienza auratica (parto per andare a Parigi per vedere in persona la Gioconda; torno e ci
ripenso, ne parlo con gli altri, leggo su di essa...) era anche essenzialmente centrata su una
soggettività. Per venire al nocciolo di questa (pericolosa, lo riconosco) riflessione, farò un esempio
che mi risulta più familiare. I quotidiani in Italia hanno preso l'abitudine di dare un certo spazio
anche alle recensioni di opere filosofiche. Se esce un libro di filosofia che ritengo importante, cerco
di pubblicarne la recensione su un quotidiano.
Dopo che la recensione è uscita, per lo più metto da parte il libro, non ci penso più. Se avessi scelto
la strada del lungo saggio fra sei mesi o un anno, la strada degli autori delle obiezioni alla
Meditazioni di Cartesio o dei lettori delle Critiche kantiane, avrei reso meglio giustizia alla
profondità dell'opera? Ma se intanto altri commentatori hanno letto la mia recensione e, spesso
anche solo il giorno dopo, ne tengono conto discutendo a loro volta il libro, queste varie letture
interconnesse non potranno valere come una sola, lunga meditazione di un singolo recensore,
fondata su una meditazione di mesi o anni? C'è davvero qualcosa, nel mio individuale ritornare sul
libro a distanza di ore, giorni, mesi, che si distingua dal fatto che molti, magari nel giro di una
settimana, ne parlano e si parlano tra loro a proposito del suo contenuto? Certo, c'è il fatto che
questa "meditazione" non è più legata a una continuità individuale, accade dentro una "memoria"
che non è solo e tutta mia, ma che sta, come si suol dire, nella "rete". "Che importa di me, sta scritto
sulla soglia del pensatore futuro". Questa frase di Nietzsche - cito a memoria -, il quale peraltro fu uno
dei primi filosofi a usare (o a tentare di usare) una macchina da scrivere, non potrebbe fare da motto
a questa discussione?
Quanto, nella nostra (anche mia, certo) riluttanza ad accettare di muovere di qui nella valutazione
delle nuove tecnologie, non è legato a un umanismo che ha radici nella metafisica e dunque,
secondo l'ipotesi heideggeriana in cui qui mi muovo, nella grande nemica dell'umano autentico? Si
sta delineando un post-umanismo che non è più nemmeno strettamente legato all'individualità di
ciascuno di noi; o meglio, che la rispetta e l'afferma solo nella misura in cui essa è capace di
autotrascendersi, di "negarsi", secondo il monito evangelico per il quale chi non perde la propria
anima (o vita) non la salva? La civiltà che viene avanti è anche la civiltà dei trapianti, della
clonazione, come pure delle intercettazioni globali (Echelon!) che rendono del tutto obsoleta l'idea
stessa della distinzione tra pubblico e privato.
Un punto di partenza come quello nietzschiano-heideggeriano a cui qui propongo di richiamarsi non
avrebbe niente da obiettare, per esempio, alle intercettazioni globali purché tutti fossero davvero
intercettati e tutti potessero accedere alle informazioni così raccolte. Anche le più private, certo,
anche quelle relative alla nostra vita intima (il rispetto della quale, penso alla sfera erotica, è spesso
legato a tabù sociali, a moralismi propri di specifiche culture e civiltà, che vengono fatti passare per
"naturali"). Si può tradurre quel che dico qui anche dicendo che il nemico non è il nichilismo, o la
perdita della presenza, eccetera, ma il fatto che non siamo ancora abbastanza radicalmente nichilisti.
Io però preferirei dire che nel nostro mondo della comunicazione la verità tende sempre più a
sfumare nella (legge della) carità, e che noi ci stiamo a disagio perché non siamo ancora abbastanza
caritatevoli.

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Robot, quale pensiero?
Ora ricercatori stanno tentando di simulare la logica del cervello umano
Due soggetti, A e B, comunicano , senza vedersi, per mezzo di messaggi scritti. Ma A, interlocutore
umano, deve capire se B è un essere umano come lui oppure una "macchina pensante". Questa
prova, teorica e finora soltanto simulata, è stata immaginata - nel 1950 - da un geniale matematico
inglese, Alan Mathison Turing. Lo studioso si era già fatto un nome svelando il codice "Enigma",
grazie al quale il Terzo Reich riusciva ad assestare agli Alleati colpi micidiali perché del tutto
imprevisti.
"Enigma" trasmetteva infatti alle forze armate tedesche ordini segreti che nessun servizio di
spionaggio al mondo era in grado di decrittare. Turing inventò il contro-Enigma. Poi si dedicò a uno
dei primi calcolatori elettronici. Ma è considerato soprattutto il padre dell'intelligenza artificiale.
Quest'area di ricerca prende forma negli anni '50, quando diventa chiaro che il calcolatore non si
limiterà a trattare numeri: è in grado di elaborare qualsiasi tipo di dati.
Secondo alcuni, l'intelligenza artificiale ha anche un "nonno": Thomas Hobbes, autore del Leviatano
(l'uomo-macchina, l'uomo artificiale, simbolo dello Stato). Secondo Hobbes, "ragionare non è altro
che calcolare". E qui entra in ballo la questione cruciale: il rapporto (e la differenza) tra intelligenza
naturale e intelligenza artificiale. E questo è il tema della mostra Cybugs ("Possono le macchine
pensare?") che viene presentata oggi alla Triennale di Milano, dove potrà essere visitata fino al 28
luglio.
Che cos'è l'intelligenza artificiale, espressione coniata nel 1956 da John Mc Carty? Lo spiega il
filosofo Diego Marconi: "È la progettazione di sistemi artificiali, capaci di prestazioni paragonabili a
quelle umane, cioè di attività "intelligenti", come risolvere problemi e comprendere il linguaggio
naturale".
Ma presto emerge un divario di obiettivi. C'è la cosiddetta intelligenza artificiale "debole", che - pur
cercando di trasferire nelle macchine i processi cognitivi umani - non si propone né s'illude di dare
ai computer una capacità "mentale" simile a quella dell'uomo. E c'è l'intelligenza artificiale "forte",
che invece punta più in alto.
Nel 1972, esce un libro che stronca la pretesa di realizzare sistemi artificiali veramente intelligenti:
"Quel che i calcolatori non sanno fare", afferma l'autore, H. Dreyfus, nel titolo. Un gruppo di studiosi,
come D.E. Rumelhart e Mc Clelland, insorgono: bisogna ideare sistemi nuovi, troppo profonda è la
differenza tra le architetture cognitive del cervello umano e quelle del calcolatore classico. I
"connessionisti" propongono come via d'uscita le reti neurali: un complesso di "nodi" collegati tra
loro da connessioni che trasmettono attivazione o inibizione da un nodo a un altro.
L'architettura delle reti neurali è concepita in analogia con l'architettura del cervello umano, spiega
Diego Marconi. Si cerca di ricostruire, con strumenti informatici, la fitta rete di sinapsi che legano
fra loro i neuroni.
E qui il presente è proteso nel futuro. Cybugs illustra la storia dei tentativi di riprodurre
artificialmente le funzioni umane. Ma come possono "pensare" le macchine? La mostra conduce il
visitatore dentro il cervello di una macchina, dove oltre cento mini-robot, affamati di luce,
rappresentano le miriadi di impulsi elettrici che trasportano informazioni. Cybugs spiega anche
quanto è utile la fuzzy logic, nuova frontiera dell'informatica. Diceva Henri Matisse: la precisione
non è la verità. Gli esperti ricorrono a un esempio. Se mi sta cadendo in testa un peso, la logica
della precisione vuole che qualcuno mi annunci: ti sta piombando in testa un'incudine di 450 chili
alla velocità di 20 metri al secondo. La fuzzy logic impone invece di gridarmi: scansati!

Il pensiero di Heidegger
Pubblicate le "Conferenze di Brema e Friburgo" sulla tecnica e sulla logica
Continua la grande scelta editoriale di Adelphi, inerente la pubblicazione delle opere di Martin
Heidegger (1889-1976), iniziata nel 1987, diretta da Franco Volpi. Le "Conferenze di Brema e
Friburgo", a cura di Petra Jaeger, con edizione italiana curata da Volpi e traduzione di Giovanni

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, offrono agli appassionati di filosofia, un grande viaggio dentro il pensiero heideggeriano,
Gurisatti
sulla questione della tecnica, quale chiave essenziale per la comprensione del mondo odierno (1949-
Brema) e sulle distanze che prende l'autore dai tradizionali principi della logica (1957-Friburgo).
Con le sue riflessioni sulla tecnica, Heidegger pone il dito dentro le piaghe e le angoscie dell'epoca:
siamo nel periodo di ricostruzione postbellica; il grande filosofo tedesco è appena stato giudicato e
condannato dalla Commission d'Epuration, per il suo trascorso nazionalsocialista; il clima è teso e si
vive un disagio di fronte al futuro del mondo tecnicizzato. Negli anni Cinquanta ebbe grande
successo il romanzo di Aldous Huxley "Il mondo nuovo", di estremo pessimismo nei confronti del
destino umano che sbocca in un sistema totalitario del tutto privo di politica, completamente
dominato dalla tecnica.
Già nel 1932 Ernst Jünger aveva esposto nell'"Operaio" la sua tesi secondo cui il mondo tecnico è
destinato ad apparire come una potenza estranea in quanto non sarà mai raggiunta la "perfezione
della tecnica" per mezzo della tecnicizzazione dell'interiorità dell'uomo. Un'umanità nuova, sognata
da Jünger potrebbe essere impersonata dalla figura dell'"operaio", padrone della macchina in quanto
"uomo libero", nietzscheanamente inteso. Il clima in cui prende dunque a far sentire la sua voce
Heidegger è prevalentemente quello di demonizzazione e condanna della tecnica, ritenuta
devastatrice, nefasta, demoniaca, nemica dell'uomo...
"La tecnica - dice Heidegger - è il modo in cui il reale si disvela", ovvero si libera, esce fuori, ("pro-
vocazione") mostrandosi a noi. L'aggressione tecnica trasforma la natura in una "risorsa" reale o
potenziale e per raggiungere fini positivi è necessario predisporre una sicurezza pianificante della
risorsa; le conseguenze della tecnica possono essere controllate solo con i mezzi della tecnica
stessa. L'"impianto" heideggeriano - in cui tutto è interconnesso - è dunque formato da pro-
vocazione, risorsa, sicurezza della risorsa.
Heidegger - come acutamente sottolinea Volpi nella sua Avvertenza iniziale - è "convinto che il
sistema della tecnica non dipenda da una macchinazione dell'uomo né da una sua voluta malvagità,
Heidegger ritiene che oggi "ciò che è veramente inquietante non è il fatto che il mondo diventi un
mondo completamente tecnico. Di gran lunga più inquietante è che l'uomo non sia affatto preparato
a questa trasformazione del mondo". "E soprattutto ritiene - prosegue il curatore dell'opera - che il
sistema della tecnica non sia sussumibile o governabile sotto una forma politica piuttosto che
un'altra: "Il movimento planetario della tecnica moderna è una potenza la cui grandezza,
storicamente determinante, non può essere affatto sopravvalutata. E' per me oggi un problema
decisivo come si possa assegnare un sistema politico - e quale - all'età della tecnica".
L'aspetto pericoloso, il rischio del pericolo, agli occhi del filosofo appare consistere nel fatto che la
vita diventi unidimensionale, priva di alternative e che l'uomo dimentichi un altro modo di
incontrare il mondo, vivendo in esso.
"Che cosa significa pensare?" - chiede Heidegger, a proposito della natura del pensiero e delle sue
leggi.

L'essere si nasconde nell'«impianto»


«Per salvarsi l'uomo moderno deve liberarsi dei prodotti della tecnica»
Pubblicate da Adephi le conferenze di Brema del 1949 e di Friburgo del 1957
Per le Edizioni Adelphi, nella collana «Biblioteca Filosofica», esce un nuovo volume della
prestigiosa serie delle opere di Martin Heidegger curate da Franco Volpi. Si tratta delle Conferenze di
Brema e Friburgo, tradotte da G. Gurisatti («Conferenze di Brema e Friburgo», Adelphi, Milano
2002, pan. 226, € 35,00). Le conferenze di Brema recano il titolo «Sguardo su ciò che è», quelle di
Friburgo «Principi del pensiero». Al lettore non specialista di filosofia interessano soprattutto le
conferenze di Brema tenute nel 1949 (i cui singoli titoli sono La cosa, L'impianto, Il pericolo, La
svolta), che si incentrano sull'interpretazione sull'essenza della tecnica e sul significato che essa ha
per l'uomo moderno.

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Nei confronti della tecnica sono state assunte tre differenti posizioni, che riassumono la communis
opinio in maniera perfetta: una prima elogiativa, una seconda dispregiativa e una terza di carattere
neutrale. I sostenitori della prima opinione elogiano la tecnica e la esaltano come ciò che ha
prodotto il maggior grado di progresso per l'umanità, e giungono addirittura a proclamarla
«redenzione dell'uomo». I sostenitori della seconda opinione -pronunciano invece - sulla -tecnica
giudizi del tutto negativi: essa sarebbe una vera e propria sventura dell'umanità, una catastrofe del
mondo moderno. I sostenitori della terza opinione ritengono che il significato, il valore e la portata
della tecnica dipendano per intero da ciò che l'uomo fa di essa, ossia dalla capacità umana di
governarla dal punto di vista morale e religioso.
Tali opinioni cadrebbero nell'errore di «considerare la tecnica in termini tecnici», e di conseguenza
non raggiungerebbero la conoscenza della sua essenza. Anche la terza posizione, pur dimostrandosi
seria e responsabile, è inadeguata, in quanto - dice Heidegger - «chi spaccia la tecnica per qualcosa
di neutrale la rappresenta ... soltanto come uno strumento mediante il quale qualcos'altro è prodotto
e ordinato». Invece «l'essenza della tecnica non consiste in ciò che essa ha di tecnico, bensì si
limita a celarsi in esso».
La tesi sostenuta dal filosofo è la seguente: l'essenza della tecnica è qualcosa che trascende il
tecnico; è essa stessa a dominare l'uomo, e non viceversa. Per questo «Tutto ciò che è soltanto
tecnico non giunge mai a penetrare nell'essenza della tecnica. Anzi, non è in grado di conoscerne
nemmeno l'anticamera».
In che cosa consiste l'essenza della tecnica? La risposta che dà Heidegger si può riassumere nelle
seguenti tre proposizioni: 1) l'essenza della tecnica è l'«impianto»; 2) l'essenza dell'impianto è il
«pericolo»; 3) nel pericolo dell'impianto è l'essere stesso che opera, nascondendosi e manifestandosi
a un tempo.
Il messaggio espresso in questi termini suona fortemente criptico, ma, se si leggono e rileggono con
attenzione le dense pagine di queste conferenze, lo si può comprendere abbastanza bene: infatti,
Heidegger riprende e ribadisce più volte i concetti chiave come in cerchi concentrici via via più
ampi, in modo da far giungere al nocciolo del problema.
L'«impianto» come essenza della tecnica non è un semplice prodotto della civiltà: è una sistematica
riduzione delle cose a «risorse», ossia è una trasformazione di esse in mezzi di riserva per la
produzione. In tal modo le cose vengono svuotate del loro vero senso. L'«impianto» traduce il
termine tedesco Ge-Stell: e poiché stellen significa «porre», si può tradurre in italiano (come mi
suggerisce un giovane e grande cultore di questo filosofo) con "dispositivo", che rende bene quel
dis-porre o pre-disporre messo in atto dalla tecnica.
Si comprende, in conseguenza di questo concetto, come l'«impianto» o «dispositivo» della tecnica
implichi «dimenticanza dell'essere» (oblio e smarrimento del significato delle cose e del mondo in
quanto tali). «L'impianto - dice il filosofo pone l'essere fuori dalla verità e dalla sua essenza, depone
l'essere dalla sua verità»; occulta l'essere nella sistematica disposizione delle cose in funzione della
produzione. Proprio in questa "dimenticanza" e in questo "rifiuto" del «pericolo, che esprime
l'essenza dell'impianto». Però l'impianto è il «pericolo non in quanto tecnica, bensì in quanto
essere»: esso manifesta «il Destino dell'essere», e quindi «determina un'epoca dell'essere».
Ma, dice Heidegger, il modo in cui l'essere, si è espresso come Destino nell'impianto, può essere
superato «in base all'avvento di un altro Destino». Però per l'avvento di un nuovo Destino, l'uomo
può e deve dare un suo contributo, nella misura in cui egli fa parte dell'essenza stessa dell'essere.
Tuttavia, dice Heidegger, «Se l'uomo non si insedia dapprima e anzitutto nel suo spazio essenziale e
vi prende dimora, egli non è in grado di compiere niente di essenziale all'interno del destino ora
dominante», perché come diceva Meister Eckhart, da «coloro la cui essenza non è grande, qualsiasi
cosa facciano, non ne viene fuori nulla».
Nell'essenza stessa del pericolo si cela «la possibilità di una svolta», che, mediante un «improvviso
lampeggiare della verità», fa emergere dalla dimenticanza dell'essere la sua "salvaguardia", e di
conseguenza la verità - dell'essere. Heidegger dice «Anche nell'impianto, inteso come un destino
essenziale dell'essere, è essenzialmente presente una luce proveniente dal lampo dell'essere».

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Hölderlin scriveva: «Dove è il pericolo, / anche ciò che salva cresce», Heidegger essenzializza il
detto poetico di Hölderlin, affermando che il pericolo stesso «in base alla sua essenza porta ciò che
salva». Infatti, la stessa «costellazione dell'essere ci chiama»; e l'uomo come «pastore dell'essere»,
può, nel pericolo, sentire tale richiamo. Però lo può sentire solo a patto che sappia liberarsi da quel
predominio dei prodotti della tecnica (come il cinema, la radio, la televisione e oggi i computer),
per cui «l'udire e il vedere vengono meno».
H.G. Gadamer nell'ultima intervista che gli ho fatto per ,questo giornale (domenica 17 settembre
2000), mi diceva che Heidegger ha «passato tutta la vita a cercare Dio: proprio questa è la chiave
del suo pensiero», e che alla fine in certo senso lo aveva trovato. In effetti, Heidegger nell'ultima
conferenza di Brema scrive: «Se Dio viva, oppure rimanga morto, non si decide mediante la
religiosità degli uomini, e ancora meno, mediante le aspirazioni teologiche della filosofia e della
scienza naturale. Se Dio sia Dio avviene sulla base della costellazione dell'essere. Finché non
esperiamo, pensando, ciò che è, non possiamo mai appartenere a ciò che sarà». E nella celebre
intervista pubblicata dalla rivista «Der Spiegel» (13 maggio 1976) diceva: «Ormai solo un Dio ci
può salvare. Ci resta, come unica possibilità, quella di preparare nel pensare e nel poetare, una
disponibilità all'apparizione del Dio o all'assenza del Dio nel tramonto (al fatto che al cospetto del
Dio assente,, noi tramontiamo)».

Heidegger Filosofia e Scandalo


«Here is the great trouble: the only great thinker in our time is Heidegger».Che cosa intendeva dire
con questa affermazione Leo Strauss, filosofo ebreo di lingua tedesca emigrato in America? Perché
considerava un «grande guaio» il fatto che «il solo grande pensatore del nostro tempo fosse
Heidegger»?
In gioventù, ancora sotto il fascino di Max Weber, Strauss aveva ascoltato a Friburgo qualche
lezione del Maestro teutonico. All'amico Rosenzweig riferiva: «Weber, a confronto con Heidegger,
mi sembra un "orfanello" quanto a precisione, profondità e competenza». E ancora: «Ho ascoltato
l'interpretazione che Heidegger dava di certi passi di Aristotele, e poi ho sentito Werner Jaeger a
Berlino interpretare gli stessi testi: carità vuole che limiti il mio paragone all'osservazione che non
c'era paragone».
Ma nel 1933 Heidegger aderì al nazismo. Strauss fu costretto ad aprire gli occhi, e divenne uno dei
suoi critici più severi. Nelle sue lezioni all'università di Chicago, quando parlava di lui, evitava di
pronunciarne il nome. Non perse però la lucidità di giudizio: «La cosa più stupida che si potrebbe
fare sarebbe chiudere gli occhi o rifiutare la sua opera». Proprio questo è il guaio: se riconosciamo,
con Strauss, che Heidegger è stato uno dei massimi filosofi contemporanei, dunque una mente in
grado come poche di giudicare, in che modo si spiega il fatto che si sia posto al servizio del
totalitarismo più terribile del Novecento? Com'è possibile che tanta intelligenza si sia lasciata
risucchiare in quel vorticoso pantano? E quali conseguenze dobbiamo trarne nel valutare la sua
opera e la sua influenza?
MicroMega ci invita a ritornare su tale spinosa questione presentando nell'Almanacco di Filosofia in
libreria un documento fondamentale, ancora inedito in Italia: le lezioni che Heidegger tenne
nell'estate del 1934, subito dopo essersi dimesso dalla carica di rettore nazionalsocialista
dell'università di Friburgo, assunta appena un anno prima. MicroMega pubblica la trascrizione del
corso - tradotta da Alessandra Iadicicco - che si trova nel lascito di Helene Weiss. Un testo prezioso
poiché il manoscritto originale di Heidegger è andato perduto. Come ricorda il filosofo Ernst
Tugendhat, nipote della Weiss e gestore del lascito, sua zia fu allieva di Heidegger a Friburgo ma
non poté addottorarsi con lui
«perché ebrea». Tugendhat ha permesso anche un'edizione spagnola della trascrizione curata da
Víctor Farfas, lo studioso cileno che con le sue indagini riaperse anni fa il caso Heidegger.
C'è stata poi la ricostruzione «ufficiale» dei corso nell'ambito delle opere complete. Inutile dire che
le differenze non si contano. Comunque sia, il testo è intrigante e scandaloso. Parlando di Logica,

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Heidegger torna qui a fare filosofia dopo l'intermezzo politico del rettorato. Seguendolo lezione per
lezione, possiamo valutare se davvero già qui, come egli affermò a sua discolpa dinanzi alla
Commission d'épuration - abbia avuto luogo un allontanamento dal nazionalsocialismo oppure no.
Nel bollettino ufficiale dell'università il corso era stato annunciato con un argomento diverso: Lo
Stato e la scienza. L'improvviso cambio di tema potrebbe suggerire una presa di distanze dal
regime. In realtà, le cose non stanno così. Né sono così semplici. Sotto il titolo apparentemente
astratto di Logica, Heidegger affronta in realtà questioni scottanti. Muove, è vero, da una
prospettiva squisitamente filosofica. Ma il suo intento è quello di «scuotere» la logica tradizionale
per cogliere nel logos, nel linguaggio, la determinazione più propria dell'essere umano. E
analizzare quindi il linguaggio in quanto legame che salda l'«esserci» al suo popolo, l'esistenza del
singolo alla comunità, la decisione individuale alla tradizione e alla patria, l'uomo al suo tempo e
alla storia.
Qui, dall'analisi delle strutture individuali dell'esistenza, sviluppata in Essere e tempo (1927),
Heidegger passa a sondare la dimensione in cui l'esserci individuale è gettato. Cioè il destino la
tradizione, la storia, l'insieme delle «appartenenze comuni» che l'esserci decide di assumere come
proprie o respinge. Siamo nella prospettiva della cosiddetta «svolta». Concetti pesanti come
«popolo», «spirito», «lingua», «razza» fanno la loro entrata nel vocabolario filosofico
heideggeriano. Ci sono pure riferimenti all'attualità politica. Come quando Heidegger vuol far
capire che cosa sia la storia autentica, e prende come esempio significativo il viaggio di Hitler a
Roma. Un volo aereo - fa notare agli studenti - è un accadimento, ma non è storia. Eppure, se il
volo trasporta il Führer all'incontro con Mussolini, allora esso entra a pieno titolo nella storia. Anzi,
all'aereoplano sarà assegnato un valore museale.
Evidentemente Heidegger non era in rotta con il regime. Ma com'è possibile che un pensiero così
vigile come il suo non abbia riconosciuto la realtà politica che andava affermandosi? Heidegger
non fu peraltro un caso isolato. Oggi il suo nome svetta tra gli esempi di ottusità politica associata a
profondità filosofica. Ma all'epoca l'analfabetismo politico era alquanto diffuso tra i professori
tedeschi di filosofia. Una recente indagine di Christian Tilitzki - Die deutsche Universitäts
philosophie in der Weimarer Republik und im Dritten Reich, Akademie, 2 vol., pagg. 1.473, euro
165 - ricostruisce in base a capillari ricerche d'archivio la storia segreta della filosofia tedesca,
svelando implicazioni politiche e ideologiche nella carriera di molti pensatori tedeschi tra le due
guerre. Il caso Heidegger è dunque il paradigma di una diffusa e scandalosa dissociazione di
filosofia e capacità di giudizio politico. E solleva un problema di fondo: c'è qualcosa che non
funziona nel modo in cui la filosofia contemporanea si è rapportata alla politica. Una sorta di corto
circuito fra la teoria e la prassi. Una discrepanza fra il regime del pensatore solitario e il vivere
comune degli uomini.
Hannah Arendt, allieva di Heidegger, e consapevole come pochi del problema, ci ha spiegato che la
teoresi e il giudizio politico sono capacità allotrie, eterogenee. E ha rivendicato il primato dell'uno
sull'altra. Ma non basta. Il lavoro della capacità di giudizio contro l'analfabetismo politico, contro
l'impoliticità del teoreta, è importante. Ma non è sufficiente. Perché il giudizio politico poggia a
sua volta su assunti non evidenti. Su un terreno che presuppone e non può dominare. E chi allora,
se non la teoresi, potrà ricordargli i suoi presupposti? Ebbene, Heidegger è stato tanto analfabeta in
politicis quanto maestro in questa anamnesi del non detto e del non interrogato. Il grande guaio,
acutamente individuato da Leo Strauss, ci aiuta almeno a formulare una domanda: com'è possibile,
oggi, riconciliare filosofia e politica dopo che «il solo grande pensatore del nostro tempo» le
dissociate?

Heidegger: Dio è morto? Parliamone

IL primo risultato del colloquio svoltosi l'altra sera a Milano su iniziativa della casa editrice
Bompiani per l'uscita della nuova traduzione di un'opera di Martin Heidegger (Sentieri erranti nella
selva, a cura di V. Cicero) è stato, per dir così, numerico. Una folla straripante ha riempito il teatro

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Franco Parenti, in una sorta di Palavobis filosofico che dovrebbe dar da pensare a chi dice con
sicumera che «con Heidegger non si va da nessuna parte». Magari vedendo in questo successo di
pubblico il segno di una deriva della filosofia verso la moda, o al massimo un sintomo del clima di
disperazione intellettuale in cui, con molte buone ragioni, sembra che siamo caduti in questa vigilia
di guerra. Se «solo un Dio ormai ci può salvare», come disse il filosofo nella sua ultima intervista, o
addirittura solo Heidegger, stiamo freschi. Sia nella sua grande opera inaugurale del 1927, Essere e
tempo, sia nei suoi scritti più tardi, Heidegger propone una filosofia che difficilmente si può
intendere come un messaggio di salvezza. Nell'opera del 1927, il tratto costitutivo dell'esistenza
dell'uomo era indicato nella sua mortalità; e «decidersi anticipatamente per la propria morte» era la
sola via, se non per salvarsi dalla fine, per vivere in modo autentico (libero, autonomo, non
prigioniero della chiacchiera) l'esistenza terrena. In fondo, anche dopo gli svolgimenti che il
pensiero di Heidegger ebbe in seguito, fino all'anno della morte nel 1976, il problema del senso
della sua filosofia rimane legato all'interpretazione di questa tesi. Anche nel dibattito dell'altra sera,
dove - soprattutto da parte di Giovanni Reale e Franco Volpi - si sono tra l'altro esplorati
filologicamente vari aspetti della biografia intellettuale del filosofo e del suo stile di scrittura, la
questione principale ruotava ancora intorno al senso da dare al tema della finitezza e della
«salvezza» che Heidegger promette o nega in modo radicale. Allo spirito originariamente
«pessimista» di Essere e tempo si legano le letture che hanno proposto (non solo nel dibattito, ma
nelle loro varie opere) pensatori come Emanuele Severino e Massimo Cacciari. Il primo, insistendo sul
tema della tecnica come destino dell'umanità contemporanea, che Heidegger ha analizzato
lucidamente come esito nichilistico dell'intera storia occidentale. La cultura dell'Occidente culmina
infatti nella «messa a disposizione» di tutti gli enti nel quadro di una scienza-tecnica che li manipola
e li trasforma, con il rischio conclusivo di rendere anche l'uomo manipolante un oggetto
manipolato. Heidegger - secondo Severino - ci ha messo lucidamente di fronte a questo destino, ma
non ha indicato alcuna via di uscita utile. Anche per Cacciari la cosa sta così: ma mentre Severino
sembra sempre far intuire che una via di salvezza forse c'è, fuori di Heidegger, in Cacciari la
problematica salvezza stessa consiste nel sostare in modo meditante dentro la condizione di tragica
problematicità che Heidegger ci invita a riconoscere. Paradossalmente, giacché Heidegger è famoso
(e famigerato) per la frase sulla scienza che «non pensa», uno sguardo meno tragico sul suo
pensiero è venuto da un filosofo della scienza, Giulio Girello, che ha mostrato, richiamando i colloqui
tra Heidegger e Werner Heisenberg, quanto vicine siano certe tesi heideggeriane alle prospettive aperte
dalla fisica quantistica. Giorello si è anche richiamato allo scritto heideggeriano del 1946, la
cosiddetta Lettera sull´umanismo, per mostrare che nella critica là proposta della idea occidentale di
uomo (come soggetto che si realizza nel dominare gli oggetti fuori di lui) c'è anche una possibile
apertura verso nuove forme di esistenza rese possibili, o necessarie, dagli sviluppi di scienza e
tecnica. Insomma, come ha sostenuto anche chi scrive, in Heidegger non c'è salvezza solo se lo si
guarda dal punto di vista della tradizione umanistica e metafisica che proviene dai Greci e culmina
nell'idea dell´«oltreuomo» di Nietzsche. Si sa che Heidegger ha dedicato molti dei suoi corsi
universitari degli anni Trenta allo studio dell'opera di Nietzsche. E la tesi di quest'ultimo sul
nichilismo (Dio è morto, non ci sono più assoluti e certezze ultime) come conclusione «logica» del
corso del pensiero e della civiltà dell'Occidente (che Heidegger chiama la «terra del tramonto», in
cui l'essere stesso declina e si disfa) è anche la tesi di Heidegger. Il quale però, in modo più esplicito
di Nietzsche, vede proprio nel mondo della tecnica, che dissolve l'oggettività delle cose in
manipolabilità universale, anche l'inizio di un'epoca in cui il compito dell'uomo non sarà più tanto
quello di adeguarsi all'essere come dato obiettivo, bensì nel trasformarlo liberamente in
collaborazione e dialogo con gli altri umani. Insomma: nel mondo del nichilismo non ci sono più
assoluti, e anche limiti «naturali» insuperabili - che, come già aveva visto Marx, sono solo
invenzioni ideologiche di coloro che vogliono comandare in loro nome; ci sono però gli altri, che
sono, come ciascuno di noi, «progetti gettati», aperture sul mondo, con i quali dobbiamo accordarci
perché se no anche il nostro individuale discorso non avrebbe senso. Un verso di Hoelderlin che
Heidegger cita spesso suona: «da quando siamo un dialogo». Non per niente uno dei pensatori che

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più coerentemente hanno sviluppato l'insegnamento di Heidegger è stato Hans Georg Gadamer, più
volte evocato nel corso del dibattito milanese, il teorico dell'ermeneutica, ossia di una filosofia che
riconosce come costitutivo dell'essere stesso il dialogo tra individui, generazioni, culture diverse. La
premessa che rende possibile una filosofia come l'ermeneutica è proprio il nichilismo nel senso di
Nietzsche e di Heidegger: la fine degli assoluti intesi come dati oggettivi che l'uomo può solo
riconoscere e cercare di rispettare anche come norme. Ma, come ha insegnato già Hume, non ha
senso trarre una norma da un fatto (Sei uomo, dunque devi essere uomo. E perché? Se lo sono, lo
sono già; se no, perché dovrei esserlo?). Far consistere la verità nel dialogo tra «progetti» ci evita
intanto, per lo meno, di arrogarci il diritto di uccidere altri (anche noi stessi) in nome della verità. E
poi corrisponde all'esperienza della scienza-tecnica del nostro tempo: che costruisce i propri
esperimenti, produce le sue macchine, fino alla comunicazione elettronica che non ha più il senso
«meccanico» per cui la filosofia ha diffidato per tanto tempo delle macchine; siamo arrivati alla
realtà virtuale, o anche solo all'Auditel: gli ascoltatori possono anche far pesare le loro reazioni,
persino Goebbels, per parlare alla radio, oggi dovrebbe fare i conti con gli sponsor, la pubblicità, i
gusti (non infinitamente manipolabili) del pubblico. Il mondo dove la tecnica può non avere solo il
senso oppressivo che vi vede Severino è quello che Heidegger descrisse profeticamente in un saggio
del 1938 (compreso nel volume ora ritradotto presso Bompiani, ma disponibile in italiano già da
molti anni, nella versione, secondo noi più leggibile, di Pietro Chiodi), intitolato L´epoca dell
´immagine del mondo. È la scienza stessa, dice là Heidegger, che con il suo continuo specializzarsi
rende impossibile mantenere una immagine unitaria del mondo; e accompagnandosi alle lotte di
potere (tra discipline, tra Stati, industrie, gruppi sociali), dalle quali non sono affatto indipendenti, le
immagini del mondo vengono in conflitto tra di loro e rendono il mondo come tale «incalcolabile».
È in questo mondo che diventa, fortunatamente, impossibile pensare l'essere come dato una volta
per tutte, e si impara a pensarlo invece come dialogo, conversazione, accordo. Non è poi tanto poco.
La filosofia come un rave party
In mille per sentire Cacciari & C. dissertare su Heidegger

Oltre mille persone sui sentieri della filosofia, l'altra sera a Milano. Nel 1949 Martin Heidegger,
nell'imminenza della pubblicazione del suo Holzwege, scriveva che «i sentieri vanno errando ma
non si smarriscono»: Holzwege, in tedesco, significa «sentieri nella selva» e a Milano al teatro
Parenti, sei filosofi (Emanuele Severino, Massimo Cacciari, Gianni Vattimo, Giovanni Reale,
Franco Volpi e Giulio Giorello) alla presentazione della nuova edizione di Holzwege, curata da
Vincenzo Cicero, per la collana Bompiani diretta da Giovanni Reale, hanno condotto per quegli
impervi sentieri appunto un pubblico di oltre mille persone. Un evento a testimonianza dell'attualità
del pensiero di Heidegger, nonostante le polemiche di questi ultimi anni attorno alla sua adesione al
nazionalsocialismo e l'oggettiva difficoltà nell'accostarsi al filosofo tedesco per la complessità del
suo linguaggio e della sua prosa. Anche Hans Georg Gadamer, il filosofo dell'ermeneutica, e allievo
di Heidegger, ricordava la difficoltà di quel linguaggio scritto, rispetto alla «meraviglia delle sue
conferenze». Giovanni Reale ha spiegato che la nuova traduzione di Holzwege ha cercato di
rispettare al massimo l'andamento della prosa heideggeriana, di riprodurre tutti i giochi di parole e
di neologizzare in italiano quando il filosofo lo fa in tedesco. Mentre Franco Volpi ha definito
Heidegger «il Picasso del linguaggio», è stato Emanuele Severino ad entrare nel merito del
pensiero: «Oggi - ha detto il filosofo - ci troviamo davanti ai problemi affrontati da Heidegger. Per
esempio, che rapporto c'è tra l'Islam e il terrorismo? Il problema è che la tecnica si è messa al
servizio dei valori dell'Islam. Ma la tecnica sta giocando l'Islam come ha fatto con il capitalismo e
con il cristianesimo». Severino ha quindi sottolineato che il filosofo tedesco nella sua analisi sullo
strapotere della tecnica ha ridotto quest'ultima a «macchinismo». «Heidegger non ha visto la
coesistenza tra filosofia contemporanea e tecnica. L'Occidente invece - ha spiegato Severino - ha
sempre inteso per uomo un centro cosciente di forze, capace di controllare i mezzi in vista della
produzione di scopi». Massimo Cacciari, che ha condiviso l'interpretazione di Severino, ha
sottolineato: «La novità del pensiero di Heidegger è l'oltrepassamento, ovvero il problema di come

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si sta sul meridiano della tecnica. E' un problema irrisolto e Heidegger parla del lasciar essere, un
concetto che richiama l'idea della libertà». Cacciari ha poi spiegato che per «capire il rapporto del
filosofo con il nazismo bisogna attingere alla sua filosofia». Giulio Giorello ha invece argomentato
attorno ad un pensiero di Heidegger secondo il quale la scienza non pensa: «La scienza è l'unica
globalizzazione riuscita». «Solo un Dio ci può salvare» diceva il filosofo tedesco e Giovanni Reale
ha ricordato che Gadamer gli disse che, a suo giudizio, Heidegger aveva sempre cercato Dio e forse
lo aveva anche trovato ma diverso da quello cristiano.
OLTRE MILLE PERSONE LUNEDÌ SERA A MILANO PER UN DIBATTITO CON
CACCIARI, GIORELLO, SEVERINO
Tutti pazzi per Heidegger: quando la filosofia fa «audience»
Visto che proprio Martin Heidegger aveva sancito la morte della filosofia, sarebbe stato grande il suo
stupore lunedì sera nel vedere il teatro Franco Parenti di Milano traboccante di persone accorse per
sentir parlare di lui. L’occasione era la presentazione della nuova edizione dei suoi Sentieri interrotti
(Holzwege), raccolta di saggi apparsa per la prima volta nel 1950. Rinnovato prima di tutto nel
titolo, con la scelta filologicamente più esatta di Sentieri erranti nella selva, e nuova anche la
traduzione, curata da Vincenzo Cicero per "Il pensiero occidentale", la collana Bompiani diretta dallo
storico della Filosofia antica Giovanni Reale (pagg. 708, euro 28). Nessun inedito da pubblicizzare
quindi, tanto meno promesse di rivelazioni sconvolgenti sul rapporto controverso e infinite volte
dibattuto tra Heidegger e il nazismo o sulla dialettica con Nietzsche, dalla quale Heidegger uscirà,
per sua ammissione e non solo figurativamente, «con le ossa rotte».
Certamente, per spiegare il grande successo dell'evento, è d'obbligo tener conto del gruppo di
relatori che, oltre al già citato Reale, ha condotto il dibattito: studiosi come Massimo Cacciari,
Emanuele Severino, Gianni Vattimo e Giulio Giorello sono certamente personaggi noti, ma
altrettanto nota è la loro scarsa disposizione a sacrificare linguaggio tecnico e scientificità a favore
di una platea tanto vasta e composita. Nonostante ciò, molti sono gli spettatori rimasti fuori dal
teatro. Moltissimi quelli sistemati alla meglio sul pavimento del foyer. Numerose le coppiette,
fittissime le comitive di giovani e meno giovani, tanti i solitari. E come spesso accade negli ultimi
tempi, anche qui pare difficile tentare una qualche definizione sociologica unificante per le oltre
mille persone che hanno applaudito e ascoltato gli interventi degli studiosi. Così per quasi due ore
di dibattito al centro della serata è rimasto sempre e solo Holzwege, una raccolta di sei saggi che in
qualche modo determinano un punto d'approdo per la filosofia heideggeriana, ma anche un’opera di
difficile comprensione se già non si maneggiano gli strumenti concettuali messi a punto in Essere e
Tempo e nelle conclusioni anti-umanistiche della Lettera sull'umanesimo. Mille persone accorse a
sentire di un Heidegger sgomento e incuriosito di fronte alle conquiste della fisica atomica sulla
fissione dell'atomo, che a suo parere chiudevano tre secoli di fisica moderna, «come oggi le
acquisizioni sulla clonazione ricombinata - secondo il filosofo della Scienza Girello -, rappresentano
epistemologicamente un approdo per tutta la biologia, almeno da Darwin in poi». Rapiti a sentire di
un Heidegger angosciato per il dispiegarsi di un mondo della tecnica che già iniziava
pericolosamente a dominare l'uomo. Un Heidegger però anche pieno di lirismo e di speranza (forti
gli accenti di Hölderlin nel saggio «La locuzione di Anassimandro», il più bello insieme ad «A che
poeti?» e «L'epoca dell'immagine del mondo»), per una salvezza possibile solo «quando il pericolo
è», e per una sacralità della poesia capace di salvare l'uomo nei momenti di maggior indigenza.
Una serata da cui è possibile trarre tre indicazioni. Primo: non c'è solo la politica a incendiare gli
animi e a riempire gli uditori. Secondo: le grandi questioni dell'esistenza umana fanno sempre
audience. Terzo, e in barba a Martin Heidegger, finché ci saranno domande, la filosofia non sarà
mai morta.

La scolastica di Martin
Il confronto di Martin Heidegger con i pensatori medievali costituisce senza dubbio uno degli
elementi decisivi - sebbene finora tra quelli meno studiati per comprendere più a fondo la genesi del
suo pensiero (il contesto e le fonti, le letture e le scoperte, gli interlocutori e gli avversari), ma anche

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per mettere a fuoco con maggiore consapevolezza l'emergere delle opzioni speculative fondamentali
che segneranno l'intera ricerca heideggeriana e orienteranno i diversi tentativi di affronto della
questione dell'"essere".
A questa ricerca era stato dedicato, nel maggio dei 2000, un Colloquio internazionale all'università
di Cassino, che ha visto, sotto la direzione scientifica di Costantino Esposito e Pasquale Porro
(attualmente entrambi professori presso l'università di Bari), la partecipazione di diversi studiosi del
pensiero heideggeriano e della filosofia medievale a livello internazionale.
Gli Atti di questo Colloquio sono stati pubblicati di recente come primo numero di un nuovo
Annuario internazionale di storia della metafisica (in quattro lingue), intitolato significativamente
«Quaestio», e che annovera, sempre sotto la direzione di Esposito e Porro, un nutrito comitato
scientifico con alcuni tra i più importanti storici della filosofia antica, medievale e moderna delle
principali università europee e americane.
Il volume offre un quadro molto articolato e pressoché esaustivo delle figure e dei problemi più
significativi dell'ermeneutica heideggeriana del Medioevo, ripercorsa a partire dal ruolo giocato
dalla filosofia medievale nel contesto di formazione del giovane Heidegger, il quale avrebbe
probabilmente intrapreso la via accademica della medievistica - e per di più nell'ambito della
Facoltà cattolica di Teologia di Friburgo - se la sua travolgente vocazione filosofica non avesse fatto
irruzione già dal 1919 (assieme ad alcuni incidenti di percorso accademici), Bernhard Casper,
Stefano Poggi e Franco Volpi studiano, in questa prospettiva, il confronto di Heidegger con la
tradizione scolastica (ambito decisivo di confronto per diversi termini ripresi e "reinventati" da
Heidegger, corre quelli di "ens", essentia", "existentia", "distintio" eccetera) e il suo tentativo di
fuoriuscita dalla corrente antimodernista e più in generale da quello che egli chiama «il sistema del
cattolicesimo», pur conservando e continuando a elaborate gli impulsi fondamentali della
speculazione medievale, in ambito metafisica, logico e teologico.
Il merito di questo libro è quello di dipanare nei suoi diversi fili, e di seguire nei suoi cambiamenti
di prospettiva, questo dialogo intenso e anche sofferto tra Heidegger e i "suoi" medievali, portando
alla luce radici e motivazioni forse insospettate del suo pensiero, che potranno dare materia di
riflessione sia a coloro che lo assumono come punto insuperato e insuperabile della filosofia del
nostro tempo, sia a coloro che ne prendono più criticamente le distanze, ma in entrambi i casi
restituendocelo a buon diritto come un pensiero che esprime e continua a suo modo - a volto proprio
attraverso una radicale "distruzione" - la presenza e il peso della grande tradizione classico-cristiana
della metafisica.
Qui si rivela decisivo - per citare solo alcuni esempi del ricchissimo indice del volume che non è
possibile ripercorrere tutto - la lettura, o meglio il "rapporto" con l'Agostino delle Confessioni
riguardo ai temi della vita fattuale come "inquietudine" storica, della "memoria" e della "tentazione"
come strutture non solo psicologiche, ma ontologiche dell'esistere e al tema dei "tempo" come
dimensione originaria dell'esserci (studiati qui da Friedrich-Wilhelm von Herrmann); ma anche
l'interpretazione di Tommaso d'Aquino riguardo alla natura della metafisica alla differenza
antologica ente-essere e creatore-creatura e al problema della causalità (affrontati tra gli altri da
Jean-François Courtine); come pure il confronto con l'elaborazione univoca del concetto di "ente" e
con i problemi di "grammatica speculativa' risalenti a Duns Scoto e alla sua scuola (messi in luce da
Orlando Todisco e da Annalisa Caputo). E sarà interessante scoprire (attraverso l'intervento di C.
Esposito) il forte condizionamento esercitato sulla lettura heideggeriana della metafisica medievale
da parte del gesuita spagnolo Francisco Suarez, un esponente di spicco della tarda scolastica del
XVI e del XVII secolo, che paradossalmente svolge un ruolo ermeneutico decisivo anche per chi,
come Heidegger, dalla scolastica voleva decisamente liberarsi. E' Suarez infatti l'autore che ha
"sistematizzato" la metafisica di Tommaso e di Scoto come una scienza generale dell'"'ente in
quanto tale", che arriverà alla metaphysica generalis! (od ontologia pura) rispetto a una
metaphysica specialis (psicologia, cosmologia, teologia) di Baumgarten, e da lui sino a Kant e a
Hegel. Esattamente la tesi che Heidegger farà propria.

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Né poteva mancare in questo quadro l'affronto del nodo problematico tra metafisica, teologia e
mistica, che si rivelerà molto fecondo sia per il giovane Heidegger che per l'Heidegger maturo, e
che gli permetterà di trasformare paradossalmente il senso "nichilistico" l'originario contesto
metafisico medievale. E qui è d'obbligo il riferimento a Meister Eckhart, un autore dal quale
Heidegger attingerà importanti suggerimenti speculativi e linguistici, ad esempio riguardo al legame
tra "essere", "divinità" e "Dio" o alla dimensione di "abbandono" e di "distacco" che vige tra gli enti
e il misterioso donarsi dell'essere (si vedano i contributi di Vincenzo Vitiello e Giusi Strummiello).
Come pure si rivela essenziale, per capire molte delle scelte heideggeriane, il suo riferimento a
Lutero (affrontato da Andreas Grossmann), anche per la mediazione dei suo collega di Marburgo, il
teologo protestante Rudolf Bultmann, in ordine al compito di una «Riforma della filosofia».
Resta naturalmente il problema se a questa feconda appropriazione del Medioevo da parte di
Heidegger abbia corrisposto un'influenza altrettanto significativa del pensiero heideggeriano sulla
medievistica contemporanea (ne tratta Pasquale Porro). Certo, si potrebbe considerare con molta
diffidenza l'utilizzazione propriamente storiografica delle interpretazioni heideggeriane, spesso tutte
orientate a corroborare una tesi generale e il più delle volte omologante, se non totalizzante della
storia della metafisica. E viceversa si potrebbe anche lamentare il fatto che certe idee heideggeriane
abbiano finito per costituire una sorta di filtro riduttivo per molte genuine posizioni di pensiero
sorte nel Medioevo, come in altre epoche, e che forse risultano molto meno riducibili negli schemi
heideggeriani di quanto si crederebbe da parte di un diffuso e superficiale "sentito dire"
ermeneutico.

L’ombra del nichilismo

C on il titolo Il nichilismo europeo (ora edito da Adelphi, a cura di Franco Volpi) Martin Heidegger
pubblicò come saggio a sé nel 1967, a 78 anni, uno squarcio del suo Nietzsche del 1961. L’emergere
del nichilismo nei suoi studi nietzschiani non fu fortuito. Che cosa vuol dire - si chiedeva Nietzsche -
«nichilismo»? Che i valori massimi - rispondeva - si svalorizzano. Manca lo scopo, manca la
risposta al «perché». Il problema, non nuovo, del senso della tradizione europea era così connesso
da Nietzsche con il tema del nichilismo, familiare alla cultura russa del tempo. Manfred Riedel
notava che per Nietzsche (di cui non gli sfuggiva il «linguaggio leggero, a volte troppo leggero e
vorticoso») l’uomo, «"essenza" temporalmente finita», non può «dare risposte definitive alla
domanda sul "che cos’è", niente "verità eterne" come supreme condizioni di tutte le cose che
appaiono», come «categorie innalzate a "valori" quali "scopo, unità, essere"». Perciò, neppure il
perché del nichilismo ha una risposta. Ne consegue che, «nell’accadere storico della modernità, non
si può più identificare l’Europa con l’Occidente e l’Occidente con l’antichità e il cristianesimo».
Heidegger riprese il problema di Nietzsche, dice Volpi, quando maturò la sua «attenzione per la
negatività che contrassegna l’epoca moderna».
Non era una ripresa innocente. Per Riedel, Heidegger si muove nella scia del Nietzsche «ingannato
nella sua speranza di sognatore di un rinnovamento spirituale del Reich di Bismarck». Heidegger,
cullatosi in un’analoga «disillusa attesa» del Terzo Reich di Hitler, «rivela così, a partire dal trauma,
dopo la metà degli anni Trenta, il sogno della "Germania spirituale"». La sua riflessione sul
nichilismo si lega a un «processo di rielaborazione del trauma» attraverso l’idea della «Germania
spirituale», una «Germania segreta» contrapposta a quella «ufficiale». Questa porta Heidegger a
pensare che «lo spirito non si rivela né "popolare", né "europeo"», e a vederlo, «di fronte alla
catastrofe della seconda guerra mondiale», piuttosto, come lo spirito degli abitanti della terra, e
quindi come qualcosa di contrario «all’abituale fiducia europea nella ragione e all’ideologia coeva
del "sangue" e della "terra"» (l’ideologia del nazionalismo razzistico al culmine nel Terzo Reich).
Così, è «lo spirito dell’oikoumene a emergere dinanzi allo sguardo di Heidegger», che con ciò
conclude, per Riedel, «la sua traumatica esperienza per rielaborarla in un lungo e faticoso cammino
di pensiero e purificarsene infine nella sua opera tarda».

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Anche Volpi collega il nichilismo all’esperienza politica di Heidegger, «alla lotta ideologica
accesasi nel nazionalsocialismo per la leadership culturale», in cui egli si scontrò con Alfred
Rosenberg ed Ernst Krieck. Krieck in particolare gli imputava «un esplicito ateismo e un nichilismo
metafisico analogo a quello sostenuto specialmente da scrittori ebrei» e, quindi, «un impulso alla
depravazione e dissoluzione del popolo tedesco». Lo studio di Nietzsche e del nichilismo e del
rapporto tra metafisica e nichilismo rozzamente associati da Krieck sono la risposta di Heidegger.
Ne viene fuori la tesi che «il nichilismo non è solo una spettrale ma contingente ombra che
accompagna la storia europea tra Ottocento e Novecento, e che la grande letteratura, specie con
Turgenev e Dostoevskij, ha tentato di catturare». Esso è assai di più: «un movimento che inerisce
all’essenza stessa della metafisica occidentale». Perciò, secondo Volpi, per Heidegger «Nietzsche e
il nichilismo segnalano un destino: il destino di un de profundis dal quale l’umanità pare non essersi
ancora risollevata».
Riedel, dunque, vede nelle tesi heideggeriane sul nichilismo una riuscita e purificante evasione dal
sogno di una Germania spirituale fallito sia col Secondo che col Terzo Reich. Volpi, più persuasivo,
lascia Heidegger nella sua constatazione del de profundis . In entrambi i casi, però, resta il senso di
una contestazione e negazione heideggeriana dell’Europa e della sua tradizione speculativa. Ne
uscivano con le ossa rotte, oltre le ideologie della terra e del sangue, anche la modernità,
l’identificazione europea con la tradizione classica e cristiana, il senso europeo di una storia che
angoscia, ma anche libera e promuove. A che vale, allora, scoprire lo spirito dell’oikoumene o degli
abitanti della terra come alternativa allo spirito dell’Occidente, all’Europa? Cosmopolitismo contro
europeismo? Cosmopoli contro Eurolandia? E con quali pensieri e valori (e, in più, non solo
teoretici, metafisici, come in Heidegger)?
Francamente, non vediamo qui una veduta che, oltre a «purificare» Heidegger, apra una vera
alternativa all’esperienza europea di cui si canta il de profundis . Vi vediamo, invece, una
meditazione e un travaglio di pensiero non superiori a ciò che criticano e negano, ma con
prospettive e suggestioni ricche di fascino e di feconda problematicità. Così è, ad esempio, nelle
pagine sul nichilismo come svalutazione dei valori supremi e come storia o in quelle sul dominio
del soggetto nell’età moderna. Sono pagine che non si dimenticano. Ma proprio in esse ci sembrano,
non a caso, operare più forti gli spiriti e le voci di quella tradizione europea di cui si vuol proporre
una critica risolutiva.

Sentieri che non portano lontano


«Non è nei grandi boschi né nei sentieri che si elabora la filosofia, bensì nelle città e nelle strade, ivi
compreso ciò che vi è di più fittizio in esse», scriveva Gilles Deleuze in Logica del senso (1969),
alludendo ovviamente ai Sentieri interrotti - o, nella versione di Vincenzo Cicero - ai Sentieri erranti
nella selva, di Martin Heidegger. Per parte sua, il 27 gennaio 1968, Jacques Derrida aveva letto alla
Società francese di filosofia la conferenza sulla "Différance", che si concludeva commentando il
saggio conclusivo, quello su Anassimandro, della raccolta di Heidegger. Quell'anno apparve anche
la prima traduzione italiana di questi scritti composti tra il 1935 e il 1946, usciti in Germania nel
1950, e pronti, nella traduzione di Pietro Chiodi, sin dal 1953.
Il pensatore agreste e boschivo dilagava sulla scena parigina e generalmente 'metropolitana' (si
sarebbe detto di lì a poco), portando un gratificante messaggio di fondo: la filosofia, l'arte e la
politica stanno più in alto della scienza. Questa constata le cose come stanno, mentre il filosofo
degno di questo nome non constata mai, ma produce e istituisce, d'accordo con l'idea di Nietzsche
secondo cui i veri filosofi non sono quelli che accettano i valori esistenti, ma quelli che ne creano di
nuovi, facendosi legislatori dell'umanità. Ed è così che saggi composti in Germania durante l'ascesa
e la caduta di Hitler conobbero una seconda giovinezza all'epoca delta rivolta studentesca. Non c'è
paradosso, e soprattutto non bisogna credere che Heidegger, a disboscarlo un poco, sia una specie di
sessantottino ante litteram: semplicemente, si tratta di messaggi talmente sibillini da potersi
adattare a tutte le stagioni.

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Proprio per questo motivo, però, c'è ragione di credere che la via del "secondo Heidegger"
(diversamente, per esempio, da quella del "primo", di Essere e tempo) non sia più tanto percorribile,
tolto nel senso, minimale, che sbagliando si impara, o altri imparano. E varrebbe casomai la pena di
considerare questi saggi di Heidegger come le palesi testimonianze di un naufragio filosofico. Non
importa se nutrito delle più vaste ambizioni. Ne riparlíamo magari tra cent'anni, per il momento
seguiamo altri sentieri.
Resta tuttavia il fascino (per alcuni) del pensiero abissale e radicale, come segno della "autentica
filosofia". E il sintagma "secondo Heidegger" acquisisce, per chi ama il genere, un altro significato:
«Secondo Heidegger le cose stanno così e così» (e, implicitamente «ovvio che ha ragione lui»). Qui
Heidegger viene caricato di autorità e di autorialità, e risulta difficile distinguere un saggio di
filosofia da una costituzione politica, da un testo sacro o da un'opera d'arte, che sono poi le vie
attraverso cui, in Heidegger, si istituisce la verità.
Le ricadute ermeneutiche sono impegnative. Come non avrebbe senso correggere Tasso, la Bibbia
o il codice di Hammurabi. così Heidegger non lo si discute, lo si postilla e commenta, si cercano
interpretazioni ampliative o restrittive, esercitando in massimo grado l'arte della deferenza testuale.
Nella vertigine delle glosse, può venirne fuori, come in un libro sobillino, un'indicazione utile;
tuttavia, lo scavo talmudico della lettera costituisce un potente freno inibitore alla pratica della
ricostruzione razionale degli argomenti.
Visto che non c'è un solo modo per fare filosofia, anche questa può essere una strada. Certo, di
questa iperbolica autorialità si ha una netta testimonianza nelle scelte di Cicero, síntomatiche del
mezzo secolo trascorso dalla prima versione. In Chiodi, che non aveva affatto una buona opinione del
"secondo Heidegger", c'era tutto sommato un tentativo di normalizzazione. In Cicero, invece,
assistiamo alla strategia inversa: sovra-semantizzare tutte le parole di Heidegger, escogitare
neologismi, rinverdire arcaismi (le scelte sono evidenziate in un glossario di ben 250 pagine), nella
ipotesi che lì, sotto il velame della forma linguistica, si celi una verità essenziale.
Ricordo di aver fatto qualcosa di simile una dozzina di anni fa, l'unica volta in cui mi cimentai nella
versione di un testo, peraltro brevissimo, di Heidegger. Ora non lo farei più, perché spesso la
felicità del traduttore non coincide con quella del lettore.

Martin Heidegger (1889-1976) ha una formazione giovanile di stampo teologico e religioso, molto
influenzata dall'ambiente familiare, e questa matrice teologica resterà costante in tutto il suo
pensiero; la sua fu una vita piuttosto regolare, segnata da pochi eventi, tra i quali il più importante
fu senz'altro l'adesione al nazismo: ciò ha fatto molto discutere e proprio per via di quest'adesione,
dopo il 1945, Heidegger fu emarginato dagli ambienti culturali tedeschi. Essa risulta
particolarmente fastidiosa se teniamo presente che il suo maestro, Husserl, fu espulso dalla
Germania in quanto ebreo e Heidegger gli prese il posto negli ambienti accademici: in veste di
rettore dell'università, pronunciò un acceso discorso in cui tesseva le lodi del nazismo; ma, per
onestà, è bene ricordare che egli non ha mai abiurato, ma, al contrario, si è sempre assunto le sue
responsabilità. E del resto la sua adesione al nazismo durò pochissimo: dopo il celebre discorso in
cui elogiava il nazismo, Heidegger se ne allontanò, ritirandosi all'interno della vita accademica, e
arrivò perfino ad opporsi vivamente all'espulsione nazista degli insegnanti ebrei. Trattando il suo
pensiero, ci accorgeremo di come in realtà l'adesione heideggeriana al nazismo sia più complessa
del previsto e non possa risolversi in una questione di comodo: si tratta di un'adesione che
potremmo, in un certo senso, definire "strumentale", in quanto Heidegger vede nel nazismo non un
fine, ma uno strumento attraverso il quale far emergere alcune cose importanti. Sul versante
culturale, gli studiosi del suo pensiero hanno individuato essenzialmente due fasi nella sua filosofia:
il punto di confine tra di esse si colloca, anche se in modo non del tutto ben definito (poiché in
quegli anni il filosofo pubblica pochissimo), all'incirca negli anni '30. Dopo aver pronunciato il
discorso rettorale di adesione al nazismo ed essersi immediatamente ritirato nella vita accademica,
non pubblica più quasi nulla fino agli anni '40. Da quel momento in poi si entra in una nuova

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stagione del suo pensiero: tra l'Heidegger degli anni '20 e quello degli anni '40 troviamo quella che
lui stesso definisce "Kehre", ovvero una svolta. Sul fatto che una svolta ci sia stata nel suo pensiero
tutti gli studiosi concordano: meno chiaro, tuttavia, è di che genere essa sia stata. Qualcuno ha
sostenuto che si tratta di una svolta radicale e che l'Heidegger degli anni '40 dica cose diversissime
da quello degli anni '30, ma c'è anche chi, sulla scia dell'interpretazione che Heidegger stesso dà del
proprio pensiero, tende a intendere tale svolta come lieve e piuttosto sfumata. Secondo questa linea
interpretativa, il problema centrale nella filosofia heideggeriana resterebbe sempre lo stesso e a
cambiare sarebbero esclusivamente gli strumenti impiegati dal filosofo nel tentativo di risolverlo.
Questo permetterebbe anche di capire, almeno in parte, perché si studia Heidegger tra gli
esistenzialisti sebbene egli non abbia mai accettato di essere etichettato come tale e, anzi, dopo la
svolta, abbia polemizzato aspramente con l'esistenzialismo: ancora più curioso rispetto a questo
rifiuto dell'etichetta esistenzialista è il fatto che la stragrande maggioranza dei pensatori
esistenzialisti si ispiri ad Heidegger sebbene egli neghi che la propria filosofia sia esistenzialista. In
gioventù, Heidegger oscilla fra teologia, fenomenologia e ontologia: proprio come Nietzsche,
anch'egli può essere considerato un pensatore "inattuale", che scrive nel Novecento ma che si occupa
di problemi fin troppo classici. Heidegger, infatti, dedica costantemente la sua attenzione alla
metafisica, in particolare alla dottrina dell'essere in Aristotele: come testimonianza dei suoi interessi
metafisici merita di essere ricordata la sua tesi di dottorato su "La dottrina delle categorie e del
significato in Duns Scoto" (1915). L'ontologia sarà il nucleo di indagine della filosofia
heideggeriana, anche nei momenti in cui il filosofo sembrerà più distante da essa. In questo periodo
giovanile, però, egli si occupa anche di teologia di tradizione paolina: affrontando il problema della
teologia cristiana, Heidegger insiste sul carattere di "evento" tipico dei contenuti cristiani.
Nell'ontologia tradizionale le strutture fondamentali della realtà non avvengono, ma sono: ad
avvenire sono i fatti, mentre, secondo quella tradizione avviata da Parmenide, l' essere in quanto tale
è statico; in una concezione del genere, nota Heidegger, l' essere e il tempo sono due concetti che si
escludono a vicenda, poiché l'essere è atemporale e il tempo è la dimensione del divenire. La novità
introdotta dal cristianesimo è che l'essere per antonomasia (Dio) non si limita ad essere, ma,
attraverso l'incarnazione del Verbo, avviene, cosicchè ci si trova di fronte ad un evento dell'essere.
Si tratta di un'innovazione radicale, che stravolge la tradizione di stampo parmenidea: il fatto stesso
che Platone parlasse in una sola opera (Il Timeo) del tempo e in essa non trattasse dell'essere (le
idee), attesta la tradizionale inconciliabilità delle nozioni di essere e di tempo. Queste riflessioni di
fondo resteranno costanti in tutta l'attività filosofica di Heidegger, tant'è che la sua opera più
famosa, del 1927, si intitolerà "Essere e tempo". E una delle principali prerogative di Heidegger è di
giocare con le parole: in tedesco, "Essere e tempo" si intitola "Sein und Zeit" e il filosofo fa notare
la forte assonanza tra i due termini, quasi come se, in definitiva, l'essere e il tempo fossero la stessa
cosa. Ma in gioventù Heidegger, oltrechè dalla teologia, risulta anche influenzato dalla
fenomenologia di Husserl: in particolare, in Heidegger resta l'idea husserliana che la coscienza sia
sempre costitutivamente intenzionale; la coscienza, in altri termini, si riferisce sempre a
qualcos'altro, qualsiasi atto umano è un riferirsi a qualcosa, cosicchè il nostro volere, pensare, e fare
è sempre riferito a qualcosa. Se l'atteggiamento di Husserl, però, era iperclassico, in quanto portava
all'esasperazione la tendenza teoretica riservata da Aristotele alla filosofia, quasi sganciandosi dal
mondo (che non a caso veniva da Husserl messo tra parentesi), l'indagine esistenzialista (sebbene
Heidegger rifiuti di essere bollato come "esistenzialista") verte sull'esistenza e quest'ultima implica
l'essere immersi in quel mondo sul quale Husserl sospendeva il giudizio. Dunque Heidegger eredità
la nozione husserliana di "intenzionalità", ma respinge nettamente l'ipotesi che essa resti interna
solo all'orizzonte della coscienza: ne consegue che per Heidegger il carattere intenzionale non
implica soltanto il tendere alle idee, ma anche il tendere e il riferirsi al mondo; questo
atteggiamento, proprio di Heidegger, rispecchia in realtà buona parte delle posizioni
esistenzialistiche, che per lo più vedono come marginale l'aspetto teoretico, tanto caro ad Husserl,
perché l'esistenza è, in primo luogo, essere nel mondo. Se nel periodo giovanile il filosofo oscillava
soprattutto tra la teologia e la fenomenologia, con la prima fase vera e propria della sua filosofia

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egli proietta la propria indagine sull'essere. Questa fase si apre con la pubblicazione di " Essere e
tempo " : all'inizio dell'opera, Heidegger dichiara di condividere sostanzialmente l'antica
affermazione aristotelica secondo cui il problema della filosofia è chiarire che cosa è l'essere; egli
proverà dunque a fornire una risposta a tale quesito, ma fa subito notare come si debba
necessariamente dare a tale domanda una risposta articolata in termini diversi rispetto a qualsiasi
altra. Se alla domanda "cosa è x?" (dove x sta per "uomo", "animale", "casa", ecc) si può rispondere
dando una definizione, cioè effettuando un ritaglio all'interno dell'essere, quest'operazione è
inattuabile se ci domandiamo "cosa è l'essere", dato che l'essere è appunto quell'orizzonte all'interno
del quale ritagliamo delle porzioni nel dare definizioni. E se l'essere è quell'orizzonte ultimo su cui
si stagliano tutte le cose tranne che l'essere stesso, allora non ci si dovrà interrogare sulla
definizione dell'essere, ma sul senso dell'essere: ed è a questo proposito che Heidegger si propone di
percorrere una nuova strada, quella dell'analisi dell'esistenza. Infatti, per provare a comprendere il
senso dell'essere si deve provare a porre questa domanda passando attraverso l'analisi di quell'ente
particolarissimo che è radicato nell'essere e che si pone esso stesso domande sull'essere, quell'ente
cioè per cui l'essere rappresenta un problema: per provare a cogliere il senso dell'essere si deve
dunque provare ad indagare l'esistenza umana, dal momento che l'uomo è immerso nell'essere e ha
la capacità di interrogarsi su di esso ( " l'uomo significa colui che può pensare ") . Cosa sono
l'essere, l'ente e l'esistenza? L'essere, propriamente, non è una cosa: come aveva sottolineato
Aristotele, la filosofia deve indagare sull'essere in quanto essere, depurato da ogni qualità ad esso
inerente; da ciò deriva il fatto che l'essere non sia una cosa, ma l'orizzonte su cui si possono definire
e riconoscere le singole cose, che altro non sono se non gli "enti". L'esistenza, invece, ha sempre un
carattere di trascendenza, come aveva già sottolineato Kierkegaard: ciò significa che un ente che
esiste sta fuori di sé, ovvero non è mai solo ciò che è in quel determinato momento, ma anche
quello che progetta di essere per il futuro. Ogni esistenza, dunque, è un progetto, un essere slanciato
verso l'avvenire: se la pietra racchiude in se stessa tutto il proprio significato, l'uomo, invece, non è
mai tutto in se stesso, ma si trascende di continuo, quasi come se pendesse in avanti. Sotto questo
profilo, per Heidegger, solo l'uomo esiste: ecco perché l'uomo è un ente ma, a differenza degli altri
enti, è dotato di esistenza. Heidegger tende frequentemente ad impiegare parole antiche colorandole
di nuovi significati, convinto che scavando in esse si possano trovare significati nascosti e più
profondi. Per fare ciò, si avvale di un artificio grafico che mette in luce come, pur essendo termini
di vecchia data, vengano ripresi in una nuova accezione: mette i trattini tra le lettere; e così progetto
diventa pro-getto, a sottolineare l'idea del gettarsi avanti dell'esistenza; quest'ultima diventa e-
sistenza, con l'idea del venir fuori di continuo verso il futuro. Letteralmente, "esistenza" in tedesco
sarebbe "da-sein", cioè "essere qui": in italiano diventa "esser-ci" e implica che l'esistenza sia
sempre situata in un luogo del mondo e questo è connesso con l'intenzionalità fenomenologica (per
cui ogni atto è un riferirsi a qualcosa) e con l'idea che l'uomo sia l'unico ente che si interroga
sull'essere; inoltre, suggerisce l'idea sartreana secondo la quale l'uomo è gettato nel mondo ed è
condannato ad essere libero. Quella di Heidegger è dunque una posizione apparentemente
esistenzialista che, se megli analizzata, si rivela invece ontologica: infatti, al pensatore tedesco
interessa l'essere ma, poiché non lo si può trattare come tutti gli altri oggetti, egli ricorre ad un'
"analitica dell'esistenza" orientata a cogliere il senso dell'essere. Ecco perché, per Heidegger,
l'analitica esistenziale non è un obiettivo, ma solo uno strumento: e in "Essere e tempo" egli attua
questa analitica dell'esistenza nel tentativo di cogliere il senso dell'essere, non per fare un'analisi
fine a se stessa sul senso dell'esistenza umana; l'opera, tuttavia, resta incompiuta perché Heidegger
dice che gli è mancato il linguaggio per sviluppare pienamente l'analisi ontologica. Da queste
considerazioni emerge come, in realtà, il tema trattato nell'opera è "Esistenza e tempo", in quanto,
per indagare sull'essere attraverso l'esistenza, Heidegger finisce per non trattare affatto la tematica
dell'essere. L'ambiguità sta quindi nel fatto che ci troviamo di fronte ad un'opera che, nelle
intenzioni dell'autore, doveva essere ontologica ma che in fin dei conti non fa altro che trattare
dell'esistenza: ed è per questo motivo che molti pensatori hanno visto in Heidegger il punto di
partenza per le riflessioni esistenzialistiche. Ma, stando a quanto abbiamo finora detto, possiamo

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dare ragione ad Heidegger quando dice che la "svolta" nel suo pensiero non è stata così radicale: il
suo obiettivo resta sempre e comunque quello ontologico e se anche in "Essere e tempo" risalta
l'analitica esistenziale, ciò non toglie che essa resti un mero strumento; sia nella sua prima fase
(quella "esistenzialista") sia nella seconda (che sarà "ermeneutica") l'essere resta al centro
dell'indagine. Nel periodo in cui Heidegger conduce l'analisi esistenziale, risulta centrale la coppia
autenticità/inautenticità : già Kierkegaard, a suo tempo, aveva insistito sul fatto che è più facile che
si salvi chi crede in qualcosa di sbagliato ma in modo sincero e autentico piuttosto di chi crede in
modo inautentico in cose giuste. Heidegger riprende questa coppia di concetti e li applica
all'esistenza, scavando, come sempre, nell'intimità delle parole e scoprendo in esse una verità
nascosta. In particolare, egli nota, nella parola "autentico" è racchiusa la radice greca " autoV " , che
significa "se stesso"; una cosa, pertanto, sarà autentica quando è se stessa, quando è propria fino in
fondo. Cerchiamo di capire meglio in che senso: si può parlare di esistenza autentica quando l'esser-
ci, soggetto dell'esistenza, compie scelte vere, appunto "autentiche", quando cioè nelle scelte mette
in gioco se stesso come l'Abramo di Kierkegaard. Viceversa, un'esistenza sarà inautentica quando
sarà caratterizzata da non-scelte, da un'assoluta non-originarietà. La distinzione nell'ambito
dell'analitica esistenziale tra autentico e inautentico viene poi da Heidegger inserita in un contesto
fenomenologico: si tratta, dice Heidegger, di vedere le strutture di fondo dell'esistenza così come
esse si manifestano nella " quotidianità media ", ovvero nella vita di tutti i giorni. E dunque il
pensatore tedesco procede all'analisi dei modi fondamentali in cui l'esistenza si manifesta: il primo
concetto che emerge è che l'esistenza è un essere-nel-mondo ; i trattini tra una parola e l'altra
servono, in questo caso, non a separare (come era nel caso dell'esser-ci), bensì ad unire. E dire
"essere nel mondo" senza i trattini è un altro modo per dire esser-ci, dato che "essere qui" vuol dire
appunto essere situati nel mondo: se invece poniamo i trattini tra una parola e l'altra (essere-nel-
mondo), tutto cambia. Se infatti lo scrivo senza trattini, do per scontato che ci sia un mondo già
costituito e un essere che ad esso si rapporta; ma Heidegger vuole sottolineare come il mondo,
propriamente parlando, esiste solo nella misura in cui è costituito dalla coscienza: essa si riferisce
sempre, husserlianamente, a qualcosa e ciò comporta un relazionarsi pratico col mondo; ne
consegue che, proprio come per Husserl era la coscienza ad essere intenzionale, anche per
Heidegger le cose stanno in questi termini. Il mondo non è un qualcosa che esista prima: al
contrario, è la natura stessa della coscienza che, proprio in virtù del suo naturale relazionarsi
intenzionale, si crea il mondo, il quale si trova così ad esistere solo nella misura in cui ci sono
coscienze che si relazionano a qualcosa. Con quest'asserzione, però, Heidegger non intende
avvicinarsi alle tesi idealistiche e, soprattutto, fichteane dell'Io che pone il non-Io: infatti, non è la
coscienza che produce il mondo in sè, ma, semplicemente, il mondo è l'insieme delle cose
utilizzabili. Che poi ci sia un mondo indipendente da noi e dalla nostra coscienza, ad Heidegger non
interessa, perché per noi esiste solo e soltanto il mondo con cui ci relazioniamo e quel mondo è
appunto prodotto dalla coscienza, come si evince benissimo nel momento in cui Heidegger dice che
esso è l'insieme delle cose che possiamo utilizzare. In tale prospettiva, è centrale la categoria di cura
: la cura consiste nel badare e nel prestare attenzione alle cose poiché, se la coscienza è
intenzionalità, allora essa non può che tendere alle cose del mondo e prendersene cura. Ed è a
questo punto che affiora uno dei maggiori stravolgimenti mai avvenuti nella cultura occidentale: da
Aristotele in poi era invalsa l'idea che l'uomo avesse nell'ambito della realtà un atteggiamento
teoretico da cui tutti gli altri derivavano (la tecnica stessa altro non era se non un'applicazione del
sapere); Heidegger stravolge questa concezione antichissima e sostiene che l'atteggiamento
intenzionale della coscienza costituisce il mondo come insieme di cose utilizzabili con l'inevitabile
conseguenza che la modalità originaria della coscienza è pratica, volta all'azione, poiché tende a
usare le cose e a crearsi un mondo di cose utilizzabili. L'attività conoscitiva non è più,
aristotelicamente, alla base della natura umana ma, al contrario, è uno dei tanti modi in cui si
possono utilizzare le cose come strumenti dell'esistenza: conoscere una cosa è uno dei tanti modi in
cui posso usare quella cosa, instaurando con essa un rapporto teoretico. In questa maniera, l'esser-ci
è essere-nel-mondo: il problema è che ci sono due modi diversi di essere situati nel mondo; uno è

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quello dell'autenticità, l'altro è quello dell'inautenticità. L'uomo, infatti, è un essere e, in quanto tale,
nel relazionarsi col mondo manifesta spesso una tendenza che Heidegger definisce alla "deiezione",
cioè al trasformarsi in una cosa come le altre: e ciò che distingue le cose dall'uomo è che esse sono
tutte in se stesse, mentre l'esser-ci è sempre trascendente, ossia affacciato sul futuro. E nel suo
relazionarsi col mondo, potrà assumere atteggiamenti che lo portino a rinunciare all'autenticità,
rinunciando in questo modo all'esistenza e alla progettualità; il che richiama alla mente la vita
estetica di Don Giovanni delineata da Kierkegaard, una vita in cui l'unica vera scelta che si compie
è quella di non scegliere, cioè di lasciarsi vivere passivamente: e questa esistenza è immanentistica,
non è vera, bensì è inautentica, dato che perde il suo carattere di libera progettualità proiettata nel
futuro. L'esistenza inautentica, precisa Heidegger, è caratterizzata dal " Si " riflessivo (si fa, si
pensa, si crede, ecc), imperante nell'età della massificazione: e con il solito scavo nella
terminologia, si può notare come in tedesco la parola "man" ("Si") è molto affine a "mensch"
("uomo"), a sottolineare che il "Si" è l'atteggiamento proprio dell'uomo che si dedica ad un'esistenza
inautentica, non propria. In particolare, questo atteggiamento nasce nel momento in cui l'uomo
rinuncia alle proprie scelte per comportarsi nel modo in cui lo spinge a comportarsi il "Si", cioè la
collettività: e in ciò egli diventa una "cosa" priva di progettualità, viene passivamente trascinato
dalla corrente e si trova di fronte alla scelta conformistica. Quando l'esistenza umana è inautentica,
perché dominata dal "Si", l'uomo non parla più né è indotto ad aspirare alla conoscenza: il parlare
cede il passo alla "chiacchiera" e la conoscenza viene sostituita dalla "curiosità". Infatti, nel
momento in cui cedo al "Si", non parlo più di cose che coscientemente sento mie e di cui voglio
parlare con gli altri. Al contrario, "chiacchiero" avvalendomi di modi di pensare comune e tendo a
parlare delle cose di cui tutti parlano nel modo in cui tutti ne chiacchierano. E Heidegger nota una
cosa piuttosto interessante: non si può sfuggire al "Si" nemmeno facendo gli anticonformisti perché,
in definitiva, anche l'anti-conformismo è un conformismo. Nel momento in cui regna il
conformismo, infatti, tutti cercano disperatamente di sottrarsi ad esso e perciò si rifugiano nell'anti-
conformismo che, diventando meta di tutti, è ancora sotto il controllo del "Si": trasgredendo la
norma non si esce dai ranghi del "Si", nota Heidegger, perché non si compie una libera scelta
personale, ma anzi si trasgredisce come "Si" trasgredisce, cioè nello stesso modo in cui lo fanno
anche gli altri. Un esempio di anti-conformismo che sfugge al "Si" può essere quello di Socrate, il
quale sa tanto inquadrarsi perfettamente nelle situazioni canoniche quanto sottrarsi ad esse: nel
"Simposio" platonico, egli partecipa come tutti gli altri al convito ma poi, quand'è il momento, se ne
va. Proprio in virtù dell'autenticità delle sue scelte egli è un vero anti-conformista: sceglie sempre
liberamente senza mai farsi influenzare dal "Si". Oltrechè dalla chiacchiera, l'epoca contemporanea
è secondo Heidegger caratterizzata dalla curiosità: l'interesse culturale autentico e genuino,
profondo e motivato interiormente viene meno e cede il passo ad una banale e morbosa curiosità
dominata dal "Si". Il risultato di questa situazione è la " deiezione ", cioè la trasformazione
dell'uomo in cosa come tutte le altre: egli perde la sua libertà di scelta e tradisce l'esistenza
autentica, abbracciando quella inautentica; quest'ultima, priva di ogni progettualità nel futuro, esula
dalla temporalità, a differenza di quella autentica. Esaminiamo dunque l'esistenza autentica: centrale
è il concetto di angoscia , che, come Kierkegaard, Heidegger riconduce alla paura del nulla. La
grande novità consiste tuttavia nel fatto che Heidegger collega in positivo questo sentimento del
nulla al problema della morte: riprendendo un'antica espressione platonica, si può affermare che la
vita del saggio è una lunga preparazione alla morte, la quale (nella prospettiva platonica) altro non è
se non un trapasso ad un'altra vita puramente spirituale; Dante stesso, similmente, afferma che il
vivere è un correre alla morte. Heidegger, invece, parla espressamente di essere-per-la-morte ,
espressione che, un po' come quella platonica, suggerisce come il vivere sia in funzione della morte.
In sostanza, ciò che Heidegger vuol dire quando parla di essere-per-la-morte è che la caratteristica
costitutiva dell'esser-ci è di essere finito e, in virtù di ciò, di sentire la prospettiva del nulla e di
essere colto per questo dall'angoscia, la quale è, appunto, il sentimento della morte: ora, questo
sentimento, nella tradizione precedente ad Heidegger era per lo più stato considerato come
distruttivo, dal momento che, in vista della morte, ogni nostra azione perde di significato e, non a

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caso, di fronte al senso di questo carattere distruttivo della morte l'uomo è ricorso alla religione,
cioè al convincimento che la morte non sia la fine di tutto; così era anche per Platone, che
concepiva la morte come apertura di una nuova e più alta prospettiva di vita. Per Heidegger, invece,
con essa finisce tutto e vivere per la morte significa condurre la propria esistenza nella piena
consapevolezza che il nostro orizzonte di vita è limitato, senza però far perdere di significato alla
vita o approdare alla religione, come invece è sempre stato tradizionalmente. Heidegger dice infatti
che sono proprio il carattere finito dell'esistenza e l'angoscia che ne deriva a conferire un senso alla
vita: è proprio l'angoscia, ovvero l'aver sempre presente la finitudine della propria esistenza, a dare
un senso autentico alle scelte che si compiono. Infatti, si può parlare di "esistenza autentica" solo
nel caso in cui vi sia progettualità e libertà assoluta nelle scelte: ma le scelte, se inquadrate in un
orizzonte di vita infinito, non hanno senso, non sono progettuali fino in fondo. In una prospettiva di
vita eterna, le scelte perdono di significato perché sono sempre reversibili: supponendo di godere di
una vita eterna, nel momento in cui scelgo un lavoro scartandone un altro, non sto compiendo una
scelta totalmente libera e progettuale, perché se anche quel lavoro non mi piace, posso sempre
sceglierne un altro, senza perdere mai tempo (visto che usufruisco di una vita eterna). Sembra quasi
che Heidegger legga l'eventualità di una vita eterna come una condanna. E molti suoi lettori,
riflettendo su queste sue considerazioni, hanno evocato a tal proposito la letteratura sui vampiri: essi
esemplificano perfettamente la tematica heideggeriana dell'immortalità come condanna a vivere in
eterno. Nell'ambito della vita finita, questo non avviene: il numero di anni di cui si dispone è finito,
come anche il numero di scelte che si possono fare; e poi, oltre ad essere limitate, le scelte che si
possono fare si escludono a vicenda e, spesso, non sono reversibili: come diceva Kierkegaard, la
"logica" dell'esistenza è quella dell' "aut-aut", si sceglie liberamente o una cosa o l'altra, e il fatto
stesso di compiere quella scelta esclude l'altra. Ecco perché per Heidegger l'esistenza è autentica
quando è pervasa dall'angoscia che scaturisce dal prendere coscienza della nostra finitudine: e il
vivere-per-la-morte ha dunque una valenza altamente positiva, in quanto rende autentiche le scelte
e, con esse, la vita; cosa che non potrebbe avvenire in una prospettiva di vita eterna. La conclusione
provvisoria (in quanto l'opera resta incompiuta per la "mancanza di linguaggio" che impedisce
all'autore di proseguire) di "Essere e tempo" concerne il carattere intrinsecamente storico
dell'esistenza: le riflessioni sull'essere-per-la-morte suggeriscono efficacemente come l'esistenza
non si collochi nell'eternità, ma in una dimensione storica e temporale; e Heidegger fa notare (sulla
scia della constatazione epicurea che la morte non la incontriamo mai perché quando ci siamo noi
non c'è lei e viceversa) che il fatto della morte non lo viviamo veramente mai, giacchè possiamo
vivere come fatto solamente la morte altrui, mentre la nostra la viviamo sempre e soltanto come
possibilità solo nostra, nella consapevolezza che, prima o poi, essa ci coglierà. Ne consegue che la
morte ha per noi un significato non come fatto, ma come possibilità: e, a questo punto, Heidegger fa
acutamente notare come nella società moderna, in cui non si parla ma si chiacchiera e non si aspira
alla conoscenza ma alla curiosità, la morte è stata rimossa. E l'aspetto più inautentico dell'esistenza
della società di massa risiede proprio nel fatto che si vive perfino la morte nel "Si": non più "io
muoio", ma "Si muore", quasi come se la morte non ci coinvolgesse mai in prima persona; essa
viene tragicamente inserita nel "Si" generico e, pertanto, perde il suo significato di possibilità: viene
meno l'essere-per-la-morte e, con esso, la libertà di scelta. Heidegger contrappone quindi la
posizione comune sulla morte a quella che il saggio deve far propria: l'opinione comune esorcizza
l'idea della morte, ritiene pusillanime intrattenervisi, la lascia indeterminata e in realtà nasconde la
paura effettiva che la certezza della morte suscita. Il saggio invece ignora la paura e affronta
l'angoscia della morte, vi convive e anzi anticipa dentro di sé la possibilità che essa si verifichi;
scopre così che " la morte è la possibilità più propria dell'esser-ci ", e in tal modo si sottrae alla
schiavitù dell'opinione comune, aprendosi alla possibilità di essere autenticamente se stesso e
liberandosi dalle illusioni e dagli autoinganni del "Si". Scrive Heidegger, in "Essere e tempo",
sull'atteggiamento del "Si" verso la morte: " il Si ha già pronta un'interpretazione anche per questo
evento. Ciò che si dice a questo proposito, in modo esplicito o sfuggente, come per lo più accade, è
questo: una volta o l'altra si morirà, ma, per ora, si è ancora vivi. L'analisi del 'si muore' svela

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inequivocabilmente il modo di essere dell'essere-quotidiano-per-la-morte. In un discorso del genere
la morte è concepita come qualcosa di indeterminato che, certamente, un giorno o l'altro, finirà per
accadere, ma che, per intanto, non è ancora presente e quindi non ci minaccia. Il 'si muore'
diffonde la convinzione che la morte riguarda il Si anonimo. L'interpretazione pubblica dell'esser-
ci dice: 'si muore'; ma poiché si allude sempre a ognuno degli Altri e a noi nella forma del Si
anonimo, si sottintende: di volta in volta non sono io ". Ma la morte è la cosa che più di tutte ci
appartiene ed è nostra fino in fondo, tant'è che nessun altro può viverla al posto nostro: essa è anzi
l'unica certezza della nostra esistenza, in quanto, pur non potendo sapere pressochè nulla di ciò che
ci accadrà in futuro, ciononostante possiamo con certezza affermare che, prima o poi, ci toccherà
morire. L'esistenza, nota Heidegger, è proiettata nel tempo e, soprattutto, nel tempo futuro, poiché
essa è, per sua natura, progettualità; e nell'analisi che egli fa della temporalità , critica aspramente la
tradizionale concezione che intende il tempo come una "cosa" divisa in tre parti (passato, presente,
futuro): non si tratta di tre parti distinte, ma di tre aspetti della medesima cosa. A tal proposito,
Heidegger fa notare come la parola tedesca che significa "storia" è molto simile al verbo "mandare"
e, per questo motivo, egli tende ad interpretare la storia come destino; e questo, egli afferma, vale
tanto per i popoli quanto per i singoli. Nel concetto di "storia come destino" Heidegger vede
sintetizzata l'identità dei tre aspetti (passato, presente, futuro) che costituiscono il tempo: e dire che
per ciascuno di noi la storia è destino implica che essa non sia solo il passato, né, tantomeno,
semplicemente il futuro. Al contrario, l'idea che Heidegger evince dalla somiglianza della parola
"storia" con la parola "mandare" è che il passato possa da noi essere vissuto in due maniere
differenti: da un lato, lo si può accettare come un dato di fatto senza significati reconditi; ma,
dall'altro lato, lo si può intendere come un "mandato", cioè come un destino. E così possiamo
concepire il nostro passato come un incarico ricevuto e proprio nella possibilità che abbiamo nel
presente di scegliere se vedere il passato come mero dato di fatto o come destino risiede la
possibilità che secondo Heidegger abbiamo di scegliere, paradossalmente, il nostro passato: inoltre,
se lo leggiamo come un "mandato", possiamo progettare in base ad esso il nostro futuro e, da questa
stretta dipendenza fra le tre dimensioni temporali (passato, presente, futuro), si capisce benissimo
come per Heidegger esse siano tre aspetti della medesima cosa. Infatti, l'io e i popoli compiono le
loro scelte nel presente sulla base di un destino radicato nel passato e in vista di un progetto situato
nel futuro. Sulla base di queste considerazioni, si può facilmente arguire perché Heidegger parli di "
storicità dell'esistenza " : e con essa si chiude "Essere e tempo", questa lunga e complessa analisi
dell'esser-ci come via per cogliere l'essere. L'opera si chiude con un avvertimento dell'autore: " il
chiarimento della costituzione dell'essere e dell'esserci resta soltanto una via: il fine è
l'elaborazione del problema dell'essere in generale "; non essendo riuscito a mantener fede al suo
proposito di indagare sull'essere, egli si propone ora di impostare la sua indagine in una nuova
maniera. Ed è per questo motivo che Heidegger, dalla storicità dell'esistenza, cercherà di passare
alla "storicità dell'essere": i due concetti chiave del secondo Heidegger (quello del dopo la svolta)
sono la metafisica e la verità. Egli opera una vera e propria distruzione della metafisica e un radicale
stravolgimento della nozione di "verità", due operazioni che richiamano immediatamente alla mente
la filosofia di Nietzsche. Tuttavia, siamo di fronte a prospettive assai diverse, quasi antitetiche: nel
caso della distruzione della metafisica, la partita si gioca tutta sul significato da attribuire al termine
"metafisica". Essa, per Nietzsche, altro non era se non un'ontologia, una pura e semplice pretesa di
descrivere com'è il mondo; tant'è che, dichiarato il venir meno dell'essere, anche la metafisica,
intesa appunto come descrizione dell'essere, perdeva ogni significato. Per Heidegger, però, la
metafisica non è riducibile all'ontologia, in quanto non è il fare discorsi sull'essere, bensì è un certo
modo di fare discorsi sull'essere: in particolare, la metafisica sarà quel modo specifico di fare
discorsi sull'essere che smarrisce l'autentico significato dell'essere stesso, con il risultato che
"ontologia" e "metafisica" sono due concetti antitetici. Detto un po' banalmente: l'ontologia fa
discorsi sull'essere, la metafisica fa discorsi sballati sull'essere. E per Heidegger la distruzione della
metafisica si configura come rivalutazione totale dell'ontologia, mentre invece Nietzsche, distrutta
una, non poteva che far saltare anche l'altra. La caratteristica portante della metafisica è, dunque, di

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concepire l'essere in modo errato: il problema del fraintendimento dell'essere era già affiorato in
"Essere e tempo", quando Heidegger faceva notare che l'essere non può essere studiato come un
qualsiasi ente, in quanto, essendo impossibile individuarne i confini, non può diventare un oggetto
di indagine. E il grande errore della metafisica sta proprio nel concepire l'essere come un qualsiasi
altro ente: nel corso della storia, ora l'ha concepito come la somma di tutti gli enti, ora come l'ente
supremo (il Dio della teologia, e Heidegger parla appunto di onto-teo-logia), ora, in maniera più
raffinata, come aspetto comune a tutti gli enti (Aristotele l'aveva inteso così). La metafisica, dunque,
ha concepito l'essere come un ente: ha cioè " smarrito la differenza ontologica ", cioè la differenza
che sussiste tra essere e ente. A questo proposito, Heidegger distingue tra un livello "ontologico"
proprio dell'essere e un livello "ontico" in cui l'essere viene confuso con gli enti e lo si abbassa al
loro livello (che è appunto "ontico"), privandolo della sua specificità. E Heidegger si propone di
rivendicare un'ontologia: quello della metafisica, però, non è solamente un errore, bensì è, dice
Heidegger, un " erramento "; il che suggerisce, contemporaneamente, l'idea dell'errore e dell'andare
vagando. Si tratta di capire che l'errore della metafisica, commesso molti secoli addietro da Platone
e dalla sua "ontificazione" dell'essere (attuatasi attraverso l'indebita trasformazione dell'essere in
idee), non è puramente accidentale; al contrario, si è da allora sempre più verificato un erramento,
uno sbandamento continuo in virtù del quale l'essere è sempre stato interpretato scorrettamente. Si
deve pertanto tornare all'epoca in cui per la prima volta si è commesso tale errore per porre ad esso
un riparo: ma è, dice Heidegger, un qualcosa di ben più profondo di un semplice errore. Infatti, non
solo è un errore dell'essere, ma è anche un erramento dell'essere, il quale ha una sua storia e che,
quindi, non è definito una volta per tutte; viceversa, l'essere segue un suo percorso lungo il quale, di
volta in volta, si manifesta in modo diverso e i modi in cui esso si manifesta all'uomo sono in
continua trasformazione, sicchè ci si trova di fronte ad un erramento che è, al contempo, dell'essere
e dell'uomo. E anche se la metafisica è stata un errore, cioè un modo errato di manifestarsi
dell'essere, ciò non toglie che in determinate epoche storiche l'essere non poteva che manifestarsi in
quel modo: in particolare, l'epoca della metafisica, iniziata con Platone e chiusasi con Nietzsche
(compreso), è l'epoca in cui l'essere si è, paradossalmente, manifestato sotto forma di oblio e di
smarrimento. Come senz'altro si ricorderà, Nietzsche non solo aveva mutato il contenuto della
verità: ne aveva stravolto la nozione stessa. Heidegger, in modo analogo, compie un'operazione
simile e mette in luce l'esistenza di due concetti diversi di verità: un concetto metafisico di verità, e
uno ontologico. Il concetto metafisico intende la verità come correttezza, ossia corrispondenza tra
ciò che abbiamo nella nostra mente e ciò che è presente nella realtà esterna. La verità
metafisicamente intesa tende allora a configurarsi come dominio dell'oggetto da parte del soggetto.
Questa concezione della verità, invalsa con Platone, si è protratta per tutto il corso della storia, fino
a Nietzsche compreso: se infatti concepiamo la verità metafisica come controllo e dominio
dell'oggetto, allora siamo indotti a interpretare in senso metafisico perfino il pensiero scientifico e
tecnico. La scienza e la tecnica, infatti, si configurano come estremizzazione dell'atteggiamento
metafisico, in quanto si propongono di dominare concettualmente e materialmente un oggetto
esterno al soggetto. Nietzsche stesso (a cui Heidegger dedica due volumi intitolati "Nietzsche")
appare come il prodotto estremo dell'era metafisica: lo si evince benissimo dalla nozione
nietzscheana di "volontà di potenza", nozione secondo la quale viene meno l'importanza dell'essere
e viene portato all'estremo il dominio concettuale del mondo da parte del soggetto; infatti, venendo
a mancare l'essere, il soggetto si impone e propone interpretazioni potenti, che promuovono la
vitalità e risultano sganciate dall'essere. Nietzsche stesso, del resto, dava un giudizio altamente
positivo della tecnica, la quale, come abbiam visto, è un'espressione fortissima della metafisica.
L'atteggiamento ontologico, invece, lo troviamo in un'altra accezione del termine verità: Heidegger,
come suo solito, scava all'interno delle parole per riportare in superficie significati nascosti; la
parola su cui egli compie ora tale operazione è la parola greca alhqeia ("verità"); essa, letteralmente,
è costituita dall' a privativa e dal verbo lanqanw ("nascondere"), cosicchè la verità è ciò che non sta
nascosto. Nell'interpretazione heideggeriana, l' alhqeia è il non-nascondimento dell'essere; ma non
nel senso che sta all'uomo rimuovere il velo che occulta la verità (cioè l'essere), come invece era per

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Schopenhauer. Al contrario, è l'essere stesso che si disvela: e non è un caso che l'ontologo per
eccellenza, Parmenide, nel suo ipotetico viaggio narrato nel testo " Peri fusewV " incontrava diverse
divinità (simboleggianti l'essere) che si toglievano da sole il velo che le copriva, senza che fosse il
filosofo a compiere tale operazione. Con l'ontologia, dunque, la verità non è più concepita in
funzione del soggetto, come invece avveniva con la metafisica: al contrario, il nuovo attore del
processo non è più l'uomo, ma l'essere stesso, che si manifesta disvelandosi. La storia dell'essere,
dice Heidegger, si articola in diverse tappe, ciascuna delle quali è caratterizzata da un modo
particolare di manifestarsi dell'essere: ad ogni epoca storica corrisponde una particolare
manifestazione dell'essere. Sorge però spontaneo un quesito: se l'essere è ciò che è, ovvero se
l'essere è sempre quello, allora che senso ha parlare di una "storia" dell'essere? A questo punto
Heidegger compie un nuovo scavo nelle parole: il termine "epoca" deriva dal greco epoch , con il
quale gli scettici designavano la sospensione di giudizio sul mondo; Husserl stesso aveva impiegato
tale termine per indicare l'atto con cui poneva il mondo "tra parentesi". Ogni epoca, secondo
Heidegger, è una sospensione della manifestazione dell'essere; ciò significa che il manifestarsi
dell'essere come alhqeia implica che esso si disveli ma anche che sia un venir fuori da un
nascondimento che fa parte della natura stessa dell'essere; in altri termini, quest'ultimo presenta
nella sua natura sia il disvelamento sia il nascondimento, cosicchè in ogni epoca l'essere è disvelato
ma, al contempo, resta in qualche misura nascosto. E i diversi equilibri, in continua trasformazione,
che si instaurano nell'essere tra il venir fuori e lo stare nascosto rappresentano le epoche storiche.
Ne consegue che ogni epoca è diversa dalle altre perché in ogni epoca l'essere si manifesta
diversamente, rimanendo in sospeso ( epoch ) tra l'uscir fuori e il restar nascosto. Ma ogni epoca,
dice Heidegger, si manifesta anche come pensiero: il filosofo tedesco, da un certo momento in poi,
abbandona il termine "filosofia", intriso di concezioni metafisiche accumulatesi nei secoli, e sceglie
il termine "pensiero", più rispettoso nei confronti dell'essere. In questa fase della riflessione
heideggeriana, successiva alla "svolta", l'uomo non è più l'attore della conoscenza, ma assume un
atteggiamento collaborativo con l'essere. L'uomo deve infatti mettersi " in ascolto dell'essere " ,
quasi come se in attesa di una rivelazione improvvisa, e allora con l'espressione "pensiero
dell'essere" si designano, contemporaneamente, l'attività con cui l'uomo riflette sull'essere sia
l'attività con cui l'essere riflette su se stesso. L'uomo non è più il protagonista (come invece era in
"Essere e tempo"), ma è il collaboratore dell'essere; o, per usare un'espressione heideggeriana
divenuta celebre, l'uomo è il " pastore dell'essere ": e il pastore non è il proprietario del gregge, ma
è semplicemente colui che lo custodisce. Allo stesso modo, l'uomo è tenuto a custodire l'essere
senza per questo divenirne il padrone. Questa nuova posizione affiora soprattutto nella "Lettera
sull'umanismo" (1947), con la quale Heidegger capovolge la prospettiva sartreana emersa in
"L'esistenzialismo è un umanismo" e interpreta il compito del pensiero come impegno non per
l'uomo (come invece violeva Sartre), ma per l'essere. In questo modo, il pensatore tedesco prende le
distanze dall'esistenzialismo, a cui rinfaccia di assegnare il primato a quell'ente che è l'uomo,
dimenticandosi dell'essere; l'uomo, dice Heidegger, è solo il " pastore dell'essere ", colui al quale è
affidato il compito di salvaguardare e custodire nel pensiero la verità dell'essere. Con un'altra
espressione divenuta altrettanto famosa, Heidegger sostiene che " il linguaggio è la casa dell'essere
" : ed è in questa casa che l'uomo conduce la propria esistenza come inquilino, non come
possessore, giacchè la casa appartiene all'essere. L'espressione heideggeriana rimanda
inevitabilmente alla convinzione degli antichi secondo la quale il tempio è la casa di Dio, nel senso
che è il luogo in cui Dio si manifesta meglio. Similmente, nella prospettiva heideggeriana, l'essere
si manifesta al meglio nel linguaggio, che dell'essere costituisce appunto la casa: con quest'idea
ritorna la tesi, già emersa in "Essere e tempo", secondo la quale, per indagare l'essere, si deve
indagare quell'ente particolare che sa riflettere sull'essere stesso; è solo nell'uomo che, attraverso il
linguaggio, l'essere si manifesta al meglio. Ma Heidegger stravolge la nozione di linguaggio: infatti,
il linguaggio che esprime il pensiero dell'essere non è un modo per comunicare, ma è il modo in cui
l'essere si manifesta, ed è solo mettendosi in ascolto che si entra in contatto con esso. E dire che
l'uomo abita nella casa dell'essere, cioè nel linguaggio, significa riconoscere che il linguaggio non è

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uno strumento che l'uomo si dà: al contrario, egli nasce e vive nel linguaggio, giacchè la sua vita è
calata in esso, dall'inizio alla fine. E questo è vero per il linguaggio ma, più ancora, per l'essere:
nella concezione ermeneutica si sottolinea, appunto, l'impossibilità di staccarsi dall'oggetto e di
vederlo in modo distaccato, cosicchè non si può ipotizzare una conoscenza veramente oggettiva,
bensì una comprensione dall'interno. Da tutte queste considerazioni emerge come sia impossibile
parlare del linguaggio e dell'essere in modo oggettivo e distaccato: a rigore, anzi, non si può
neanche mai parlare del linguaggio, in quanto ci si trova sempre e comunque a parlare nel
linguaggio. Allo stesso modo, non si può parlare dell'essere in modo distaccato, poiché, in quanto
enti, siamo parti in causa: ma è possibile diventare strumenti in cui l'essere si manifesta attraverso il
linguaggio; si può cioè lavorare sull'essere dall'interno, in modo ermeneutico, ed è ciò che si
propone di fare soprattutto Gadamer, l'allievo di Heidegger. Molto rilevante è una raccolta di saggi
il cui titolo è traducibile tanto con "Sentieri del bosco" quanto con "Sentieri interrotti": Heidegger si
serve infatti di una parola tecnica che indica quei sentieri del bosco che non portano da nessuna
parte, ma che permettono solo di addentrarsi nel bosco. Con quest'immagine, Heidegger vuole dirci
che l'essere è come un bosco e che i sentieri non sono strade verso l'essere, ma strade all'interno di
esso, cosicchè si può girovagare all'interno dell'essere, senza un criterio che ci permetta di
attingerlo; ed è anche in virtù di questa amara constatazione che Heidegger si allontana sempre più
dalla filosofia per accostarsi alla poesia (intesa come manifestarsi dell'essere nel linguaggio) e al
mettersi a disposizione dell'essere. Heidegger parla esplicitamente di " pensiero rammemorante ": in
ogni epoca l'essere si manifesta e, al contempo, si nasconde (la metafisica stessa è un modo di
manifestarsi) e questo viene espresso dallo stesso pensiero dei grandi filosofi, attraverso i quali
l'essere si manifesta e si nasconde. Dunque, nelle pagine scritte dai vari filosofi e pensatori della
storia c'è un detto (manifestarsi dell'essere) e un non-detto (tenersi nascosto dell'essere), presente
ma nascosto dalle parole; e noi moderni possiamo approfittare del fatto che viviamo in un'altra
epoca, in cui l'essere si manifesta diversamente, per far emergere dal pensiero degli antichi il loro
non-detto: in questo consiste appunto il pensiero rammemorante. Grazie alle nuove disvelazioni
dell'essere realizzatesi nelle nuove epoche storiche, possiamo in altri termini far emergere cose che i
pensatori del passato hanno detto senza saperlo, inavvertitamente. Per rimanere all'immagine del
bosco, Heidegger usa un'antica parola tedesca che significa, contemporaneamente, "illuminazione"
e "radura"; la radura, quella parte del bosco in cui non vi sono piante, è dunque il luogo in cui si
realizza una vera e propria illuminazione; questo significa che se è vero che i sentieri del bosco non
portano da nessuna parte e, meno che mai, all'essere, è anche vero che possono condurre a radure in
cui l'essere si illumina, in cui cioè si può far luce su di esso. Molto hegelianamente, heidegger
sostiene che ogni manifestazione dell'essere è legittima: anche la tecnica , dunque, ha, in quanto
espressione dell'essere, una sua legittimità, ma tuttavia essa è, come la scienza, una forma
esasperata della metafisica. Proprio perché espressione della metafisica, dunque, la tecnica non può
certo essere assolutamente positiva: ma, dice hegelianamente Heidegger, è necessario che gli aspetti
negativi vengano vissuti fino in fondo per poter sperare in un cambiamento radicale; tanto più che
Hölderlin (il poeta preferito di Heidegger) ha insegnato che " dove è il pericolo, cresce anche ciò
che salva ". Il vantaggio della tecnica, se proprio vogliamo vedere come Hegel " la rosa nella croce
", sta nel far emergere la vera e profonda natura della metafisica e del suo tipico dominio dell'uomo
sull'essere. Solo se si prende coscienza dell'erramento della metafisica con la tecnica si prospetta
anche la possibilità di un nuovo e più corretto cominciamento filosofico. E qualcosa di simile
Heidegger lo pensava anche del nazismo: dopo averlo letto, in un periodo in cui simpatizzava
ancora per esso, come destino scelto attivamente dal popolo tedesco, egli maturò sempre più la
convinzione che il nazismo non fosse positivo in sé, ma solo nella misura in cui, come la tecnica,
faceva emergere in una forma estrema l'errore/erramento della metafisica. Anche nell'opera d'arte
(soprattutto i quadri) assistiamo sempre ad un gioco tra il detto e il non-detto, cosicchè si cerca di
far emergere dalla materia qualche significato, come se l'artista si facesse portavoce dell'essere. E
nell'epoca d'arte l'essere si manifesta e si nasconde contemporaneamente: sicchè il critico di oggi
può leggere in essa dei significati che l'autore non sapeva di averci messo. Questo giustifica anche il

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fatto che spesso il critico tira fuori concetti che l'artista non conosceva, ma che ciononostante erano
presenti nell'opera d'arte. In questo modo, viene anche giustificata la pluralità delle interpretazioni
della medesima opera.

HEIDEGGER
Martin Heidegger (1889-1976) ha una formazione giovanile di stampo teologico e religioso, molto
influenzata dall'ambiente familiare, e questa matrice teologica resterà costante in tutto il suo
pensiero; la sua fu una vita piuttosto regolare, segnata da pochi eventi, tra i quali il più importante
fu senz'altro l'adesione al nazismo: ciò ha fatto molto discutere e proprio per via di quest'adesione,
dopo il 1945, Heidegger fu emarginato dagli ambienti culturali tedeschi. Essa risulta
particolarmente fastidiosa se teniamo presente che il suo maestro, Husserl, fu espulso dalla
Germania in quanto ebreo e Heidegger gli prese il posto negli ambienti accademici: in veste di
rettore dell'università, pronunciò un acceso discorso in cui tesseva le lodi del nazismo; ma, per
onestà, è bene ricordare che egli non ha mai abiurato, ma, al contrario, si è sempre assunto le sue
responsabilità. E del resto la sua adesione al nazismo durò pochissimo: dopo il celebre discorso in
cui elogiava il nazismo, Heidegger se ne allontanò, ritirandosi all'interno della vita accademica, e
arrivò perfino ad opporsi vivamente all'espulsione nazista degli insegnanti ebrei. Trattando il suo
pensiero, ci accorgeremo di come in realtà l'adesione heideggeriana al nazismo sia più complessa
del previsto e non possa risolversi in una questione di comodo: si tratta di un'adesione che
potremmo, in un certo senso, definire "strumentale", in quanto Heidegger vede nel nazismo non un
fine, ma uno strumento attraverso il quale far emergere alcune cose importanti. Sul versante
culturale, gli studiosi del suo pensiero hanno individuato essenzialmente due fasi nella sua filosofia:
il punto di confine tra di esse si colloca, anche se in modo non del tutto ben definito (poiché in
quegli anni il filosofo pubblica pochissimo), all'incirca negli anni '30. Dopo aver pronunciato il
discorso rettorale di adesione al nazismo ed essersi immediatamente ritirato nella vita accademica,
non pubblica più quasi nulla fino agli anni '40. Da quel momento in poi si entra in una nuova
stagione del suo pensiero: tra l'Heidegger degli anni '20 e quello degli anni '40 troviamo quella che
lui stesso definisce "Kehre", ovvero una svolta. Sul fatto che una svolta ci sia stata nel suo pensiero
tutti gli studiosi concordano: meno chiaro, tuttavia, è di che genere essa sia stata. Qualcuno ha
sostenuto che si tratta di una svolta radicale e che l'Heidegger degli anni '40 dica cose diversissime
da quello degli anni '30, ma c'è anche chi, sulla scia dell'interpretazione che Heidegger stesso dà del
proprio pensiero, tende a intendere tale svolta come lieve e piuttosto sfumata. Secondo questa linea
interpretativa, il problema centrale nella filosofia heideggeriana resterebbe sempre lo stesso e a
cambiare sarebbero esclusivamente gli strumenti impiegati dal filosofo nel tentativo di risolverlo.
Questo permetterebbe anche di capire, almeno in parte, perché si studia Heidegger tra gli
esistenzialisti sebbene egli non abbia mai accettato di essere etichettato come tale e, anzi, dopo la
svolta, abbia polemizzato aspramente con l'esistenzialismo: ancora più curioso rispetto a questo
rifiuto dell'etichetta esistenzialista è il fatto che la stragrande maggioranza dei pensatori
esistenzialisti si ispiri ad Heidegger sebbene egli neghi che la propria filosofia sia esistenzialista. In
gioventù, Heidegger oscilla fra teologia, fenomenologia e ontologia: proprio come Nietzsche,
anch'egli può essere considerato un pensatore "inattuale", che scrive nel Novecento ma che si
occupa di problemi fin troppo classici. Heidegger, infatti, dedica costantemente la sua attenzione
alla metafisica, in particolare alla dottrina dell'essere in Aristotele: come testimonianza dei suoi
interessi metafisici merita di essere ricordata la sua tesi di dottorato su "La dottrina delle categorie e
del significato in Duns Scoto" (1915). L'ontologia sarà il nucleo di indagine della filosofia
heideggeriana, anche nei momenti in cui il filosofo sembrerà più distante da essa. In questo periodo
giovanile, però, egli si occupa anche di teologia di tradizione paolina: affrontando il problema della
teologia cristiana, Heidegger insiste sul carattere di "evento" tipico dei contenuti cristiani.
Nell'ontologia tradizionale le strutture fondamentali della realtà non avvengono, ma sono: ad
avvenire sono i fatti, mentre, secondo quella tradizione avviata da Parmenide, l'essere in quanto tale

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è statico; in una concezione del genere, nota Heidegger, l'essere e il tempo sono due concetti che si
escludono a vicenda, poiché l'essere è atemporale e il tempo è la dimensione del divenire. La novità
introdotta dal cristianesimo è che l'essere per antonomasia (Dio) non si limita ad essere, ma,
attraverso l'incarnazione del Verbo, avviene, cosicchè ci si trova di fronte ad un evento dell'essere.
Si tratta di un'innovazione radicale, che stravolge la tradizione di stampo parmenidea: il fatto stesso
che Platone parlasse in una sola opera (Il Timeo) del tempo e in essa non trattasse dell'essere (le
idee), attesta la tradizionale inconciliabilità delle nozioni di essere e di tempo. Queste riflessioni di
fondo resteranno costanti in tutta l'attività filosofica di Heidegger, tant'è che la sua opera più
famosa, del 1927, si intitolerà "Essere e tempo". E una delle principali prerogative di Heidegger è di
giocare con le parole: in tedesco, "Essere e tempo" si intitola "Sein und Zeit" e il filosofo fa notare
la forte assonanza tra i due termini, quasi come se, in definitiva, l'essere e il tempo fossero la stessa
cosa. Ma in gioventù Heidegger, oltrechè dalla teologia, risulta anche influenzato dalla
fenomenologia di Husserl: in particolare, in Heidegger resta l'idea husserliana che la coscienza sia
sempre costitutivamente intenzionale; la coscienza, in altri termini, si riferisce sempre a
qualcos'altro, qualsiasi atto umano è un riferirsi a qualcosa, cosicchè il nostro volere, pensare, e fare
è sempre riferito a qualcosa. Se l'atteggiamento di Husserl, però, era iperclassico, in quanto portava
all'esasperazione la tendenza teoretica riservata da Aristotele alla filosofia, quasi sganciandosi dal
mondo (che non a caso veniva da Husserl messo tra parentesi), l'indagine esistenzialista (sebbene
Heidegger rifiuti di essere bollato come "esistenzialista") verte sull'esistenza e quest'ultima implica
l'essere immersi in quel mondo sul quale Husserl sospendeva il giudizio. Dunque Heidegger eredità
la nozione husserliana di "intenzionalità", ma respinge nettamente l'ipotesi che essa resti interna
solo all'orizzonte della coscienza: ne consegue che per Heidegger il carattere intenzionale non
implica soltanto il tendere alle idee, ma anche il tendere e il riferirsi al mondo; questo
atteggiamento, proprio di Heidegger, rispecchia in realtà buona parte delle posizioni
esistenzialistiche, che per lo più vedono come marginale l'aspetto teoretico, tanto caro ad Husserl,
perché l'esistenza è, in primo luogo, essere nel mondo. Se nel periodo giovanile il filosofo oscillava
soprattutto tra la teologia e la fenomenologia, con la prima fase vera e propria della sua filosofia
egli proietta la propria indagine sull'essere. Questa fase si apre con la pubblicazione di " Essere e
tempo " : all'inizio dell'opera, Heidegger dichiara di condividere sostanzialmente l'antica
affermazione aristotelica secondo cui il problema della filosofia è chiarire che cosa è l'essere; egli
proverà dunque a fornire una risposta a tale quesito, ma fa subito notare come si debba
necessariamente dare a tale domanda una risposta articolata in termini diversi rispetto a qualsiasi
altra. Se alla domanda "cosa è x?" (dove x sta per "uomo", "animale", "casa", ecc) si può rispondere
dando una definizione, cioè effettuando un ritaglio all'interno dell'essere, quest'operazione è
inattuabile se ci domandiamo "cosa è l'essere", dato che l'essere è appunto quell'orizzonte all'interno
del quale ritagliamo delle porzioni nel dare definizioni. E se l'essere è quell'orizzonte ultimo su cui
si stagliano tutte le cose tranne che l'essere stesso, allora non ci si dovrà interrogare sulla
definizione dell'essere, ma sul senso dell'essere: ed è a questo proposito che Heidegger si propone di
percorrere una nuova strada, quella dell'analisi dell'esistenza. Infatti, per provare a comprendere il
senso dell'essere si deve provare a porre questa domanda passando attraverso l'analisi di quell'ente
particolarissimo che è radicato nell'essere e che si pone esso stesso domande sull'essere, quell'ente
cioè per cui l'essere rappresenta un problema: per provare a cogliere il senso dell'essere si deve
dunque provare ad indagare l'esistenza umana, dal momento che l'uomo è immerso nell'essere e ha
la capacità di interrogarsi su di esso ( " l'uomo significa colui che può pensare ") . Cosa sono
l'essere, l'ente e l'esistenza? L'essere, propriamente, non è una cosa: come aveva sottolineato
Aristotele, la filosofia deve indagare sull'essere in quanto essere, depurato da ogni qualità ad esso
inerente; da ciò deriva il fatto che l'essere non sia una cosa, ma l'orizzonte su cui si possono definire
e riconoscere le singole cose, che altro non sono se non gli "enti". L'esistenza, invece, ha sempre un
carattere di trascendenza, come aveva già sottolineato Kierkegaard: ciò significa che un ente che
esiste sta fuori di sé, ovvero non è mai solo ciò che è in quel determinato momento, ma anche
quello che progetta di essere per il futuro. Ogni esistenza, dunque, è un progetto, un essere slanciato

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verso l'avvenire: se la pietra racchiude in se stessa tutto il proprio significato, l'uomo, invece, non è
mai tutto in se stesso, ma si trascende di continuo, quasi come se pendesse in avanti. Sotto questo
profilo, per Heidegger, solo l'uomo esiste: ecco perché l'uomo è un ente ma, a differenza degli altri
enti, è dotato di esistenza. Heidegger tende frequentemente ad impiegare parole antiche colorandole
di nuovi significati, convinto che scavando in esse si possano trovare significati nascosti e più
profondi. Per fare ciò, si avvale di un artificio grafico che mette in luce come, pur essendo termini
di vecchia data, vengano ripresi in una nuova accezione: mette i trattini tra le lettere; e così progetto
diventa pro-getto, a sottolineare l'idea del gettarsi avanti dell'esistenza; quest'ultima diventa e-
sistenza, con l'idea del venir fuori di continuo verso il futuro. Letteralmente, "esistenza" in tedesco
sarebbe "da-sein", cioè "essere qui": in italiano diventa "esser-ci" e implica che l'esistenza sia
sempre situata in un luogo del mondo e questo è connesso con l'intenzionalità fenomenologica (per
cui ogni atto è un riferirsi a qualcosa) e con l'idea che l'uomo sia l'unico ente che si interroga
sull'essere; inoltre, suggerisce l'idea sartreana secondo la quale l'uomo è gettato nel mondo ed è
condannato ad essere libero. Quella di Heidegger è dunque una posizione apparentemente
esistenzialista che, se megli analizzata, si rivela invece ontologica: infatti, al pensatore tedesco
interessa l'essere ma, poiché non lo si può trattare come tutti gli altri oggetti, egli ricorre ad un'
"analitica dell'esistenza" orientata a cogliere il senso dell'essere. Ecco perché, per Heidegger,
l'analitica esistenziale non è un obiettivo, ma solo uno strumento: e in "Essere e tempo" egli attua
questa analitica dell'esistenza nel tentativo di cogliere il senso dell'essere, non per fare un'analisi
fine a se stessa sul senso dell'esistenza umana; l'opera, tuttavia, resta incompiuta perché Heidegger
dice che gli è mancato il linguaggio per sviluppare pienamente l'analisi ontologica. Da queste
considerazioni emerge come, in realtà, il tema trattato nell'opera è "Esistenza e tempo", in quanto,
per indagare sull'essere attraverso l'esistenza, Heidegger finisce per non trattare affatto la tematica
dell'essere. L'ambiguità sta quindi nel fatto che ci troviamo di fronte ad un'opera che, nelle
intenzioni dell'autore, doveva essere ontologica ma che in fin dei conti non fa altro che trattare
dell'esistenza: ed è per questo motivo che molti pensatori hanno visto in Heidegger il punto di
partenza per le riflessioni esistenzialistiche. Ma, stando a quanto abbiamo finora detto, possiamo
dare ragione ad Heidegger quando dice che la "svolta" nel suo pensiero non è stata così radicale: il
suo obiettivo resta sempre e comunque quello ontologico e se anche in "Essere e tempo" risalta
l'analitica esistenziale, ciò non toglie che essa resti un mero strumento; sia nella sua prima fase
(quella "esistenzialista") sia nella seconda (che sarà "ermeneutica") l'essere resta al centro
dell'indagine. Nel periodo in cui Heidegger conduce l'analisi esistenziale, risulta centrale la coppia
autenticità/inautenticità : già Kierkegaard, a suo tempo, aveva insistito sul fatto che è più facile che
si salvi chi crede in qualcosa di sbagliato ma in modo sincero e autentico piuttosto di chi crede in
modo inautentico in cose giuste. Heidegger riprende questa coppia di concetti e li applica
all'esistenza, scavando, come sempre, nell'intimità delle parole e scoprendo in esse una verità
nascosta. In particolare, egli nota, nella parola "autentico" è racchiusa la radice greca " autoV " , che
significa "se stesso"; una cosa, pertanto, sarà autentica quando è se stessa, quando è propria fino in
fondo. Cerchiamo di capire meglio in che senso: si può parlare di esistenza autentica quando l'esser-
ci, soggetto dell'esistenza, compie scelte vere, appunto "autentiche", quando cioè nelle scelte mette
in gioco se stesso come l'Abramo di Kierkegaard. Viceversa, un'esistenza sarà inautentica quando
sarà caratterizzata da non-scelte, da un'assoluta non-originarietà. La distinzione nell'ambito
dell'analitica esistenziale tra autentico e inautentico viene poi da Heidegger inserita in un contesto
fenomenologico: si tratta, dice Heidegger, di vedere le strutture di fondo dell'esistenza così come
esse si manifestano nella " quotidianità media ", ovvero nella vita di tutti i giorni. E dunque il
pensatore tedesco procede all'analisi dei modi fondamentali in cui l'esistenza si manifesta: il primo
concetto che emerge è che l'esistenza è un essere-nel-mondo ; i trattini tra una parola e l'altra
servono, in questo caso, non a separare (come era nel caso dell'esser-ci), bensì ad unire. E dire
"essere nel mondo" senza i trattini è un altro modo per dire esser-ci, dato che "essere qui" vuol dire
appunto essere situati nel mondo: se invece poniamo i trattini tra una parola e l'altra (essere-nel-
mondo), tutto cambia. Se infatti lo scrivo senza trattini, do per scontato che ci sia un mondo già

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costituito e un essere che ad esso si rapporta; ma Heidegger vuole sottolineare come il mondo,
propriamente parlando, esiste solo nella misura in cui è costituito dalla coscienza: essa si riferisce
sempre, husserlianamente, a qualcosa e ciò comporta un relazionarsi pratico col mondo; ne
consegue che, proprio come per Husserl era la coscienza ad essere intenzionale, anche per
Heidegger le cose stanno in questi termini. Il mondo non è un qualcosa che esista prima: al
contrario, è la natura stessa della coscienza che, proprio in virtù del suo naturale relazionarsi
intenzionale, si crea il mondo, il quale si trova così ad esistere solo nella misura in cui ci sono
coscienze che si relazionano a qualcosa. Con quest'asserzione, però, Heidegger non intende
avvicinarsi alle tesi idealistiche e, soprattutto, fichteane dell'Io che pone il non-Io: infatti, non è la
coscienza che produce il mondo in sè, ma, semplicemente, il mondo è l'insieme delle cose
utilizzabili. Che poi ci sia un mondo indipendente da noi e dalla nostra coscienza, ad Heidegger non
interessa, perché per noi esiste solo e soltanto il mondo con cui ci relazioniamo e quel mondo è
appunto prodotto dalla coscienza, come si evince benissimo nel momento in cui Heidegger dice che
esso è l'insieme delle cose che possiamo utilizzare. In tale prospettiva, è centrale la categoria di cura
: la cura consiste nel badare e nel prestare attenzione alle cose poiché, se la coscienza è
intenzionalità, allora essa non può che tendere alle cose del mondo e prendersene cura. Ed è a
questo punto che affiora uno dei maggiori stravolgimenti mai avvenuti nella cultura occidentale: da
Aristotele in poi era invalsa l'idea che l'uomo avesse nell'ambito della realtà un atteggiamento
teoretico da cui tutti gli altri derivavano (la tecnica stessa altro non era se non un'applicazione del
sapere); Heidegger stravolge questa concezione antichissima e sostiene che l'atteggiamento
intenzionale della coscienza costituisce il mondo come insieme di cose utilizzabili con l'inevitabile
conseguenza che la modalità originaria della coscienza è pratica, volta all'azione, poiché tende a
usare le cose e a crearsi un mondo di cose utilizzabili. L'attività conoscitiva non è più,
aristotelicamente, alla base della natura umana ma, al contrario, è uno dei tanti modi in cui si
possono utilizzare le cose come strumenti dell'esistenza: conoscere una cosa è uno dei tanti modi in
cui posso usare quella cosa, instaurando con essa un rapporto teoretico. In questa maniera, l'esser-ci
è essere-nel-mondo: il problema è che ci sono due modi diversi di essere situati nel mondo; uno è
quello dell'autenticità, l'altro è quello dell'inautenticità. L'uomo, infatti, è un essere e, in quanto tale,
nel relazionarsi col mondo manifesta spesso una tendenza che Heidegger definisce alla "deiezione",
cioè al trasformarsi in una cosa come le altre: e ciò che distingue le cose dall'uomo è che esse sono
tutte in se stesse, mentre l'esser-ci è sempre trascendente, ossia affacciato sul futuro. E nel suo
relazionarsi col mondo, potrà assumere atteggiamenti che lo portino a rinunciare all'autenticità,
rinunciando in questo modo all'esistenza e alla progettualità; il che richiama alla mente la vita
estetica di Don Giovanni delineata da Kierkegaard, una vita in cui l'unica vera scelta che si compie
è quella di non scegliere, cioè di lasciarsi vivere passivamente: e questa esistenza è immanentistica,
non è vera, bensì è inautentica, dato che perde il suo carattere di libera progettualità proiettata nel
futuro. L'esistenza inautentica, precisa Heidegger, è caratterizzata dal " Si " riflessivo (si fa, si
pensa, si crede, ecc), imperante nell'età della massificazione: e con il solito scavo nella
terminologia, si può notare come in tedesco la parola "man" ("Si") è molto affine a "mensch"
("uomo"), a sottolineare che il "Si" è l'atteggiamento proprio dell'uomo che si dedica ad un'esistenza
inautentica, non propria. In particolare, questo atteggiamento nasce nel momento in cui l'uomo
rinuncia alle proprie scelte per comportarsi nel modo in cui lo spinge a comportarsi il "Si", cioè la
collettività: e in ciò egli diventa una "cosa" priva di progettualità, viene passivamente trascinato
dalla corrente e si trova di fronte alla scelta conformistica. Quando l'esistenza umana è inautentica,
perché dominata dal "Si", l'uomo non parla più né è indotto ad aspirare alla conoscenza: il parlare
cede il passo alla "chiacchiera" e la conoscenza viene sostituita dalla "curiosità". Infatti, nel
momento in cui cedo al "Si", non parlo più di cose che coscientemente sento mie e di cui voglio
parlare con gli altri. Al contrario, "chiacchiero" avvalendomi di modi di pensare comune e tendo a
parlare delle cose di cui tutti parlano nel modo in cui tutti ne chiacchierano. E Heidegger nota una
cosa piuttosto interessante: non si può sfuggire al "Si" nemmeno facendo gli anticonformisti perché,
in definitiva, anche l'anti-conformismo è un conformismo. Nel momento in cui regna il

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conformismo, infatti, tutti cercano disperatamente di sottrarsi ad esso e perciò si rifugiano nell'anti-
conformismo che, diventando meta di tutti, è ancora sotto il controllo del "Si": trasgredendo la
norma non si esce dai ranghi del "Si", nota Heidegger, perché non si compie una libera scelta
personale, ma anzi si trasgredisce come "Si" trasgredisce, cioè nello stesso modo in cui lo fanno
anche gli altri. Un esempio di anti-conformismo che sfugge al "Si" può essere quello di Socrate, il
quale sa tanto inquadrarsi perfettamente nelle situazioni canoniche quanto sottrarsi ad esse: nel
"Simposio" platonico, egli partecipa come tutti gli altri al convito ma poi, quand'è il momento, se ne
va. Proprio in virtù dell'autenticità delle sue scelte egli è un vero anti-conformista: sceglie sempre
liberamente senza mai farsi influenzare dal "Si". Oltrechè dalla chiacchiera, l'epoca contemporanea
è secondo Heidegger caratterizzata dalla curiosità: l'interesse culturale autentico e genuino,
profondo e motivato interiormente viene meno e cede il passo ad una banale e morbosa curiosità
dominata dal "Si". Il risultato di questa situazione è la " deiezione ", cioè la trasformazione
dell'uomo in cosa come tutte le altre: egli perde la sua libertà di scelta e tradisce l'esistenza
autentica, abbracciando quella inautentica; quest'ultima, priva di ogni progettualità nel futuro, esula
dalla temporalità, a differenza di quella autentica. Esaminiamo dunque l'esistenza autentica: centrale
è il concetto di angoscia , che, come Kierkegaard, Heidegger riconduce alla paura del nulla. La
grande novità consiste tuttavia nel fatto che Heidegger collega in positivo questo sentimento del
nulla al problema della morte: riprendendo un'antica espressione platonica, si può affermare che la
vita del saggio è una lunga preparazione alla morte, la quale (nella prospettiva platonica) altro non è
se non un trapasso ad un'altra vita puramente spirituale; Dante stesso, similmente, afferma che il
vivere è un correre alla morte. Heidegger, invece, parla espressamente di essere-per-la-morte ,
espressione che, un po' come quella platonica, suggerisce come il vivere sia in funzione della morte.
In sostanza, ciò che Heidegger vuol dire quando parla di essere-per-la-morte è che la caratteristica
costitutiva dell'esser-ci è di essere finito e, in virtù di ciò, di sentire la prospettiva del nulla e di
essere colto per questo dall'angoscia, la quale è, appunto, il sentimento della morte: ora, questo
sentimento, nella tradizione precedente ad Heidegger era per lo più stato considerato come
distruttivo, dal momento che, in vista della morte, ogni nostra azione perde di significato e, non a
caso, di fronte al senso di questo carattere distruttivo della morte l'uomo è ricorso alla religione,
cioè al convincimento che la morte non sia la fine di tutto; così era anche per Platone, che
concepiva la morte come apertura di una nuova e più alta prospettiva di vita. Per Heidegger, invece,
con essa finisce tutto e vivere per la morte significa condurre la propria esistenza nella piena
consapevolezza che il nostro orizzonte di vita è limitato, senza però far perdere di significato alla
vita o approdare alla religione, come invece è sempre stato tradizionalmente. Heidegger dice infatti
che sono proprio il carattere finito dell'esistenza e l'angoscia che ne deriva a conferire un senso alla
vita: è proprio l'angoscia, ovvero l'aver sempre presente la finitudine della propria esistenza, a dare
un senso autentico alle scelte che si compiono. Infatti, si può parlare di "esistenza autentica" solo
nel caso in cui vi sia progettualità e libertà assoluta nelle scelte: ma le scelte, se inquadrate in un
orizzonte di vita infinito, non hanno senso, non sono progettuali fino in fondo. In una prospettiva di
vita eterna, le scelte perdono di significato perché sono sempre reversibili: supponendo di godere di
una vita eterna, nel momento in cui scelgo un lavoro scartandone un altro, non sto compiendo una
scelta totalmente libera e progettuale, perché se anche quel lavoro non mi piace, posso sempre
sceglierne un altro, senza perdere mai tempo (visto che usufruisco di una vita eterna). Sembra quasi
che Heidegger legga l'eventualità di una vita eterna come una condanna. E molti suoi lettori,
riflettendo su queste sue considerazioni, hanno evocato a tal proposito la letteratura sui vampiri: essi
esemplificano perfettamente la tematica heideggeriana dell'immortalità come condanna a vivere in
eterno. Nell'ambito della vita finita, questo non avviene: il numero di anni di cui si dispone è finito,
come anche il numero di scelte che si possono fare; e poi, oltre ad essere limitate, le scelte che si
possono fare si escludono a vicenda e, spesso, non sono reversibili: come diceva Kierkegaard, la
"logica" dell'esistenza è quella dell' "aut-aut", si sceglie liberamente o una cosa o l'altra, e il fatto
stesso di compiere quella scelta esclude l'altra. Ecco perché per Heidegger l'esistenza è autentica
quando è pervasa dall'angoscia che scaturisce dal prendere coscienza della nostra finitudine: e il

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vivere-per-la-morte ha dunque una valenza altamente positiva, in quanto rende autentiche le scelte
e, con esse, la vita; cosa che non potrebbe avvenire in una prospettiva di vita eterna. La conclusione
provvisoria (in quanto l'opera resta incompiuta per la "mancanza di linguaggio" che impedisce
all'autore di proseguire) di "Essere e tempo" concerne il carattere intrinsecamente storico
dell'esistenza: le riflessioni sull'essere-per-la-morte suggeriscono efficacemente come l'esistenza
non si collochi nell'eternità, ma in una dimensione storica e temporale; e Heidegger fa notare (sulla
scia della constatazione epicurea che la morte non la incontriamo mai perché quando ci siamo noi
non c'è lei e viceversa) che il fatto della morte non lo viviamo veramente mai, giacchè possiamo
vivere come fatto solamente la morte altrui, mentre la nostra la viviamo sempre e soltanto come
possibilità solo nostra, nella consapevolezza che, prima o poi, essa ci coglierà. Ne consegue che la
morte ha per noi un significato non come fatto, ma come possibilità: e, a questo punto, Heidegger fa
acutamente notare come nella società moderna, in cui non si parla ma si chiacchiera e non si aspira
alla conoscenza ma alla curiosità, la morte è stata rimossa. E l'aspetto più inautentico dell'esistenza
della società di massa risiede proprio nel fatto che si vive perfino la morte nel "Si": non più "io
muoio", ma "Si muore", quasi come se la morte non ci coinvolgesse mai in prima persona; essa
viene tragicamente inserita nel "Si" generico e, pertanto, perde il suo significato di possibilità: viene
meno l'essere-per-la-morte e, con esso, la libertà di scelta. Heidegger contrappone quindi la
posizione comune sulla morte a quella che il saggio deve far propria: l'opinione comune esorcizza
l'idea della morte, ritiene pusillanime intrattenervisi, la lascia indeterminata e in realtà nasconde la
paura effettiva che la certezza della morte suscita. Il saggio invece ignora la paura e affronta
l'angoscia della morte, vi convive e anzi anticipa dentro di sé la possibilità che essa si verifichi;
scopre così che " la morte è la possibilità più propria dell'esser-ci ", e in tal modo si sottrae alla
schiavitù dell'opinione comune, aprendosi alla possibilità di essere autenticamente se stesso e
liberandosi dalle illusioni e dagli autoinganni del "Si". Scrive Heidegger, in "Essere e tempo",
sull'atteggiamento del "Si" verso la morte: " il Si ha già pronta un'interpretazione anche per questo
evento. Ciò che si dice a questo proposito, in modo esplicito o sfuggente, come per lo più accade, è
questo: una volta o l'altra si morirà, ma, per ora, si è ancora vivi. L'analisi del 'si muore' svela
inequivocabilmente il modo di essere dell'essere-quotidiano-per-la-morte. In un discorso del genere
la morte è concepita come qualcosa di indeterminato che, certamente, un giorno o l'altro, finirà per
accadere, ma che, per intanto, non è ancora presente e quindi non ci minaccia. Il 'si muore'
diffonde la convinzione che la morte riguarda il Si anonimo. L'interpretazione pubblica dell'esser-
ci dice: 'si muore'; ma poiché si allude sempre a ognuno degli Altri e a noi nella forma del Si
anonimo, si sottintende: di volta in volta non sono io ". Ma la morte è la cosa che più di tutte ci
appartiene ed è nostra fino in fondo, tant'è che nessun altro può viverla al posto nostro: essa è anzi
l'unica certezza della nostra esistenza, in quanto, pur non potendo sapere pressochè nulla di ciò che
ci accadrà in futuro, ciononostante possiamo con certezza affermare che, prima o poi, ci toccherà
morire. L'esistenza, nota Heidegger, è proiettata nel tempo e, soprattutto, nel tempo futuro, poiché
essa è, per sua natura, progettualità; e nell'analisi che egli fa della temporalità , critica aspramente la
tradizionale concezione che intende il tempo come una "cosa" divisa in tre parti (passato, presente,
futuro): non si tratta di tre parti distinte, ma di tre aspetti della medesima cosa. A tal proposito,
Heidegger fa notare come la parola tedesca che significa "storia" è molto simile al verbo "mandare"
e, per questo motivo, egli tende ad interpretare la storia come destino; e questo, egli afferma, vale
tanto per i popoli quanto per i singoli. Nel concetto di "storia come destino" Heidegger vede
sintetizzata l'identità dei tre aspetti (passato, presente, futuro) che costituiscono il tempo: e dire che
per ciascuno di noi la storia è destino implica che essa non sia solo il passato, né, tantomeno,
semplicemente il futuro. Al contrario, l'idea che Heidegger evince dalla somiglianza della parola
"storia" con la parola "mandare" è che il passato possa da noi essere vissuto in due maniere
differenti: da un lato, lo si può accettare come un dato di fatto senza significati reconditi; ma,
dall'altro lato, lo si può intendere come un "mandato", cioè come un destino. E così possiamo
concepire il nostro passato come un incarico ricevuto e proprio nella possibilità che abbiamo nel
presente di scegliere se vedere il passato come mero dato di fatto o come destino risiede la

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possibilità che secondo Heidegger abbiamo di scegliere, paradossalmente, il nostro passato: inoltre,
se lo leggiamo come un "mandato", possiamo progettare in base ad esso il nostro futuro e, da questa
stretta dipendenza fra le tre dimensioni temporali (passato, presente, futuro), si capisce benissimo
come per Heidegger esse siano tre aspetti della medesima cosa. Infatti, l'io e i popoli compiono le
loro scelte nel presente sulla base di un destino radicato nel passato e in vista di un progetto situato
nel futuro. Sulla base di queste considerazioni, si può facilmente arguire perché Heidegger parli di "
storicità dell'esistenza " : e con essa si chiude "Essere e tempo", questa lunga e complessa analisi
dell'esser-ci come via per cogliere l'essere. L'opera si chiude con un avvertimento dell'autore: " il
chiarimento della costituzione dell'essere e dell'esserci resta soltanto una via: il fine è
l'elaborazione del problema dell'essere in generale "; non essendo riuscito a mantener fede al suo
proposito di indagare sull'essere, egli si propone ora di impostare la sua indagine in una nuova
maniera. Ed è per questo motivo che Heidegger, dalla storicità dell'esistenza, cercherà di passare
alla "storicità dell'essere": i due concetti chiave del secondo Heidegger (quello del dopo la svolta)
sono la metafisica e la verità. Egli opera una vera e propria distruzione della metafisica e un radicale
stravolgimento della nozione di "verità", due operazioni che richiamano immediatamente alla mente
la filosofia di Nietzsche. Tuttavia, siamo di fronte a prospettive assai diverse, quasi antitetiche: nel
caso della distruzione della metafisica, la partita si gioca tutta sul significato da attribuire al termine
"metafisica". Essa, per Nietzsche, altro non era se non un'ontologia, una pura e semplice pretesa di
descrivere com'è il mondo; tant'è che, dichiarato il venir meno dell'essere, anche la metafisica,
intesa appunto come descrizione dell'essere, perdeva ogni significato. Per Heidegger, però, la
metafisica non è riducibile all'ontologia, in quanto non è il fare discorsi sull'essere, bensì è un certo
modo di fare discorsi sull'essere: in particolare, la metafisica sarà quel modo specifico di fare
discorsi sull'essere che smarrisce l'autentico significato dell'essere stesso, con il risultato che
"ontologia" e "metafisica" sono due concetti antitetici. Detto un po' banalmente: l'ontologia fa
discorsi sull'essere, la metafisica fa discorsi sballati sull'essere. E per Heidegger la distruzione della
metafisica si configura come rivalutazione totale dell'ontologia, mentre invece Nietzsche, distrutta
una, non poteva che far saltare anche l'altra. La caratteristica portante della metafisica è, dunque, di
concepire l'essere in modo errato: il problema del fraintendimento dell'essere era già affiorato in
"Essere e tempo", quando Heidegger faceva notare che l'essere non può essere studiato come un
qualsiasi ente, in quanto, essendo impossibile individuarne i confini, non può diventare un oggetto
di indagine. E il grande errore della metafisica sta proprio nel concepire l'essere come un qualsiasi
altro ente: nel corso della storia, ora l'ha concepito come la somma di tutti gli enti, ora come l'ente
supremo (il Dio della teologia, e Heidegger parla appunto di onto-teo-logia), ora, in maniera più
raffinata, come aspetto comune a tutti gli enti (Aristotele l'aveva inteso così). La metafisica, dunque,
ha concepito l'essere come un ente: ha cioè " smarrito la differenza ontologica ", cioè la differenza
che sussiste tra essere e ente. A questo proposito, Heidegger distingue tra un livello "ontologico"
proprio dell'essere e un livello "ontico" in cui l'essere viene confuso con gli enti e lo si abbassa al
loro livello (che è appunto "ontico"), privandolo della sua specificità. E Heidegger si propone di
rivendicare un'ontologia: quello della metafisica, però, non è solamente un errore, bensì è, dice
Heidegger, un " erramento "; il che suggerisce, contemporaneamente, l'idea dell'errore e dell'andare
vagando. Si tratta di capire che l'errore della metafisica, commesso molti secoli addietro da Platone
e dalla sua "ontificazione" dell'essere (attuatasi attraverso l'indebita trasformazione dell'essere in
idee), non è puramente accidentale; al contrario, si è da allora sempre più verificato un erramento,
uno sbandamento continuo in virtù del quale l'essere è sempre stato interpretato scorrettamente. Si
deve pertanto tornare all'epoca in cui per la prima volta si è commesso tale errore per porre ad esso
un riparo: ma è, dice Heidegger, un qualcosa di ben più profondo di un semplice errore. Infatti, non
solo è un errore dell'essere, ma è anche un erramento dell'essere, il quale ha una sua storia e che,
quindi, non è definito una volta per tutte; viceversa, l'essere segue un suo percorso lungo il quale, di
volta in volta, si manifesta in modo diverso e i modi in cui esso si manifesta all'uomo sono in
continua trasformazione, sicchè ci si trova di fronte ad un erramento che è, al contempo, dell'essere
e dell'uomo. E anche se la metafisica è stata un errore, cioè un modo errato di manifestarsi

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dell'essere, ciò non toglie che in determinate epoche storiche l'essere non poteva che manifestarsi in
quel modo: in particolare, l'epoca della metafisica, iniziata con Platone e chiusasi con Nietzsche
(compreso), è l'epoca in cui l'essere si è, paradossalmente, manifestato sotto forma di oblio e di
smarrimento. Come senz'altro si ricorderà, Nietzsche non solo aveva mutato il contenuto della
verità: ne aveva stravolto la nozione stessa. Heidegger, in modo analogo, compie un'operazione
simile e mette in luce l'esistenza di due concetti diversi di verità: un concetto metafisico di verità, e
uno ontologico. Il concetto metafisico intende la verità come correttezza, ossia corrispondenza tra
ciò che abbiamo nella nostra mente e ciò che è presente nella realtà esterna. La verità
metafisicamente intesa tende allora a configurarsi come dominio dell'oggetto da parte del soggetto.
Questa concezione della verità, invalsa con Platone, si è protratta per tutto il corso della storia, fino
a Nietzsche compreso: se infatti concepiamo la verità metafisica come controllo e dominio
dell'oggetto, allora siamo indotti a interpretare in senso metafisico perfino il pensiero scientifico e
tecnico. La scienza e la tecnica, infatti, si configurano come estremizzazione dell'atteggiamento
metafisico, in quanto si propongono di dominare concettualmente e materialmente un oggetto
esterno al soggetto. Nietzsche stesso (a cui Heidegger dedica due volumi intitolati "Nietzsche")
appare come il prodotto estremo dell'era metafisica: lo si evince benissimo dalla nozione
nietzscheana di "volontà di potenza", nozione secondo la quale viene meno l'importanza dell'essere
e viene portato all'estremo il dominio concettuale del mondo da parte del soggetto; infatti, venendo
a mancare l'essere, il soggetto si impone e propone interpretazioni potenti, che promuovono la
vitalità e risultano sganciate dall'essere. Nietzsche stesso, del resto, dava un giudizio altamente
positivo della tecnica, la quale, come abbiam visto, è un'espressione fortissima della metafisica.
L'atteggiamento ontologico, invece, lo troviamo in un'altra accezione del termine verità: Heidegger,
come suo solito, scava all'interno delle parole per riportare in superficie significati nascosti; la
parola su cui egli compie ora tale operazione è la parola greca alhqeia ("verità"); essa, letteralmente,
è costituita dall' a privativa e dal verbo lanqanw ("nascondere"), cosicchè la verità è ciò che non sta
nascosto. Nell'interpretazione heideggeriana, l' alhqeia è il non-nascondimento dell'essere; ma non
nel senso che sta all'uomo rimuovere il velo che occulta la verità (cioè l'essere), come invece era per
Schopenhauer. Al contrario, è l'essere stesso che si disvela: e non è un caso che l'ontologo per
eccellenza, Parmenide, nel suo ipotetico viaggio narrato nel testo " Peri fusewV " incontrava diverse
divinità (simboleggianti l'essere) che si toglievano da sole il velo che le copriva, senza che fosse il
filosofo a compiere tale operazione. Con l'ontologia, dunque, la verità non è più concepita in
funzione del soggetto, come invece avveniva con la metafisica: al contrario, il nuovo attore del
processo non è più l'uomo, ma l'essere stesso, che si manifesta disvelandosi. La storia dell'essere,
dice Heidegger, si articola in diverse tappe, ciascuna delle quali è caratterizzata da un modo
particolare di manifestarsi dell'essere: ad ogni epoca storica corrisponde una particolare
manifestazione dell'essere. Sorge però spontaneo un quesito: se l'essere è ciò che è, ovvero se
l'essere è sempre quello, allora che senso ha parlare di una "storia" dell'essere? A questo punto
Heidegger compie un nuovo scavo nelle parole: il termine "epoca" deriva dal greco epoch , con il
quale gli scettici designavano la sospensione di giudizio sul mondo; Husserl stesso aveva impiegato
tale termine per indicare l'atto con cui poneva il mondo "tra parentesi". Ogni epoca, secondo
Heidegger, è una sospensione della manifestazione dell'essere; ciò significa che il manifestarsi
dell'essere come alhqeia implica che esso si disveli ma anche che sia un venir fuori da un
nascondimento che fa parte della natura stessa dell'essere; in altri termini, quest'ultimo presenta
nella sua natura sia il disvelamento sia il nascondimento, cosicchè in ogni epoca l'essere è disvelato
ma, al contempo, resta in qualche misura nascosto. E i diversi equilibri, in continua trasformazione,
che si instaurano nell'essere tra il venir fuori e lo stare nascosto rappresentano le epoche storiche.
Ne consegue che ogni epoca è diversa dalle altre perché in ogni epoca l'essere si manifesta
diversamente, rimanendo in sospeso ( epoch ) tra l'uscir fuori e il restar nascosto. Ma ogni epoca,
dice Heidegger, si manifesta anche come pensiero: il filosofo tedesco, da un certo momento in poi,
abbandona il termine "filosofia", intriso di concezioni metafisiche accumulatesi nei secoli, e sceglie
il termine "pensiero", più rispettoso nei confronti dell'essere. In questa fase della riflessione

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heideggeriana, successiva alla "svolta", l'uomo non è più l'attore della conoscenza, ma assume un
atteggiamento collaborativo con l'essere. L'uomo deve infatti mettersi " in ascolto dell'essere " ,
quasi come se in attesa di una rivelazione improvvisa, e allora con l'espressione "pensiero
dell'essere" si designano, contemporaneamente, l'attività con cui l'uomo riflette sull'essere sia
l'attività con cui l'essere riflette su se stesso. L'uomo non è più il protagonista (come invece era in
"Essere e tempo"), ma è il collaboratore dell'essere; o, per usare un'espressione heideggeriana
divenuta celebre, l'uomo è il " pastore dell'essere ": e il pastore non è il proprietario del gregge, ma
è semplicemente colui che lo custodisce. Allo stesso modo, l'uomo è tenuto a custodire l'essere
senza per questo divenirne il padrone. Questa nuova posizione affiora soprattutto nella "Lettera
sull'umanismo" (1947), con la quale Heidegger capovolge la prospettiva sartreana emersa in
"L'esistenzialismo è un umanismo" e interpreta il compito del pensiero come impegno non per
l'uomo (come invece violeva Sartre), ma per l'essere. In questo modo, il pensatore tedesco prende le
distanze dall'esistenzialismo, a cui rinfaccia di assegnare il primato a quell'ente che è l'uomo,
dimenticandosi dell'essere; l'uomo, dice Heidegger, è solo il " pastore dell'essere ", colui al quale è
affidato il compito di salvaguardare e custodire nel pensiero la verità dell'essere. Con un'altra
espressione divenuta altrettanto famosa, Heidegger sostiene che " il linguaggio è la casa dell'essere
" : ed è in questa casa che l'uomo conduce la propria esistenza come inquilino, non come
possessore, giacchè la casa appartiene all'essere. L'espressione heideggeriana rimanda
inevitabilmente alla convinzione degli antichi secondo la quale il tempio è la casa di Dio, nel senso
che è il luogo in cui Dio si manifesta meglio. Similmente, nella prospettiva heideggeriana, l'essere
si manifesta al meglio nel linguaggio, che dell'essere costituisce appunto la casa: con quest'idea
ritorna la tesi, già emersa in "Essere e tempo", secondo la quale, per indagare l'essere, si deve
indagare quell'ente particolare che sa riflettere sull'essere stesso; è solo nell'uomo che, attraverso il
linguaggio, l'essere si manifesta al meglio. Ma Heidegger stravolge la nozione di linguaggio: infatti,
il linguaggio che esprime il pensiero dell'essere non è un modo per comunicare, ma è il modo in cui
l'essere si manifesta, ed è solo mettendosi in ascolto che si entra in contatto con esso. E dire che
l'uomo abita nella casa dell'essere, cioè nel linguaggio, significa riconoscere che il linguaggio non è
uno strumento che l'uomo si dà: al contrario, egli nasce e vive nel linguaggio, giacchè la sua vita è
calata in esso, dall'inizio alla fine. E questo è vero per il linguaggio ma, più ancora, per l'essere:
nella concezione ermeneutica si sottolinea, appunto, l'impossibilità di staccarsi dall'oggetto e di
vederlo in modo distaccato, cosicchè non si può ipotizzare una conoscenza veramente oggettiva,
bensì una comprensione dall'interno. Da tutte queste considerazioni emerge come sia impossibile
parlare del linguaggio e dell'essere in modo oggettivo e distaccato: a rigore, anzi, non si può
neanche mai parlare del linguaggio, in quanto ci si trova sempre e comunque a parlare nel
linguaggio. Allo stesso modo, non si può parlare dell'essere in modo distaccato, poiché, in quanto
enti, siamo parti in causa: ma è possibile diventare strumenti in cui l'essere si manifesta attraverso il
linguaggio; si può cioè lavorare sull'essere dall'interno, in modo ermeneutico, ed è ciò che si
propone di fare soprattutto Gadamer, l'allievo di Heidegger. Molto rilevante è una raccolta di saggi
il cui titolo è traducibile tanto con "Sentieri del bosco" quanto con "Sentieri interrotti": Heidegger si
serve infatti di una parola tecnica che indica quei sentieri del bosco che non portano da nessuna
parte, ma che permettono solo di addentrarsi nel bosco. Con quest'immagine, Heidegger vuole dirci
che l'essere è come un bosco e che i sentieri non sono strade verso l'essere, ma strade all'interno di
esso, cosicchè si può girovagare all'interno dell'essere, senza un criterio che ci permetta di
attingerlo; ed è anche in virtù di questa amara constatazione che Heidegger si allontana sempre più
dalla filosofia per accostarsi alla poesia (intesa come manifestarsi dell'essere nel linguaggio) e al
mettersi a disposizione dell'essere. Heidegger parla esplicitamente di " pensiero rammemorante ": in
ogni epoca l'essere si manifesta e, al contempo, si nasconde (la metafisica stessa è un modo di
manifestarsi) e questo viene espresso dallo stesso pensiero dei grandi filosofi, attraverso i quali
l'essere si manifesta e si nasconde. Dunque, nelle pagine scritte dai vari filosofi e pensatori della
storia c'è un detto (manifestarsi dell'essere) e un non-detto (tenersi nascosto dell'essere), presente
ma nascosto dalle parole; e noi moderni possiamo approfittare del fatto che viviamo in un'altra

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epoca, in cui l'essere si manifesta diversamente, per far emergere dal pensiero degli antichi il loro
non-detto: in questo consiste appunto il pensiero rammemorante. Grazie alle nuove disvelazioni
dell'essere realizzatesi nelle nuove epoche storiche, possiamo in altri termini far emergere cose che i
pensatori del passato hanno detto senza saperlo, inavvertitamente. Per rimanere all'immagine del
bosco, Heidegger usa un'antica parola tedesca che significa, contemporaneamente, "illuminazione"
e "radura"; la radura, quella parte del bosco in cui non vi sono piante, è dunque il luogo in cui si
realizza una vera e propria illuminazione; questo significa che se è vero che i sentieri del bosco non
portano da nessuna parte e, meno che mai, all'essere, è anche vero che possono condurre a radure in
cui l'essere si illumina, in cui cioè si può far luce su di esso. Molto hegelianamente, heidegger
sostiene che ogni manifestazione dell'essere è legittima: anche la tecnica , dunque, ha, in quanto
espressione dell'essere, una sua legittimità, ma tuttavia essa è, come la scienza, una forma
esasperata della metafisica. Proprio perché espressione della metafisica, dunque, la tecnica non può
certo essere assolutamente positiva: ma, dice hegelianamente Heidegger, è necessario che gli aspetti
negativi vengano vissuti fino in fondo per poter sperare in un cambiamento radicale; tanto più che
Hölderlin (il poeta preferito di Heidegger) ha insegnato che " dove è il pericolo, cresce anche ciò
che salva ". Il vantaggio della tecnica, se proprio vogliamo vedere come Hegel " la rosa nella croce
", sta nel far emergere la vera e profonda natura della metafisica e del suo tipico dominio dell'uomo
sull'essere. Solo se si prende coscienza dell'erramento della metafisica con la tecnica si prospetta
anche la possibilità di un nuovo e più corretto cominciamento filosofico. E qualcosa di simile
Heidegger lo pensava anche del nazismo: dopo averlo letto, in un periodo in cui simpatizzava
ancora per esso, come destino scelto attivamente dal popolo tedesco, egli maturò sempre più la
convinzione che il nazismo non fosse positivo in sé, ma solo nella misura in cui, come la tecnica,
faceva emergere in una forma estrema l'errore/erramento della metafisica. Anche nell'opera d'arte
(soprattutto i quadri) assistiamo sempre ad un gioco tra il detto e il non-detto, cosicchè si cerca di
far emergere dalla materia qualche significato, come se l'artista si facesse portavoce dell'essere. E
nell'epoca d'arte l'essere si manifesta e si nasconde contemporaneamente: sicchè il critico di oggi
può leggere in essa dei significati che l'autore non sapeva di averci messo. Questo giustifica anche il
fatto che spesso il critico tira fuori concetti che l'artista non conosceva, ma che ciononostante erano
presenti nell'opera d'arte. In questo modo, viene anche giustificata la pluralità delle interpretazioni
della medesima opera.

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