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La fine della filosofia “è” il compito del pensiero

di Salvatore Bellantone

Sostituendo la “è” copula con la “e” congiunzione, il titolo evoca un saggio di Martin
Heidegger, contenuto in Tempo e Essere (1962), che è importantissimo per la storia della
filosofia occidentale. Naturalmente, questo saggio dev’essere inteso nel contesto bibliografico
del filosofo tedesco. Heidegger pensa che con Nietzsche inizia a compiersi la fine della filosofia.
Questo avvenimento accade nel modo di un tornare all’inizio, mediante una precisa posizione di
fondo: quella secondo cui l’essere/valore è volontà di potenza. La filosofia di Nietzsche è un
ribaltamento del platonismo. In questo senso, se per Platone l’essere/valore è un’entità assoluta,
sovrastorica e indipendente dall’uomo, con il pensiero della volontà di potenza di Nietzsche
diviene qualcosa di prospettico e di strettamente condizionato dall’uomo, nel corso della propria
storia. In altri termini, l’essere/valore (e la verità) è una produzione “umana, troppo umana”.
Questo rovesciamento del platonismo conduce alla scoperta del nichilismo: l’assenza di valori
assoluti e di verità cosmologiche. L’essere è un’invenzione dell’uomo che ha soltanto validità
antropologica: Dio è morto.
Per queste ragioni, secondo Heidegger, comincia la fine della filosofia, che accade nel
modo di un tornare al proprio inizio. Il pensiero della volontà di potenza mette in evidenza che
l‘inizio della filosofia è infondato: il principio primo, l’arché, l’origine della filosofia non è
trascendente, bensì immanente. La filosofia non è una creazione di dio, ma dell’uomo.
L’essere/valore è una menzogna. La verità, stella fissa dell’inizio della filosofa, risulta priva di
fondamento ultimo e sovrannaturale.

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Heidegger denomina la filosofia occidentale “metafisica”. Dal momento che risulta
infondata, la metafisica coincide con il nichilismo: assenza di verità e valori assoluti. Nel
linguaggio heideggeriano, abbandono dell’ente da parte dell’essere. Il pensiero della volontà di
potenza mette in luce che la metafisica, cioè il nichilismo, è alla base della tecnica (immanenza
assoluta). In questo panorama, il compito del pensiero è, secondo Heidegger, pensare un
fondamento più originario della verità, che consenta di uscire da ogni metafisica della volontà di
potenza e del valore, dunque dal nichilismo e dal dominio della tecnica. Interrogando questo
abbandono dell’ente da parte dell’essere, Heidegger propone di pensare l’essere/valore (e la
verità) “altrimenti”. In altre parole, se la metafisica ha pensato l’essere in relazione all’ente
(essere dell’ente), è necessario pensare l’essere in quanto essere (essere in quanto tale).
Per oltrepassare la metafisica – dunque il nichilismo – e smantellare il dominio della
tecnica, l’interrogazione heideggeriana si comprime sulla relazione “essere e tempo”. Heidegger
sostiene che i filosofi metafisici deducono l’idea di tempo a partire da una precisa concezione
dell’essere, che ruota attorno al criterio della stabilità e della presenza. Per superare la metafisica,
allora, ritiene sia necessario fare l’inverso: dedurre l’essere a partire da un diverso modello del
tempo. In questa prospettiva, se la metafisica, pensando l’essere secondo il criterio della stabilità
e della presenza, ottiene un tipo di tempo “cronologico”, allora è necessario partire da una
tipologia di tempo non cronologica per ricavare una diversa interpretazione dell’essere che
sfugge al criterio della stabilità e della presenza. Su questa linea, Heidegger parte dall’idea di
tempo messianico – un tempo “cairologico”, dell’occasione, presente nella tradizione ebraico-
cristiana, ma anche in quella filosofica – e ottiene una concezione dell’essere diversa da quella
tradizionale: l’essere come Ereignis (accadimento, avvenimento). L’Ereignis non è l’essere
dell’ente, ma l’essere in quanto tale. Con questa concezione dell’essere sullo sfondo, nel saggio
La fine della filosofia e il compito del pensiero, Heidegger pensa la verità (aletheia) non più
come adaequatio e omoiosis – che la connettono al criterio della stabilità e della presenza – bensì
nel modo della Lichtung (radura) – collegandola al criterio dell’accadere. Che significa, però,
pensare la verità come Lichtung?
Heidegger è non solo uno dei principali esponenti della storia della filosofia del Novecento,
ma di quella dell’Occidente. La sua fatica di uscire dalla metafisica della volontà di potenza e del
valore, dunque dal nichilismo e dal dominio della tecnica, però, manca il bersaglio. Heidegger
non si rende conto che continua a pensare il compito del pensiero in modo filosofico. Questo
dipende dal fatto che nessuno esce immune da un duello. Pur vincendo, ci si porta addosso delle
ferite che non guariranno mai del tutto. Queste ferite segnalano che solo una parte del
combattimento è stata vinta, ma ne resta ancora un’altra da vincere. E cioè, quella con le stesse
ferite che ci si porta addosso sino alla propria fine. In altri termini, pur cambiando il linguaggio e
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i criteri della metafisica al fine di oltrepassarla, Heidegger pensa da metafisico. Le ferite che non
riesce a vincere sono le parole “essere, verità e simili”. In questo senso, la proposta per risolvere
l’enigma della filosofia, contenuta nel saggio in esame, originerebbe una “rinascita della
filosofia” sotto mentite spoglie, vale a dire secondo una conformazione e una logica alternative
rispetto alla metafisica tradizionale. Ma torniamo alla domanda: che significa pensare la verità
come Lichtung?
La verità come Lichtung è caratterizzata da una doppia logica dell’accadere nella quale
avviene, a un tempo, un presentarsi e un nascondersi che preservano la verità stessa dal suo
scadere nella stabilità e nella presenza, dunque nel tempo cronologico dominato dal potere
onnimanipolante della tecnica. In questa prospettiva, «la Lichtung» scrive Heidegger «non
sarebbe solo Lichtung della presenza, l’Aperto dove essa si dispiega, ma Lichtung della presenza
che si nasconde, Lichtung di un riparare che nascondendosi si preserva» (pag. 190).
Interpretando la verità come Lichtung – e Heidegger ne è consapevole, infatti la citazione sopra
riportata è preceduta dalle parole “se così fosse” – Heidegger continua a concepire la verità per
immagini o rappresentazione. La Lichtung, infatti, è una metafora utile per rappresentare l’idea –
o il concetto – della modalità attraverso la quale accade la verità, vale a dire come una radura,
uno spiazzo aperto nel quale la verità si dà ritraendosi e, in questo modo, si preserva dalla
tecnica, dalla soggettività, dalla stabilità e dalla presenza. È qualcosa che si dà sottraendosi. Una
presenza nell’assenza (e/o viceversa). Per fare un esempio, la verità come Lichtung dice che la
verità dell’accadere del mondo, si dà nel sottrarsi della possibilità stessa di afferrarla (e si
preserva). Il mondo accade, c’è (o si dà), ma non è possibile cogliere la sua verità, perché questa
si sottrae nel lasciare che il mondo accada.
«Il tentativo di pensare l’essere senza l’essente» (pag. 104) conduce Heidegger alla
rappresentazione dell’estremo opposto al tutto per significare l’essere come Ereignis, vale a dire
ciò che tutto non è e che, nel sottrarsi al tutto, si dà: il niente. Risolvere la questione dell’essere
in questo modo, significa restare ingabbiati nella più pericolosa empasse nella quale può sfociare
la metafisica: la “teologia negativa”. Se la metafisica fino a Nietzsche (escluso) cela in sé il
dogma dell’essere “che tutto è e tutto comprende” e, per questa ragione, si mostra come una
“teologia positiva”, il tentativo heideggeriano di oltrepassarla calando in essa le nozioni di
Ereignis (che niente è e niente comprende), di a-letheia, di Lichtung e simili conduce la
metafisica a una rinascita, configurandola nel senso di una teologia negativa. In altre parole, la
metafisica crede nell’esistenza dell’essere “che tutto è e che tutto comprende”, mai
sperimentabile, garante e custode della verità, dei valori, del bello e simili; Heidegger crede
nell’esistenza dell’Ereignis “che niente è e niente comprende” e che, però, in modo opposto
all’essere della metafisica, svolge la stessa funzione di quello.
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Se il senso della filosofia (si chiami metafisica o in altro modo) è la fede, allora è
preferibile denominarla una volta per tutte “teologia”. La metafora dell’Ereignis (e ciò riguarda
anche gli altri concetti della metafisica che Heidegger reinterpreta a proprio piacimento), come
già detto, è l’estrema rappresentazione in chiave negativa e opposta della metafora dell’essere. In
questo modo, Heidegger resta ingabbiato all’interno della metafisica, perché continua a pensare
per immagini, nella loro negazione assoluta, i concetti della filosofia. Così dalla riflessione
heideggeriana scaturisce una “variante” della filosofia che ha diversi connotati da quella
tradizionale, ma resta sempre “metafisica”.
Per sfuggire alla metafisica non basta cambiarne i criteri e le regole o interpretare
diversamente i suoi concetti, ottenendone una mutazione. Bisogna “finire la metafisica”, ossia
lasciarle spirare l’ultimo fiato. Occorre abbandonare i concetti di essere, valore, verità una volta
per tutte e non pensarli più né per metafore positive né negative. Tornando a Nietzsche, è
necessario essere consapevoli che i concetti sono parole create dagli uomini e utili soltanto agli
uomini per vivere, sopravvivere, sognare, discutere o giocare al potere, in qualsiasi forma sia
possibile, e che non hanno alcuna validità cosmologica, ontologica e teologica in modo
definitivo. Pensare il contrario, implica l’aiuto della fede e questa, come si sa, non dimostra
nulla. È convinzione, non conoscenza. Se dio esiste – questo è l’esito ultimo nell’interpretare
l’essere, heideggerianamente, come Ereignis, ossia concepirlo come il dio del popolo ebraico –
la conoscenza può essere soltanto rivelazione miracolosa. Ma se così fosse, se la conoscenza
fosse soltanto un fatto della fede, della rivelazione divina e sovrannaturale e non una fatto della
scienza e dell’esperimento, allora, come Heidegger stesso dice: «Solo un dio ci può salvare».
Pensando la verità come Lichtung, Heidegger resta “sulla linea” della metafisica. In questo
modo, non scopre (o coglie) neutralmente la verità, ma la reinterpreta, la riformula, la re-inventa.
Il gesto di Heidegger, dunque, è ancora soggettivismo, pensare per immagini, metafisica nelle
vesti di una teologia negativa assoluta. Con le nozioni di Ereignis, Lichtung, a-letheia e simili,
così come con la riformulazione di tutti i concetti della metafisica, Heidegger dimostra
nuovamente che all’origine della filosofia c’è l’azione dell’uomo: invenzione, creazione,
immaginazione. Tutto il saggio di Heidegger può essere riassunto nella seguente domanda: “è
possibile che la verità si dia nel modo della Lichtung?”. Heidegger sa che non è una certezza ma
solo una possibilità pensata, immaginata, inventata e scrive: «Se così fosse, allora solamente, con
queste domande, saremmo giunti su un cammino che porti, alla fine della filosofia, al compito
del pensiero» (pag. 190). Ma la verità non si dà nel modo della Lichtung né in quello della
metafisica tradizionale. In breve: la verità non c’è, non è e non si dà. È un termine inventato
dall’uomo, che ha significato soltanto per l’uomo e non per il cosmo. Premesso questo, si giunge
allo stesso modo su di un cammino che “deve” portare sia alla fine della filosofia – nel senso
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della sua chiusura, cessazione, morte – sia al compito del pensiero. Il detto di Nietzsche “Dio è
morto” significa che, assieme alla nozione di essere, verità e simili, è morta anche la filosofia.
Perché farla risorgere dalle proprie ceneri con diversi abiti? Per fare quello che si è fatto finora?
E che si è fatto finora con la filosofia? Si è utilizzato il sapere (sovrannaturale e fantasioso) per
creare religioni (evidenti e non) e ottenere potere, fama, autorità nel mondo. Ma dalla filosofia,
fortunatamente, è nata anche la scienza dell’esperimento: questa è la nuova via che ci conduce
completamente al di fuori del cadavere della filosofia in una nuova vita. La filosofia è morta:
viva adesso la scienza.
Qual è, secondo Heidegger, il compito del pensiero? «Il compito del pensiero sarebbe
allora l’abbandono del pensiero che si è avuto fino ad ora a favore della determinazione della
cosa del pensiero» (pag. 191). Come determinare la cosa del pensiero? Qual è la cosa propria del
pensiero? Rispondere che la cosa propria del pensiero è la verità – sia essa nel modo
dell’adaequatio, dell’omoiosis o della Lichtung – è restare all’interno della metafisica. Chiedersi
qual è la cosa propria del pensiero implica il domandarsi: “a che pro il pensiero? Qual è il suo
scopo? Perché il pensiero? Che cosa significa pensare?” ecc. A queste domande non si può
rispondere nel modo della contemplazione, in questa forma o in un’altra, dunque nel modo dell’a
priori. Bensì, soltanto a posteriori. La risposta è qualcosa di temporaneo che serve per la
successiva conferma o smentita. Ma la risposta dev’essere al servizio della vita. E la vita non è
soltanto “vita filosofica o scientifica o artistica o sportiva e così via”. La vita è tale per ogni
essere umano, qualsiasi professione pratichi, in qualsiasi modo viva. I termini “perché?”,
“scopo”, “significato” e simili, rinviano alla vita effettiva, quella praticata in ogni attimo dagli
uomini in comunità e in società. È soltanto in questo spazio – o in quello interiore e personale di
ognuno – che è possibile rispondere alla domanda intorno alla cosa propria del pensiero, al suo
scopo, significato e simili. Ma pensare che quei termini conducano a una conoscenza ultima e
definitiva del cosmo, in qualsiasi forma e interpretazione li si consideri, pensare questo significa
restare all’interno della metafisica, cioè della teologia.
Il compito del pensiero, dunque, non è pensare il mistero dell’accadere della verità come
Lichtung, né in nessun altro modo perché così si pensa da metafisici in forma nuova o
modificata. Il compito del pensiero è pensare, ma il pensare non riguarda soltanto la metafisica e
non avviene soltanto nei termini della metafisica (antica e nuova). Quest’ultima, non è un dio che
dev’essere servito ma soltanto uno strumento nelle mani dell’uomo attraverso il quale tentare di
dare un senso alle proprie domande e alla propria vita, e mediante il quale ripercorrere le tappe
della storia dell’umanità e del pensiero stesso, al servizio del presente e del futuro. “Uno”
strumento significa che non è l’unico, ma “uno tra molti”. Ogni strumento è capace a modo
proprio di fornire una o più risposte alle domande degli uomini: anche se “la scienza non pensa”,
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quando uno scienziato risponde alle domande sul senso, sul valore – e simili – della vita,
risponde sì da metafisico, ma offre la propria voce per far parlare la scienza che, da sola, non può
farlo. “Che cosa significa pensare?” non lo stabilisce soltanto la metafisica ma, nel proprio
piccolo, ogni essere umano durante la propria vita e mediante le proprie esperienze. Da soli, si è
liberi di stabilire qualsiasi senso si vuole della vita (e della verità, se ce n’è una). Ma quando si
ragiona nell’ottica di una comunità, società o villaggio globale è là che diviene difficile stabilire
il senso della vita e delle domande degli uomini (così come della verità). Il termine “senso” (e
verità), infatti, chiama sempre in causa l’essere umano. Che “senso” sarebbe se, scomparsa
l’umanità, continuasse a esistere soltanto per il cosmo, l’universo o il pluriverso? Se si è soliti
usare il termine “verità” per definire i principi primi, le cause prime e le dimensioni spazio-
temporali dell’uni(pluri)verso – questo fanno i primi filosofi – oggi è preferibile adottare i
termini “struttura, sistema, complesso ordinato, ammasso caotico e simili”. Se invece si connette
il termine “verità” con il termine “senso o valore” – in modo conscio o inconscio – bisogna
evitare di ritenere che quel termine abbia significato o validità anche per il cosmo. Quello che
c’interessa o che ci è utile, è tracciare un’immagine, seppur passeggera e continuamente
cangiante, del luogo che abitiamo. Quest’ultimo non è soltanto la Terra, ma il cosmo intero
(anche se siamo confinati in uno dei suoi pianeti e delle sue galassie).
Il compito del pensiero è abbandonare la metafisica in tutte le sue forme, dunque
allontanarsi dalla filosofia (cioè dalla teologia), lasciarla finire, lasciarle esalare l’ultimo respiro.
La fine della filosofia, nella prospettiva nietzscheana, è la scoperta che la filosofia stessa – e la
sua verità – è una menzogna “umana, troppo umana”, contraria alla vita, al suo istinto
incondizionato ad ampliarsi, agli uomini nella loro diversità, molteplicità e unicità-singolare. È
uno strumento utile per affermare il potere di pochi su tutti gli altri o per contrastare il potere
vigente al fine di sostituirsi a esso. Se questa è la filosofia, allora è barbarie del soggettivismo. Se
si resta all’interno della metafisica, il compito del pensiero è stabilire una nuova menzogna
favorevole alla vita, al suo impulso ad accrescersi illimitatamente, agli uomini tutti, nessuno
escluso. Se invece si vuole oltrepassare la metafisica, allora ci si deve affidare alle scienze e
tracciare, volta per volta, la struttura dell’uni(pluri)verso e il nostro posto in esso. Si tratta di
abbandonare la metafisica a favore di una “meta-Geo-fisica”. Quest’ultima, però, già esiste ed è
l’astrofisica.
Quando i filosofi dell’inizio alzavano gli occhi al cielo, si chiedevano: “che cosa c’è oltre
di esso? Le stelle? Altri pianeti? Dio? Un altro mondo oltre quello conosciuto?”. Il problema è
che l’unico mondo conosciuto dai filosofi era quello sensibile, vale a dire quello percepito per
mezzo dei propri sensi. Dunque, la sola terra, assieme al sole e a qualche altra stella o pianeta.
Non potendo “vedere” più in là, hanno iniziato a teorizzare l’esistenza di cose “invisibili” ai
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propri occhi e poi, non si sa come, hanno perso la mano e hanno ritenuto più esistente un altro
mondo (quello frutto della loro fantasia) anziché quello che era loro visibile. Oggi, gli strumenti
tecnologici ci consentono di valicare i limiti che avevano i filosofi dell’inizio e di “vedere” cosa
c’è oltre la terra: l’uni(pluri)verso. La scienza che si occupa dello studio dell’uni(pluri)verso, dei
suoi principi, della sua struttura e così via è l’astrofisica – l’astronomia si cura di certificare
l’esistenza di pianeti, stelle e simili, assegnando loro un nome. Nell’astrofisica, le nozioni
filosofiche di essere, valore, verità ecc. non hanno significato: soltanto l’esperimento, la
concretezza, la misurazione, la definizione spazio-temporale e così via hanno importanza. Il suo
compito è di tracciare “temporaneamente” la struttura dell’uni(pluri)verso e di tentare di capire,
con metodo sperimentale, il suo funzionamento. Ovviamente, non tutto quel che gli astrofisici
affermano e teorizzano è sperimentabile. Ma queste lacune sono l’eredità degli studiosi che
verranno dopo di loro.
Alla luce delle nuove scoperte e acquisizioni dell’astrofisica, i filosofi tendono a spolverare
le proprie nozioni e le proprie domande, al fine di costruire teorie che, metafisicamente,
spieghino il tutto. Questo atteggiamento dei filosofi non è scoprire bensì immaginare, inventare,
creare e, molto più spesso di quelle degli astrofisici, le teorie dei filosofi sono difficilmente
dimostrabili. Le parole della filosofia hanno significato soltanto nell’intimo di ogni individuo.
Non sono necessarie nemmeno alla comunità alla quale bastano soltanto le leggi, le scienze, la
storia. Naturalmente, con le parole della filosofia gli uomini tentano di capire “chi siamo? Da
dove veniamo? Dove andiamo? E perché?”, ma in questo modo spesso dimenticano di vivere. Se
l’unica certezza che abbiamo è di esserci, di esistere, allora è preferibile “sospendere” le
domande della filosofia, irrisolvibili, a favore di altre domande, quali “come siamo? Dove
siamo? Per quanto tempo siamo? Siamo soli nell’uni(pluri)verso? ecc.”. Morta la filosofia, le
scienze e la storia hanno il compito di rispondere, di volta in volta, a domande più concrete
relative agli uomini, alla Terra, al cosmo, alla loro storia comune. Tutto il resto, è politica, arte,
fede, ossia argomenti prospettici, utili, ora l’uno ora l’altro, per il potere.
Mentre la filosofia muore e si decompone, i filosofi devono trasformarsi in scienziati e
storici. L’unico ricordo della filosofia che bisogna portare con sé e che con tanto sudore si è
guadagnato, è l’atteggiamento critico verso tutto l’esistente, verso tutte le produzioni umane,
verso tutti. Lo scopo della critica non è mettere i bastoni tra le ruote a tutti per puro godimento,
ma da un lato, contribuire a rispondere alle domande della scienza e della storia il più
imparzialmente e razionalmente possibile; dall’altro, impedire che pochi uomini dominino su
tutti gli altri e garantire a tutti pari diritti e dignità d’esistenza, non perché lo impone un dio, ma
perché abitiamo tutti lo stesso pianeta, lo stesso cosmo.

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Se la filosofia tradizionale, covando dentro sé il germe della teologia, ha reso la terra un
inferno, allora il pensiero deve rendere il cosmo un paradiso terrestre. Questo, nell’era della
tecnica, è il compito più grande, a meno che non si scopra l’esistenza nel cosmo di altre forme di
vita non-umane. Se ciò accadesse, allora ci sarebbe un nuovo compito del pensiero: pensare un
modo per vivere pacificamente assieme ai non-umani. E se questi pensassero diversamente da
noi? Se volessero sterminarci? Allora, capiremmo nuovamente che ciò che ci qualifica
maggiormente non è la volontà di vita, ma la volontà di potenza.

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