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Dominio e servizio: i due volti della tecnica.

Dentro e fuori
L’operaio di Ernst Jünger
di Salvatore Bellantone

1
Nel ’32, Ernst Jünger pubblica un testo decisivo per mettere a fuoco il contesto
nel quale viviamo: L’operaio. La caratteristica principale del nostro tempo è il
compiersi del dominio di un preciso modo di pensare, quello tecnico, che comincia con
il «maggiore e più fatale evento di quest’epoca»1: la Grande Guerra. Appropriandosi
della filosofia di Nietzsche, Jünger non considera questo avvenimento una mera vicenda
combattuta tra le nazioni bensì l’origine di una rivoluzione planetaria, nella quale due
tipologie umane – che rappresentano due modi di pensare e due ordini mondiali –
s’incontrano e si scontrano: il borghese (ultimo uomo e nichilista passivo) e l’operaio
(oltre-uomo e nichilista attivo). In questo senso, la Seconda Guerra Mondiale è il luogo
in cui due epoche entrano in conflitto tra loro, nel quale la vecchia età lascia posto alla
nuova e il borghese cede all’operaio il proprio spazio vitale. L’operaio, secondo Jünger,
è il supremo strumento col quale la tecnica compie il proprio dominio planetario.
Jünger osserva gli avvenimenti scaturiti a partire dalla Prima Guerra Mondiale in
modo ontologico, metafisico, morfologico. In questa prospettiva, pensa che il mondo
del divenire – l’esistenza – è regolato da un’altra dimensione: quella dell’essere. A
quest’ultima apparterrebbero delle forme, statiche e unitarie, che gli uomini impiantano
nel regno del movimento e del molteplice per condizionarlo. Se “Dio” è la metafora per
indicare il modo di pensare “borghese” che caratterizza la vecchia età, “tecnica”, invece,
indica la tipologia di pensiero che qualifica la nuova età, nella quale ogni ente – lo
spazio, il tempo, l’uomo, il mondo – è raffigurabile mediante la forma dell’operaio. Non
è possibile, spiega Jünger, distinguere una forma dall’altra mediante il rapporto
causa/effetto bensì attraverso il sigillo e l’impronta che caratterizza ognuna. La forma
dell’operaio sigilla la propria impronta nel divenire mediante la tecnica moderna.
La tecnica, chiarisce Jünger, non è una semplice attività né un insieme di mezzi: è
un modo di pensare, interpretare e spiegare la verità dell’ente che dispone di propri
simboli e di un proprio linguaggio. Pur nascendo nell’età della rivoluzione industriale –
nella quale si dà ancora rilevanza alla scoperta di verità universali – la tecnica si proietta
nella nuova età perché considera la verità un’espressione della volontà di potenza. La
tecnica riconosce che “Dio è morto”, che il reale è dominato dal nichilismo: cioè dalla
mancanza assoluta di senso, di verità, di valori universali. Interpretando la verità in
rapporto al potere – e più esattamente al potere di esercitare la propria forza sull’ente in

1
E. Jünger, Der Arbeiter. Herrschaft und Gestalt, Ernst Klett Verlag, Stuttgart 1981; ed. it. a cura di
Q. Principe, L’operaio. Dominio e forma, Guanda, Parma 1991, p. 114.

2
generale – la tecnica è una potenza capace di decidere la verità dell’ente e di compiere il
proprio dominio.
La Grande Guerra, secondo Jünger, è l’inizio del compimento del dominio della
tecnica. Questo compimento si esplica in due fasi:
- una “distruttiva”, nella quale la tecnica si dà nel senso di una “mobilitazione totale”, di
una forza aggressiva e violenta che distrugge la vecchia conformazione planetaria e
riporta gli enti in una condizione primitiva;
- una “costruttiva”, nella quale la tecnica si palesa nel senso di un “principio creativo”,
capace di ri-pensare e ri-fondare gli enti in vista del proprio compimento, ossia il
raggiungimento di uno “stato di perfezione” in cui i mezzi tecnici sono tessuti insieme
in un’unica rete organica, stabile e legittima.
La metamorfosi tecnica dell’ente è una rivoluzione in atto: è l’annichilimento in
corso del vecchio ordine e, a un tempo, l’avvio di un nuovo ordine, che prevede nuovi
sistemi gerarchici. Dal momento che è un ente tra gli enti, anche l’uomo è soggetto a
questa trasformazione. La trasfigurazione tecnico-nichilistica appare all’uomo nel senso
di una malattia, di un pericolo: l’uomo è privato di tutte le proprie vecchie qualità, è
spersonalizzato, diviene nulla. Per questo motivo, è come se si trovasse di fronte a un
bivio nel quale deve decidere quale atteggiamento assumere:
- “nichilismo passivo”, rifiutare gli strumenti e il linguaggio della tecnica e fuggire
romanticamente il presente in direzione del passato, per “musealizzare” il vecchio
mondo in frantumi;
- “nichilismo attivo”, accettare gli strumenti e il linguaggio della tecnica e attuare una
guerra di conquista distruggendo tutto ciò che resta del vecchio mondo.
Il vecchio mondo è frutto di un modello di pensiero incentrato sui valori, che è
incarnato dal tipo umano borghese. Jünger intende quest’ultimo nelle vesti de “l’ultimo
uomo” e del “nichilista passivo” nietzscheani. L’uomo borghese è chi ha bisogno di un
dio e dei valori dello Stato, della società, della libertà, della massa, dell’economia, della
democrazia, dell’individuo – in breve “di Dio” – per scopi personali. Dal momento che
il vecchio mondo crolla, per sopravvivere alla metamorfosi generale l’uomo è costretto
a pensare in maniera tecnica, e cioè: a edificare un ordine e una gerarchia nuovi.
Per compiersi, la tecnica ha bisogno dell’uomo ma questi deve regolare la propria
esistenza secondo il principio del lavoro: dev’essere operaio. Se da un lato «tecnica è
padronanza del linguaggio valido nell’ambito del lavoro»2, dall’altro lato «essere
2
Ivi, p. 140.

3
operaio» vuol dire essere «esponente di una grande forza che fa il suo ingresso nella
storia, significa far parte di una nuova umanità, scelta dal destino per esercitare il
dominio»3. Parlare il linguaggio del lavoro, a ben vedere, è parlare il linguaggio della
tecnica: per questo motivo, l’operaio che padroneggia il lessico tecnico, di fatto, compie
il dominio della tecnica sugli enti.
Il lavoro è la maniera in cui la tecnica, per mezzo dell’operaio, si esprime nel
modo di un principio creativo. È l’atteggiamento col quale ripensa e rifonda
organicamente gli enti per raggiungere il proprio stato di perfezione: il dominio totale
dell’ente. Questa supremazia si realizza nel momento in cui l’ente in generale compie
l’essenza della tecnica: la meccanicità. La meccanicità è la peculiarità di ciò che è
meccanico, automatico, istintivo, involontario; è un movimento «che ricorda il moto di
un orologio o di un mulino»4, un congegno fatto di ingranaggi e leve strettamente
interconnessi, nei quali il movimento si diffonde in modo freddo, costante, ordinato e
indifferente.
La tecnica pensa che tutto può essere “calcolato”, tradotto in termini matematici,
quantificato, parcellizzato, sezionato, definito. In breve, che tutto è trasformabile e
usabile. La tecnica vuole «realizzare un dominio, in qualsiasi luogo, in qualsiasi tempo,
in qualsivoglia misura»5, un dominio totale che si concretizzi nel modo di un immenso
congegno meccanico, freddo, costante, ordinato e indifferente. Questo potere diviene
totale avviene con la fusione organica e omogenea della vita con i mezzi della tecnica,
con la «cancellazione della differenza tra mondo organico e mondo meccanico» 6: questo
è il suo “stato di perfezione”.
Raggiunto lo stato di perfezione, afferma Jünger, scomparirà il carattere da
officina rilevabile nello spazio tecnico e il mondo stesso diventerà una struttura
articolata che favorirà il dominio planetario. Per ottenerlo, sarà necessario ottenere il
monopolio dei mezzi tecnici, vale a dire diventare i proprietari dell’apparato di potere
fondato sulla tecnica.
Jünger pensa che lo Stato nazionale «non è adatto a una simile
monopolizzazione»7 perché è di natura liberale, è incentrato sulla libera concorrenza,
sulla democrazia, sulla borghesia e, per queste ragioni, non può dominare
sufficientemente i mezzi tecnici. Per esserne capace, lo Stato deve svincolarsi dal
3
Ivi, p. 62.
4
Ivi, p. 89.
5
Ivi, p. 157.
6
Ivi, pp. 157-158.
7
Ivi, p. 174.

4
modello liberale e dai valori borghesi per trasformare il proprio territorio in uno spazio
ordinato e regolato dal principio del lavoro totale. Ogni tentativo di restaurare lo Stato e
la democrazia liberali ad opera del borghese, non farà altro che accelerare il processo di
mutamento verso il dominio dell’operaio. In questo senso, ogni nazionalismo e
socialismo rivoluzionari appaiono a Jünger come «grandezze di lavoro e di
mobilitazione, il cui effetto è tanto più distruttivo in quanto la democrazia liberale si
vede qui aggredita con i suoi stessi metodi»8:
- il nazionalismo si volge contro se stesso e contro la nazione da cui scaturisce, quando
tenta di allargare i confini della nazione su scala planetaria;
- il socialismo, invece, che si batte contro una precisa idea di società, se riuscisse nel
proprio intento, si auto-eliminerebbe.
Il nazionalismo e il socialismo, allo stesso modo della Grande Guerra, realizzano
l’avvento del dominio planetario dell’operaio e preannunciano la fine del vecchio
mondo. Dal momento che la tecnica fonda il proprio dominio sul lavoro, la sostituzione
della democrazia liberale con una “democrazia del lavoro” é inevitabile. La differenza
tra Stato assoluto e democrazia del lavoro consiste nel fatto che «nel primo caso si tratta
di un mondo stabile all’interno delle sue delimitazioni e dei suoi ordinamenti, nel
secondo caso si tratta di un mondo dinamico in cui l’autorità si afferma con mezzi
elementari»9. Mentre lo Stato assoluto è una concezione politica i cui ordinamenti
scaturiscono dai valori della massa, dell’individuo e dai concetti borghesi di autorità,
libertà, legalità, la democrazia del lavoro sgorga direttamente dalla realtà del mondo
dell’operaio; realtà costituita non da individui ma da tipi umani e caratterizzata non dai
concetti astratti di autorità, libertà, legalità ma dal principio del lavoro.
Il momento centrale del passaggio alla democrazia del lavoro avviene quando «il
tipo umano attivo compie la svolta in direzione dello Stato» 10, quando l’operaio colloca
partiti, movimenti e istituzioni all’interno della costruzione organica, non al fine di
educare le masse bensì, come un ordine cavalleresco o religioso, per allevare e
selezionare i tipi umani attraverso il controllo dei mezzi tecnici. In questa prospettiva, la
stampa, il teatro, il cinema, la radio, il tempo libero, il divertimento, i mezzi pubblici e
di trasporto e così via, diventano gli spazi da assoggettare al proprio dominio e nei quali
combattere la libera opinione, dietro la quale potrebbe nascondersi l’individuo borghese
e il suo vecchio mondo. L’operaio tecnicizza costantemente tutti questi mezzi per far
8
Ivi, p. 220.
9
Ivi, p. 236.
10
Ivi, p. 238.

5
funzionare al meglio la democrazia del lavoro e ottenere il dominio della realtà:
«soltanto per il tipo umano l’impiego di quei mezzi ha il senso di un atto di dominio»11.
Jünger si rende conto che dalla padronanza dei mezzi e del linguaggio tecnici
scaturirà un tipo di dominio omnicomprensivo. Per questa ragione, pensa che la via per
ottenere quella padronanza è la guerra. Nell’era della tecnica, la guerra mostra il proprio
carattere totale abbattendo ogni confine e ogni differenza tra territorio bellico e
territorio civile, tra soldati e civili. Finita la guerra, l’ordine scaturente sarà il simbolo di
quanti si sono collocati al vertice della piramide tecnologica: i signori della Terra.
Quest’ultimi decideranno se vivere in guerra o in pace: le leggi tecniche domineranno la
totalità del reale coinvolgendo persino il bambino nella culla o il monaco in cella,
perché «quanto più l’individualità si dissolve, tanto più diminuisce l’opposizione del
singolo alla propria mobilitazione»12. Assieme al vecchio mondo e ai vecchi valori,
crolla la capacità di potersi opporre al coinvolgimento totale: si diviene tutti più
assoggettabili, più dominabili, più plasmabili, più disponibili a essere dominati. Nel
tempo di pace, la mobilitazione totale continua: lo strumento prima usato per la leva e
per la guerra, il “servizio militare obbligatorio”, nell’era della tecnica si trasforma in un
“servizio di lavoro obbligatorio”, utile per allevare una nuova tipologia umana che
concepisce il lavoro come stile di vita, come potere.
Dal momento che una guerra tecnica è un pericolo per il genere umano, Jünger
prende in considerazione la Conferenza sul disarmo tenutasi a Ginevra il 2 febbraio
1932 e si chiede se sia preferibile un disarmo totale o parziale, per evitare il peggio e
mantenere la pace. Si rende conto, però, che il problema è la tecnica stessa. Per questa
ragione, si domanda: «esiste un punto dal quale si possa decidere autorevolmente se i
mezzi tecnici devano o non devano essere usati?»13. Non siamo ancora in condizioni di
decidere – spiega Jünger – perché la tecnica non ha raggiunto lo stato di perfezione,
dunque non possediamo quella padronanza assoluta della tecnica che consente di
deciderne il suo e, attraverso questo, il nostro destino. Siamo ancora in quel periodo di
transizione tra la fase distruttiva e la fase costruttiva, «viviamo in uno strano periodo nel
quale non c’è più dominio e non c’è ancora dominio. Nondimeno si può dire che il
punto zero è già stato sorpassato»14.

11
Ivi, p. 243.
12
Ivi, p. 134.
13
Ivi, p. 177.
14
Ivi, p. 169.

6
Il nuovo mondo – afferma Jünger – è ancora lontano: si può ravvisare soltanto il
mutamento rapido del vecchio mondo il quale, come una “grande officina”, prepara
l’avvento del nuovo. Non è possibile sottrarsi a questa metamorfosi: è necessario
pensare in maniera tecnica, per stabilire un nuovo ordine gerarchico che, nel contempo,
si svela come un dominio planetario. Il diffuso livellamento generale rappresenta solo il
gradino più basso della piramide tecnologica: dal momento che i signori della Terra non
si sono manifestati, ciò vuol dire che l’ordine tecnico non si è ancora compiuto, è ancora
in via del proprio compimento ultimo. La tecnica deciderà le sorti del dominio
planetario: «spetta alla tecnica il compito di liberare l’uomo dalla maledizione del
lavoro, permettendogli di occuparsi d’altre cose più degne della sua natura»15.

Dopo 70 anni dalla pubblicazione dell’opera, sembra necessario chiedersi quanto


L’operaio sia un testo visionario – nel senso negativo del termine – e quanto invece sia
premonitore del nostro tempo. Con la Seconda Guerra mondiale crolla definitivamente
il vecchio mondo. Nel nuovo, non è possibile immaginare valori, verità, leggi, politica,
Stati, religioni, arti, sapere, scienze, mezzi di comunicazione, hobbies, tempo libero,
salute, vita familiare/sociale/individuale o spirituale se non nell’ottica del lavoro.
Il lavoro è ormai l’unico principio regolatore dell’esistenza umana. “Lavoro”,
però, come Jünger evidenzia, è solo quella parola utile per indicare la potenza
nichilistica che domina la nuova era: la tecnica.
“Tecnica” è quel modo di pensare che concepisce l’ente in generale come ciò che
può essere tradotto nel linguaggio matematico. È quel modo di accostarsi all’ente
intendendolo come ciò che è calcolabile, programmabile, manipolabile, perfezionabile,
usabile e dominabile. Da un certo punto di vista, la tecnica somiglia al vecchio dio dei
sacri testi, in chiave capovolta. Prima, dio era considerato il deus ex machina, il creatore
del mondo, arché ed escaton dell’ente in generale nella sua stabilità, che sta al di fuori
di esso e, in questo modo, è onnipresente, onnipotente e così via. Adesso, la tecnica
scaccia dio dall’al di là – o gli déi dall’Olimpo – per prenderne il posto. La tecnica è il
deus in machina, il ri-creatore del mondo, arché ed escaton dell’ente in generale nella
sua trasformabilità, che sta nel mondo per compiere il proprio dominio incontrastato:
divenire onnipresente, onnipotente ecc. In poche parole, la tecnica è la forma
assolutamente immanente di quel che prima dio incarnava: il potere.

15
Ivi, p. 152.

7
Tecnica è potere, forza, magia o miracolo, per certi versi. È la capacità di
concretizzare il sogno, l’idea, l’invenzione, il progetto, il disegno, la teoria, il proposito,
il fittizio, l’inesistente, l’impossibile. Tecnica non è un qualcosa che si può indicare
esclusivamente in un luogo, in un tempo, in un oggetto, in un accadimento o in un
essere vivente specifici; tuttavia, è ciò che è in ognuno di quelli. Tecnica è,
contemporaneamente, il fato, il destino, il caso, la fortuna, l’evento ma anche il noto, il
risaputo, il comune, il pubblico, il rivelabile. È il nascosto e allo stesso tempo
l’evidente; l’invisibile e il visibile; l’indicibile e il dicibile; il sacro e il profano; il
particolare e l’universale; l’unità e la differenza; l’inizio e la fine; l’alfa e l’omega;
l’universo e il niente; la vita e la morte.
La tecnica è l’energia stessa che costituisce il mondo. È un segreto che il mondo
stesso cela in sé e che però l’uomo è riuscito a svelare. La tecnica è il modo con il quale
il divenire “è”. È la maniera con la quale anche il niente “è”. Mediante la tecnica
qualcosa o qualcuno può nascere, provenendo sia dal divenire sia dal nulla. Tecnica è
azione pura, il divenire di volta in volta “essere” del divenire stesso. Tecnica è vita,
temporalità, spazialità, cosità, eventualità: è la vitalità stessa della vita, la sua
fenomenicità. L’uomo ha fatto questa scoperta e, nel corso della propria storia, ha
tentato di tradurre la fenomenicità della vita, cioè la tecnica, in un linguaggio preciso e
perfezionabile, capace di presentarla, descriverla, riprodurla, alterarla, inventarla,
realizzarla e usarla. Questo linguaggio non è soltanto quello matematico bensì ogni
idioma umano, in tutte le forme nelle quali si manifesta: parlato, simbolico, geroglifico,
dei segni e così via.
Proprio come si descrive nel Genesi biblico, nel quale dio dà all’uomo il potere di
nominare gli enti e in questo modo di dominarli, la tecnica offre all’uomo la possibilità
di divenire il signore degli enti. La tecnica è quel lessico mediante il quale l’uomo
compie la propria volontà di potenza: il dominio universale dell’ente. Chi parla il
linguaggio della tecnica – cioè chi regola la propria vita secondo il principio del lavoro
– partecipa della peculiarità che prima solo dio possedeva: il potere.
La nuova umanità a cui Jünger si riferisce, sorta in contrapposizione a quell’antica
e a quella borghese, è quella tipologia umana che parla il linguaggio della tecnica, che
assume volontariamente, totalmente ed esclusivamente le sembianze dell’operaio – cioè
lavora – e in questo modo si lascia possedere dal demone della tecnica. Ogni uomo che
è operaio, partecipa del potere della nuova divinità universale: la tecnica. Ognuno aspira

8
alla realizzazione del proprio desiderio di potenza e, in questo modo, ogni volta che ne
concretizza una parte, nel contempo compie la signoria della tecnica.
Il denaro – o le monete, le valute, le azioni bancarie, gli atti di proprietà e simili –
è il punto di collegamento tra l’uomo e la propria ambizione/realizzazione della
potenza. Non è lo scopo della vita ma il mezzo per misurare, quantificare, toccare,
verificare e desiderare maggiormente il potere. Ma il potere è la tecnica, mentre il
denaro non è altro che la sua metafora. In questo senso, dietro il grande desiderio dei
soldi – così come dietro la voglia del successo, della fama, della vittoria, della gloria,
dell’eternità – si cela sempre la volontà di potenza, la quale non è altro che volontà della
tecnica. In questa prospettiva, tecnica è speranza e sconforto, il paradiso e l’inferno, la
salvezza e la dannazione. Tecnica è tutto e non è niente: quando si ha niente,
ovviamente, si vuole tutto; quando invece si ha tutto, paradossalmente, si vuole niente.
Di mezzo, c’è sempre la tecnica: ossia il potere.
A cavallo di questa volontà di tecnica e di potenza l’umanità ha cancellato il
vecchio mondo e ne ha edificato uno nuovo che, ogni giorno, somiglia sempre più a una
grande macchina. In questi anni, non è cambiato soltanto il volto del pianeta – e
continuerà a cambiare sotto la spinta tecnica – ma anche le nostre società, le quali
continuano a trasformarsi in un’unica grande collettività tecnologica, meccanica,
automatizzata. La vita di ognuno ha subito una metamorfosi e prosegue nel trasfigurarsi
in un’unica e identica vita solitaria, che si ripete sempre allo stesso modo per il numero
degli abitanti dell’intero pianeta Terra. Quel che prima accadeva in fabbrica, adesso
avviene anche nelle case, nelle strade, nelle scuole, negli asili, nei luoghi sacri, sportivi,
giornalistici, politici, estetici, culturali, scientifici, artistici, medici, sanitari, botanici,
zoologici, mortuari, ricreativi, militari, in tutti i nostri luoghi pubblici e privati.
Ovunque si diffonde lo stesso standard di vita apparentemente felice e carico di
emozioni e di significati che, a ben vedere, è triste, freddo, insensato. La nostra società
diviene ogni giorno un’immensa catena di montaggio i cui ingranaggi più importanti
sono proprio gli esseri umani. I mezzi tecnologici, invece, non rappresentano altro se
non i cavi, i bulloni e le viti che collegano ogni ingranaggio all’altro e fanno
“funzionare” la colossale rete tecnologica. Ogni giorno, con ogni nuova scoperta
scientifica, con ogni nuova invenzione, progetto, idea e prospettiva crolla il confine tra
umano e meccanico, tra naturale e “sovrannaturale” (artificiale). Basti pensare che
recentemente è stato creato un arto robotico, installabile alle persone che hanno perso
una mano o una gamba. Ma questo non è il solo esempio della caduta della linea di

9
demarcazione tra umano e meccanico. Basti pensare ai videogiochi, ai cellulari, ai
computer, alle televisioni, a internet: ognuno di noi costruisce la propria identità a
partire da questi mezzi e in direzione della “realtà” che questi stessi mezzi presentano e
rappresentano. La Terra, insieme a tutte le forme di vita che contiene, nessuna esclusa, è
una grande risorsa da alterare e sfruttare tecnicamente, per soddisfare il proprio
desiderio di potere. È un fondo, come dice Heidegger, sul quale collocare e ri-collocare
l’impianto tecnico, a piacimento di chi sta all’apice della piramide tecno-totalitaria: i
signori della tecnica.
Il potere che la tecnica incarna, presenta e a cui rinvia, però, è nello stesso tempo
divino e diabolico. La Seconda Guerra Mondiale ha messo in evidenza che la potenza
della tecnica è capace di sterminare il genere umano e di distruggere l’intero pianeta.
Nel primo caso, si pensi alle bombe su Hiroshima e Nagasaki; nel secondo caso, si
immagini a una Terza Guerra Mondiale nella quale tutti gli Stati fanno uso di armi
nucleari. Tuttavia, Jünger sostiene che «spetta alla tecnica il compito di liberare l’uomo
dalla maledizione del lavoro, permettendogli di occuparsi d’altre cose più degne della
sua natura»16. Se per certi versi la tecnica è una dannazione, per altri, invece, può
manifestarsi all’uomo nel senso di una grazia. Da un lato, la tecnica è l’arma suprema
coi quali i signori della Terra compiono il proprio dominio omnicomprensivo e
schiavizzano gli uomini, la Terra, il mondo secondo il principio del lavoro; dall’altro
lato, però, può rivestire il ruolo di un sommo pharmakon, capace di liberare tutti dalla
schiavitù del lavoro. In breve, Jünger pensa che la tecnica è evoluzione.
“Evoluzione” non dev’essere inteso in modo tecnico bensì naturale, umano,
spirituale. Attraverso la tecnica, l’uomo può darsi delle nuove abitudini, delle nuove
norme per regolare la propria condotta e ritornare, in qualche modo, a un nuovo
Umanesimo, a una “nuovissima rinascita” nell’arte della vita, del pensiero, della
compassione universale. In questi termini, il problema è capire quale “uso” fare della
tecnica e come intendere il “potere” che la tecnica stessa costituisce. Scopo della
tecnica, dunque, è il dominio o il servizio dell’uomo e del mondo?
Sta all’uomo decidere qual è il senso della tecnica, quale uso farne. In questa
decisione, l’umanità deve tenere a mente che la tecnica non ha il solo scopo del
dominio: può essere utilizzata, invece, per potenziare qualitativamente non solo la vita
umana ma anche quella degli altri esseri viventi e della stessa Terra. La tecnica, dunque,
non è soltanto una forza distruttiva e costruttiva nei termini descritti da Jünger ma può
16
Ivi, p. 152.

10
esserlo anche nei confronti dello stesso dominio dei signori della tecnica. In altre parole,
la tecnica può annichilire l’idea che il proprio senso consista nel dominio planetario (o
universale) ed edificarne un altro che è all’estremo opposto dall’idea del comando e del
potere. Per fare questo, la tecnica necessita dell’uomo, il quale deve stabilire quando gli
effetti della tecnica sono favorevoli o sfavorevoli alla vita. In altri termini, l’uomo deve
giudicare fino a che punto la tecnica, nell’era della “morte di dio”, può essere un valore
o un disvalore, nel senso del potenziamento della vita. Vale a dire, quando la tecnica è
utile alla vita e quando non lo è, quando può essere considerata benefica e quando
malefica alla vita.
Per pronunciarsi in questo modo, sia chiaro, l’uomo deve giudicare la tecnica
mediante i suoi effetti, non la tecnica in se stessa. La tecnica in sé e per sé non esiste: è
l’uomo che riconosce l’onnipresenza della tecnica nella sua onni-assenza. Questo
riconoscimento avviene a partire dalla scoperta che la tecnica è un modo di pensare
impiegabile in svariati modi e per molteplici scopi. Giudicare gli effetti della tecnica
significa pronunciarsi sull’uso e sul potere del modo di pensare che costituisce la
tecnica stessa. L’uomo deve stabilire quando questa forma di pensiero è al servizio della
vita e quando, invece, mira al dominio di essa, in quali casi è benefica e in quali casi è
malefica per la vita. “Dominio” è l’uso della tecnica sulla vita che Jünger descrive ne
L’operaio; “servizio” è l’altro utilizzo della tecnica “per la vita” che in tal sede si
propone. Servizio e dominio sono le parole per indicare, al di là del bene e del male, i
due possibili modi di impiegare la tecnica. Benefico e malefico, invece, rappresentano i
criteri di misura utili per giudicare gli effetti della tecnica, al di là del bene e del male –
cioè al di fuori dei concetti di valore e di verità della metafisica tradizionale. La nuova
era nella quale ci troviamo, non è soltanto una nuova epoca umana bensì cosmologica e
universale. Dal momento che questa nuova età è retta da un nichilismo sostanziale – e
cioè non da una crisi (non più ormai) ma da una “fine” dei fondamenti – non si può fare
a meno di cambiare lessico né di concepire un’altra interpretazione della tecnica. Nella
nuova età, il bene e il male devono essere pensati in relazione al “fare” umano, al
mondo del divenire nel quale l’uomo fa esperienza degli enti e li trasforma
tecnicamente: per questo è preferibile usare i termini “benefico e malefico”.
Per poter giudicare la tecnica, l’uomo deve ricorrere a un modo di pensare che non
è tecnico, cioè che sta totalmente al di fuori di quello tecnico ed è capace, per questo
motivo, di vagliarne il procedere, l’uso e gli effetti. Heidegger denomina “pensiero
calcolante” il modo di pensare tecnico, mentre definisce “pensiero rammemorante” quel

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modo di giudicare capace d’interrogare la tecnica. Impiegando la distinzione
heideggeriana tra queste due forme di pensiero, tuttavia ci si discosta dalla sua proposta.
Il pensiero rammemorante ha un ruolo centrale nella filosofia di Heidegger. Il dominio
della tecnica è inteso da Heidegger come dominio del nichilismo il quale, a sua volta,
non è altro che il dominio dell’abbandono dell’ente da parte dell’Essere. In questo
panorama, il pensiero rammemorante avrebbe lo scopo di salvaguardare l’essenza
dell’uomo: la cura dell’Essere. Per questa ragione, Heidegger pensa che, nell’era del
dominio della tecnica, il primo compito del pensiero rammemorante è proprio quello di
rivolgersi verso tale dominio – che è dominio del nichilismo, ossia abbandono dell’ente
da parte dell’Essere stesso, mancanza assoluta di senso, di valori e di verità – e di
interrogarlo “altrimenti” rispetto al modo di procedere della metafisica tradizionale.
Partendo da ciò, Heidegger costruisce la propria filosofia dell’evento, dell’Ereigniss e
così via, la quale, come spiegato in altra sede, non è altro che il tentativo di rifondare la
metafisica mediante criteri differenti da quella tradizionale; un espediente del filosofo
tedesco che, a ben vedere, produce una teologia negativa. Se il compito della filosofia
non è il fare teologia bensì il fare scienza secondo il metodo della sperimentazione e
mediante dati comprovati dai sensi e se è veramente giunto il tempo di porre fine alla
metafisica – in qualsiasi forma possa presentarsi e ri-presentarsi – si propone un’altra
modello del pensiero rammemorante heideggeriano. Tale pensiero dev’essere concepito
nel senso del “rammemorare” da un lato ma anche nel senso dello “sperimentare”
dall’altro lato. Dal momento che può essere rammemorato soltanto ciò che accade, vale
a dire ciò di cui è possibile fare esperienza, e dal momento che l’unico essere vivente
che fa esperienza degli enti (e del niente) e che è capace di rammemorare è l’uomo,
questi deve basarsi sull’accadere per generare una rammemorazione. Inoltre, la
rammemorazione non è fine a se stessa ma serve all’uomo per regolare la propria
condotta in relazione al presente e al futuro. La disciplina del proprio comportamento
avviene nel senso del “giudicare” il da farsi riguardo a qualcosa, la quale può essere
qualcosa di concreto (l’universo conosciuto) o di astratto (anima, dio ecc.). Se “Dio è
morto”, è inutile tentare di rin-tracciarlo in altri modi (come fa Heidegger). Bisogna
invece assumersi la responsabilità di decidere ogni qualvolta è necessario farlo. In altre
parole, l’uomo è adesso libero di giudicare qual è il senso e lo scopo di ogni ente (e del
niente), senza ricorrere a dio, a spiriti e a diavoli. In questo senso, può anche valutare
qual è il senso della tecnica e quale uso farne, basandosi sugli effetti della tecnica stessa.
Se “vita” è tutto ciò che resta dalla “morte di dio”, allora l’uomo deve vagliare la

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tecnica stabilendo come punto di riferimento del proprio valutare, appunto, la vita. Per
giudicare la tecnica in relazione alla vita non è necessario costruire un’altra metafisica o
teologia bensì bisogna assumere l’idea che l’unico responsabile di ogni stimare è
l’uomo. In questa prospettiva, per giudicare la tecnica bisogna sperimentare quali effetti
scaturiscono da determinati usi. Dal momento che il giudizio sulla tecnica avviene
sempre a posteriori, per valutarla, l’uomo necessita anche di rammemorare quel che ha
sperimentato della tecnica: i suoi effetti. Se il giudizio umano accade sempre al di là del
bene e del male, questo è l’insegnamento di Nietzsche, per giudicare la tecnica – ossia
per stabilire quando è benefica o malefica per la vita – l’uomo deve fare esperienza
della tecnica proprio al di là del bene e del male: deve sperimentare. Quando poi
comincia a rammemorare gli effetti tecnici esperiti, solo in questo momento l’uomo può
iniziare a decidere, in chiave assolutamente immanente, qual è il senso della tecnica,
quale uso farne e quali effetti sono salutari o nocivi alla vita.
Il giudizio umano sulla tecnica, per riassumere, è limitato: per stabilire quando la
tecnica è benefica o malefica per la vita, l’uomo deve prima sperimentarne il potere; nel
far ciò, spesso ne esperisce la nocività. Per questa ragione, è difficile usarla in modo
benefico per la vita. L’esperimento, tuttavia, resta l’unica via percorribile per capire
quando ciò è possibile. Per produrre un solo effetto vantaggioso per la vita, la
sperimentazione è costretta ad attraversare infiniti esiti negativi i quali, spesso, generano
conseguenze dannose per la vita. Quest’ultime, finora, non hanno messo in pericolo
l’esistenza del genere umano o del pianeta Terra ma potrebbe verificarsi in futuro.
Hiroshima e Nagasaki testimoniano che questo è possibile. Per questa ragione, c’è da
chiedersi: fino a che punto il gioco vale la candela? Quanto coraggio o irragionevolezza
possediamo per rischiare ogni volta, con ogni nuovo sperimento, il tutto per tutto?
Quanto siamo legati alla tecnica? Quanto ne dipendiamo? Quanto ci è necessaria?
Possiamo farne a meno?
L’idea di una beneficità della tecnica non è vuota astrazione. Per rendersene conto,
basti guardare ai mezzi impiegati nella scienza medica: ad esempio, si pensi alle cellule
staminali, agli arti bionici, ai farmaci, alle tecnologie per le sale operatorie, ai
pacemaker e così via. Ma la medicina non è l’unico caso. La nostra società – ma anche
quelle passate – è immersa nei mezzi tecnici, il cui uso in rapporto alla vita fa sì che
costituiscano, per certi versi, il volto salutare della tecnica. Tutte le invenzioni che
l’uomo ha prodotto nel corso della propria storia dimostrano che la sopravvivenza
umana – forse in futuro anche quella del nostro pianeta – è legata alla tecnica e ai suoi

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strumenti. Basti pensare a Prometeo e al dono del fuoco. Senza i mezzi tecnici l’uomo
non sarebbe sopravvissuto, non avrebbe avuto alcuna storia. Che ne sarebbe stato
dell’uomo se nel corso del tempo non avesse inventato (o scoperto) la lama, la ruota, il
vaso, il cesto, la fune, l’aratro, gli abiti, il pozzo, le palafitte, la candela, la terracotta e
così via? Avrebbe potuto vivere senza gli utensili, i congegni e le tecnologie che ha
inventato nel corso della propria storia? Che dire, invece, delle erbe curative? In questo
senso, tutte le invenzioni tecniche che compongono la nostra società e che sono utili per
la sopravvivenza, costituiscono parte di noi stessi in quanto sono un prolungamento del
nostro corpo. Anche se queste tecnologie, di per sé, non sono nocive, possono
diventarlo quando l’uomo, anziché intenderli come mezzi necessari alla vita, li
considera strumenti di morte e li adopera per danneggiare altri: ad esempio, quando usa
il coltello per uccidere, la corda per soffocare, il fuoco per bruciare persone e abitazioni,
il mattone di terracotta per rompere la testa a qualcuno e via di seguito.
Ancora una volta, è evidente che il problema non è la tecnica in sé e per sé bensì
l’uso che se ne fa. Se ciò ha valore per la tecnica antica – produzione di mezzi utili alla
sopravvivenza – perché non dovrebbe averlo per la tecnica moderna? La tecnica
moderna non è un’entità astratta che mira al dominio assoluto dell’ente, ossia il
raggiungimento del proprio “stato di perfezione” nel quale tutti i mezzi tecnici sono
tessuti insieme in un’unica rete organica, stabile, legittima. Né ha una propria volontà il
cui unico scopo è il potere. Piuttosto, è un modo di pensare, come direbbe Nietzsche,
umano, troppo umano, con il quale solo ed esclusivamente gli uomini compiono la loro
brama di potere. Lo stato di perfezione della tecnica non è altro che la piena
realizzazione della volontà di potenza di chi si erge a signore della tecnica, vale a dire la
concretizzazione di un governo planetario (o universale) il cui unico principio costituivo
e regolatore è il pensiero calcolante; un modo di pensare che interpreta l’ente in
generale nel senso del lavoro e definisce quest’ultimo come ciò che può essere
matematizzato e meccanizzato.
Di per sé, né la tecnica moderna né una visione dell’ente in generale nel senso del
lavoro fanno questione. Il problema, piuttosto, è se li si interpreta nel senso di scopo e
non nel senso di mezzo. La tecnica non è fine a se stessa. É un mezzo utile per
raggiungere scopi “non tecnici”. Jünger pensa che lo scopo della tecnica è il dominio
però aggiunge che il compito di liberare l’umanità dalla maledizione del lavoro
appartiene sempre alla tecnica stessa. C’è da chiedersi, allora: possibile che la tecnica
abbia più di uno scopo? Se l’obiettivo della tecnica è il dominio, come può nel

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contempo liberare l’umanità dalla maledizione del lavoro? La tecnica è fine a se stessa?
Dev’essere considerata uno scopo oppure un mezzo? Se la si intende come un mezzo,
tutto cambia.
Se si afferma che la tecnica (moderna) è un modo di pensare, cioè uno strumento
dell’uomo non il suo signore, allora anche il pensiero può essere considerato un mezzo e
non uno scopo. Il compito del pensiero non è pensare continuamente e ripetutamente
all’infinito ma il farsi da tramite fra la volontà umana e gli scopi. È vero che l’uomo è
un animale la cui volontà è dominata dalle passioni ed è regolata dal senso del piacere e
del dispiacere. Ma è altrettanto vero, come afferma Aristotele, che l’uomo è un animale
“razionale”, è un essere pensante, dotato del pensiero. Per questa ragione, l’uomo deve
dimostrare che può dominare le proprie passioni e controllare il senso del piacere e del
dispiacere; in breve, che può guidare la propria volontà mediante il pensiero. In quale
modo? Non abbandonandosi agli scopi verso cui le passioni e i sensi tendono
istintivamente e naturalmente bensì ponendo da sé gli scopi verso i quali dirigere la
volontà. Questa è una delle principali lezioni di Nietzsche: il supremo compito del
pensiero è creare degli scopi per la volontà.
Se è vero che non esiste volontà senza scopo, allora è altrettanto vero che la
volontà prende nome dallo scopo che brama e verso cui, di volta in volta, si dirige.
Inoltre, se è vero che la tecnica è un modo di pensare umano, troppo umano e che il
pensiero umano è sempre connesso alla volontà, allora è altrettanto vero che la tecnica
dipende dalla volontà umana e dagli scopi che desidera e verso cui si proietta. In questi
termini, la tecnica si mostra come un mezzo per concretizzare gli scopi che la volontà
umana pone. A ben vedere, dunque, il dominio è soltanto uno non l’unico scopo che
l’uomo può perseguire mediante la tecnica. Jünger pensa che dietro la tecnica si celi la
volontà di potenza dell’uomo. In tal sede si propone di concepire la tecnica
diversamente, ossia come una forma di pensiero dietro la quale si nasconde la volontà di
servizio (della vita) dell’uomo. In altre parole, si lancia l’idea di pensare il servizio della
vita come un altro scopo, alternativo al dominio, che l’uomo può prefiggersi mediante
la tecnica.
Il pensiero, allo stesso modo della tecnica, non è fine a se stesso, non è un scopo
bensì un mezzo, uno strumento di cui l’uomo è dotato. L’utilità del pensiero consiste da
un lato nel produrre altri strumenti utili per la sopravvivenza; dall’altro lato, nel pensare
ciò che è degno di essere pensato. Che cosa è degno di essere pensato? Nell’era della
fine dei fondamenti – e non più della crisi – non è più necessario ripensare l’Essere

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come vuole Heidegger; perché in questo modo, si fa rinascere la metafisica in una
variante a quella tradizionale. Bisogna invece mantenersi sul solco di pensiero
nietzscheano e porre i nuovi scopi per la volontà, i quali siano al di là del bene e del
male, al di là dei valori, dei concetti di verità e di fondamento.
Ponendo il servizio per la vita come scopo della tecnica, è possibile recuperare
quella concezione e quell’uso della tecnica utili per la sopravvivenza e non più per il
dominio. La questione è che l’uomo può decidere quando la tecnica è al servizio della
vita soltanto a posteriori, vale a dire dopo averne sperimentato gli effetti, i quali
possono essere sia salutari sia nocivi alla vita. In questo senso, c’è da chiedersi: quanto
è possibile sperimentare? Quanti esperimenti è possibile condurre sugli uomini, su altri
esseri viventi o sulla Terra stessa? Alcuni esperimenti potrebbero minacciarne
l’esistenza. Quanto è possibile rischiare? Forse in un lontano futuro potremmo svolgere
questi esperimenti altrove, magari su un altro pianeta per evitare di mettere in pericolo il
nostro. Ma dopo averlo arricchito “artificialmente” di svariate forme di vita, di
“umanoidi” e simili, una volta generato un nuovo grande ecosistema, quanto è possibile
metterne a rischio l’esistenza? Quanto l’uomo, creatore di quel (nuovo) mondo, è
capace di assumersi la responsabilità e l’autorità delle proprie decisioni? È vero: l’uomo
può decidere il senso della tecnica, a partire dai suoi effetti, soltanto a posteriori, con la
sperimentazione. Tuttavia, una delle peculiarità del pensiero è la capacità di immaginare
e anticipare il futuro, sulla base di determinati avvenimenti. In questo senso, chi
sperimenta il potere della tecnica, può prevedere le conseguenze dannose per la vita che
possono verificarsi a partire da specifici usi. Ad esempio, basandosi sulle tragedie di
Hiroshima e Nagasaki, gli scienziati hanno previsto cosa potrebbe accadere se si
verificasse una Terza Guerra Mondiale, nella quale tutti adoperano armi nucleari: la fine
della Terra e della maggior parte delle forme di vita presenti nel pianeta, uomo incluso.
La capacità di anticipare il futuro deve spingere questi sperimentatori a opporsi agli usi
della tecnica dannosi per la vita: si tratta di porre un freno a quel tipo di esperimenti i
cui effetti possono mettere in pericolo la vita e di concentrarsi verso altre traiettorie che
possono manifestarsi utili alla vita.
Se è vero – come afferma Jünger – che la tecnica può liberare dalla maledizione
del lavoro e può essere favorevole alla vita, è altrettanto vero che l’uomo, pur usandola
in modo benefico per la vita, non può liberarsi dalla maledizione che la tecnica stessa
costituisce. In altri termini: se prima, a seconda della prospettiva, era possibile
affermare sia che la vita è una grazia sia che è una dannazione, presto – se non ora –

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sarà possibile affermare lo stesso nei confronti della tecnica. Queste domande mettono
in evidenza qual è la specificità della natura umana in relazione alla tecnica: ognuno di
noi è un diavolo che vuole diventare un angelo, mediante la propria coda, le proprie
corna e il proprio forcone.
Per concepirla nel senso del servizio e non del dominio, è necessario ripensare la
tecnica attraverso la saggezza delle antiche civiltà e le esperienze passate. In questo
senso, bisogna recuperare il passato e ricomprenderlo in vista del futuro, anche nella
prospettiva della storia della tecnica e delle tecnologie create dagli uomini per
sopravvivere. Chi svolge questo compito si rende conto d’intraprendere un viaggio tra
enigmi e verità, tra sacrilegi e misticismo, tra il secolare e lo spirituale; un viaggio lungo
il quale si scopre che la tecnica, intesa nel senso del servizio e non del dominio, non è
l’altro dio che spodesta l’antico, ma soltanto uno dei linguaggi più segreti e manifesti a
un tempo, con il quale l’uomo decodifica, focalizza e trasfigura – nel bene e nel male –
la vita. Lo scopo di questo esplorazione – tra lo storia e la fantasia, la fisica e la meta-
fisica, il possibile e l’impossibile – altro non è che il tentativo di immaginare la tecnica
non più come una forza anticristica, nichilistica e apocalittica (nel senso negativo del
termine) ma come il plasma del cosmo stesso. Non si tratta, come vuole Heidegger, di
divenire i pastori dell’Essere bensì della tecnica. L’Essere è un’idea vuota, astratta e
soggetta alla barbarie delle interpretazioni, alla volontà di potenza e alla teologia che,
come nelle vecchie vesti metafisiche, può mettere in pericolo la vita per un aldilà che è
un’invenzione umana, troppo umana. La tecnica, invece, è quel modo di pensare e di
vivere a un tempo, che ha consentito, permette e continuerà a sostenere la
sopravvivenza dell’uomo, soltanto se questi la definirà nel senso de servizio per la vita e
non del dominio. È quella forza del pensiero assolutamente immanente, dualistica e a-
teologica, che può concretizzare nel mondo sia la vita sia la morte. La tecnica è uno
specchio nel quale possono riflettersi sia della volontà di potenza sia della volontà di
servizio della vita: sta all’uomo decidere quale delle due volontà desidera vedere,
quando si specchia egli stesso nella tecnica.
Il dominio è la volontà di potenza totalitaristica dei signori della tecnica, dal quale
scaturisce una politica della potenza. Il servizio è invece la volontà cosmopolitica dei
custodi della tecnica, dal quale ha origine una politica per il cosmo, appunto una
cosmopolitica. La cosmopolitica, ossia la tecnica in atto nel senso del servizio della vita,
non prevede signori della tecnica né mira alla loro edificazione. È intessuta, piuttosto, di
custodi della tecnica che operano al servizio della vita in tutte le sue forme, che servono

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il cosmo vivente. Il cosmopolita, in questo senso, non è un semplice teorico ma chi usa
praticamente la tecnica in modo benefico per la vita. Non è chi è soltanto animato da un
sentire cosmico e sta a guardare l’accadere con indifferenza ma chi, passionalmente,
contribuisce a difendere, a promuovere e a migliorare la vita. Cosmopolita è chi salva la
vita di un paziente in sala operatoria; chi interviene per soccorrere i feriti in un incidente
stradale; chi non inquina la Terra (in tutte le forme in cui è possibile farlo); chi protegge
gli esseri viventi in estinzione; chi inventa cure e rimedi contro le malattie ma anche
strumenti utili per uguagliare la qualità della vita dei meno fortunati a quelli più
fortunati; chi rammemora antiche tradizioni, usi, costumi, sapienze, arti, abilità, culti e
così via. Il problema è che spesso la cosmopolitica si trasforma in una tanatopolitica.
Per sopravvivere, nel corso del tempo l’uomo è sempre stato costretto a uccidere
altri esseri viventi. Non ci si riferisce alle guerre che hanno segnato tappe fondamentali
della storia politica delle civiltà ma alla selezione naturale e all’evoluzione. Per
sopravvivere, ogni giorno l’uomo si manifesta come un dispensatore di morte: uccide
virus, batteri, insetti, piante, l’aria stessa che respira, gli animali e così via. Per queste
ragioni, la cosmopolitica non sarà mai pienamente se stessa perché, se si dovesse
difendere la vita in ogni sua specifica forma, l’uomo dovrebbe rifiutarsi ad esempio di
curarsi dalle malattie provocate da virus e batteri oppure dovrebbe rifiutarsi di respirare
perché uccide le particelle di ossigeno presenti nell’aria. Per questa ragione, nonostante
la cosmopolitica è la tecnica al servizio della vita in atto, ci si rende conto che il suo
unico limite è la politica naturale: quella cioè retta dalla legge della selezione.
Se un giorno, finalmente, l’umanità si concepisse come un’unica civiltà di terrestri
e la sua esistenza fosse minacciata da altre civiltà provenienti da altri pianeti, sistemi o
galassie, in quel momento si accorgerebbe che non c’è, paradossalmente, cosmopolitica
senza tanatopolitica. Capirebbe che per sopravvivere come civiltà terrestre, laddove non
funziona il dialogo, la diplomazia e il reciproco e pacifico riconoscimento, sarebbe
costretta a difendersi dalle civiltà extra-terrestri, usando la tecnica come uno strumento
di morte. Sperando che l’attuale uso della tecnica nel senso del dominio – che Jünger
descrive nelle celebri pagine de L’Operaio – cominci a scemare e si diffonda l’idea di
utilizzarla nel senso del servizio per la vita – la nostra storia è ricca di esempi inerenti a
questa forma di impiego della tecnica – bisogna tuttavia cominciare a chiedersi: come ci
comporteremmo, se una civiltà extra-terrestre minacciasse la nostra sopravvivenza?
Quale scopo, ossia destino, sceglieremmo per noi stessi? La morte o la vita?

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Auspicando di non trovarci mai di fronte a una decisione simile, non ci si può astenere
dal sottolineare quanto è arduo rispondere a questo quesito.

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