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IL SUTRA DEL DIAMANTE

Parti 1 - 2 - 3
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1
Una volta ho udito questo. Il Signore soggiornava a Sravasti. Di primo mattino il Signore si vestì, mise il
mantello, prese la sua ciotola ed entrò nella grande città di Sravasti per raccogliere elemosina. Quando
ebbe mangiato e fu tornato dal suo giro, il Signore ripose la ciotola e il mantello, si lavò i piedi e si sedette
sul seggio preparato per lui, incrociò le gambe, tenendo la schiena eretta, attento, puntando tutta
l’attenzione davanti a sé. Allora molti monaci si avvicinarono al luogo in cui il Signore si trovava, chinarono
le teste ai suoi piedi, fecero tre giri intorno a lui procedendo verso destra e si sedettero da un lato.

2
In quel momento il venerabile Subhuti raggiunse quell’assemblea e si sedette. Poi si alzò dal suo posto,
gettò su una spalla il mantello, piegò il ginocchio destro a terra, si inchinò a mani giunte verso Buddha e
disse al Signore: “È meraviglioso, o Signore, è incommensurabilmente meraviglioso. O Bene-andato, quanto
i Bodhisattva, i grandi esseri, siano stati aiutati dall’ausilio immenso del Tathagata! Allora, o Signore, uno
che sia entrato nel veicolo-del-Bodhisattva, come dovrebbe resistere, come dovrebbe progredire, come
dovrebbe controllare i pensieri? Dopo queste parole, il Signore disse a Subhuti: “Pertanto, Subhuti, ascolta
bene e attentamente”.

3
“Qualcuno che abbia scelto di entrare nel veicolo di un Bodhisattva dovrebbe formulare un pensiero in
questo modo: “Tanti quanti sono gli esseri esistenti nell’universo degli esseri, e siano compresi nel termine
“esseri”, io devo condurli tutti al Nirvana, in quel regno del Nirvana che non lascia nulla dietro di sé. E
tuttavia, sebbene innumerevoli esseri vengano così condotti al Nirvana, nessun essere sarà stato condotto
al Nirvana”. E perché? Se in un Bodhisattva trovasse posto il concetto di un ‘essere’ egli non potrebbe essere
definito un Bodhisattva. E perché? Non deve essere definito essere-di-Bodhi colui nel quale trovi posto il
concetto di un sé o di un essere, o il concetto di un’anima vivente o di una persona”.

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Riprendiamo stasera il cammino alla ricerca delle nostre radici: dopo un testo contemporaneo, il
“Bukkosan Roku” del Maestro della nostra Scuola Engaku Taino, siamo passati ai “10 Tori Zen” che è del
1200 dC, e poi a “Le Istruzioni per perfezionare la mente” di Sosan, il Terzo Patriarca dello Zen, che è del
600 dC.
Faremo un gran balzo all’indietro, di oltre 1000 anni, andando a compulsare “Il Sutra del Diamante” del
Buddha Shakyamuni; ci accompagnerà per tutto l’anno 2015/2016, che poi vuol dire 10 incontri/sesshin di
circa 3 ore ciascuno; a questa scansione temporale il testo si presta bene, perché è articolato in 30 brevi
capitoli, così che noi ne possiamo commentare comodamente, più o meno, 3 alla volta.

Il metodo che abbiamo sviluppato qui a Pappiana, dal 2011, e che utilizzeremo anche per quest’opera, è di
tralasciare il commento puntuale, oltretutto pressoché impossibile per il tempo a disposizione, per estrarne
il “succo”, i passi che ci sembrano più importanti; l’ “estratto” lo mettiamo poi sul vetro della finestra e lo
leggiamo alla luce della visione del mondo dello Zenshinji, così come è stata espressa nelle diverse opere e
discorsi del maestro Taino, che coprono ormai più di un quarantennio, e in particolare nelle due Raccolte di
Koan di recente pubblicazione.

Bene… utilizzare testi che si susseguono cronologicamente in direzione inversa, dall’oggi allo ieri, presenta
alcune difficoltà, prevalentemente rappresentate, per dirla in modo molto semplice, dal fatto che le opere
antiche hanno una struttura, una forma, un linguaggio che non è il massimo quanto a fruibilità del
lettore/ascoltatore, e quindi
 usano la tecnica della ripetizione di concetti più e più volte;
 prendono un solo schema dialettico e lo utilizzano fino alla fine;
 i concetti sono difficili da penetrare e non ci sono indicazioni, istruzioni sul “come” poi tradurre
nella vita quotidiana quanto si sarebbe appreso dalla meditazione sul Sutra, e questo è un limite
molto forte perché non è che noi stiamo in una grotta di montagna o in una foresta indiana, proprio
no!, stiamo qui in Italia, nel 2015, e dobbiamo far fronte a mille e più problemi, spirituali e
materiali, e chiediamo ai testi dei Maestri delle mappe, delle indicazioni di massima sulla strada da
seguire, pur nella piena consapevolezza che il cammino nessuno può farlo per noi.
Insomma, per sorridere un po’ prima di immergersi nella lettura, verrebbe da dire… più leggo Shakyamuni
e più apprezzo Taino (e pure Osho!).
Ci sono innumerevoli traduzioni e commenti di questo breve sutra: noi prenderemo quella presente nel
libro di Osho “Il Sutra del Diamante” (Edizioni del Cigno, 2015) che contiene anche il suo commento dato a
Poona dal 21 al 31 dicembre del 1977. È disponibile in italiano anche il libro di Thich Nhat Hanh “Il diamante
che recide l’illusione” (Ubaldini Editore, 1995).
Noi utilizzeremo il testo di Osho, molto più vicino al nostro linguaggio, e che non ha “quell’odore di
incenso e di sagrestia buddhista” di cui, a me pare, è intrisa la pagina del maestro vietnamita.
E subito nasce una fondamentale domanda: qual è la vera parola di Buddha? Il Sutra già ci dà una prima
risposta o almeno ci spinge a una riflessione su un tema molto profondo.
L’opera, infatti, come le altre attribuite a Shakyamuni, inizia con “Una volta ho udito questo” e non con il
più classico “Il Buddha disse”.
Ci sono più letture di un incipit del genere: (1) chi ha trascritto (credo Ananda) non era sicuro di aver
capito bene; (2) la parola del Maestro non era facile da comprendere e da trascrivere (non c’erano
registratori all’epoca!); (3) quello che il Buddha disse, solo il Buddha lo sa.

È una dimostrazione di sincerità e di prudenza, ma non solo. Può essere letta, e io penso così, come il
primo insegnamento del Sutra, molto sottotraccia: la verità non può essere trasmessa attraverso la parola,
il detto, men che mai lo scritto, anche se hai davanti il fondatore del buddhismo (che poi non lo è stato,
come lui stesso dirà più avanti) o, come nel nostro fortunatissimo caso, l’autore del koan che si sta
praticando!

La verità si rispecchia “da mente a mente”, dalla mente del Maestro a quella del discepolo, senza
mediazioni, senza supporti, senza memoria, senza storia, senza nessun copia&incolla mistico: la verità è
come la luce del sole, che è sempre la stessa e, sono parole del Maestro Taino, “illumina indifferentemente
chi arriva in cima e chi rimane in valle”.
E dove si ha questa trasmissione-non trasmissione? e dove mai… se non nella stanza del sanzen, dove
Maestro e discepolo si incontrano per lo studio del koan, quel luogo altro nel quale la verità viene alla luce
senza alcuna origine, alcuna direzionalità, il discepolo “scopre” che la propria comprensione è la stessa di
quella del Maestro, e non c’è niente da dire, niente da fare, se non gassho al Maestro.

Veniamo al testo, che girerà sostanzialmente tutto intorno a questo tema: come addestrare la mente per
poter generare la più alta e completa mente risvegliata.

Si inizia con dettagli della vita quotidiana del Buddha:


Una volta ho udito questo. Il Signore soggiornava a Sravasti. Di primo
mattino il Signore si vestì, mise il mantello, prese la sua ciotola ed entrò
nella grande città di Sravasti per raccogliere elemosina. Quando ebbe
mangiato e fu tornato dal suo giro, il Signore ripose la ciotola e il mantello,
si lavò i piedi e si sedette sul seggio preparato per lui, incrociò le gambe,
tenendo la schiena eretta, attento, puntando tutta l’attenzione davanti a
sé. Allora molti monaci si avvicinarono al luogo in cui il Signore si trovava,
chinarono le teste ai suoi piedi, fecero tre giri intorno a lui procedendo verso
destra e si sedettero da un lato.
La descrizione così dettagliata di cosa ha fatto il Buddha quella mattina prima di iniziare a parlare ha
probabilmente lo scopo di ricordare al lettore il lato “umano” del Buddha, al fine di evitare ogni
sacralizzazione, ogni deizzazione, più o meno camuffata (tentativo, come si sa, completamente fallito, se
pensiamo alla realtà buddhista dei nostri giorni) .
Ogni comunità mistica ha dovuto affrontare questo tema. La centralità del primo Maestro, fondamentale
allo stato nascente e anche dopo, deve a un certo punto essere trascesa, attraverso il rispecchiamento da
mente a mente, quello che consente di mantenere eternamente vivo e sempre nuovo il messaggio dello
Zen; da un centro-origine a una pluralità di centri-origine: non è un passaggio facile, tutt’altro, è periglioso e
doloroso, l’abbandono simbolico del Padre spirituale è ostico per chiunque, ma ben guidato e vissuto con
purezza di cuore può davvero portare la primavera in tutto il mondo.

È possibile anche che il Sutra voglia richiamare l’attenzione del lettore su come il Buddha si comportava
nella vita di tutti i giorni, di come si prendeva cura del proprio corpo e di come dava testimonianza della sua
umiltà, andando a chiedere l’elemosina (non diverso in questo dall’insegnamento di Francesco d’Assisi); ma
anche sull’attenzione e sulla consapevolezza che guidavano ogni sua azione, non diversamente da ogni
praticante la Via della spiritualità.
il Signore ripose la ciotola e il mantello, si lavò i piedi e si sedette sul seggio
preparato per lui, incrociò le gambe, tenendo la schiena eretta, attento,
puntando tutta l’attenzione davanti a sé.

Lo faceva il Buddha, perché non dovremmo farlo noi, siamo d’accordo?


Il Sutra prosegue con le manifestazioni di rispetto dei monaci lì presenti, che avrebbero fatto tre giri
intorno a lui, probabilmente per simboleggiare i tre corpi, le tre dimore nelle quali l’ordinato prende rifugio:
il Buddha, il Sangha, il Dharma… perché verso destra francamente non lo so, ma è una precisazione che fa
sorridere (forse erano mille e allora ci voleva un po’ d’ordine!).
E finalmente Subhuti piazza la prima grande domanda:
“È meraviglioso, o Signore, è incommensurabilmente meraviglioso. O Bene-
andato, quanto i Bodhisattva, i grandi esseri, siano stati aiutati dall’ausilio
immenso del Tathagata! Allora, o Signore, uno che sia entrato nel veicolo-
del-Bodhisattva, come dovrebbe resistere, come dovrebbe progredire, come
dovrebbe controllare i pensieri?
Sulle domande poste dai discepoli ai Maestri, e relative risposte, gli aneddoti sono infiniti e molti hanno
generato koan fondamentali per il progresso della parte tecnica della pratica. Nello Zen si è talmente
sviscerato il tema, a ogni latitudine e in ogni tempo, da aver, si può dire, sperimentato ogni possibile; ci
sono finanche delle istruzioni di una anagrafe prestigiosa, il Sesto Patriarca che dice
Se, nel porvi domande, qualcuno vi interroga sull’essere, rispondetegli con il
non essere. Se vi interroga sul non-essere, parlategli dell’essere. Se vi fa
domande sull’uomo comune rispondetegli parlandogli del saggio, eccetera.
Qui il dialogo rimarrà sempre molto formale e colmo di rispetto da parte di Subhuti; anche il Buddha non
lascerà toni e stili molto ieratici; non c’è niente della tensione quasi esplosiva che caratterizza i dialoghi zen
oggetto dei koan, e vedrete che tra un po’ ci mancheranno!
Chiariamo intanto il significato della parola Bodhisattva: si intendono gli esseri che hanno percorso la Via,
hanno realizzato la propria natura e per scelta continuano a darsi da fare affinché anche chi gli sta intorno
possa liberarsi.
Non è molto chiaro che cosa farebbero gli altri, cioè quelli che hanno capito quello che c’è da capire, non
si fermano nel mondo ma “vanno oltre”… vanno dove? Passano a miglior vita? Si ritirano in un monte
sperduto e non vedono più nessuno fino a che muoiono, o che altro?
Osho dà un’interpretazione interessante, ma piuttosto discutibile, dicendo
Bodhisattva è uno che tenta di rimanere un po’ più a lungo a novantanove
gradi in modo da poter aiutare la gente, spinto dalla compassione. Perché
una volta varcati i cento gradi, sarà andato oltre…quell’uno per cento li
tiene legati, collegati agli altri.
Non ci facciamo distrarre troppo da distinzioni del genere (illuminato, bodhisattva, arhat, ecc.); sono
concetti e formule del buddhismo antico o comunque del mondo spirituale che ha prodotto le prime otto
stazioni dei Tori; l’evoluzione successiva, quella straordinaria e rivoluzionaria della nona e della decima
stazione, non è patrimonio della mente del Buddha Shakyamuni.
Una volta che dall’abisso insondabile del nulla (l’ottava) emerge, nella sua misteriosa e meravigliosa
bellezza, il ramo fiorito e, poi, quando segue a questa scoperta l’ultimo quadro, la piazza del paese, che
senso possono ancora avere le distinzioni tra un buddha, un illuminato, un bodhisattva, l’andare all’altra
riva, eccetera eccetera?

Una volta che abbiamo compreso il MU, che siamo diventati MU, e poi U, e poi il vento, il sole e l’acqua, la
campana e la bandiera, il lago e il monte e il fiume, possiamo abbandonare a loro stesse tutte queste
distinzioni religiose, sapendo che un solo grido di Kwatz! ha in sé il sermone eterno di ogni Illuminato.
Riprendiamo la lettura che il tempo corre:

O Bene-andato, quanto i Bodhisattva, i grandi esseri, siano stati aiutati


dall’ausilio immenso del Tathagata! Allora, o Signore, uno che sia entrato
nel veicolo-del-Bodhisattva, come dovrebbe resistere, come dovrebbe
progredire, come dovrebbe controllare i pensieri?

Sembra che Subhuti voglia chiedere istruzioni su come riuscire a stare ancora nel mondo, a resistere alle
tentazioni di saltare in questa benedetta altra sponda, di come riuscire ancora a progredire spiritualmente,
a controllare i pensieri.
La risposta di Buddha non è di quelle più digeribili!
“Qualcuno che abbia scelto di entrare nel veicolo di un Bodhisattva
dovrebbe formulare un pensiero in questo modo: “Tanti quanti sono gli
esseri esistenti nell’universo degli esseri, e siano compresi nel termine
“esseri”, io devo condurli tutti al Nirvana, in quel regno del Nirvana che non
lascia nulla dietro di sé. E tuttavia, sebbene innumerevoli esseri vengano
così condotti al Nirvana, nessun essere sarà stato condotto al Nirvana”. E
perché? Se in un Bodhisattva trovasse posto il concetto di un ‘essere’ egli
non potrebbe essere definito un Bodhisattva. E perché? Non deve essere
definito essere-di-Bodhi colui nel quale trovi posto il concetto di un sé o di
un essere, o il concetto di un’anima vivente o di una persona”.
Qui il Buddha comincia a utilizzare un modulo, una struttura dialettica che ci accompagnerà per gran
parte del testo: l’azione A deve essere compiuta per giungere al risultato B; nel momento in cui si raggiunge
B, si scopre che non lo si poteva raggiungere: i Bodhisattva hanno come volontaria mission il salvare tutti gli
esseri e condurli al Nirvana, cioè all’illuminazione (A). Fatto questo (B), si scopre che nessun essere poteva
essere condotto al Nirvana (non A e non B) .
E perché? Se in un Bodhisattva trovasse posto il concetto di un ‘essere’ egli
non potrebbe essere definito un Bodhisattva. E perché? Non deve essere
definito essere-di-Bodhi colui nel quale trovi posto il concetto di un sé o di
un essere, o il concetto di un’anima vivente o di una persona”.
E qui si comincia a suonare la musica che ci accompagnerà per tutto il Sutra; fino a quando non avremo
abbandonato il concetto di essere, di essenza, di sostanza irriducibile, finché crediamo che c’è un qualcosa
che caratterizza un essere dall’altro, che c’è un qualcosa di stabile, e immutabile che fa la montagna una
montagna, e la fa diversa dal fiume, cioè fino a quando crederemo che il Tutto è costituito dai Molti, distinti
e separati, e non anche dall’Uno, non potremo mai accedere alla comprensione finale.
Solo quando voleremo nel gorgo del nulla e sapremo simultaneamente saltarne fuori, cioè quando
passeremo uno dei koan più importanti della fase 1 e cioè
Nell’Uno ci sono i molti, nei molti c’è l’uno

le parole del Buddha avranno la chiarezza dell’acqua pura.


Ci potrebbe essere ancora molto da dire sulle parole finali della terza parte
Non deve essere definito essere-di-Bodhi colui nel quale trovi posto… il
concetto di un’anima vivente o di una persona”.
perché si prestano a molteplici interpretazioni, in particolare se ci si riferisce solo agli esseri animati (dalle
piante, agli animali, agli uomini) oppure se in realtà ci si vuol riferire a tutti gli enti del Tutto, animati o
meno.
E una interpretazione o l’altra potrebbe, nel suo piccolo, avere anche delle ricadute nel Reale perché se
discriminiamo tra elementi umani e non-umani finiamo per surriscaldare il pianeta e inquinare mari e fiumi;
problemi che all’epoca del Buddha ancora erano lontani da venire, ma non certo perché si stava meglio,
tutt’altro, la vita media pare non superasse i 40 anni.
Chiudiamo qui, con questa prima puntata del Sutra del Diamante che, come noi, è in fase di
riscaldamento.
Portiamoci, però, a casa, stasera, l’immagine del fiume mistico e facciamola fluttuare liberamente nella
nostra mente: se non c’è alcun essere da salvare, non vi è nessuna riva a cui portare alcunché: un fiume con
una sola riva! Interessante…
Vi leggo la chiusura del teisho del maestro Taino sulla poesia di Richelmy, “Frammento sulla vita futura”
(da I koan delle poesie, 2014, pag. 34)
… se si accede al tempo eterno [quello] che fa dire al maestro che i
fiori della montagna sono un tappeto colorato, in quel momento si
potrà vedere scorrere il tempo del calendario con tranquillità. È
come se stessimo su una barca sul fiume: il fiume si muove, la barca
pure, ma noi siamo fermi all’interno della barca.
Come fosse un fiume, facciamo scorrere dentro le nostre vene il “Sutra del Diamante”; sono 2500 anni
che viaggia, forse è un po’ stanco, ma ha ancora l’energia per tagliare la cima che lega la barca alla riva e
dolcemente portarla al “lo gran mar dell’essere”.
IL SUTRA DEL DIAMANTE
Parti 4 – 5 - 6
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Una volta ho udito questo. Il Signore soggiornava a Sravasti. Di primo mattino il Signore si vestì, mise il mantello, prese la sua ciotola ed entrò nella
grande città di Sravasti per raccogliere elemosina. Quando ebbe mangiato e fu tornato dal suo giro, il Signore ripose la ciotola e il mantello, si lavò i
piedi e si sedette sul seggio preparato per lui, incrociò le gambe, tenendo la schiena eretta, attento, puntando tutta l’attenzione davanti a sé. Allora
molti monaci si avvicinarono al luogo in cui il Signore si trovava, chinarono le teste ai suoi piedi, fecero tre giri intorno a lui procedendo verso destra
e si sedettero da un lato.
In quel momento il venerabile Subhuti raggiunse quell’assemblea e si sedette. Poi si alzò dal suo posto, gettò su una spalla il mantello, piegò il
ginocchio destro a terra, si inchinò a mani giunte verso Buddha e disse al Signore: “È meraviglioso, o Signore, è incommensurabilmente
meraviglioso. O Bene-andato, quanto i Bodhisattva, i grandi esseri, siano stati aiutati dall’ausilio immenso del Tathagata! Allora, o Signore, uno che
sia entrato nel veicolo-del-Bodhisattva, come dovrebbe resistere, come dovrebbe progredire, come dovrebbe controllare i pensieri? Dopo queste
parole, il Signore disse a Subhuti: “Pertanto, Subhuti, ascolta bene e attentamente”.
“Qualcuno che abbia scelto di entrare nel veicolo di un Bodhisattva dovrebbe formulare un pensiero in questo modo: “Tanti quanti sono gli esseri
esistenti nell’universo degli esseri, e siano compresi nel termine “esseri”, io devo condurli tutti al Nirvana, in quel regno del Nirvana che non lascia
nulla dietro di sé. E tuttavia, sebbene innumerevoli esseri vengano così condotti al Nirvana, nessun essere sarà stato condotto al Nirvana”. E
perché? Se in un Bodhisattva trovasse posto il concetto di un ‘essere’ egli non potrebbe essere definito un Bodhisattva. E perché? Non deve essere
definito essere-di-Bodhi colui nel quale trovi posto il concetto di un sé o di un essere, o il concetto di un’anima vivente o di una persona”.

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4
“Un Bodhisattva che offra un dono non dovrebbe essere sostenuto da alcuna cosa, né dovrebbe avere
sostegno in alcun luogo. Il grande essere dovrebbe offrire i suoi doni in modo tale da non essere
sostenuto dal concetto di un segno. E perché? Perché il cumulo dei meriti di quell’essere-di-Bodhi, che
senza alcun sostegno offre un dono, non è facile da misurare”.

5
Il Signore continuò: “Cosa pensi, Subhuti, che il Tathagata possa essere riconosciuto dal possesso dei suoi
contrassegni?”. Sibhuti rispose: “No davvero, o Signore. E perché? Quello che il Tathagata ha insegnato
come il possesso di contrassegni, quello è in verità il non-possesso di non-contrassegni.” Il Signore disse:
“Dovunque ci sia il possesso di contrassegni, là c’è frode; dovunque ci sia il non-possesso di non-
contrassegni, là non c’è frode. Di conseguenza il Tathagata dev’essere riconosciuto dai non-contrassegni
che sono contrassegni.”

6
Subhuti chiese: “Ci saranno degli esseri – in un tempo futuro, negli ultimi momenti, nell’ultima epoca,
negli ultimi cinquecento anni, nel momento del collasso della buona dottrina – che, quando queste parole
del Sutra saranno insegnate, comprenderanno la loro verità?”. Il Signore rispose: “Non parlare così,
Subhuti! Certo, anche allora ci saranno degli esseri che, quando queste parole del Sutra saranno
insegnate, comprenderanno la loro verità. Perché anche in quell’epoca, Subhuti, ci saranno dei
Bodhisattva. E quei Bodhisattva, Subhuti, non saranno tali da aver fatto onore a un singolo Buddha, né
tali da aver affondato le radici dei loro meriti solo sotto un singolo Buddha. Al contrario, Subhuti, quei
Bodhisattva, quando queste parole del Sutra saranno insegnate, scopriranno anche un unico pensiero di
limpida fede, e saranno tali da aver fatto onore a molte centinaia di migliaia di Buddha, come se
avessero affondato le radici dei loro meriti sotto molte centinaia di migliaia di Buddha. Subhuti, il
Tathagata li conosce attraverso la sua conoscenza illuminata; Subhuti, il Tathagata li vede attraverso il
suo occhio di Buddha; al Tathagata essi sono totalmente noti, Subhuti. E tutti loro, Subhuti, genereranno
e acquisiranno un incommensurabile e incalcolabile cumulo di meriti.

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Stasera vediamo i capitoli 4, 5 e 6 del Sutra del Diamante; si entra più nel vivo dell’insegnamento che sta a
cuore del Buddha, e che sviscererà per tutto il sentiero del testo.
Il tema architettonico è in sostanza questo:
non si dovrebbe mai lasciar emergere una mente dimorante;
una mente così non-dimorante si dovrebbe lasciar emergere.

La tendenza naturale della nostra mente è di attaccarsi agli oggetti, nell’accezione più ampia della parola,
da quelli materiali (umani e non) a quelli immateriali; bisogna stare molto attenti alle parole: qui non si
parla tanto dell’attaccamento/desiderio di possesso quale fonte del dolore, del male di vivere, che pure sta
al cuore delle “Quattro Nobili Verità”:
La verità del dolore
La verità dell’origine del dolore
La verità della cessazione del dolore
La verità della via che porta alla cessazione del dolore

quanto di una caratteristica ancor più primaria della nostra mente, che fin dalle scuole di buddhismo più
antiche è stata bollata come ”l’abitudine del mondo”: quella di attribuire a tutto quello con cui entriamo in
relazione una propria essenza stabile, auto-sussistente e permanente.
Un’abitudine, come ovvio, che costituisce la “certezza” assolutamente necessaria della vita ordinaria, quella
di tutti i giorni, in assenza della quale l’intero nostro mondo si sgretolerebbe e tutto cadrebbe in un casino
assoluto; ma che, secondo il buddhismo, e secondo lo Zen, è semplicemente una (delle due) forme del
mondo.
Non crediate che si tratti di un tema da mistici ricercatori del sesso degli angeli, tutt’altro: siamo al cuore
della nostra pratica, tant’è che ci sono anche specifici koan che spingono a lavorare spiritualmente su
questo problema cruciale, in particolare questo che fa parte della fase 1:
Una volta un alto funzionario teneva una conversazione con Nan Sen e osservò: “Seng Chao
disse una volta: “Il cielo e la terra (vale a dire l’intero universo) sono della sola e identica
radice del mio sé, e tutte le cose sono una cosa sola con me”. Io lo trovo piuttosto difficile da
comprendere”. Allora Nan Sen, indicando con il dito un fiore sbocciato nel cortile, e
richiamando la sua attenzione su di esso, osservò: “Gli uomini ordinari vedono questo fiore
come se stessero sognando!”.

Mi viene in mente la celebre affermazione di San Paolo (1 Co 15): “Se Gesù non è risorto, è vana la nostra
predicazione ed è vana anche la vostra fede”; mutatis mutandis, se la pratica non giunge a questa somma
esperienza spirituale, a questa realizzazione, a quest’illuminazione, la Via è del tutto ignota e
irraggiungibile.
Non è che la ricerca filosofica occidentale, nel corso dei suoi 2500 anni di sviluppo, non abbia approcciato
questo tema; in tanti hanno riflettuto sul fatto che parliamo de “il colore della sedia” intendendo che
questo colore sia definibile in ogni luogo e per tutti, ma che appena lo esaminiamo a fondo, ci accorgiamo
che non è così e cioè che ogni osservatore lo vede in realtà in modo diverso e se poi prendiamo il
microscopio elettronico o addirittura un acceleratore di particelle scopriamo (meglio, ci dicono) che il
“Tutto” è un flusso eternamente dinamico di particelle, e pure autodifeso perché se lo misuriamo lo
alteriamo, e quindi mai sapremo com’è la realtà ultima!
Thich dice “Com’è sbagliata la nostra concezione della forma”: è un’espressione che andrebbe sviluppata
meglio, perché detta così è fuorviante: la percezione di base non è sbagliata, è solo una faccia della
medaglia, l’altra, la faccia della prajna, le coesiste eternamente, in un rapporto “figura-sfondo” che descrive
al meglio possibile l’indescrivibile, che dice, per quanto possibile, “l’indicibile”.
Lo scarto tra la ricerca filosofica e la pratica zen sta nel fatto che, in quest’ultima, come stanno realmente le
cose non viene appreso dall’esterno (quale che sia: libro, maestro, tradizione, ecc.) ma realizzato dal
praticante stesso, “visto” spiritualmente nella più totale autonomia, attraverso l’emersione della prajna,
“della conoscenza trascendente o non-discriminante”, il cui succo leggiamo alla fine di ogni nostra sesshin.
E questa “visione” è il vedere, potremmo dire, la realtà nuda e cruda, senza i veli della nostre strutture
percettive/interpretative ordinarie, là dove soggetto e oggetto si svelano indissolubilmente intrecciati e,
quando osservati con l’occhio spirituale, eternamente saltanti tra l’essere e il nulla.
Essendo, il “Sutra del Diamante”, un testo religioso, e parlando di come un Bodhisattva, cioè di una sorta di
quasi santo buddhista, debba comportarsi nel mondo, il tema fondamentale di cui abbiamo ora detto viene
indagato analizzando specifici comportamenti; e si inizia con la generosità, su come praticarla alla luce della
consapevolezza della non consistenza delle cose; dice Buddha:
“Poiché un Bodhisattva che offra un dono non dovrebbe essere sostenuto da alcuna cosa, né
dovrebbe avere sostegno in alcun luogo. Il grande essere dovrebbe offrire i suoi doni in
modo tale da non essere sostenuto dal concetto di un segno. E perché? Perché il cumulo dei
meriti di quell’essere-di-Bodhi, che senza alcun sostegno offre un dono, non è facile da
misurare”.

Qui “segno” è probabilmente traducibile come “motivo”, “ragione”, scopo”, “interesse”. Due sono i profili
interpretativi di un passo del genere:
 Il primo, più metafisico, e cioè che non essendovi in essenza, per quanto detto prima, né il donatore, né
il dono, né il ricevente, o ancor meglio essendo fondamentalmente un tutt’Uno, perde ogni senso ogni
distinzione, il dono è fatto a se stessi, dare è ricevere;
 Il secondo, più immanente, più vicino alla nostra vita quotidiana, è che si suggerisce semplicemente di
fare, per quanto possibile, il bene, di essere generosi senza contropartita, di non fare, per quanto
possibile, il male, senza rimorsi e senza rimpianti, senza sperare in alcuna ricompensa, perché samsara
è nirvana, e nirvana è samsara. Il caso n. 1 della Raccolta della Roccia “Il Significato Supremo delle
Sante Verità”, che fra l’altro fa parte della prima fase del sistema koan, è molto chiaro al riguardo:
L’imperatore chiese a Bodhidharma: “Qual è il significato supremo delle sante verità”.
Bodhidharma disse: “Vuote, senza santità”. L’imperatore disse: “Chi mi sta di fronte?”.
Bodhidharma rispose: “Non lo so”.

L’idea di Shakyamuni è che la generosità senza un fine, spontanea, naturale, ha una potenza liberante senza
limiti, e se ci pensiamo bene è proprio così. E non certo perché “accumula meriti”, che è una sciocchezza
bella e buona, ma perché, come disse una volta Benigni, quando dal pianto nasce il riso, si spalanca davvero
il cielo e la terra. Dare senza residui, “l’unico nostro possesso” dirà Jung, senza attese, senza alcun merito
futuro, rende l’atto generoso un atto assoluto, un atto eterno, fosse anche scansare, quando capita, una
formica mentre stiamo camminando (e questo pur sapendo di essere Uno con l’universo tutto!).
È difficilissimo essere generosi senza alcun tipo di contropartita… basta pensare al prossimo Giubileo o
anche alle adozioni a distanza in cui i donanti chiedono il nome del bambino adottato, la fotografia, in
qualche modo il curriculum!
Il testo prosegue su come riconoscere la presenza di un Buddha, se ci sono segni che lo rivelino.
Il Signore continuò: “Cosa pensi, Subhuti, che il Tathagata possa essere riconosciuto dal
possesso dei suoi contrassegni?”. Sibhuti rispose: “No davvero, o Signore. E perché? Quello
che il Tathagata ha insegnato come il possesso di contrassegni, quello è in verità il non-
possesso di non-contrassegni.” Il Signore disse: “Dovunque ci sia il possesso di contrassegni,
là c’è frode; dovunque ci sia il non-possesso di non-contrassegni, là non c’è frode. Di
conseguenza il Tathagata dev’essere riconosciuto dai non-contrassegni che sono
contrassegni.”

La prima reazione a un passaggio del genere sarebbe di chiudere il libro e passare ad altro, tanto la
cripticità del testo fa di tutto per allontanare il lettore, anche ben disposto. Naturalmente non si può
pretendere che il Buddha rispetti le regole del corretto parlare in pubblico, anche perché all’epoca non
c’erano!, ma è indubbio che questo modo di esprimersi sembra fatto proprio per allontanare ogni
destinatario che, in teoria, è l’umanità intera, di ieri, di oggi e di domani.
Per esempio: il passaggio
Quello che il Tathagata ha insegnato come il possesso di contrassegni, quello è in verità il
non-possesso di non-contrassegni.

in italiano, per quel che posso capire io, suona quasi incomprensibile, se non addirittura logicamente
sbagliato (due negazioni affermano, ma forse qui la regola non vale!); e non è un problema da poco: Osho
dice che Buddha parla ad altezze tali che lì ogni cosa diventa contraddittoria e che la contraddizione diventa
l’unica espressione; può darsi, come pure ci sta che parlando a una comunità di monaci, alcuni addirittura
dei bodhisattva, in qualche modo dei professionisti, lui potesse utilizzare un registro linguistico d’elite e una
semantica evoluta senza creare problemi all’assemblea.
Resta il fatto che si tratta di un messaggio che non ha in sé la capacità di parlare a tutti gli esseri e questo è
un limite non indifferente; se pensiamo a cosa avrebbe detto Gesù solo 600 anni dopo, ci rendiamo conto
di quanto una qualsiasi parabola, pur nella sua ambiguità (che è poi la sua forza!), abbia una capacità
infinitamente superiore di arrivare al cuore degli umani. E lo stesso vale per Meister Eckhart che aveva tra i
suoi uditori più che altro contadine e beghine di pochissima cultura in genere, e praticamente nessuna
formazione teologica, ma che “sentivano” fortissime le parole del maestro domenicano del 1300’. Per non
parlare del nostro Sistema Koan, in particolare nella sua parte moderna, che ha ancor di più la forza di
trattare temi e problemi con la semplicità che viene dalla perfetta comprensione del Reale.
In ogni modo, siamo di fronte al primo dei due punti realmente importanti della parte di stasera e ha a che
fare con la presenza del maestro, del suo mostrarsi, dell’apparire o meno della sua natura di illuminazione e
della capacità/possibilità dei discepoli di accorgersene.
La tesi di Buddha è che ovunque vi siano segni, lì c’è frode, c’è inganno, il che è poi in prima battuta giusto e
condivisibile.
Valutare il suo cranio rasato, la sua veste, come cammina, come parla e poi confrontarlo con quello di altri
maestri non appare il metodo migliore, anche se è seguitissimo nel mondo della spiritualità di oggi e la
comunità buddhista non fa per niente eccezione!
Ci sono anche importanti koan che accennano a questo tema, sia della tradizione sia del maestro Taino; vi
leggo il caso n. 72 dello Zenshin Roku “Chi ce l’ha e chi no”:
Una madre, che aveva praticato il disegno per tanti anni (finalmente si parla di un’artista), e
lo aveva insegnato alle proprie figlie, decise di andare da un grande maestro per capire se
esse avevano delle qualità (almeno s’evita di sprecare carta e colori). Le ragazze rimasero
per qualche ora a disegnare col maestro. Alla fine egli disse alla madre ( la sentenza): “La
piccola ce l’ha, ma la più grande no (dov’è che ha sbagliato?)”.
2500 anni fa il vecchio
disse che ce l’hanno tutti.
ma avercelo o non
avercelo cosa cambia?

Bisogna sviluppare un occhio capace di trascendere ogni segno, ogni caratteristica esteriore, ogni discorso o
atteggiamento, capace di sentire con il cuore se chi si ha di fronte
non giunge da nessun luogo e non va in nessun luogo e non mostra alcun segno del venire e
alcun segno dell’andare, alcun segno dell’essere e alcun segno del non essere, alcun segno di
nascita e alcun segno di morte.

senza trascurare la provocazione della poesia del koan…!


C’è un pensiero del maestro Taino - in chiusura del teisho sulla poesia n. 16 del libro “I koan delle poesie”
(“Ed è subito sera” di Salvatore Quasimodo) - che può aiutarci a gettare un po’ di luce profonda sul tema
Attenti, come nelle calligrafie dei grandi maestri ci vuole un occhio da raggi x per vedere se
una calligrafia proviene dal satori o dalla tecnica. È impeccabile chi sa guardare con un tale
sguardo.
In ogni modo, anche senza i raggi x, credo si possa dire senza timore di sbagliare che l’assenza di
atteggiamenti “da essere superiore” e con il mondo in gran dispetto, l’assenza, o quasi, di ogni forma di
narcisismo, anche testamentario, l’assenza di qualsiasi “interesse”, da quello più squisitamente materiale a
quello dell’esercizio del potere, l’assenza di una corte di adoranti discepoli/servitori più che altro del sesso
gradito, l’assenza di qualsiasi azione diretta a “vendere” il prodotto al mercato dello spirito…
predispongono bene per ritenere di essere di fronte a un possibile maestro di spiritualità: naturalmente
non basta, perché si è maestri se si è capaci di insegnare, cioè di indicare la Via, ma se queste
caratteristiche generali non ci sono… forse è meglio cambiare sentiero!
La terza parte del discorso con la quale chiudiamo il teisho di stasera, che poi è la n. 6, dice

Subhuti chiese: “Ci saranno degli esseri – in un tempo futuro, negli ultimi momenti,
nell’ultima epoca, negli ultimi cinquecento anni, nel momento del collasso della buona
dottrina – che, quando queste parole del Sutra saranno insegnate, comprenderanno la loro
verità?”. Il Signore rispose: “Non parlare così, Subhuti! Certo, anche allora ci saranno degli
esseri che, quando queste parole del Sutra saranno insegnate, comprenderanno la loro
verità. Perché anche in quell’epoca, Subhuti, ci saranno dei Bodhisattva. E quei Bodhisattva,
Subhuti, non saranno tali da aver fatto onore a un singolo Buddha, né tali da aver affondato
le radici dei loro meriti solo sotto un singolo Buddha. Al contrario, Subhuti, quei Bodhisattva,
quando queste parole del Sutra saranno insegnate, scopriranno anche un unico pensiero di
limpida fede, e saranno tali da aver fatto onore a molte centinaia di migliaia di Buddha,
come se avessero affondato le radici dei loro meriti sotto molte centinaia di migliaia di
Buddha. Subhuti, il Tathagata li conosce attraverso la sua conoscenza illuminata; Subhuti, il
Tathagata li vede attraverso il suo occhio di Buddha; al Tathagata essi sono totalmente noti,
Subhuti. E tutti loro, Subhuti, genereranno e acquisiranno un incommensurabile e
incalcolabile cumulo di meriti.

Ci sarebbero molti punti da approfondire; vediamone due:


 Il primo è la preoccupazione di Subhuti sul rischio che l’insegnamento di Buddha possa non
resistere al tempo, che passati 500 anni vi possa essere la sua scomparsa; di anni ne sono passati 2500
e non paiono esserci rischi in questo senso; la preoccupazione però è comprensibile, non
dimentichiamoci che loro erano all’inizio dell’avventura; questo passo mi ha fatto tornare in mente una
frase che lessi in un notiziario di Scaramuccia uno dei primi anni in cui mi avvicinai alla pratica, a fine
degli anni 80’; una frase che mi impressionò moltissimo; Taino scrisse (più o meno!):
a volte mi chiedono se lo Zen sopravviverà ai tempi futuri… sarebbe come chiedersi se nel futuro
ci sarà il vento!

È un pensiero profondo, e che andrebbe sviscerato nei suoi probabili molti significati, ma che ci svela,
secondo me, la posizione Zen: quando noi comprendiamo il MU, diventiamo il MU, e con il MU
realizziamo la nostra comune natura con tutto quello che c’è ora nell’universo, e che c’era anche prima
e che anche ci sarà nel futuro, in quell’istante si squaderna di fronte al nostro occhio spirituale “il volto
originario che avevamo prima che nascessero i nostri genitori”, intuiamo la nostra natura eterna,
l’eternità del momento in cui ci troviamo, un istante che ricapitola e concentra in sé l’eterno passato e
l’eterno futuro, e insieme l’insussistenza di ambedue; ha scritto Taino:
La vita è davanti ai nostri occhi senza attaccamenti pur nell’impermanenza che incombe. Non si
può fare il pupazzo di neve con i nipoti solo perché quando loro non ci saranno si scioglierà e io
sarò triste a questa visione. Quando faccio il pupazzo ho la gioia di stare a farlo con i nipoti
sapendo che la vita andrà ancora avanti quando si sarà squagliato. Pur essendo presi dalla
malinconia che prende nel vedere il disfacimento dell’esistenza, possiamo conviverci perché
sappiamo che siamo eterni e non dipendiamo dall’impermanenza. Si deve solo riuscire a
realizzare l’assoluto per vivere impeccabili nell’impermanenza.

Compreso questo, ogni domanda sul futuro della pratica, come sul futuro di ognuno di noi, perde ogni
senso e non c’è da far altro che… viverci questa commedia da attori e spettatori, quali siamo, sostenuti
dalla fiducia indistruttibile che “il mondo è perfetto così com’è”; questa posizione è all’opposto di quella
di (quasi) tutti i grandi maestri di spiritualità, incapaci di autotrascendersi, incapaci di non pensarsi; lo
stesso Osho dice:
Voi siete la gente di cui Buddha ha parlato. Voi siete la gente su cui io faccio affidamento. La
ruota del Dhamma si è fermata: essa deve essere messa in movimento di nuovo [ndr, ma quando
mai!].

 Il secondo è l’attribuzione a un Buddha di qualità straordinarie tipo vedere nel futuro; per Thich si
vuol dire che
se una persona ha fiducia in questi insegnamenti, anche per un solo secondo, il Buddha la vede e
la conosce. Essere visti e conosciuti dal Buddha è di grande ispirazione e sostegno per chiunque si
trovi sul sentiero della pratica. Avere un amico intimo che ci capisce e conosce le nostre
aspirazioni ci fa sentire incoraggiati. Un buon amico non deve fare molto. Non deve fare altro
che vederci e conoscerci per quello che siamo, e subito ci sentiamo molto aiutati. Che dire poi, se
il nostro amico è Buddha”.

Beh! se non è catechismo… ci siamo vicini! Il Sangha è importante, non c’è dubbio, il nostro Maestro è
fondamentale… ma stiamo bene attenti: vediamo il linchiano “Vero Uomo al di sopra di tutte le
categorie” e non avremo poi bisogno di Buddha, di Maestri e di veggenti, che altro non sono che quella
celebre zattera di cui pure parlò il grande Shakya: anche lo Zen, come ogni società evoluta, non ha
bisogno di eroi, di martiri e di maghi.
Finiamo qui: tra poco più di due ore leggeremo la Prajna Paramita; c’è tutto in quelle magiche frasi, ognuna
delle quali si autoannulla: è un po’ come moltiplicare uno per zero e sommarci poi un altro uno per zero e
così via, all’infinito: anche se l’operazione dura da sempre e per sempre, dove si va a finire lo sappiamo già
ora.
DAL “SUTRA DEL DIAMANTE”
Parti 7 - 8 - 9
*******
Parti 1 - 6
Una volta ho udito questo. Il Signore soggiornava a Sravasti. Di primo mattino il Signore si vestì, mise il mantello, prese la sua ciotola ed entrò nella
grande città di Sravasti per raccogliere elemosina. Quando ebbe mangiato e fu tornato dal suo giro, il Signore ripose la ciotola e il mantello, si lavò i
piedi e si sedette sul seggio preparato per lui, incrociò le gambe, tenendo la schiena eretta, attento, puntando tutta l’attenzione davanti a sé. Allora
molti monaci si avvicinarono al luogo in cui il Signore si trovava, chinarono le teste ai suoi piedi, fecero tre giri intorno a lui procedendo verso destra
e si sedettero da un lato.
In quel momento il venerabile Subhuti raggiunse quell’assemblea e si sedette. Poi si alzò dal suo posto, gettò su una spalla il mantello, piegò il
ginocchio destro a terra, si inchinò a mani giunte verso Buddha e disse al Signore: “È meraviglioso, o Signore, è incommensurabilmente
meraviglioso. O Bene-andato, quanto i Bodhisattva, i grandi esseri, siano stati aiutati dall’ausilio immenso del Tathagata! Allora, o Signore, uno che
sia entrato nel veicolo-del-Bodhisattva, come dovrebbe resistere, come dovrebbe progredire, come dovrebbe controllare i pensieri? Dopo queste
parole, il Signore disse a Subhuti: “Pertanto, Subhuti, ascolta bene e attentamente”.
“Qualcuno che abbia scelto di entrare nel veicolo di un Bodhisattva dovrebbe formulare un pensiero in questo modo: “Tanti quanti sono gli esseri
esistenti nell’universo degli esseri, e siano compresi nel termine “esseri”, io devo condurli tutti al Nirvana, in quel regno del Nirvana che non lascia
nulla dietro di sé. E tuttavia, sebbene innumerevoli esseri vengano così condotti al Nirvana, nessun essere sarà stato condotto al Nirvana”. E
perché? Se in un Bodhisattva trovasse posto il concetto di un ‘essere’ egli non potrebbe essere definito un Bodhisattva. E perché? Non deve essere
definito essere-di-Bodhi colui nel quale trovi posto il concetto di un sé o di un essere, o il concetto di un’anima vivente o di una persona”. 4
“Poiché un Bodhisattva che offra un dono non dovrebbe essere sostenuto da alcuna cosa, né dovrebbe avere sostegno in alcun luogo. Il grande
essere dovrebbe offrire i suoi doni in modo tale da non essere sostenuto dal concetto di un segno. E perché? Perché il cumulo dei meriti di
quell’essere-di-Bodhi, che senza alcun sostegno offre un dono, non è facile da misurare”. Il Signore continuò: “Cosa pensi, Subhuti, che il Tathagata
possa essere riconosciuto dal possesso dei suoi contrassegni?”. Sibhuti rispose: “No davvero, o Signore. E perché? Quello che il Tathagata ha
insegnato come il possesso di contrassegni, quello è in verità il non-possesso di non-contrassegni.” Il Signore disse: “Dovunque ci sia il possesso di
contrassegni, là c’è frode; dovunque ci sia il non-possesso di non-contrassegni, là non c’è frode. Di conseguenza il Tathagata dev’essere riconosciuto
dai non-contrassegni che sono contrassegni.” Subhuti chiese: “Ci saranno degli esseri – in un tempo futuro, negli ultimi momenti, nell’ultima epoca,
negli ultimi cinquecento anni, nel momento del collasso della buona dottrina – che, quando queste parole del Sutra saranno insegnate,
comprenderanno la loro verità?”. Il Signore rispose: “Non parlare così, Subhuti! Certo, anche allora ci saranno degli esseri che, quando queste
parole del Sutra saranno insegnate, comprenderanno la loro verità. Perché anche in quell’epoca, Subhuti, ci saranno dei Bodhisattva. E quei
Bodhisattva, Subhuti, non saranno tali da aver fatto onore a un singolo Buddha, né tali da aver affondato le radici dei loro meriti solo sotto un
singolo Buddha. Al contrario, Subhuti, quei Bodhisattva, quando queste parole del Sutra saranno insegnate, scopriranno anche un unico pensiero di
limpida fede, e saranno tali da aver fatto onore a molte centinaia di migliaia di Buddha, come se avessero affondato le radici dei loro meriti sotto
molte centinaia di migliaia di Buddha. Subhuti, il Tathagata li conosce attraverso la sua conoscenza illuminata; Subhuti, il Tathagata li vede
attraverso il suo occhio di Buddha; al Tathagata essi sono totalmente noti, Subhuti. E tutti loro, Subhuti, genereranno e acquisiranno un
incommensurabile e incalcolabile cumulo di meriti.

*******
7
Il Signore chiese: “Cosa pensi, Subhuti, che ci sia qualche Dharma che il Tathagata abbia completamente conosciuto
come “la massima, giusta e perfetta illuminazione” o che ci sia qualche Dharma che il Tathagata abbia
dimostrato?” Subhuti rispose: “No, non da come ho capito ciò che il Signore ha detto. E perché? Questo Dharma che
il Tathagata avesse completamente conosciuto o dimostrato non potrebbe essere afferrato, non se ne potrebbe
parlare, esso è né un Dharma, né un non-Dharma. E perché? Perché un assoluto esalta le Persone Sacre”.
8
Il Signore allora disse: “Certo, Subhuti, poiché il Tathagata ha insegnato che i Dharma propri ai Buddha non sono
affatto “Dharma propri ai Buddha”. Ecco perché sono chiamati “i Dharma propri ai Buddha””.
9
Il Signore chiese: “Cosa pensi, Subhuti, che al Vincitore-della-corrente accada di pensare “Io ho raccolto il frutto di
un Vincitore-della-corrente”?” Subhuti rispose: “No davvero, Signore. E perché? Perché, Signore, egli non ha vinto
alcun Dharma. Pertanto viene chiamato Vincitore-della corrente. Egli non ha vinto alcun oggetto visibile, né suoni,
né odori, né sapori, né oggetti tangibili, né oggetti della mente. Ecco perché viene chiamato Vincitore-della-
corrente. O Signore, se a un Vincitore-della-Corrente accadesse di pensare “io ho raccolto il frutto di un Vincitore-
della-corrente”, allora in lui sarebbe presente la padronanza di un sé, la padronanza di un essere, la padronanza di
un’anima, la padronanza di una persona”. Il Signore chiese: “Cosa pensi, Subhuti, che all’Arhat accada di pensare
“Io ho raggiunto lo stato di Arhat?” Subhuti: “No, davvero, Signore. E perché? Perché nessun Dharma viene
chiamato Arhat. Ecco perché egli si chiama Arhat. E perché? O Signore, io sono uno che il Tathagata ha indicato
come il primo fra coloro che dimorano nella pace. O Signore, io sono un Arhat libero dalla cupidigia. E tuttavia, o
Signore, a me non capita di pensare “Io sono un Arhat e sono libero dalla cupidigia”. O Signore, se mi capitasse di
pensare di aver raggiunto lo stato di Arhat, allora il Tathagata non avrebbe dichiarato: “Subhuti, questo figlio di
buona famiglia che è il primo fra coloro che dimorano nella pace, non dimora nella pace, non dimora in alcun luogo,
ecco perché viene chiamato “colui che dimora nella pace, uno che dimora nella pace” “.
*******
Osho, nel commentare il Sutra, racconta una storiella divertente:

Una volta, abitava da me un prete americano, bevitore di whisky, fumatore incallito e


masticatore di popcorn. Vagando nella mia biblioteca, accidentalmente trovò “Il Sutra del
Diamante”! Lo sfogliò solo per dieci-quindici minuti, leggendo qua e là, poi venne da me e
disse: “Quest’uomo, Buddha, dev’essere stato pazzo. E non era pazzo solo lui ma anche i
suoi seguaci lo erano”.

Aggiungendo poi:

“Posso capire il suo giudizio. Buddha sembrerà pazzo anche a voi, perché tenta di dire ciò
che non può essere detto. Tenta di afferrare qualcosa che è essenzialmente elusivo. Di
conseguenza, queste sue affermazioni sembrano davvero strane – sono strane. Sono strane
perché il modo in cui vengono poste e il modo in cui vengono espresse, non è logico. Non ha
alcun senso, quanto meno non in superficie. Se non avete sentito qualcosa dall’aldilà, vi sarà
difficile comprendere cosa stia tentando di fare Buddha. Noi possiamo comprendere solo ciò
che abbiamo sperimentato, se non in toto, almeno in parte. In caso contrario, la nostra
comprensione rimane radicata nella nostra esperienza.”

Magari la storiella Osho l’ha inventata, come pare che facesse spesso! Ma questo è del tutto irrilevante,
come è oggi irrilevante quale può essere stata la sua condotta di vita, che ha generato un’infinità di
polemiche e di critiche (a cominciare dalle Rolls…); quando ci troviamo di fronte a un capolavoro di
Caravaggio, il nostro giudizio sull’opera è influenzato dal fatto che è stato un assassino? Evidentemente no,
ed è giusto così: quel che conta è il dipinto che abbiamo di fronte, che cosa dice al nostro cuore e alla
nostra mente, indipendentemente dal fatto che la mano che teneva il pennello abbia prima o poi
impugnato anche un pugnale o una spada. La vicenda personale dell’autore non ci interessa, men che mai,
quando è diventata “storia”; ci interessa l’opera che ha generato, e che ha una totale indipendenza dal suo
autore. L’importante, quando ci troviamo di fronte a un maestro in carne ed ossa o all’opera di un maestro
del passato, è tenere occhi e orecchi ben aperti, mantenendo sempre una sana, equilibrata, fede scettica;
quel che il Maestro indica è prezioso, ma solo nella misura in cui siamo capaci di viverlo in piena e totale
autonomia, scoprendo, alla fine dei giochi, che la nostra verità è identica alla sua e a quella di tutti i
patriarchi che lo hanno preceduto.

La frase
Se non avete sentito qualcosa dall’aldilà, vi sarà difficile comprendere cosa stia tentando di
fare Buddha. Noi possiamo comprendere solo ciò che abbiamo sperimentato, se non in toto,
almeno in parte. In caso contrario, la nostra comprensione rimane radicata nella nostra
esperienza.”

richiederebbe qualche approfondimento, perché messa così è molto ambigua, in particolare quando parla
dell’aldilà; per un praticante zen – vorrei dire per qualsiasi buddhista, ma sappiamo che non è così – non vi
è alcun aldilà, non vi è nessun assoluto contrapposto al nessun relativo, trascendenza e immanenza
coesistono eternamente intrecciate, fuse e pure distinte.

Pensiamo al celebre koan “Il cipresso nel cortile” che recita così:

Ascoltate! Una volta un monaco domandò a Chao Chou (Joshu) “Dimmi, qual è il significato
dell’arrivo dall’Occidente del Primo Patriarca? Chao Chou rispose “Il cipresso nel cortile”.

Che cosa fa, in buona sostanza, il Maestro per rispondere al discepolo? Tralascia qualsiasi opzione di
risposta logica sul senso di un viaggio di per sé straordinario (dall’India alla Cina, un uomo già anziano,
senza adidas ai piedi, piumini e B&B!) per mettergli immediatamente davanti un ente esterno qualsiasi, qui
un cipresso, perché probabilmente i due erano vicini al giardino del monastero – ma poteva essere, come è
stato in altri casi, qualche etto di stoffa, un ventaglio, un gatto, gli escrementi di un cane, e così via.
E che c’entra il cipresso con il significato del viaggio di Bodhidharma? C’entra eccome, a condizione però di
saper veder bene qual è la natura di quel cipresso nell’istante in cui l’occhio e la voce ma, potremmo dire,
l’intero corpo-mente del Maestro lo mette al centro della scena.
E’ il cipresso della nona stazione dei Tori, quello che è, sì, un cipresso, ma non semplicemente o unicamente
un cipresso. Sulla punta di quell’albero evocato improvvisamente dal Maestro sta l’intero universo
comodamente appoggiato! Le sue radici affondano nell’eterno ora e nell’ubiquo qui! Il Maestro cinese Niu
T’ou Fa Jung (594-657) ha rappresentato così la natura di ogni oggetto del mondo, quella che si svela
quando cade sotto la luce di una mente illuminata:

Vola un granello di polvere, e tutto il cielo è offuscato. Cade una particella di rifiuti, e la terra
intera ne è ricoperta.

Come anche Hung Chih Cheng:

La Realtà non ha alcun proprio aspetto definito; si rivela conformemente alle cose. La
Saggezza non ha alcuna propria conoscenza definita; si illumina in risposta alle situazioni.
Guarda! Il verde bambù è così serenamente verde; il fiore giallo è così intensamente giallo!
Prendi qualsiasi cosa vuoi, e guarda! In ogni piccola cosa ESSO si manifesta così
apertamente.

Le espressioni “La Realtà… si rivela conformemente alle cose” e “Prendi qualsiasi cosa vuoi, e guarda!” sono
il cuore dello Zen. Quando, attraverso (anche) la pratica sistematica dello zazen e lo studio del koan, il
nostro occhio Zen si apre, cioè l’intero nostro corpomente si apre, alla verità del momento, ecco che allora
si comprende il celebre pensiero del fondatore della nostra scuola, il maestro cinese Lin Chi, quando dice:

La Mente-Realtà permea e scorre attraverso l’intero universo ma si realizza nella persona


concreta che ascolta realmente il mio discorso.

Insomma, per concludere quest’avvio del commento delle parti 7, 8 e 9 del Sutra del Diamante,
riprendendo lo spunto da cui siamo partiti, e cioè l’aldilà, dobbiamo stare molto attenti; lasciamo al loro
destino tutti i pensieri umani che immaginano un’altra realtà aldilà del mondo nel quale ci troviamo, che sia
il paradiso cristiano, il nirvana buddhista, l’oltremondo popolato di vergini di quei matti che circolano in
questi giorni intorno a noi! Non vi è niente di metafisico “dietro” a un qualsiasi fenomeno del mondo.
Proprio il contrario: ogni ente del mondo è l’assoluto; quel cipresso “evocato”, “pescato” dall’abisso del
nulla da Joshu, è l’assoluto in quel preciso istante e luogo.

E allora a noi basta (ma non è facile!) guardare il mondo che ci circonda e scoprirne a ogni istante la
paradossale, orrenda, meravigliosa natura paradisiaca: lo possiamo fare proprio ora e qui, nella nostra bella
serra di Pappiana, guardando il tatami su cui si appoggia delicatamente il nostro sguardo quando siamo in
zazen, assaporando il the che tra poco berremo, ascoltando il suono delle nostre scarpe quando faremo
kinhin sui campi qui davanti.

La settima e l’ottava parte del Sutra hanno al loro centro l’ennesima domanda di Buddha a Subhuti:

Il Signore chiese: “Cosa pensi, Subhuti, che ci sia qualche Dharma che il Tathagata abbia
completamente conosciuto come “la massima, giusta e perfetta illuminazione” o che ci sia
qualche Dharma che il Tathagata abbia dimostrato?” Subhuti rispose: “No, non da come ho
capito ciò che il Signore ha detto. E perché? Questo Dharma che il Tathagata avesse
completamente conosciuto o dimostrato non potrebbe essere afferrato, non se ne potrebbe
parlare, esso è né un Dharma, né un non-Dharma. E perché? Perché un assoluto esalta le
Persone Sacre”. Il Signore allora disse: “Certo, Subhuti, poiché il Tathagata ha insegnato che
i Dharma propri ai Buddha non sono affatto “Dharma propri ai Buddha”. Ecco perché sono
chiamati “i Dharma propri ai Buddha””.
Il Buddha tende una trappola a Subhuti spingendolo a
 dare attributi, qualità, all’esperienza dell’illuminazione, come se vi potessero essere più forme di
illuminazione, piccole, medie e grandi, o massime, giuste e perfette;
 affermare che il Buddha ha realmente “insegnato” qualcosa.

Subhuti, forte dell’insegnamento del Buddha stesso contenuto nella Prajnaparamita, non ci casca e nega
ambedue le asserzioni.

Se pensiamo al koan di cui abbiamo detto prima, sarebbe come dire che Joshu ha scelto il cipresso proprio
in quanto cipresso, cioè un particolare tipo di albero, e che se avesse voluto esprimere qualcosa di più
importante avrebbe evocato, che so, una sequoia secolare, oppure, a rovescio, un arbustello selvativo:
evidentemente una sciocchezza totale.

La caratteristica fondamentale di un qualsiasi ente che appare sulla scena del mondo quando è osservato
dall’occhio spirituale dell’Uomo al di sopra di tutte le categorie, è proprio di non avere caratteristiche! È
l’assoluto ordinario, quello che è, in quanto non è. Quel cipresso (quale singolo albero) è il Cipresso (cioè la
totalità) proprio in quanto non è un cipresso (non ha nessuna caratteristica che lo possa imprigionare nella
sua natura ordinaria di cipresso). E allora ecco che il testo può dire:

i Dharma propri ai Buddha (il cipresso) non sono affatto “Dharma propri ai Buddha” (non è
un cipresso). Ecco perché sono chiamati “i Dharma propri ai Buddha”” (il Cipresso).

Da qui la risposta ora chiara di Subhuti sull’inafferrabilità di qualsiasi realtà del mondo, dal bosone di Higgs
all’intero universo, come anche del fondamentale non insegnamento del Buddha stesso.

Inafferrabilità intesa come impossibilità, in quanto non sense, di attribuire una qualsiasi qualità intrinseca,
stabile e consistente, a ogni cosa che ci circonda, noi compresi, ovviamente!

E allora tutto precipita nel gorgo del nulla che, come il pifferaio della celebre fiaba dei fratelli Grimm, si
porta con sé il Buddha e i Maestri, il Dharma e i koan, sciogliendoli nel vuoto silenzio del non io.

Stiamo bene attenti a quanto ci dice il testo; sotto il velame de li versi strani, forse anche ben oltre quanto
l’autore voleva coscientemente dire (perché la metafisica indiana non è arrivata al livello di profondità del
pensiero di Lin Chi), si nasconde il segreto dei segreti, l’ultima parola della Zen; e dobbiamo vigilare anche
perché, come dice un celebre koan che fa parte della nostra tradizione:

Qual è l’ultima parola dello zen?


Se parli 30 bastonate, se non parli 30 bastonate!

Chiudiamo con la nona parte che, pur essendo la più lunga delle tre di stasera, non aggiunge poi molto al
grande tema che il testo ha generosamente inviato ai nostri cuori stasera.

Il Vincitore della corrente, nel linguaggio figurato di Buddha, è colui che ha iniziato la ricerca: ha lasciato la
riva (e non dimentichiamoci che questo particolare fiume mistico ha una sola riva!), intesa come la
posizione statica dell’ignoranza, per scendere in acqua, assumere una posizione dinamica, e scorrere con lei
alla ricerca della verità.

Ed è un abbandono, come possiamo facilmente comprendere, molto doloroso, perché implica il lasciare
sulla sabbia non solo gli abiti, ma anche ogni convinzione, ogni fede, ogni credenza, ancor più se religiosa, e
lasciarsi andare al buio, al silenzio di un fiume che immoto scorre dall’eternità verso l’eternità.

E deve essere un’azione senza residui, senza nessuna idea di merito o di demerito, di premio o di punizione.
E dice il testo con grande efficacia espressiva: bisognerà lasciare anche ogni oggetto, suono, odore, fisico o
mentale; e l’io che vive l’azione – e questo è naturalmente la prova di fuoco che attende ognuno di noi –
deve essere un io/non io che non deve avere alcuna padronanza di un sé, di un essere, di un’anima, di una
persona.

E questo vale per tutti, Buddha e Arhat, Maestri e discepoli, di ogni tempo e di ogni latitudine.

E come si fa? Qualche abito sulla spiaggia lo abbiamo già lasciato, dobbiamo continuare nello streap tease
mistico, non si finisce davvero mai di liberarci, di farci vuoti, e poi ci si butta nell’acqua, magari qualcosa ci
sarà rimasto addosso ma non dobbiamo temer nulla: pian piano, quell’acqua scioglie ogni residuo.

Queste tre parti sono fondamentali e inevitabilmente anche un po’ faticose; per chiudere, stasera vi leggo
un brano che mi piace molto e che ci può dare un’intuizione su una via di ricerca, chiamiamola pure la via
del “confine”, la via del “limite”, verso la quale possiamo indirizzare la nostra mente.

È un brano tratto da una lettera che Giovanni Pascoli scrive al fratello Falino in occasione delle sue nozze;
come consuetudine a quei tempi, il poeta fa stampare, come dono, un opuscolo che raccoglie otto suoi
sonetti, e che è preceduto da questo “accompagnamento”.

Degli anni giovanili che passammo insieme, dolce fratello, vorrei nel giorno delle tue nozze
evocare qualche idea, qualche immagine, qualche larva, liete; e non posso; ché nella nostra
vita la letizia non apparì, né il molto dolore fu tale che ora, a ricordarla, torni in letizia. Abbiti
per ciò questi che pur sono fiori del passato, ma non ebbero profumo e vista: i quali come
richiamarti alla memoria non potranno la gioia che non fu, così né pur l’affanno che in essi
non pare. Ché fiorirono in quei momenti, brevi e rari, in cui l’uno moriva e l’altra non era; ed
io guardava, un poco stupito, intorno a me, con occhi velati sì ma attenti.

Ecco, con occhi velati sì ma attenti osserviamo i momenti in cui l’uno moriva e l’altro non c’era, i momenti
in cui si ha una mutazione di stato qualsiasi, in noi e fuori di noi; accadono continuamente, ma solo un
occhio attento è capace di riconoscerne la dinamica interna, la linea di confine che apre la finestra che dà
sull’Eterno.
DAL “SUTRA DEL DIAMANTE”
Parti 10 - 11 - 12
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Parti precedenti (1-9)
Una volta ho udito questo. Il Signore soggiornava a Sravasti. Di primo mattino il Signore si vestì, mise il mantello, prese la sua ciotola ed entrò nella
grande città di Sravasti per raccogliere elemosina. Quando ebbe mangiato e fu tornato dal suo giro, il Signore ripose la ciotola e il mantello, si lavò i
piedi e si sedette sul seggio preparato per lui, incrociò le gambe, tenendo la schiena eretta, attento, puntando tutta l’attenzione davanti a sé. Allora
molti monaci si avvicinarono al luogo in cui il Signore si trovava, chinarono le teste ai suoi piedi, fecero tre giri intorno a lui procedendo verso destra
e si sedettero da un lato.
In quel momento il venerabile Subhuti raggiunse quell’assemblea e si sedette. Poi si alzò dal suo posto, gettò su una spalla il mantello, piegò il
ginocchio destro a terra, si inchinò a mani giunte verso Buddha e disse al Signore: “È meraviglioso, o Signore, è incommensurabilmente
meraviglioso. O Bene-andato, quanto i Bodhisattva, i grandi esseri, siano stati aiutati dall’ausilio immenso del Tathagata! Allora, o Signore, uno che
sia entrato nel veicolo-del-Bodhisattva, come dovrebbe resistere, come dovrebbe progredire, come dovrebbe controllare i pensieri? Dopo queste
parole, il Signore disse a Subhuti: “Pertanto, Subhuti, ascolta bene e attentamente”.
“Qualcuno che abbia scelto di entrare nel veicolo di un Bodhisattva dovrebbe formulare un pensiero in questo modo: “Tanti quanti sono gli esseri
esistenti nell’universo degli esseri, e siano compresi nel termine “esseri”, io devo condurli tutti al Nirvana, in quel regno del Nirvana che non lascia
nulla dietro di sé. E tuttavia, sebbene innumerevoli esseri vengano così condotti al Nirvana, nessun essere sarà stato condotto al Nirvana”. E
perché? Se in un Bodhisattva trovasse posto il concetto di un ‘essere’ egli non potrebbe essere definito un Bodhisattva. E perché? Non deve essere
definito essere-di-Bodhi colui nel quale trovi posto il concetto di un sé o di un essere, o il concetto di un’anima vivente o di una persona”. 4
“Poiché un Bodhisattva che offra un dono non dovrebbe essere sostenuto da alcuna cosa, né dovrebbe avere sostegno in alcun luogo. Il grande
essere dovrebbe offrire i suoi doni in modo tale da non essere sostenuto dal concetto di un segno. E perché? Perché il cumulo dei meriti di
quell’essere-di-Bodhi, che senza alcun sostegno offre un dono, non è facile da misurare”. Il Signore continuò: “Cosa pensi, Subhuti, che il Tathagata
possa essere riconosciuto dal possesso dei suoi contrassegni?”. Sibhuti rispose: “No davvero, o Signore. E perché? Quello che il Tathagata ha
insegnato come il possesso di contrassegni, quello è in verità il non-possesso di non-contrassegni.” Il Signore disse: “Dovunque ci sia il possesso di
contrassegni, là c’è frode; dovunque ci sia il non-possesso di non-contrassegni, là non c’è frode. Di conseguenza il Tathagata dev’essere riconosciuto
dai non-contrassegni che sono contrassegni.” Subhuti chiese: “Ci saranno degli esseri – in un tempo futuro, negli ultimi momenti, nell’ultima epoca,
negli ultimi cinquecento anni, nel momento del collasso della buona dottrina – che, quando queste parole del Sutra saranno insegnate,
comprenderanno la loro verità?”. Il Signore rispose: “Non parlare così, Subhuti! Certo, anche allora ci saranno degli esseri che, quando queste
parole del Sutra saranno insegnate, comprenderanno la loro verità. Perché anche in quell’epoca, Subhuti, ci saranno dei Bodhisattva. E quei
Bodhisattva, Subhuti, non saranno tali da aver fatto onore a un singolo Buddha, né tali da aver affondato le radici dei loro meriti solo sotto un
singolo Buddha. Al contrario, Subhuti, quei Bodhisattva, quando queste parole del Sutra saranno insegnate, scopriranno anche un unico pensiero di
limpida fede, e saranno tali da aver fatto onore a molte centinaia di migliaia di Buddha, come se avessero affondato le radici dei loro meriti sotto
molte centinaia di migliaia di Buddha. Subhuti, il Tathagata li conosce attraverso la sua conoscenza illuminata; Subhuti, il Tathagata li vede
attraverso il suo occhio di Buddha; al Tathagata essi sono totalmente noti, Subhuti. E tutti loro, Subhuti, genereranno e acquisiranno un
incommensurabile e incalcolabile cumulo di meriti. Il Signore chiese: “Cosa pensi, Subhuti, che ci sia qualche Dharma che il Tathagata abbia
completamente conosciuto come “la massima, giusta e perfetta illuminazione” o che ci sia qualche Dharma che il Tathagata abbia dimostrato?”
Subhuti rispose: “No, non da come ho capito ciò che il Signore ha detto. E perché? Questo Dharma che il Tathagata avesse completamente
conosciuto o dimostrato non potrebbe essere afferrato, non se ne potrebbe parlare, esso è né un Dharma, né un non-Dharma. E perché? Perché un
assoluto esalta le Persone Sacre”. Il Signore allora disse: “Certo, Subhuti, poiché il Tathagata ha insegnato che i Dharma propri ai Buddha non sono
affatto “Dharma propri ai Buddha”. Ecco perché sono chiamati “i Dharma propri ai Buddha””.
Il Signore chiese: “Cosa pensi, Subhuti, che al Vincitore-della-corrente accada di pensare “il ho raccolto il frutto di un Vincitore-della-corrente”?”
Subhuti rispose: “No davvero, Signore. E perché? Perché, Signore, egli non ha vinto alcun Dharma. Pertanto viene chiamato Vincitore-della corrente.
Egli non ha vinto alcun oggetto visibile, né suoni, né odori, né sapori, né oggetti tangibili, né oggetti della mente. Ecco perché viene chiamato
Vincitore-della-corrente. O Signore, se a un Vincitore-della-Corrente accadesse di pensare “io ho raccolto il frutto di un Vincitore-della-corrente”,
allora in lui sarebbe presente la padronanza di un sé, la padronanza di un essere, la padronanza di un’anima, la padronanza di una persona”. Il
Signore chiese: “Cosa pensi, Subhuti, che all’Arhat accada di pensare “io ho raggiunto lo stato di Araht?” Subhuti: “No, davvero, Signore. E perché?
Perché nessun Dharma viene chiamato Arhat. Ecco perché egli si chiama Arhat. Ecco perché gli si chiama Arhat. E perché? O Signore, io sono uno
che il Tathagata ha indicato come il primo fra coloro che dimorano nella pace. O Signore, io sono un Arhat libero dalla cupidigia. E tuttavia, o
Signore, a me non capita di pensare “io sono un Arhat e sono libero dalla cupidigia”. O Signore, se mi capitasse di pensare di aver raggiunto lo stato
di Arhat, allora il Tathagata non avrebbe dichiarato: “Subhuti, questo figlio di buona famiglia che è il primo fra coloro che dimorano nella pace, non
dimora nella pace, non dimora in alcun luogo, ecco perché viene chiamato “colui che dimora nella pace, uno che dimora nella pace” “.

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10
Il Signore chiese: “Cosa pensi, Subhuti, che ci sia qualche Dharma che il Tathagata abbia appreso da
Dipankara?” Subhuti rispose: “Non è così, o Signore, non ce ne sono.” Il Signore disse: “Se qualche
Bodhisattva dicesse “creerò armoniosi Buddhafield” direbbe il falso. E perché? “Le armonie dei
Buddhafield”, Subhuti, le ha insegnate il Tathagata come “non-armonie”. Perciò egli ha parlato di
“armoniosi Buddhafield”.
11
Buddha chiese: “Subbhuti, se ci fossero tanti fiumi Gange quanti sono i granelli di sabbia del Gange
stesso, diresti che la somma di tutti i granelli presenti nei fiumi Gange è davvero straordinaria?”.
Rispose Subhuti: “Onorato dal Mondo, sarebbero davvero infiniti. Se il numero dei fiumi Gange fosse
enorme, tanto più enorme sarebbe il numero di granelli di sabbia presente in tutti quei fiumi Gange”.
“Subhuti, ora voglio chiederti questo: se un figlio o una figlia di buona famiglia, per compiere un atto di
generosità, dovesse riempire i tremila chiliocosmi con tanti gioielli preziosi quanti sono i granelli di
sabbia presenti in tutti quei fiumi Gange, quella persona creerebbe molta felicità attraverso il proprio
atto virtuoso?”. Rispose Subhuti: “Davvero una grandissima felicità, Onorato dal Mondo”. Il Buddha disse
allora a Subhuti: “Se un figlio o una figlia di buona famiglia sa come riconoscere, praticare e spiegare
questo sutra agli altri, anche con una sola gatha di quattro versi, la felicità creata tramite questo gesto
virtuoso è di gran lunga più grande”.
12
Buddha proseguì: “Inoltre, Subhuti, ogni pezzo di terra sul quale questo sutra verrà proclamato, persino
con una sola gatha di quattro versi, diventerà una terra dove dèi, uomini e semidèi si recheranno per fare
offerte, proprio come se facessero offerte a uno stupa del Buddha. Se il pezzo di terra potrà essere
considerato pertanto sacro, ancor di più potrà dirsi della persona che pratica e recita questo sutra.
Subhuti, dovresti sapere che quella persona otterrà qualcosa di raro e profondo. Ovunque questo sutra
venga conservato, quel luogo sacro diventa uno scrigno che custodisce la preziosa presenza del Buddha o
di uno dei grandi discepoli del Buddha”.
*******

Finalmente, all’interno di questo serrato, astratto dialogo tra il Buddha e Subhuti, arriva un personaggio
nuovo, e vedremo come questa evocazione consenta di lumeggiare importanti profili della pratica; profili
che potrebbero anche non essere stati nelle intenzioni di chi ha trascritto il Sutra (o degli stessi parlanti,
Shakya e Subhuti) ma questo non è rilevante per noi, che non siamo filologi ma praticanti zen; per noi, il
Sutra del Diamante, come ogni altro testo, di ieri, di oggi e di domani, serve solo come miccia da accendere
per far esplodere la visione Zen.

La “storia”, potremmo dire, non ci interessa molto, men che mai l’universo culturale di cui è espressione; se
è capace di parlare al cuore dell’uomo di oggi, cioè proprio a noi tutti che stiamo stasera nella serra di
Pappiana, allora va bene e ci immergiamo al suo interno con gratitudine, se è materiale per accademici lo
abbandoniamo subito al suo destino.

L’anagrafe dell’autore – anche fosse del massimo prestigio – non ha nessuna rilevanza per lo Zen; dirà bene
il fondatore della nostra scuola, il maestro Lin Chi, che
Si può insegnare a un vecchio e imparare da un bambino.

È proprio così e, se ci pensiamo bene, questa posizione esprime perfettamente la nostra grande libertà di
ricerca e insieme la nostra umiltà di fondo, che è diversa da quella socratica: il maestro greco “sapeva di
non sapere”, l’uomo zen “sa di sapere” ma è perfettamente consapevole che “chi sa non parla e chi parla
non sa”, come insegna un importante koan della Raccolta Zenshin Roku del maestro Taino; non guardiamo
al CV, ai titoli, agli abiti, al conto corrente; non ci lasciamo incantare da chi è stato in Cina, in India o in
Giappone, in grotta o in monastero, o chi sa dove; a un praticante Zen interessa solo quello che il proprio
Maestro è capace di indicare, di mostrare, per meglio dire, di “essere”; se “ c’è”, facciamo “gassho”… se non
c’è, un saluto e via!

Molte sono le ricadute di questo modo di vedere le cose; ve ne dico una che può essere presente in ogni
realtà, non solo politica ma anche spirituale (grande o piccolo monastero, tempio, centro di città, e così
via): non deve esistere, o meglio, non dovrebbe esistere alcun “cerchio magico” intorno al Maestro del
luogo, cioè un ristretto numero di soggetti che, per ragioni diverse, avendo modo e occasione di stare più
spesso vicino a quest’ultimo, ritiene di poter interpretare, con un maggior grado di verità, quello che lui
pensa o gradirebbe; quel che un maestro Zen vuol dire non necessita di intermediari, interpreti o traduttori;
una volta il maestro Taino disse che nello Zendo di Scaramuccia (dove è solo il Jikijitsu ad aver
diritto/dovere di parola durante la sesshin) anche l’imperatore della Cina è un praticante come qualsiasi
altro! Ecco… questa è la nostra forza, la nostra libertà, la nostra sicurezza profonda: ma non è data per
sempre, e il tagliando deve essere fatto con regolarità.
La new entry è all’interno della parte n. 10
Il Signore chiese: “Cosa pensi, Subhuti, che ci sia qualche Dharma che il
Tathagata abbia appreso da Dipankara?” Subhuti rispose: “Non è così, o
Signore, non ce ne sono.” Il Signore disse: “Se qualche Bodhisattva dicesse
“creerò armoniosi Buddhafield” direbbe il falso. E perché? “Le armonie dei
Buddhafield”, Subhuti, le ha insegnate il Tathagata come “non-armonie”.
Perciò egli ha parlato di “armoniosi Buddhafield”.

Questo Dipankara, “il Buddha che regge la lampada" è un personaggio mitologico, che avrebbe raggiunto
l’illuminazione molto tempo prima di Shakya; il nostro, in una delle sue innumerevoli vite precedenti, gli
avrebbe chiesto di prenderlo come discepolo, ma Dipankara avrebbe riso della richiesta rispondendo ”…ma
non c’è nulla da imparare!”. Da qui l’ennesima domanda-trappola che Shakya lancia a Subhuti.

Ci sarebbe molto da dire ma, visto il tempo che abbiamo deciso di destinare al teisho, non più di 25 minuti
compreso sutra, esortazioni e voti, posso accennare solo a tre aspetti che emergono dalla lettura di queste
poche righe:
 Il 1° aspetto: se Shakya ha praticato con un Maestro (sia pure 3.000 anni prima… ma ora non stiamo
a sottilizzare!), ne consegue che non è il fondatore del buddhismo; non è come Freud che ha
“inventato” la psicoanalisi, pur non avendo fatto lui stesso l’analisi; e questo non è nemmeno una
novità, in fondo anche nel sutra “Te Dai Tempo”, prima di Shakyamuni Butzu, ci sono sei patriarchi.
Ma non è tanto un problema di ricostruire l’albero genealogico alla ricerca del Cristo o dell’Adamo
buddhista. Quel che il testo ci suggerisce è che il buddhismo non ha alcun fondatore, non siamo
arrivati all’ottantesimo o all’ottantamillesimo buddha, no!, proprio no!, siamo, usando una
metafora matematica, sempre all’Uno, un’infinita sequenza di Uno-Buddha caratterizza la non-
storia della nostra Via; il buddhismo fondamentalmente non ha storia, il buddhismo
fondamentalmente non esiste; esiste un misterioso evento che, potremmo dire, demolisce le
paratie dell’Io, fonde esterno e interno del praticante, fa vivere l’insussistenza originaria del Tutto;
un evento che non si raggiunge, si accoglie semplicemente, ancor meglio, a cui ci si arrende in
preda a una stupefacente, cosciente inconsapevolezza; e, in questo senso, si capisce che non c’è
alcun fondatore, alcun scopritore, proprio di nulla; in una caverna preistorica sarà sicuramente
accaduto quello che può accadere oggi nello zendo di Scaramuccia come anche sul tatami della
nostra serra, e non sarà diverso da quello che potrà essere vissuto da un astronauta interstellare un
istante prima del Big Crash. Cerchiamo il nostro maestro, il nostro Uno, e pratichiamo i suoi non
insegnamenti: tutto qui, non c’è altro da fare;
 Il 2° aspetto: la distinzione fondamentale tra conoscenza e sapienza/consapevolezza, e,
generalizzando, la distinzione fondamentale tra studente e discepolo, tra insegnante e Maestro. La
risposta di Dipankara: ”…ma non c’è nulla da imparare!” va subito al nocciolo e non deve essere
travisata nel senso di intenderla come “non c’è niente da fare, ci si siede e si aspetta”; sì, certo,
anche, ma qui il Buddha che regge la lampada vuol richiamare la nostra attenzione sul punto
cruciale che non c’è niente da imparare in quanto c’è da diventare consapevoli (e per far questo
magari ci vogliono cinquant’anni di lavoro spirituale e non!), c’è da comprendere ma non da
imparare; non c’è una verità all’esterno di noi che un medium di qualsiasi natura (maestro, libro,
filosofia, ecc.) può farci arrivare dall’aldilà; il sanzen non è una seduta spiritica, magica, avvolta nei
fumi del mistero, anche se la sua teatralità sembra fatta apposta per farlo pensare (ed è uno dei
grandi “trucchi di scena” che lo Zen usa!); chi di voi ne ha già esperienza sa bene che è proprio
l’opposto; la verità che vi si manifesta, dice Osho,
non è nuova, la verità è il vostro stesso essere

Il paradosso è che “sapienza è ignoranza”, ignoranza nel senso di avvenuto abbandono di ogni
memoria e informazione, di cultura per dirla in breve. Quando comprendiamo il MU e superiamo
tutte le prove accessorie di approfondimento, fondamentali quasi quanto la prima, realizziamo che
il Tutto, noi compresi, è “l’Infinito“, “l’Aperto“, “il Libero“, “il Vasto“ e che non vi è stata alcuna
trasmissione tra Maestro e Discepolo… è accaduto… l’arco, per dirla con le parole del maestro Awa,
“Si“ è tirato; non è necessario alcun contenitore, alcun teatro, anche se il sanzen è, a suo modo,
una commedia montata proprio allo scopo di essere distrutta, le pareti della stanza servono proprio
per essere improvvisamente, irreversibilmente demolite dalla comprensione, dall‘infinito effetto
dilatante del grido/realizzazione di MU. Ed ecco che allora si capisce come un Maestro Zen possa
solo avere discepoli, e mai studenti; creature che non chiedono, ma ascoltano, che non
interpretano ma accettano, che alle sue parole rispondono con il silenzio consapevole. Non è un
compito facile, quello del discepolo, perché deve disimparare ciò che ha imparato, non deve
divenire ma non-divenire; per usare lo schema espositivo che usa il Sutra del Diamante, solo se si è
capaci di non divenire si potrà divenire; mi viene in mente una storiella (che poi è anche un video)
che ho letto giorni fa e che mi ha fatto ridere:
C’è un alpinista che non ce la fa più, sta per precipitare e grida: “Aiuto! Aiuto! C’è
qualcuno che mi può aiutare?” Una voce dall’alto: “Certo che c’è! Ci sono io, che
sono Dio; non avere alcuna paura; lanciati nel vuoto e i miei angeli ti prenderanno
in braccio prima di arrivare in terra”. L’alpinista si guarda intorno e poi grida: “C’è
qualcun altro?”

Al di là della battuta, un praticante Zen è colui che si getta nel vuoto ancor prima di sentire la voce
di Dio; che ha una incrollabile, illuministica fede nel proprio Maestro e lascia la presa senza
chiedere aiuto, in ogni senso;
 Il 3° aspetto: da quanto abbiamo detto, ci si potrebbe domandare, ed è del tutto legittimo, “ma
allora… qual è il ruolo del Maestro?“; ebbene, fondamentalmente il Maestro non fa niente; la sua
attività è semplicemente quella di esserci, di essere presente al discepolo. Molti anni fa, al
monastero di Scaramuccia c’erano dei monaci residenti che, come “lavoro“, occupavano molte ore
del giorno nella campagna; a questo riguardo, il maestro Taino disse durante un thè: “Chi sta qui
deve lavorare, perché il lavoro è pratica, ma non deve certo solo lavorare, perché non si sta qui per
lavorare; e io ci devo essere quotidianamente per rispondere e per non rispondere“. La presenza del
Maestro, con il suo potenziale liberatorio, è definita in India, satsang, che si può tradurre “essere in
presenza del Maestro“; è un grande insegnamento silenzioso; comprendere come stare alla
presenza del Maestro; Osho ne dà una bellissima descrizione
Avete guardato il girasole? Esso è il simbolo del discepolo. Dovunque vada la luce
del sole, il girasole si muove in quella direzione: esso è sempre alla presenza del
sole. Al mattino è girato verso Oriente, alla sera è girato verso Occidente: si è
mosso con la luce del sole. Il girasole simboleggia il discepolo, ne è la metafora.

Solo qualche parola sulle altre due parti, la 11a e la 12a.


Buddha chiese: “Subbhuti, se ci fossero tanti fiumi Gange quanti sono i granelli di
sabbia del Gange stesso, diresti che la somma di tutti i granelli presenti nei fiumi
Gange è davvero straordinaria?”.
Rispose Subhuti: “Onorato dal Mondo, sarebbero davvero infiniti. Se il numero dei
fiumi Gange fosse enorme, tanto più enorme sarebbe il numero di granelli di sabbia
presente in tutti quei fiumi Gange”.
“Subhuti, ora voglio chiederti questo: se un figlio o una figlia di buona famiglia, per
compiere un atto di generosità, dovesse riempire i tremila chiliocosmi con tanti
gioielli preziosi quanti sono i granelli di sabbia presenti in tutti quei fiumi Gange,
quella persona creerebbe molta felicità attraverso il proprio atto virtuoso?”.
Rispose Subhuti: “Davvero una grandissima felicità, Onorato dal Mondo”. Il Buddha
disse allora a Subhuti: “Se un figlio o una figlia di buona famiglia sa come
riconoscere, praticare e spiegare questo sutra agli altri, anche con una sola gatha di
quattro versi la felicità creata tramite questo gesto virtuoso è di gran lunga più
grande”.

Qui il discorso di Buddha mira a rappresentare una quantità pressoché infinita, incommensurabile di tesori,
e per contrasto concludere che la lettura di solo quattro versi del Sutra potrebbe esser più preziosa di tutti
quei gioielli. Forse si sta esagerando, ma è anche vero che una leggenda narra che il sesto Patriarca dello
Zen, Hui Neng, abbia fatto l’illuminazione proprio sentendo recitare il Sutra del Diamante mentre era al
mercato. Chi lo stesse declamando non si sa, certamente non uno dei mercanti. Si dice che il Patriarca sia
rimasto impietrito e irreversibilmente trasformato; tutto era diventato “altro”, e per farlo diventare
“proprio” andò a meditare in montagna.

La 12° parte continua con l’esaltazione delle quasi miracolose proprietà del Sutra:
Buddha proseguì: “ Inoltre, Subbhuti, ogni pezzo di terra sul quale questo sutra
verrà proclamato, persino con una sola gatha di quattro versi, diventerà una terra
dove dèi, uomini e semidéi si recheranno per fare offerte, proprio come se facessero
offerte a uno stupa del Buddha. Se il pezzo di terra potrà essere considerato
pertanto sacro, ancor di più potrà dirsi della persona che pratica e recita questo
sutra. Subhuti, dovresti sapere che quella persona otterrà qualcosa di raro e
profondo. Ovunque questo sutra venga conservato, quel luogo sacro diventa uno
scrigno che custodisce la preziosa presenza del Buddha o di uno dei grandi discepoli
del Buddha”.

Prendiamola così com’è, senza applicare troppo la nostra spirituale razionalità Zen; siamo in pieno ambito
di prassi religiosa (offerte, stupa, dèi, uomini e semidèi), ma, potremmo dire, scherzandoci un po‘… a noi
non ci fregano!... avendo appena letto l’esortazione di Daito con il suo richiamo a “non cadere nella
completa rovina della religione”.

Dicono le Upanishad che


Ognuno di noi è, nel suo cuore, “città del Brahman“

E allora continuiamo, nell’immobilità dello zazen, il tour di questa città eterna, esploriamo, come dice
Ramana Maharshi, la “caverna del cuore”, e da lì allarghiamo all’infinito il nostro sguardo di benevolenza e
di empatia a tutte le creature dell’universo.

Canta De Andrè, ne “La buona novella”


E morì, come tutti si muore/
Come tutti cambiando colore/
Non si può dire che sia servito a molto/
Perché il male dalla terra non fu tolto/

Non c’è Buddha, o Cristo, o praticante di Pappiana che possa togliere tutto il male dal mondo, il che forse
non sarebbe nemmeno un bene!, e tutti muoiono nello stesso modo; è vero! Ed è anche bello e per molti
aspetti pure consolante! Ma c’è un altro versante della storia, un’altra sceneggiatura, la cui comprensione
profonda ci spalanca le porte dell’eternità.

Chiudiamo con le parole di un grande mistico del 900‘, il francese Henri Le Saux, che avviò – in India –
un‘esperienza di contaminazione reciproca di pratica cristiana e pratica induista; monaco benedettino,
divenne un sadhu, un asceta induista mendicante, e fondò un ashram in India, affiliato alla famiglia
monastica camaldolese, che ancora oggi ne custodisce il lignaggio e la spiritualità:
Accettare la non-durata. Nessun domani. Ma nessun domani va di pari passo con
nessun passato. “Io“ non sparisco alla morte di questo corpo, ma nemmeno ”Io“
continuo a esistere. Perché “Io“ sono, non toccato dalle condizioni del corpo. Il
momento della morte non è privilegiato che nel contesto del mito, in illo tempore. È
nel presente che io accedo a me. Nessuna spiegazione di come possa vivere al di
fuori di questo corpo è soddisfacente. Io so solamente che sono nato in questo
corpo, che morirò in questo corpo – il che vuol dire che la mia coscienza è emersa
nel corso del tempo cosmico in un luogo dello spazio e in un agglomerato di
materia legato al tempo e allo spazio – e che verrà un giorno in cui questo
agglomerato si dissolverà. I verbi “io nasco“, “io muoio“, implicano l’espressione in
isto corpore. Non hanno un valore assoluto. Prima (di nascere) io sono. Dopo (la
morte) io sono, non: ero e sarò: ego sum.

Lasciamo che queste parole si depositino dolcemente sul fondo della nostra mente.
DAL “SUTRA DEL DIAMANTE”
Parti 13- 14 - 15
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Dalle parti precedenti (1-12)
Una volta ho udito questo. Il Signore soggiornava a Sravasti. Di primo mattino il Signore si vestì, mise il mantello, prese la sua ciotola ed entrò nella
grande città di Sravasti per raccogliere elemosina. Quando ebbe mangiato e fu tornato dal suo giro, il Signore ripose la ciotola e il mantello, si lavò i
piedi e si sedette sul seggio preparato per lui, incrociò le gambe, tenendo la schiena eretta, attento, puntando tutta l’attenzione davanti a sé. Allora
molti monaci si avvicinarono al luogo in cui il Signore si trovava, chinarono le teste ai suoi piedi, fecero tre giri intorno a lui procedendo verso destra
e si sedettero da un lato.
In quel momento il venerabile Subhuti raggiunse quell’assemblea e si sedette. Poi si alzò dal suo posto, gettò su una spalla il mantello, piegò il
ginocchio destro a terra, si inchinò a mani giunte verso Buddha e disse al Signore: “È meraviglioso, o Signore, è incommensurabilmente
meraviglioso. O Bene-andato, quanto i Bodhisattva, i grandi esseri, siano stati aiutati dall’ausilio immenso del Tathagata! Allora, o Signore, uno che
sia entrato nel veicolo-del-Bodhisattva, come dovrebbe resistere, come dovrebbe progredire, come dovrebbe controllare i pensieri? Dopo queste
parole, il Signore disse a Subhuti: “Pertanto, Subhuti, ascolta bene e attentamente”.
“Qualcuno che abbia scelto di entrare nel veicolo di un Bodhisattva dovrebbe formulare un pensiero in questo modo: “Tanti quanti sono gli esseri
esistenti nell’universo degli esseri, e siano compresi nel termine “esseri”, io devo condurli tutti al Nirvana, in quel regno del Nirvana che non lascia
nulla dietro di sé. E tuttavia, sebbene innumerevoli esseri vengano così condotti al Nirvana, nessun essere sarà stato condotto al Nirvana”. E
perché? Se in un Bodhisattva trovasse posto il concetto di un ‘essere’ egli non potrebbe essere definito un Bodhisattva. E perché? Non deve essere
definito essere-di-Bodhi colui nel quale trovi posto il concetto di un sé o di un essere, o il concetto di un’anima vivente o di una persona”.
“Poiché un Bodhisattva che offra un dono non dovrebbe essere sostenuto da alcuna cosa, né dovrebbe avere sostegno in alcun luogo. Il grande
essere dovrebbe offrire i suoi doni in modo tale da non essere sostenuto dal concetto di un segno. E perché? Perché il cumulo dei meriti di
quell’essere-di-Bodhi, che senza alcun sostegno offre un dono, non è facile da misurare”. Il Signore continuò: “Cosa pensi, Subhuti, che il Tathagata
possa essere riconosciuto dal possesso dei suoi contrassegni?”. Sibhuti rispose: “No davvero, o Signore. E perché? Quello che il Tathagata ha
insegnato come il possesso di contrassegni, quello è in verità il non-possesso di non-contrassegni.” Il Signore disse: “Dovunque ci sia il possesso di
contrassegni, là c’è frode; dovunque ci sia il non-possesso di non-contrassegni, là non c’è frode. Di conseguenza il Tathagata dev’essere riconosciuto
dai non-contrassegni che sono contrassegni.” Subhuti chiese: “Ci saranno degli esseri – in un tempo futuro, negli ultimi momenti, nell’ultima epoca,
negli ultimi cinquecento anni, nel momento del collasso della buona dottrina – che, quando queste parole del Sutra saranno insegnate,
comprenderanno la loro verità?”. Il Signore rispose: “Non parlare così, Subhuti! Certo, anche allora ci saranno degli esseri che, quando queste
parole del Sutra saranno insegnate, comprenderanno la loro verità. Perché anche in quell’epoca, Subhuti, ci saranno dei Bodhisattva. E quei
Bodhisattva, Subhuti, non saranno tali da aver fatto onore a un singolo Buddha, né tali da aver affondato le radici dei loro meriti solo sotto un
singolo Buddha. Al contrario, Subhuti, quei Bodhisattva, quando queste parole del Sutra saranno insegnate, scopriranno anche un unico pensiero di
limpida fede, e saranno tali da aver fatto onore a molte centinaia di migliaia di Buddha, come se avessero affondato le radici dei loro meriti sotto
molte centinaia di migliaia di Buddha. Subhuti, il Tathagata li conosce attraverso la sua conoscenza illuminata; Subhuti, il Tathagata li vede
attraverso il suo occhio di Buddha; al Tathagata essi sono totalmente noti, Subhuti. E tutti loro, Subhuti, genereranno e acquisiranno un
incommensurabile e incalcolabile cumulo di meriti. Il Signore chiese: “Cosa pensi, Subhuti, che ci sia qualche Dharma che il Tathagata abbia
completamente conosciuto come “la massima, giusta e perfetta illuminazione” o che ci sia qualche Dharma che il Tathagata abbia dimostrato?”
Subhuti rispose: “No, non da come ho capito ciò che il Signore ha detto. E perché? Questo Dharma che il Tathagata avesse completamente
conosciuto o dimostrato non potrebbe essere afferrato, non se ne potrebbe parlare, esso è né un Dharma, né un non-Dharma. E perché? Perché un
assoluto esalta le Persone Sacre”. Il Signore allora disse: “Certo, Subhuti, poiché il Tathagata ha insegnato che i Dharma propri ai Buddha non sono
affatto “Dharma propri ai Buddha”. Ecco perché sono chiamati “i Dharma propri ai Buddha””.
Il Signore chiese: “Cosa pensi, Subhuti, che al Vincitore-della-corrente accada di pensare “il ho raccolto il frutto di un Vincitore-della-corrente”?”
Subhuti rispose: “No davvero, Signore. E perché? Perché, Signore, egli non ha vinto alcun Dharma. Pertanto viene chiamato Vincitore-della corrente.
Egli non ha vinto alcun oggetto visibile, né suoni, né odori, né sapori, né oggetti tangibili, né oggetti della mente. Ecco perché viene chiamato
Vincitore-della-corrente. O Signore, se a un Vincitore-della-Corrente accadesse di pensare “io ho raccolto il frutto di un Vincitore-della-corrente”,
allora in lui sarebbe presente la padronanza di un sé, la padronanza di un essere, la padronanza di un’anima, la padronanza di una persona”. Il
Signore chiese: “Cosa pensi, Subhuti, che all’Arhat accada di pensare “io ho raggiunto lo stato di Araht?” Subhuti: “No, davvero, Signore. E perché?
Perché nessun Dharma viene chiamato Arhat. Ecco perché egli si chiama Arhat. Ecco perché gli si chiama Arhat. E perché? O Signore, io sono uno
che il Tathagata ha indicato come il primo fra coloro che dimorano nella pace. O Signore, io sono un Arhat libero dalla cupidigia. E tuttavia, o
Signore, a me non capita di pensare “io sono un Arhat e sono libero dalla cupidigia”. O Signore, se mi capitasse di pensare di aver raggiunto lo stato
di Arhat, allora il Tathagata non avrebbe dichiarato: “Subhuti, questo figlio di buona famiglia che è il primo fra coloro che dimorano nella pace, non
dimora nella pace, non dimora in alcun luogo, ecco perché viene chiamato “colui che dimora nella pace, uno che dimora nella pace” “. Il Signore
chiese: “Cosa pensi, Subhuti, che ci sia qualche Dharma che il Tathagata abbia appreso da Dipankara?” Subhuti rispose: “Non è così, o Signore, non
ce ne sono.” Il Signore disse: “Se qualche Bodhisattva dicesse “creerò armoniosi Buddhafield” direbbe il falso. E perché? “Le armonie dei
Buddhafield”, Subhuti, le ha insegnate il Tathagata come “non-armonie”. Perciò egli ha parlato di “armoniosi Buddhafield”. Buddha chiese:
“Subbhuti, se ci fossero tanti fiumi Gange quanti sono i granelli di sabbia del Gange stesso, diresti che la somma di tutti i granelli presenti nei fiumi
Gange è davvero straordinaria?”. Rispose Subhuti: “Onorato dal Mondo, sarebbero davvero infiniti. Se il numero dei fiumi Gange fosse enorme,
tanto più enorme sarebbe il numero di granelli di sabbia presente in tutti quei fiumi Gange”. “Subhuti, ora voglio chiederti questo: se un figlio o una
figlia di buona famiglia, per compiere un atto di generosità, dovesse riempire i tremila chiliocosmi con tanti gioielli preziosi quanti sono i granelli di
sabbia presenti in tutti quei fiumi Gange, quella persona creerebbe molta felicità attraverso il proprio atto virtuoso?”. Rispose Subhuti: “Davvero
una grandissima felicità, Onorato dal Mondo”. Il Buddha disse allora a Subhuti: “Se un figlio o una figlia di buona famiglia sa come riconoscere,
praticare e spiegare questo sutra agli altri, anche con una sola gatha di quattro versi, la felicità creata tramite questo gesto virtuoso è di gran lunga
più grande”. Buddha proseguì: “Inoltre, Subhuti, ogni pezzo di terra sul quale questo sutra verrà proclamato, persino con una sola gatha di quattro
versi, diventerà una terra dove dèi, uomini e semidèi si recheranno per fare offerte, proprio come se facessero offerte a uno stupa del Buddha. Se il
pezzo di terra potrà essere considerato pertanto sacro, ancor di più potrà dirsi della persona che pratica e recita questo sutra. Subhuti, dovresti
sapere che quella persona otterrà qualcosa di raro e profondo. Ovunque questo sutra venga conservato, quel luogo sacro diventa uno scrigno che
custodisce la preziosa presenza del Buddha o di uno dei grandi discepoli del Buddha”.
13
Dopo queste parole, Subhuti chiese al Buddha: “Come dovrebbe essere chiamato questo sutra, e come
dovremmo comportarci nei confronti dei suoi insegnamenti?”. Rispose il Buddha: “Questo sutra
dovrebbe essere chiamato “Il Diamante che Recide l’Illusione”, poiché ha la capacità di recidere tutte le
illusioni e le contaminazioni mentali, sino a portarci alla sponda della liberazione”. Il Signore disse
ancora: “E ancora, Subhuti, supponi che una donna, o un uomo, abbiano rinunciato a tutti i propri averi
tante volte quanti sono i granelli di sabbia in riva al Gange; supponi poi che qualcun altro, dopo aver
appreso da questo discorso sul Dharma solo una strofa di quattro righe, la spieghi agli altri. Allora
quest’ultimo, in virtù di ciò, generebbe un grande cumulo di meriti smisurati e incalcolabili”.
14
Subito dopo, l’impatto con il Dharma fece spuntare le lacrime al Venerabile Subhuti. Dopo essersele
asciugate, egli parlò così al Buddha: “È meraviglioso, o Signore, è più che meraviglioso, o Bene-andato,
come il Tathagata abbia spiegato bene questo discorso sul Dharma. Esso ha prodotto in me la
conoscenza, ma non c’è davvero alcuna percezione. E perché? Perché i Buddha, i Signori, hanno
abbandonato tutte le percezioni”. Il Signore disse: “È così, Subhuti. Meravigliosamente benedetti
saranno quegli esseri che, udendo questo Sutra, non tremeranno, non ne saranno spaventati o
terrorizzati”.
15
“Per riassumere, Subhuti, questo sutra comporta virtù e felicità infinite, tali da non poter esser concepite
o misurate. Subhuti, se una persona si accontenta degli insegnamenti minori, se resta intrappolata
nell’idea di un sé, di una persona, di un essere vivente o della durata di un’esistenza, questa persona non
sarà capace di ascoltare, recitare e spiegare questo sutra agli altri. Subhuti, ogni luogo nel quale questo
sutra può essere trovato è un luogo nel quale dèi, uomini e semidèi, si raccolgono per fare offerte. Un
luogo del genere è un altare e dovrebbe essere venerato con cerimonie formali, circumambulazioni e
offerte di fiori e incenso”.
*******

Nella tredicesima parte, la prima delle tre che commentiamo stasera, troviamo l’indicazione del nome del
sutra data dallo stesso Shakya, “Sutra del Diamante che recide l’Illusione“; è un gran bel titolo, che ricorda
ai praticanti più anziani della nostra scuola uno degli ultimi koan della Fase 1 del Sistema Koan che si intitola
proprio “A volte il Kwatz! è una spada di diamante che recide ogni discriminazione“.
Come la pratica classica del koan si avvia con il Mu!, e il suo misterioso suono interiore, così si avvicina alla
fine con un altro grido, uno di quelli usati dal nostro fondatore, il Maestro Lin chi, che era appunto il Kwatz!
Ma, come imparerete via via progredendo nella pratica, ogni risposta al koan è, in fondo, un grido, anche se
sussurrato con parole o agito con movimenti; perché ogni risposta richiede un’assimilazione totale da parte
del praticante, identica a quella richiesta per il grido, richiede che diventi “La Risposta“ e che venga data
con la sicurezza assoluta che è quella giusta! Se poi non lo è, ciò non è poi decisivo, non siamo Padre Pio e i
koan spesso sono inizialmente del tutto impenetrabili; la risposta giusta maturerà con il tempo quando, con
le indicazioni del Maestro, capiremo se dobbiamo - metaforicamente - parlare in italiano, in turco o in greco
antico, se siamo a fare trekking in montagna, o a far speleologia, o come palombari dobbiamo scendere
negli abissi, se stiamo a scherzare, a far teatro, o magari a gettar la luce zen sulla nostra morte.
Fate attenzione a questo! Se la risposta è ben data, va già bene, è già zen! Quando il praticante entra nella
stanza di sanzen e vive con consapevolezza, concentrazione e attenzione quello che il rito prevede, e che è
fatto apposta per metterlo in difficoltà!, quando ricorda con voce chiara il koan che sta praticando, si alza,
respira e dà la risposta… se tutto questo è vissuto con piena “presenza“ del corpo/mente, siamo già a buon
punto: poi si tratterà di capire il punto di vista/tema particolare al quale il Maestro ci vuol portare, ma il più
sarà compiuto: e quella capacità di passare dall‘attenzione estrema all’estremo abbandono, che viene da
“essere“ la risposta, è già zen allo stato puro, e può poi sostenerci nelle diverse situazioni della vita, quando
sarà necessario pensare con la massima concentrazione, oppure agire con immediatezza totale.
Nel “metodo“ zen c’è il precipitato di molte discipline, dalla mistica alla psicoanalisi, dalla psicologia del
profondo alla filosofia, e altro ancora; naturalmente un maestro zen, potremmo dire “tradizionale“,
rifiuterebbe una tesi del genere e metaforicamente metterebbe subito mano al bastone… ma è così, al
silenzio si arriva esaurite le parole, all’immobilità dopo aver spinto al massimo l’azione; il “metodo“ zen,
naturalmente, non è l’ “esperienza“ zen della realizzazione della Natura di Buddha che ha dietro e davanti a
sé, per usare le parole di S. Giovanni della Croce,
“nada, nada, nada“

essendo, come ha scritto il maestro Taino nella poesia dell’anno 1999


… l’essere che è prima del parlare.
Bene, sono finite le divagazioni! che, poi, come comprenderete, tutto sono fuorché divagazioni, ma il cuore
del teisho perché è dello Zen che vogliamo parlare, e non tanto del Sutra del Diamante che ha l‘unico scopo
di condurci allo Zen, o, per usare le parole dello stesso Shakya, ha l’unico lo scopo di
portarci alla sponda della liberazione

… alla sponda, appunto, perché, poi, per l’immersione ci vuol qualcosa d’altro!
L’utilizzo del simbolo del diamante è molto frequente in letteratura mistica perchè consente di
rappresentare l‘assoluta bellezza, la trasparenza inarrivabile, la capacità di tagliare anche il granito nel
Reale e la sofferenza e l’ignoranza nello Spirituale; è, però, un simbolo che va trattato con attenzione e
cautela perché ha un cuore freddo e distante ma che può anche diventare caldissimo, tant’è che nel Reale,
quando taglia, è sempre accompagnato dall’acqua che lo raffredda; sul diamante De André ha cantato
Ama e ridi se amor risponde/
piangi forte se non ti sente/
Dai diamanti non nasce niente/
Dal letame nascono i fior!/
Il lavoro che dobbiamo fare, questo davvero zen, è saper vedere il diamante nel letame, come insegna uno
dei più importanti koan della tradizione “Il fiore dietro il gabinetto“ di Unmon che dice
Un monaco chiese a Unmon: “Com'é il puro Darmakaya?“
Unmon rispose: “Un fiore dietro il gabinetto“.
Il puro, incontaminato, eterno “corpo mistico“ rintracciato nel fiore nato dietro il gabinetto! che, all’epoca è
bene non scordarlo, sarà stato semplicemente una buca del terreno nel quale cadevano gli escrementi e dai
quali ci si puliva con un bacchetto di legno (e anche questo metodo igienico ha generato un importante
koan di Lin chi).
L‘altro elemento interessante di queste 3 parti è rappresentato dalle lacrime di Subhuti
Subito dopo, l’impatto con il Dharma fece spuntare le lacrime al Venerabile Subhuti. Dopo
essersele asciugate, egli parlò così al Buddha: “È meraviglioso, o Signore, è più che
meraviglioso, o Bene-andato, come il Tathagata abbia spiegato bene questo discorso sul
Dharma. Esso ha prodotto in me la conoscenza, ma non c’è davvero alcuna percezione. E
perché? Perché i Buddha, i Signori, hanno abbandonato tutte le percezioni”. Il Signore
disse: “È così, Subhuti. Meravigliosamente benedetti saranno quegli esseri che, udendo
questo Sutra, non tremeranno, non ne saranno spaventato o terrorizzati”.
Sulle lacrime mi viene in mente la battuta di un mio professore d’università, di storia delle religioni, a cui
chiesero quali libri erano stati decisivi per la sua formazione profonda, quali lo avevano fatto piangere; la
sua risposta fu immortale:
Gli unici libri che mi hanno fatto piangere sono stati i miei,
a rileggerli il giorno dopo la loro pubblicazione!
A parte quest’approccio autoironico, autocritico e preziosamente dissacrante, c’è una bella lettura di Osho
chi vi voglio partecipare
Le lacrime sono la cosa più bella che abbiate, perché sono lo straripare del vostro essere; e
le lacrime non sono necessariamente frutto della tristezza. A volte sgorgano da una
grande gioia, a volte da una grande pace, a volte sgorgano dall’estasi e dall’amore. Di
fatto nulla hanno a che fare con la tristezza e la felicità. Qualsiasi cosa emozioni troppo il
cuore, qualsiasi cosa prenda possesso di te, qualsiasi cosa sia troppo grande, al punto che
non riesci a contenerla e inizia a straripare… tutto ciò porta con sé le lacrime.
Accettatele con grande gioia, liberatele, nutritele, accoglietele e attraverso le lacrime
saprete come pregare. Attraverso le lacrime saprete come vedere. Gli occhi pieni di lacrime
sono capaci di vedere la verità. Gli occhi pieni di lacrime sono capaci di vedere la bellezza
della vita e la sua benedizione.
Rimane difficile, io credo, sentire come un discorso, un commento, sia pure di un illuminato come Shakya,
oltre tutto così spesso controintuitivo e criptico, possa portare l’ascoltatore (che poi è il coprotagonista,
cioè Subhuti) alle lacrime. Non so… forse possiamo pensare che la vicinanza al Buddha, al suo cuore di
umano così rivolto agli altri, insieme al suo fortissimo impegno per agevolare l’apertura della mente dei
suoi discepoli, unita alla maturazione della pratica spirituale, abbia fatto scattare in Subhuti la
“comprensione“, generando, questo sì che lo si capirebbe bene, l’erompere delle lacrime.
Nella letteratura zen, almeno quella che ho letto io, mancano questi bellissimi momenti di emozione, di
tenerezza, di dolce espressione di gratitudine. L’imprinting sino-giapponese ha forse spesso prevalso,
irrigidendo, trattenendo le forme di espressione dell’emozione, un po‘ avvicinando i maestri zen agli attori
del teatro NO, imprigionando il loro dire fondamentale in gabbie linguistico/semantiche spesso troppo
strette. Forse ha anche lasciato il segno la cultura dei samurai, dei combattenti, che dello Zen hanno tratto,
e tramandato, più il profilo del coraggio indomito, della capacità di sopportare il dolore, di non aver paura
della morte, un po‘ alla Mishima, facendo però cadere in ombra il cuore sia dei maestri sia dei praticanti, le
loro umane debolezze, le loro tenerezze, il loro reciproco umano bisogno di sentirsi vicini, l’espressione
esplicita di gratitudine che un discepolo ha verso il proprio maestro quando ha vissuto l’esperienza della
comprensione, della realizzazione della natura di Buddha, dell’illuminazione.
È tempo, a mio avviso, di arricchire di nuove facce il prisma della relazione maestro-discepolo, ed è
possibile che ciò già accada nelle esperienze di pratica zen che si stanno avviando in Italia e all’estero, nel
segno della via tracciata dal maestro Taino; io stesso, quando ricevo vostre mail in cui mi raccontate delle
emozioni e dei tormenti derivanti dalla pratica, provo grande coinvolgimento, e di questo voglio esprimere
qui la mia più profonda riconoscenza (come anche ringraziarvi per le parole di sostegno per l’operazione al
cuore di mia madre, che è andata bene!).
Torniamo alla seconda parte, che presenta, oltre alle lacrime, anche altri due punti di grande interesse,
quello dell’assenza di percezioni che deriverebbe dalla comprensione, e quello dello spavento, addirittura
del terrore che potrebbe prendere l’ascoltatore del sutra.
Subito dopo, l’impatto con il Dharma fece spuntare le lacrime al Venerabile Subhuti. Dopo
essersi asciugato le lacrime, egli parlò così al Buddha: “È meraviglioso, o Signore, è più che
meraviglioso, o Bene-andato, come il Tathagata abbia spiegato bene questo discorso sul
Dharma. Esso ha prodotto in me la conoscenza, ma non c’è davvero alcuna percezione. E
perché? Perché i Buddha, i Signori, hanno abbandonato tutte le percezioni”. Il Signore
disse: “È così, Subhuti. Meravigliosamente benedetti saranno quegli esseri che, udendo
questo Sutra, non tremeranno, non ne saranno spaventati o terrorizzati”.
Sul punto dell’assenza di percezioni, le parole di Subhuti sono abbastanza facilmente interpretabili come un
modo di esprimere il tema architettonico di tutto il Sutra del Diamante che è la natura della mente
risvegliata, il suo non attaccarsi, non dimorare su nessun oggetto, forma, suono, odore, gusto, tatto, legge
(che poi sono le parole della prajnaparamita).
Dirà bene Buddha (e su quel “composti“ ci sarebbe molto da approfondire ma sarà per un altra volta)
Tutti i fenomeni composti sono come un sogno, un fantasma, una goccia di rugiada, la luce
di un lampo.
Rifocalizziamo il tema del non-attaccamento agli oggetti: facciamo attenzione! non significa certo “assenza
di relazione“, abbandono passivo allo scorrere della vita, un po‘ come se vedessimo un film, no! tutt’altro!
Il concetto vuol esprimere la realizzazione di un particolare modo di relazionarsi al “mondo“, che si
presenta sempre nella sua infinita molteplicità, senza attribuirgli caratteristiche e qualità, approcciandolo –
questo è il punto cruciale! – non “come esso È“, e quindi automaticamente distinguendolo dall’immenso,
infinito che non è (p.e. se è bianco, non è nero, verde, giallo e così via per ogni caratteristica), bensì “È“: e
tirar via le parole “come esso“ non è un’operazione di scrittura ma un’autentica rivoluzione esistenziale,
una vera illuminazione (naturalmente a viverla, non certo a scriverla o a leggerla): perchè ogni oggetto
allora appare nella sua assoluta “quiddità“, mostrando la sua indistinguibile relazione con il Tutto (e qui
come non ricordare il celebre dipinto dell’airone bianco illuminato dalla luce bianca della luna); e qua sta la
differenza, che non significa certo superiorità, della ricerca filosofico-mistica rispetto alla ricerca delle
diverse scienze particolari (dalla fisica, alla biologia, alla chimica, ecc.); le scienze indagano un profilo
dell’ente, la mistica, e quindi la nostra pratica, indirizza la luce del faro interiore sulla connessione del
singolo ente (umano e non) con il Tutto, con l’Origine, che per lo zen è esprimibile come il vuoto di Mu!
Sul terrore o spavento che potrebbe prendere chi ode il Sutra non possiamo che considerarlo che una
metafora della Grande Morte, dell’ottava stazione dei Tori, del volo nell’abisso della vacuità che è richiesto
a ogni praticante zen per poter risorgere simultaneamente alla nona stazione, quella del ramo fiorito. Può
far paura, senza dubbio, e molti di noi hanno provato anche questo sentimento nelle fasi finali del primo
grande combattimento spirituale con il Maestro che, in quei momenti, è inestricabilmente tutto insieme,
padre, fratello, compagno, specchio, idolo da demolire, garante della Via.

La 15a parte non apporta nulla di nuovo se non riproporre le meraviglie del sutra, e cade anche in qualche
ingenuità, tipo quella di stabilire differenze di qualità tra insegnamenti, che certamente ci sono ma di cui
non ha senso parlare. La fine ripete il solito rosario di figure della tradizione religiosa, di cui abbiamo già
detto nelle sezioni precedenti.
“Per riassumere, Subhuti, questo sutra comporta virtù e felicità infinite, tali da non poter
esser concepite o misurate. Subhuti, se una persona si accontenta degli insegnamenti
minori, se resta intrappolata nell’idea di un sé, di una persona, di un essere vivente o della
durata di un’esistenza, questa persona non sarà capace di ascoltare, recitare e spiegare
questo sutra agli altri. Subhuti, ogni luogo nel quale questo sutra può essere trovato è un
luogo nel quale dèi, uomini e semidèi, si raccolgono per fare offerte. Un luogo del genere è
un altare e dovrebbe essere venerato con cerimonie formali, circumambulazioni e offerte
di fiori e incenso”.
La circumambulazione, probabilmente qui intesa intorno a una statua dello stesso Buddha, come io stesso
ho visto fare sia in Nepal sia in centri buddhisti italiani di orientamento tibetano, mi dà la possibilità di
chiudere il commento di stasera proponendovi alla meditazione “post-sesshin“ due diverse
rappresentazioni del simbolo del labirinto, la prima è quella greca, la seconda è quella zen.
Il mito cretese di Arianna ci racconta dell’impresa di un giovane ateniese (Teseo) che vuol uccidere il
minotauro, un mostro con il corpo di uomo e la testa di toro; la creatura si cibava solo di carne umana
(giovani ateniesi!) e stava imprigionata al centro di un labirinto; la storia è nota: Teseo arriva al labirinto,
prima di entrare incontra Arianna, si innamorano, lei gli dà un filo per tracciare la via e poter agevolmente
poi uscirci; lui segue le istruzioni, riesce a districarsi nell’intreccio caotico delle strade, arriva al mostro, lo
uccide, torna indietro e poi la storia continua con una fine infausta per la povera ragazza.
Un lettura mistica del mito vede quel labirinto come il simbolo dello stato di confusione, di ignoranza, di
disperazione dell’uomo incapace di liberarsi delle passioni e delle opinioni, l’intrecciarsi delle strade
rappresenta la molteplicità dolorosa dello stato iniziale, la prima stazione dei Tori, l’uccisione del mostro
l’ultima delle illusioni paranoiche. La non comprensione della vera origine del dolore (che è interna) lo
spinge sì a uscire ma senza aver trasformato il proprio essere, tant’è che poi la prima vittima sarà proprio
l’amata.
E poi c’è l’immagine zen del labirinto rovesciato, con il vuoto al centro e l’intreccio delle vie che si traccia
camminando. Metafora perfetta della ricerca mistica, della ricerca zen, che porta il praticante a realizzare la
propria natura di illuminazione, scoprendo così di essere al centro del labirinto, al centro di ogni labirinto, al
centro di ogni universo, e che ogni suo respiro – come ha efficacemente detto una volta il maestro Taino -
fa respirare l’intero universo; capito questo, si potrà poi muoverci lungo le intricate vie della vita, vivendo il
piacere e il dolore, la passione e la disperazione, oscillando sempre tra i due poli, ma tenendo al centro del
cuore la certezza indistruttibile che, ogni qual volta vogliamo, possiamo sederci, incrociare le gambe,
respirare con la pancia profonda, raddrizzare la schiena e immergerci nel mondo di Mu, ritornando a quel
centro vuoto da cui non ci siamo fondamentalmente mai mossi.
DAL “SUTRA DEL DIAMANTE”
Parti 16- 17 - 18
*******
Dalle parti precedenti (1-15)
Una volta ho udito questo. Il Signore soggiornava a Sravasti. Di primo mattino il Signore si vestì, mise il mantello, prese la sua ciotola ed entrò nella
grande città di Sravasti per raccogliere elemosina. Quando ebbe mangiato e fu tornato dal suo giro, il Signore ripose la ciotola e il mantello, si lavò i
piedi e si sedette sul seggio preparato per lui, incrociò le gambe, tenendo la schiena eretta, attento, puntando tutta l’attenzione davanti a sé. Allora
molti monaci si avvicinarono al luogo in cui il Signore si trovava, chinarono le teste ai suoi piedi, fecero tre giri intorno a lui procedendo verso destra
e si sedettero da un lato.
In quel momento il venerabile Subhuti raggiunse quell’assemblea e si sedette. Poi si alzò dal suo posto, gettò su una spalla il mantello, piegò il
ginocchio destro a terra, si inchinò a mani giunte verso Buddha e disse al Signore: “È meraviglioso, o Signore, è incommensurabilmente
meraviglioso. O Bene-andato, quanto i Bodhisattva, i grandi esseri, siano stati aiutati dall’ausilio immenso del Tathagata! Allora, o Signore, uno che
sia entrato nel veicolo-del-Bodhisattva, come dovrebbe resistere, come dovrebbe progredire, come dovrebbe controllare i pensieri? Dopo queste
parole, il Signore disse a Subhuti: “Pertanto, Subhuti, ascolta bene e attentamente”.
“Qualcuno che abbia scelto di entrare nel veicolo di un Bodhisattva dovrebbe formulare un pensiero in questo modo: “Tanti quanti sono gli esseri
esistenti nell’universo degli esseri, e siano compresi nel termine “esseri”, io devo condurli tutti al Nirvana, in quel regno del Nirvana che non lascia
nulla dietro di sé. E tuttavia, sebbene innumerevoli esseri vengano così condotti al Nirvana, nessun essere sarà stato condotto al Nirvana”. E
perché? Se in un Bodhisattva trovasse posto il concetto di un ‘essere’ egli non potrebbe essere definito un Bodhisattva. E perché? Non deve essere
definito essere-di-Bodhi colui nel quale trovi posto il concetto di un sé o di un essere, o il concetto di un’anima vivente o di una persona”.
“Poiché un Bodhisattva che offra un dono non dovrebbe essere sostenuto da alcuna cosa, né dovrebbe avere sostegno in alcun luogo. Il grande
essere dovrebbe offrire i suoi doni in modo tale da non essere sostenuto dal concetto di un segno. E perché? Perché il cumulo dei meriti di
quell’essere-di-Bodhi, che senza alcun sostegno offre un dono, non è facile da misurare”. Il Signore continuò: “Cosa pensi, Subhuti, che il Tathagata
possa essere riconosciuto dal possesso dei suoi contrassegni?”. Sibhuti rispose: “No davvero, o Signore. E perché? Quello che il Tathagata ha
insegnato come il possesso di contrassegni, quello è in verità il non-possesso di non-contrassegni.” Il Signore disse: “Dovunque ci sia il possesso di
contrassegni, là c’è frode; dovunque ci sia il non-possesso di non-contrassegni, là non c’è frode. Di conseguenza il Tathagata dev’essere riconosciuto
dai non-contrassegni che sono contrassegni.” Subhuti chiese: “Ci saranno degli esseri – in un tempo futuro, negli ultimi momenti, nell’ultima epoca,
negli ultimi cinquecento anni, nel momento del collasso della buona dottrina – che, quando queste parole del Sutra saranno insegnate,
comprenderanno la loro verità?”. Il Signore rispose: “Non parlare così, Subhuti! Certo, anche allora ci saranno degli esseri che, quando queste
parole del Sutra saranno insegnate, comprenderanno la loro verità. Perché anche in quell’epoca, Subhuti, ci saranno dei Bodhisattva. E quei
Bodhisattva, Subhuti, non saranno tali da aver fatto onore a un singolo Buddha, né tali da aver affondato le radici dei loro meriti solo sotto un
singolo Buddha. Al contrario, Subhuti, quei Bodhisattva, quando queste parole del Sutra saranno insegnate, scopriranno anche un unico pensiero di
limpida fede, e saranno tali da aver fatto onore a molte centinaia di migliaia di Buddha, come se avessero affondato le radici dei loro meriti sotto
molte centinaia di migliaia di Buddha. Subhuti, il Tathagata li conosce attraverso la sua conoscenza illuminata; Subhuti, il Tathagata li vede
attraverso il suo occhio di Buddha; al Tathagata essi sono totalmente noti, Subhuti. E tutti loro, Subhuti, genereranno e acquisiranno un
incommensurabile e incalcolabile cumulo di meriti. Il Signore chiese: “Cosa pensi, Subhuti, che ci sia qualche Dharma che il Tathagata abbia
completamente conosciuto come “la massima, giusta e perfetta illuminazione” o che ci sia qualche Dharma che il Tathagata abbia dimostrato?”
Subhuti rispose: “No, non da come ho capito ciò che il Signore ha detto. E perché? Questo Dharma che il Tathagata avesse completamente
conosciuto o dimostrato non potrebbe essere afferrato, non se ne potrebbe parlare, esso è né un Dharma, né un non-Dharma. E perché? Perché un
assoluto esalta le Persone Sacre”. Il Signore allora disse: “Certo, Subhuti, poiché il Tathagata ha insegnato che i Dharma propri ai Buddha non sono
affatto “Dharma propri ai Buddha”. Ecco perché sono chiamati “i Dharma propri ai Buddha””.
Il Signore chiese: “Cosa pensi, Subhuti, che al Vincitore-della-corrente accada di pensare “il ho raccolto il frutto di un Vincitore-della-corrente”?”
Subhuti rispose: “No davvero, Signore. E perché? Perché, Signore, egli non ha vinto alcun Dharma. Pertanto viene chiamato Vincitore-della corrente.
Egli non ha vinto alcun oggetto visibile, né suoni, né odori, né sapori, né oggetti tangibili, né oggetti della mente. Ecco perché viene chiamato
Vincitore-della-corrente. O Signore, se a un Vincitore-della-Corrente accadesse di pensare “io ho raccolto il frutto di un Vincitore-della-corrente”,
allora in lui sarebbe presente la padronanza di un sé, la padronanza di un essere, la padronanza di un’anima, la padronanza di una persona”. Il
Signore chiese: “Cosa pensi, Subhuti, che all’Arhat accada di pensare “io ho raggiunto lo stato di Araht?” Subhuti: “No, davvero, Signore. E perché?
Perché nessun Dharma viene chiamato Arhat. Ecco perché egli si chiama Arhat. Ecco perché gli si chiama Arhat. E perché? O Signore, io sono uno
che il Tathagata ha indicato come il primo fra coloro che dimorano nella pace. O Signore, io sono un Arhat libero dalla cupidigia. E tuttavia, o
Signore, a me non capita di pensare “io sono un Arhat e sono libero dalla cupidigia”. O Signore, se mi capitasse di pensare di aver raggiunto lo stato
di Arhat, allora il Tathagata non avrebbe dichiarato: “Subhuti, questo figlio di buona famiglia che è il primo fra coloro che dimorano nella pace, non
dimora nella pace, non dimora in alcun luogo, ecco perché viene chiamato “colui che dimora nella pace, uno che dimora nella pace” “. Il Signore
chiese: “Cosa pensi, Subhuti, che ci sia qualche Dharma che il Tathagata abbia appreso da Dipankara?” Subhuti rispose: “Non è così, o Signore, non
ce ne sono.” Il Signore disse: “Se qualche Bodhisattva dicesse “creerò armoniosi Buddhafield” direbbe il falso. E perché? “Le armonie dei
Buddhafield”, Subhuti, le ha insegnate il Tathagata come “non-armonie”. Perciò egli ha parlato di “armoniosi Buddhafield”. Buddha chiese:
“Subbhuti, se ci fossero tanti fiumi Gange quanti sono i granelli di sabbia del Gange stesso, diresti che la somma di tutti i granelli presenti nei fiumi
Gange è davvero straordinaria?”. Rispose Subhuti: “Onorato dal Mondo, sarebbero davvero infiniti. Se il numero dei fiumi Gange fosse enorme,
tanto più enorme sarebbe il numero di granelli di sabbia presente in tutti quei fiumi Gange”. “Subhuti, ora voglio chiederti questo: se un figlio o una
figlia di buona famiglia, per compiere un atto di generosità, dovesse riempire i tremila chiliocosmi con tanti gioielli preziosi quanti sono i granelli di
sabbia presenti in tutti quei fiumi Gange, quella persona creerebbe molta felicità attraverso il proprio atto virtuoso?”. Rispose Subhuti: “Davvero
una grandissima felicità, Onorato dal Mondo”. Il Buddha disse allora a Subhuti: “Se un figlio o una figlia di buona famiglia sa come riconoscere,
praticare e spiegare questo sutra agli altri, anche con una sola gatha di quattro versi, la felicità creata tramite questo gesto virtuoso è di gran lunga
più grande”. Buddha proseguì: “Inoltre, Subhuti, ogni pezzo di terra sul quale questo sutra verrà proclamato, persino con una sola gatha di quattro
versi, diventerà una terra dove dèi, uomini e semidèi si recheranno per fare offerte, proprio come se facessero offerte a uno stupa del Buddha. Se il
pezzo di terra potrà essere considerato pertanto sacro, ancor di più potrà dirsi della persona che pratica e recita questo sutra. Subhuti, dovresti
sapere che quella persona otterrà qualcosa di raro e profondo. Ovunque questo sutra venga conservato, quel luogo sacro diventa uno scrigno che
custodisce la preziosa presenza del Buddha o di uno dei grandi discepoli del Buddha”.
Dopo queste parole, Subhuti chiese al Buddha: “Come dovrebbe essere chiamato questo sutra, e come dovremmo comportarci nei confronti dei
suoi insegnamenti?”. Rispose il Buddha: “Questo sutra dovrebbe essere chiamato “Il Diamante che Recide l’Illusione”, poiché ha la capacità di
recidere tutte le illusioni e le contaminazioni mentali, sino a portarci alla sponda della liberazione”. Il Signore disse ancora: “E ancora, Subhuti,
supponi che una donna, o un uomo, abbiano rinunciato a tutti i propri averi tante volte quanti sono i granelli di sabbia in riva al Gange; supponi poi
che qualcun altro, dopo aver appreso da questo discorso sul Dharma solo una strofa di quattro righe, la spieghi agli altri. Allora quest’ultimo, in virtù
di ciò, generebbe un grande cumulo di meriti smisurati e incalcolabili”. Subito dopo, l’impatto con il Dharma fece spuntare le lacrime al Venerabile
Subhuti. Dopo essersele asciugate, egli parlò così al Buddha: “È meraviglioso, o Signore, è più che meraviglioso, o Bene-andato, come il Tathagata
abbia spiegato bene questo discorso sul Dharma. Esso ha prodotto in me la conoscenza, ma non c’è davvero alcuna percezione. E perché? Perché i
Buddha, i Signori, hanno abbandonato tutte le percezioni”. Il Signore disse: “È così, Subhuti. Meravigliosamente benedetti saranno quegli esseri che,
udendo questo Sutra, non tremeranno, non ne saranno spaventati o terrorizzati”. “Per riassumere, Subhuti, questo sutra comporta virtù e felicità
infinite, tali da non poter esser concepite o misurate. Subhuti, se una persona si accontenta degli insegnamenti minori, se resta intrappolata
nell’idea di un sé, di una persona, di un essere vivente o della durata di un’esistenza, questa persona non sarà capace di ascoltare, recitare e
spiegare questo sutra agli altri. Subhuti, ogni luogo nel quale questo sutra può essere trovato è un luogo nel quale dèi, uomini e semidèi, si
raccolgono per fare offerte. Un luogo del genere è un altare e dovrebbe essere venerato con cerimonie formali, circumambulazioni e offerte di fiori
e incenso”.
16
“Inoltre, Subhuti, se un figlio o una figlia di buona famiglia venisse disprezzato o calunniato mentre recita
o pratica questo sutra, le sue azioni negative commesse nelle vite precedenti, incluse quelle che
potrebbero comportare un destino infelice, sarebbero sradicate, e otterrebbe il frutto della più completa
mente risvegliata. Subhuti, in tempi antichi, prima che io incontrassi il Buddha Dipankara, feci offerte e
divenni assistente di tutti gli ottantaquattromila multi-milioni di buddha. Se qualcuno è capace di
ricevere, recitare, studiare e praticare questo sutra nell’ultima epoca, la felicità prodotta da quest’atto
virtuoso sarà centinaia di migliaia di volte più grande di quella che io stesso creai nei tempi antichi. In
effetti, una felicità del genere non può essere concepita o paragonata a null’altro, neppure in termini
matematici. Una felicità del genere è in realtà incommensurabile”. “Subhuti, la felicità generata da un
figlio di buona famiglia che riceve, recita, studia e pratica questo sutra nell’ultima epoca sarà talmente
grande che se dovessi spiegarla ora nei dettagli, qualcuno diverrebbe sospettoso e incredulo, e la sua
mente potrebbe essere disorientata. Subhuti, dovresti sapere che il significato di questo sutra è al di là
dei concetti e delle discussioni. Egualmente, il frutto che risulta dal ricevere e praticare questo sutra è al
di là dei concetti e delle discussioni.
17
A quel punto, il Venerabile Subhuti disse al Buddha: “Onorato dal Mondo, vorrei chiederti ancora una
volta su che cosa dovrebbe basarsi e come dovrebbe addestrare la propria mente un figlio o una figlia di
buona famiglia che volesse generare la più alta e la più completa mente risvegliata”. Il Buddha rispose:
“Subhuti, un buon figlio o figlia che volesse generare la più alta e più completa mente risvegliata
dovrebbe farlo in questo modo: ‘Dobbiamo condurre tutti gli esseri alla riva del risveglio, ma, dopo che
questi esseri hanno raggiunto la liberazione, non penseremo affatto che ci sia un solo essere che ha
raggiunto la liberazione’. Perché è così? Subhuti, se un bodhisattva è ancora catturato dall’idea di un sé,
di una persona, di un essere vivente o della durata di un’esistenza, quello non è un autentico
bodhisattva. Perché? “Subhuti, in effetti non c’è un oggetto mentale esistente in modo indipendente che
possa essere denominato ‘più alta e più completa mente risvegliata’. Che ne pensi Subhuti? In tempi
antichi, quando il Tathagata viveva con il Buddha Dipankara, ottenne qualcosa chiamato ‘più alta e più
completa mente risvegliata’? “No, Onorato dal Mondo. Secondo quanto ho compreso attraverso
l’insegnamento del Buddha, non c’è alcun ottenimento di un qualcosa chiamato ‘più alta e più completa
mente risvegliata’”. Il Buddha disse: “Hai ragione, Subhuti. In effetti, la cosiddetta ‘più alta e più
completa mente risvegliata’ non esiste, né il Thatagata la ottiene. Se ci fosse una cosa del genere, il
Buddha Dipankara non mi avrebbe predetto: ‘In futuro, diverrai un Buddha chiamato Sakyamuni’. Questa
predizione venne fatta proprio perché non c’è, in effetti, nulla che possa essere ottenuto e che si chiami
‘più alta e più completa mente risvegliata’. Perché? Tathagata vuol dire la talità di tutte le cose (i
dharma). Se qualcuno dicesse che il Tathagata ha ottenuto la più alta e più completa mente risvegliata
sarebbe in errore, giacchè non esiste né può essere ottenuta nessuna ‘più alta e più completa mente
risvegliata. Subhuti, la ‘più alta e più completa mente risvegliata’ ottenuta dal Tathagata non può essere
afferrata né d’altra parte è sfuggente. Per tale motivo il Tathagata ha detto: ‘Tutti i dharma sono il
Buddhadharma’. Quelli che vengono chiamati ‘tutti i dharma’ non sono, in effetti, tutti i dharma. Proprio
per questo sono chiamati ‘tutti i dharma’”. “Subhuti, può essere fatto un paragone con l’idea di un
grande corpo umano?”. Disse Subhuti: “Ciò che il Tathagata chiama ‘grande corpo umano’ non è in
effetti, un grande corpo umano”. “Subhuti, lo stesso può dirsi per quanto riguarda i bodhisattva. Se un
bodhisattva pensa di dover liberare tutti gli esseri viventi, allora non è un bodhisattva. Perché? Subhuti,
non c’è un oggetto mentale esistente in modo indipendente chiamato ‘bodhisattva’. Inoltre, il Buddha ha
detto che tutti i dharma sono privi di sé, di una persona, di un essere vivente o della durata di
un’esistenza. Subhuti, se un bodhisattva pensa: ‘Devo creare una terra del Buddha splendida e pacifica’,
quella persona non è ancora un bodhisattva. Perché? Ciò che il Tathagata chiama ‘splendida e pacifica
terra del Buddha’ non è in effetti una splendida e pacifica terra di Buddha. E proprio per tale motivo
viene chiamata ‘splendida e pacifica terra del Buddha’. Subhuti, un bodhisattva che comprende alla
perfezione il principo del non-sé e dei non-dharma può essere chiamato dal Tathagata un autentico
bodhisattva”.
18
“Che ne pensi, Subhuti? Il Tathagata possiede occhi umani, l’occhio divino, l’occhio dell’introspezione,
l’occhio della saggezza trascendente, l’occhio del Buddha? Sì, Onorato dal Mondo, li possiede.” “Che ne
pensi, Subhuti? Il Tathagata vede la sabbia del Gange come sabbia?. Subhuti rispose: “ Onorato dal
mondo, anche il Tathagata la chiama sabbia”. “Subhuti, se ci fossero altrettanti fiumi Gange quanti sono i
granelli di sabbia del Gange, e ci fosse una terra del Buddha per ogni granello di sabbia di tutti quei fiumi
Gange, le terre del Buddha sarebbero molte?” “Sì, Onorato dal Mondo, davvero infinite”. Il Buddha disse:
“Subhuti, per quanti esseri viventi possano esserci in tutte quelle terre del Buddha, sebbene ognuno di
essi abbia una diversa mentalità, il Tathagata li comprende tutti. Com’è possibile? Subhuti, quelle che il
Tathagata chiama ‘diverse mentalità’ non sono in effetti diverse mentalità. Proprio per questo sono
chiamate ‘diverse mentalità’”.
“Perché? Subhuti, la mente del passato non può essere afferrata, né può essere afferrata la mente del
presente o quella del futuro”.
*******

Le tre parti di stasera, la 16a, la 17a e la 18a, con le quali iniziamo la discesa che ci porterà a chiudere nel
prossimo giugno, a noi piacendo, il Sutra del Diamante con la sua 30a parte, sono piuttosto lunghette e di
profondità molto diseguali, tant’è che, per esempio, Osho si limita a commentare una piccola sezione della
sola 17a. Thich, invece, facendo un commento sistematico a tutto il testo, si sofferma su ogni parte e,
secondo me, qui fa bene, perché, come vedremo, gli spunti sono tanti e stimolanti anche per un praticante
zen.
C’è intanto l’aspetto della matematica, cioè della frequente presenza di numeri, di macro numeri, nel Sutra
del Diamante (“ottantaquattromila multi-milioni di buddha”, “centinaia di migliaia di volte”, “un numero di
fiumi pari al numero dei granelli di sabbia del Gange”, e altro); molti possono essere i significati di queste
indicazioni, ma io credo che lo sforzo di Buddha sia stato quello di instillare nelle menti dei suoi discepoli
“l’infinità”, “l’abissale infinità”, “l’incommensurabilità”, spingendoli a perdersi in essa; i volti dell’infinito,
anche se spesso si dimentica, sono due: l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, il Sé si può
espandere senza fine, come anche ridursi fino a scomparire.
Sul tema Uno-infinito, Uno-molti, si lavora assai nello Zen; fondamentale è il koan della tradizione che dice
Nell’Uno ci sono i Molti, nei Molti c’è l’Uno.

e che spinge il praticante a dimostrare al Maestro l’avvenuta comprensione dell’eterna compenetrazione


dell’Uno nella Molteplicità e della Molteplicità nell’Uno; dimostrazione che, come ci siamo detti più volte,
ma su cui voglio ancora una volta richiamare la vostra attenzione, può essere data solo nella stanza di
sanzen: lì, solo lì, in quello spaziotempo altro da ogni altro, si potrà dare la prova… senza dimenticare che
La Risposta è il praticante stesso e che lui ha con sé, in sé, sempre, tutto quello che serve per dimostrare il
koan.
“Inoltre, Subhuti, se un figlio o una figlia di buona famiglia venisse disprezzato o
calunniato mentre recita o pratica questo sutra, le sue azioni negative commesse nelle vite
precedenti, incluse quelle che potrebbero comportare un destino infelice, sarebbero
sradicate, e otterrebbe il frutto della più completa mente risvegliata. Subhuti, in tempi
antichi, prima che io incontrassi il Buddha Dipankara, feci offerte e divenni assistente di
tutti gli ottantaquattromila multi-milioni di buddha. Se qualcuno è capace di ricevere,
recitare, studiare e praticare questo sutra nell’ultima epoca, la felicità prodotta da
quest’atto virtuoso sarà centinaia di migliaia di volte più grande di quella che io stesso
creai nei tempi antichi. In effetti, una felicità del genere non può essere concepita o
paragonata a null’altro, neppure in termini matematici. Una felicità del genere è in realtà
incommensurabile”.

La sedicesima parte, come le due successive, ripete concetti e storie già piluccati in precedenza, dalla
frequentazione del Buddha Dipankara ai poteri miracolosi che la recitazione, lo studio e la pratica del Sutra
donerebbero ai praticanti, ancor più se queste attività sono svolte in epoche nelle quali il buddhismo è
avversato da altre religioni o poteri. Può darsi che all’epoca in cui il Sutra fu scritto, cioè abbastanza dopo la
morte di Sakya, il buddhismo fosse combattuto e che quindi questa parte sia un’aggiunta successiva per dar
vigore e fiducia ai praticanti in un periodo di difficoltà.
Il passaggio
Se qualcuno è capace di ricevere, recitare, studiare e
praticare questo sutra nell’ultima epoca…

è francamente un’ingenuità, il segno di una visione dell’Essere e dell’Ente ancora acerba, ancora lontana
dalle profondità di comprensione e di rappresentazione donate successivamente, al mondo intero, dai
maestri zen, dall’epoca di Lin Chi fino al nostro fondatore; basta pensare alla poesia del 2014
Aperti gli occhi
al mondo tutto è grande
e lo sarà sempre.
Poi impari a stare seduto
e scalpitando sui sandali
cammini impeccabile
nel vuoto dell’universo.
Ma quando mai vi potrà essere “un’ultima epoca”? Nello Zen, ma in genere nella ricerca mistico-filosofica
di ogni latitudine, ci si sbatte molto sul tema “dell’ultimo”, che sia, come qui, l’ultima epoca, o l’ultima
parola, la cosa ultima, l’ultimo istante della vita (già, e poi dove si va finire?); ci sono Casi specifici e molto
importanti anche nella prima fase del Sistema Koan, quella della tradizione.
Ma, più di tutti, è il koan del Volto Originario, quello che chiede di mostrare
Qual è il nostro vero Volto prima che nascessero i nostri genitori

che consente al praticante di agguantare l’intuizione fondamentale, quella che fa trapassare, in un solo
istante, passato e futuro, inizio e fine, eterno e transeunte, aprendo gli occhi all’immota, vuota, dinamica
realtà che ognuno di noi è; ognuno di noi che, attenzione a questo!, è Uno, nel senso profondissimo che è
una unimolteplicità, un molteplice unificato.
La diciassettesima parte ritorna ancora sul concetto di “talità”, che si può pensare come lo stato di un
qualsiasi ente nella sua natura più profonda, più assoluta, che è poi una natura vuota, secondo la nostra
pratica e, più ancora, secondo la nostra esperienza.
Quando si esplora fino alle radici più estreme la “talità” di ogni ente, ci si accorge, meglio, si realizza che
non è possibile dir niente (detto in altri termini, non è predicabile se non in se stesso), che qualsiasi cosa
detta sarebbe semplicemente incongrua; per comprenderlo può aiutare la celebre frase del maestro di tiro
con l’arco Awa
Nell’istante in cui arciere, arco, freccia e bersaglio sono diventati Uno,
sbagliare è incongruo!

Ci sarebbe da domandarsi (Zenone docet!) se in quella condizione la freccia partirebbe... ma ora non c’è
tempo di dir qualcosa su questo.
Vediamo il testo della 17a
A quel punto, il Venerabile Subhuti disse al Buddha: “Onorato dal Mondo, vorrei chiederti
ancora una volta su che cosa dovrebbe basarsi e come dovrebbe addestrare la propria
mente un figlio o una figlia di buona famiglia che volesse generare la più alta e la più
completa mente risvegliata”. Il Buddha rispose: “Subhuti, un buon figlio o figlia che volesse
generare la più alta e più completa mente risvegliata dovrebbe farlo in questo modo:
‘Dobbiamo condurre tutti gli esseri alla riva del risveglio, ma, dopo che questi esseri hanno
raggiunto la liberazione, non penseremo affatto che ci sia un solo essere che ha raggiunto la
liberazione’. Perché è così? Subhuti, se un bodhisattva è ancora catturato dall’idea di un sé,
di una persona, di un essere vivente o della durata di un’esistenza, quello non è un autentico
bodhisattva. Perché? “Subhuti, in effetti non c’è un oggetto mentale esistente in modo
indipendente che possa essere denominato ‘più alta e più completa mente risvegliata. Che
ne pensi Subhuti? In tempi antichi, quando il Tathagata viveva con il Buddha Dipankara,
ottenne qualcosa chiamato ‘più alta e più completa mente risvegliata’? “No, Onorato dal
Mondo. Secondo quanto ho compreso attraverso l’insegnamento del Buddha, non c’è alcun
ottenimento di un qualcosa chiamato ‘più alta e più completa mente risvegliata’”. Il Buddha
disse: “Hai ragione, Subhuti. In effetti, la cosiddetta ‘più alta e più completa mente
risvegliata’ non esiste, né il Thatagata la ottiene. Se ci fosse una cosa del genere, il Buddha
Dipankara non mi avrebbe predetto: ‘In futuro, diverrai un Buddha chiamato Sakyamuni’.
Questa predizione venne fatta proprio perché non c’è, in effetti, nulla che possa essere
ottenuto e che si chiami ‘più alta e più completa mente risvegliata’. Perché? Tathagata vuol
dire la talità di tutte le cose (i dharma). Se qualcuno dicesse che il Tathagata ha ottenuto la
più alta e più completa mente risvegliata sarebbe in errore, giacchè non esiste né può essere
ottenuta nessuna ‘più alta e più completa mente risvegliata’. Subhuti, la ‘più alta e più
completa mente risvegliata’ ottenuta dal Tathagata non può essere afferrata né d’altra
parte è sfuggente. Per tale motivo il Tathagata ha detto: ‘Tutti i dharma sono il
Buddhadharma’. Quelli che vengono chiamati ‘tutti i dharma’ non sono, in effetti, tutti i
dharma. Proprio per questo sono chiamati ‘tutti i dharma’”. “Subhuti, può essere fatto un
paragone con l’idea di un grande corpo umano?”. Disse Subhuti: “Ciò che il Tathagata
chiama ‘grande corpo umano’ non è in effetti, un grande corpo umano”. “Subhuti, lo stesso
può dirsi per quanto riguarda i bodhisattva. Se un bodhisattva pensa di dover liberare tutti
gli esseri viventi, allora non è un bodhisattva. Perché? Subhuti, non c’è un oggetto mentale
esistente in modo indipendente chiamato ‘bodhisattva’. Inoltre, il Buddha ha detto che tutti i
dharma sono privi di sé, di una persona, di un essere vivente o della durata di un’esistenza.
Subhuti, se un bodhisattva pensa: ‘Devo creare una terra del Buddha splendida e pacifica’,
quella persona non è ancora un bodhisattva. Perché? Ciò che il Tathagata chiama ‘splendida
e pacifica terra del Buddha’ non è in effetti una splendida e pacifica terra di Buddha. E
proprio per tale motivo viene chiamata ‘splendida e pacifica terra del Buddha’. Subhuti, un
bodhisattva che comprende alla perfezione il principo del non-sé e dei non-dharma può
essere chiamato dal Tathagata un autentico bodhisattva”.

Nella prima parte, la risposta di Buddha è parziale e non vuol probabilmente cogliere la cruciale
contraddizione insita nella domanda stessa; “la più alta e completa mente risvegliata”, ammesso che esista,
non può essere generata. Se potesse essere generata sarebbe preceduta da un qualcosa che non era “la più
alta e completa mente risvegliata” ma che comunque l’ha generata, e ciò è assurdo (detto in altri termini,
più vicini alla nostra semantica, sarebbe come dire che dal non Essere nasce l’Essere); è proprio per questo
che non se ne può parlare, né tantomeno attribuirle predicati di qualsiasi genere. L’emersione di “ciò” alla
coscienza del praticante, il suo scoprire di essere “la Grande Mente”, non ha passato, né presente, né
futuro.
Buddha si sofferma invece sull’azione da svolgere nel mondo
Dobbiamo condurre tutti gli esseri alla riva del risveglio, ma, dopo che questi esseri hanno
raggiunto la liberazione, non penseremo affatto che ci sia un solo essere che ha raggiunto la
liberazione.

Si tratta evidentemente di una metafora sia perché l’impresa è impossibile (e poi… solo quelli
contemporanei a noi, e quelli del passato, e quelli del futuro? E le piante, gli animali li lasciamo al loro
destino?), sia perché nessuno salva nessuno o, meglio, chi è “Nessuno”, chi è diventato “Nessuno” - come
ha detto una volta Taino: non “nessuno è perfetto” ma “perfetto è Nessuno” - salva tutti gli esseri,
dall’infinito passato all’infinito futuro.
Quando la comprensione del MU ci getta nell’universo “Nessuno”, onnipervadente e omnicomprensivo, si
realizza da un lato la natura di Buddha di ogni atomo dell’essere e, dall’altro, la perfezione eterna del Tutto
(non dimentichiamoci il koan “Il mondo è perfetto così com’è!” della Raccolta Bukkosan Roku).

E allora si comprende il passaggio finale


la più alta e più completa mente risvegliata ottenuta dal Tathagata non può essere
afferrata né d’altra parte è sfuggente .

Niente è, niente afferra, niente è sfuggente nel regno dell’Uno.


La prima parte della diciottesima sezione inizia così

“Che ne pensi, Subhuti? Il Tathagata possiede occhi umani, l’occhio divino, l’occhio
dell’introspezione, l’occhio della saggezza trascendente, l’occhio del Buddha? Sì, Onorato dal
Mondo, li possiede.”

Insomma… a stare al testo, un Buddha è più o meno una divinità, dotata di un sguardo che al confronto
quello del camaleonte è pressoché fossilizzato! Avrebbe sostanzialmente tutto: l’occhio come ogni umano,
ma anche quello che consente di vedere il particolare da vicino e da lontano, al buio e oltre gli ostacoli,
quello dell’introspezione che consente di vedere il non sé, l’occhio che vede la vacuità di ogni essere, e per
finire, l’occhio che vede nel passato, nel presente e nel futuro, e nella mente di tutti gli esseri del passato,
del presente e del futuro.
Permettiamoci di scherzare un po’: ma un occhio del genere soffrirà di miopia o di presbiopia?
Thich dice delle cose che fanno abbastanza sorridere:
Il fatto che il Buddha possiede l’occhio umano è per noi particolarmente piacevole (ndr, ma
quando mai?). Ci fa sentire più vicini al Buddha. Significa che anche noi abbiamo la capacità
di ottenere ciò che il Buddha ha ottenuto.

Come disse il patriota risorgimentale Antonio Sciesa passando in catene davanti alla casa dove c’erano la
moglie e i figli piangenti (e che avrebbe potuto riabbracciare da uomo libero, se avesse confessato i nomi
dei compagni, ma non lo fece e fu poi fucilato)
Tiremm innanzi…
La chiusa ripete il concetto della precedente
la mente del passato non può essere afferrata, né può essere afferrata la mente del
presente o quella del futuro”.

La lettura, la meditazione dei testi della tradizione ha un suo ruolo nella pratica dello Zen, è un ruolo
piccolo ma non irrilevante; attenzione, però! i pilastri dello Zen sono altri: lo zazen, il kinhin, lo studio del
koan, il rapporto con il Mae0stro e il Sangha.
Nessuna sacralizzazione, nessun altare, nessun essere superiore, una legge semplice ed elementare, quella
di tutti i Buddha
Cercare di fare il bene, cercare di non fare il male

senza dimenticare l’insegnamento di Agostino


Ama, e poi fai quel che vuoi!

perché ogni progetto di vita che ha alla sua base la legge del bene totale, la legge dell’amore totale, che poi
si chiami dei Buddha o no è del tutto irrilevante, va bene in sé, è bene in sé, anche se le sue ricadute
empiriche contingenti possono, a volte, essere non positive; ci sta: non siamo robot, come insegna un
importante koan della tradizione.
Razionalità e buon senso: vi faccio un esempio, per chiudere.
Il Dalai Lama ha detto
Se tra quello che ha detto Buddha e quello che dice la medicina
moderna c’è contrasto… seguite la medicina moderna.

Credo che abbia colto nel segno: equilibrio e misura: la pratica è una maratona: a volte serve rallentare, a
volte fermarsi, rifocillarsi, guardare il panorama, e poi ripartire.
Senza fretta, senza ansia, ognuno di noi è comunque sempre con i piedi sulla linea del traguardo.
Un luogo zen è, e deve essere sempre, un luogo caratterizzato da un “disordine ordinato”, perché così,
come aveva già intuito un grande greco, è l’universo intero, a cominciare dal mondo delle particelle
elementari (dove addirittura la certezza della legge è la probabilità!) per finire alle galassie sterminate; un
luogo, cioè, nel quale la sua parte di “disordine”, leggi dei suoi praticanti, delle sue prassi, di ciò che appare,
trova la sua misura interna in una più piccola parte di “ordine”, quella che dà il senso del limite e stabilizza
silenziosamente tutto il sistema.
Dove impera l’ordine pignolo e rigido, dove i riti, la prassi e la liturgia sono in testa ai pensieri di tutti, dove
si sta sempre a ricordare nostalgicamente i “tempi andati”, pieni di chissà quale mitico rigore e disciplina, lo
zen se n’è già andato da tempo, lasciando spazio alle religioni, alla completa rovina della religioni, con i loro
culti, i loro Dei&Santi&Maestri, i loro ex-voto, quando va bene la loro noiosissima ossessione del dialogo
interreligioso; Dietrich Bonhoeffer – pastore luterano morto a Buchenwald nel 1945 – invocò prima di
morire “venticinque anni senza nominare il nome di Dio”: ecco, bisognerebbe continuare con questa dieta e
alla scadenza rinnovarla indefinitamente.

Chi di voi ha iniziato a Pappiana non conosce Scaramuccia, ma potete fidarvi: pur con alti e bassi, travagli e
stop and go, la linea di fondo è stata sempre questa, e così credo rimarrà anche nei centri che di essa sono
emanazione.
Naturalmente, a volte il troppo è troppo! e lo stile naif che caratterizza il nostro piccolo zendo, i nostri
sanzen, i nostri sutra dovrà essere pian piano assestato.
Ma senza traumi, senza rigidità, sorridendo dolcemente a quella infinita serie di cose che non ci riescono
ma che vanno comunque bene così.
DAL “SUTRA DEL DIAMANTE”
Parti 19 - 20 - 21
*******
Dalle parti precedenti (1-18)
Una volta ho udito questo. Il Signore soggiornava a Sravasti. Di primo mattino il Signore si vestì, mise il mantello, prese la sua ciotola ed entrò nella
grande città di Sravasti per raccogliere elemosina. Quando ebbe mangiato e fu tornato dal suo giro, il Signore ripose la ciotola e il mantello, si lavò i
piedi e si sedette sul seggio preparato per lui, incrociò le gambe, tenendo la schiena eretta, attento, puntando tutta l’attenzione davanti a sé. Allora
molti monaci si avvicinarono al luogo in cui il Signore si trovava, chinarono le teste ai suoi piedi, fecero tre giri intorno a lui procedendo verso destra
e si sedettero da un lato.
In quel momento il venerabile Subhuti raggiunse quell’assemblea e si sedette. Poi si alzò dal suo posto, gettò su una spalla il mantello, piegò il
ginocchio destro a terra, si inchinò a mani giunte verso Buddha e disse al Signore: “È meraviglioso, o Signore, è incommensurabilmente
meraviglioso. O Bene-andato, quanto i Bodhisattva, i grandi esseri, siano stati aiutati dall’ausilio immenso del Tathagata! Allora, o Signore, uno che
sia entrato nel veicolo-del-Bodhisattva, come dovrebbe resistere, come dovrebbe progredire, come dovrebbe controllare i pensieri? Dopo queste
parole, il Signore disse a Subhuti: “Pertanto, Subhuti, ascolta bene e attentamente”.
“Qualcuno che abbia scelto di entrare nel veicolo di un Bodhisattva dovrebbe formulare un pensiero in questo modo: “Tanti quanti sono gli esseri
esistenti nell’universo degli esseri, e siano compresi nel termine “esseri”, io devo condurli tutti al Nirvana, in quel regno del Nirvana che non lascia
nulla dietro di sé. E tuttavia, sebbene innumerevoli esseri vengano così condotti al Nirvana, nessun essere sarà stato condotto al Nirvana”. E
perché? Se in un Bodhisattva trovasse posto il concetto di un ‘essere’ egli non potrebbe essere definito un Bodhisattva. E perché? Non deve essere
definito essere-di-Bodhi colui nel quale trovi posto il concetto di un sé o di un essere, o il concetto di un’anima vivente o di una persona”.
“Poiché un Bodhisattva che offra un dono non dovrebbe essere sostenuto da alcuna cosa, né dovrebbe avere sostegno in alcun luogo. Il grande
essere dovrebbe offrire i suoi doni in modo tale da non essere sostenuto dal concetto di un segno. E perché? Perché il cumulo dei meriti di
quell’essere-di-Bodhi, che senza alcun sostegno offre un dono, non è facile da misurare”. Il Signore continuò: “Cosa pensi, Subhuti, che il Tathagata
possa essere riconosciuto dal possesso dei suoi contrassegni?”. Sibhuti rispose: “No davvero, o Signore. E perché? Quello che il Tathagata ha
insegnato come il possesso di contrassegni, quello è in verità il non-possesso di non-contrassegni.” Il Signore disse: “Dovunque ci sia il possesso di
contrassegni, là c’è frode; dovunque ci sia il non-possesso di non-contrassegni, là non c’è frode. Di conseguenza il Tathagata dev’essere riconosciuto
dai non-contrassegni che sono contrassegni.” Subhuti chiese: “Ci saranno degli esseri – in un tempo futuro, negli ultimi momenti, nell’ultima epoca,
negli ultimi cinquecento anni, nel momento del collasso della buona dottrina – che, quando queste parole del Sutra saranno insegnate,
comprenderanno la loro verità?”. Il Signore rispose: “Non parlare così, Subhuti! Certo, anche allora ci saranno degli esseri che, quando queste
parole del Sutra saranno insegnate, comprenderanno la loro verità. Perché anche in quell’epoca, Subhuti, ci saranno dei Bodhisattva. E quei
Bodhisattva, Subhuti, non saranno tali da aver fatto onore a un singolo Buddha, né tali da aver affondato le radici dei loro meriti solo sotto un
singolo Buddha. Al contrario, Subhuti, quei Bodhisattva, quando queste parole del Sutra saranno insegnate, scopriranno anche un unico pensiero di
limpida fede, e saranno tali da aver fatto onore a molte centinaia di migliaia di Buddha, come se avessero affondato le radici dei loro meriti sotto
molte centinaia di migliaia di Buddha. Subhuti, il Tathagata li conosce attraverso la sua conoscenza illuminata; Subhuti, il Tathagata li vede
attraverso il suo occhio di Buddha; al Tathagata essi sono totalmente noti, Subhuti. E tutti loro, Subhuti, genereranno e acquisiranno un
incommensurabile e incalcolabile cumulo di meriti. Il Signore chiese: “Cosa pensi, Subhuti, che ci sia qualche Dharma che il Tathagata abbia
completamente conosciuto come “la massima, giusta e perfetta illuminazione” o che ci sia qualche Dharma che il Tathagata abbia dimostrato?”
Subhuti rispose: “No, non da come ho capito ciò che il Signore ha detto. E perché? Questo Dharma che il Tathagata avesse completamente
conosciuto o dimostrato non potrebbe essere afferrato, non se ne potrebbe parlare, esso è né un Dharma, né un non-Dharma. E perché? Perché un
assoluto esalta le Persone Sacre”. Il Signore allora disse: “Certo, Subhuti, poiché il Tathagata ha insegnato che i Dharma propri ai Buddha non sono
affatto “Dharma propri ai Buddha”. Ecco perché sono chiamati “i Dharma propri ai Buddha””.
Il Signore chiese: “Cosa pensi, Subhuti, che al Vincitore-della-corrente accada di pensare “Io ho raccolto il frutto di un Vincitore-della-corrente”?”
Subhuti rispose: “No davvero, Signore. E perché? Perché, Signore, egli non ha vinto alcun Dharma. Pertanto viene chiamato Vincitore-della corrente.
Egli non ha vinto alcun oggetto visibile, né suoni, né odori, né sapori, né oggetti tangibili, né oggetti della mente. Ecco perché viene chiamato
Vincitore-della-corrente. O Signore, se a un Vincitore-della-Corrente accadesse di pensare “io ho raccolto il frutto di un Vincitore-della-corrente”,
allora in lui sarebbe presente la padronanza di un sé, la padronanza di un essere, la padronanza di un’anima, la padronanza di una persona”. Il
Signore chiese: “Cosa pensi, Subhuti, che all’Arhat accada di pensare “io ho raggiunto lo stato di Araht?” Subhuti: “No, davvero, Signore. E perché?
Perché nessun Dharma viene chiamato Arhat. Ecco perché egli si chiama Arhat. Ecco perché gli si chiama Arhat. E perché? O Signore, io sono uno
che il Tathagata ha indicato come il primo fra coloro che dimorano nella pace. O Signore, io sono un Arhat libero dalla cupidigia. E tuttavia, o
Signore, a me non capita di pensare “io sono un Arhat e sono libero dalla cupidigia”. O Signore, se mi capitasse di pensare di aver raggiunto lo stato
di Arhat, allora il Tathagata non avrebbe dichiarato: “Subhuti, questo figlio di buona famiglia che è il primo fra coloro che dimorano nella pace, non
dimora nella pace, non dimora in alcun luogo, ecco perché viene chiamato “colui che dimora nella pace, uno che dimora nella pace” “. Il Signore
chiese: “Cosa pensi, Subhuti, che ci sia qualche Dharma che il Tathagata abbia appreso da Dipankara?” Subhuti rispose: “Non è così, o Signore, non
ce ne sono.” Il Signore disse: “Se qualche Bodhisattva dicesse “creerò armoniosi Buddhafield” direbbe il falso. E perché? “Le armonie dei
Buddhafield”, Subhuti, le ha insegnate il Tathagata come “non-armonie”. Perciò egli ha parlato di “armoniosi Buddhafield”. Buddha chiese:
“Subbhuti, se ci fossero tanti fiumi Gange quanti sono i granelli di sabbia del Gange stesso, diresti che la somma di tutti i granelli presenti nei fiumi
Gange è davvero straordinaria?”. Rispose Subhuti: “Onorato dal Mondo, sarebbero davvero infiniti. Se il numero dei fiumi Gange fosse enorme,
tanto più enorme sarebbe il numero di granelli di sabbia presente in tutti quei fiumi Gange”. “Subhuti, ora voglio chiederti questo: se un figlio o una
figlia di buona famiglia, per compiere un atto di generosità, dovesse riempire i tremila chiliocosmi con tanti gioielli preziosi quanti sono i granelli di
sabbia presenti in tutti quei fiumi Gange, quella persona creerebbe molta felicità attraverso il proprio atto virtuoso?”. Rispose Subhuti: “Davvero
una grandissima felicità, Onorato dal Mondo”. Il Buddha disse allora a Subhuti: “Se un figlio o una figlia di buona famiglia sa come riconoscere,
praticare e spiegare questo sutra agli altri, anche con una sola gatha di quattro versi, la felicità creata tramite questo gesto virtuoso è di gran lunga
più grande”. Buddha proseguì: “Inoltre, Subhuti, ogni pezzo di terra sul quale questo sutra verrà proclamato, persino con una sola gatha di quattro
versi, diventerà una terra dove dèi, uomini e semidèi si recheranno per fare offerte, proprio come se facessero offerte a uno stupa del Buddha. Se il
pezzo di terra potrà essere considerato pertanto sacro, ancor di più potrà dirsi della persona che pratica e recita questo sutra. Subhuti, dovresti
sapere che quella persona otterrà qualcosa di raro e profondo. Ovunque questo sutra venga conservato, quel luogo sacro diventa uno scrigno che
custodisce la preziosa presenza del Buddha o di uno dei grandi discepoli del Buddha”.
Dopo queste parole, Subhuti chiese al Buddha: “Come dovrebbe essere chiamato questo sutra, e come dovremmo comportarci nei confronti dei
suoi insegnamenti?”. Rispose il Buddha: “Questo sutra dovrebbe essere chiamato “Il Diamante che Recide l’Illusione”, poiché ha la capacità di
recidere tutte le illusioni e le contaminazioni mentali, sino a portarci alla sponda della liberazione”. Il Signore disse ancora: “E ancora, Subhuti,
supponi che una donna, o un uomo, abbiano rinunciato a tutti i propri averi tante volte quanti sono i granelli di sabbia in riva al Gange; supponi poi
che qualcun altro, dopo aver appreso da questo discorso sul Dharma solo una strofa di quattro righe, la spieghi agli altri. Allora quest’ultimo, in virtù
di ciò, generebbe un grande cumulo di meriti smisurati e incalcolabili”. Subito dopo, l’impatto con il Dharma fece spuntare le lacrime al Venerabile
Subhuti. Dopo essersele asciugate, egli parlò così al Buddha: “È meraviglioso, o Signore, è più che meraviglioso, o Bene-andato, come il Tathagata
abbia spiegato bene questo discorso sul Dharma. Esso ha prodotto in me la conoscenza, ma non c’è davvero alcuna percezione. E perché? Perché i
Buddha, i Signori, hanno abbandonato tutte le percezioni”. Il Signore disse: “È così, Subhuti. Meravigliosamente benedetti saranno quegli esseri che,
udendo questo Sutra, non tremeranno, non ne saranno spaventati o terrorizzati”. “Per riassumere, Subhuti, questo sutra comporta virtù e felicità
infinite, tali da non poter esser concepite o misurate. Subhuti, se una persona si accontenta degli insegnamenti minori, se resta intrappolata
nell’idea di un sé, di una persona, di un essere vivente o della durata di un’esistenza, questa persona non sarà capace di ascoltare, recitare e
spiegare questo sutra agli altri. Subhuti, ogni luogo nel quale questo sutra può essere trovato è un luogo nel quale dèi, uomini e semidèi, si
raccolgono per fare offerte. Un luogo del genere è un altare e dovrebbe essere venerato con cerimonie formali, circumambulazioni e offerte di fiori
e incenso”. “Inoltre, Subhuti, se un figlio o una figlia di buona famiglia venisse disprezzato o calunniato mentre recita o pratica questo sutra, le sue
azioni negative commesse nelle vite precedenti, incluse quelle che potrebbero comportare un destino infelice, sarebbero sradicate, e otterrebbe il
frutto della più completa mente risvegliata. Subhuti, in tempi antichi, prima che io incontrassi il Buddha Dipankara, feci offerte e divenni assistente
di tutti gli ottantaquattromila multi-milioni di buddha. Se qualcuno è capace di ricevere, recitare, studiare e praticare questo sutra nell’ultima
epoca, la felicità prodotta da quest’atto virtuoso sarà centinaia di migliaia di volte più grande di quella che io stesso creai nei tempi antichi. In
effetti, una felicità del genere non può essere concepita o paragonata a null’altro, neppure in termini matematici. Una felicità del genere è in realtà
incommensurabile”. “Subhuti, la felicità generata da un figlio di buona famiglia che riceve, recita, studia e pratica questo sutra nell’ultima epoca
sarà talmente grande che se dovessi spiegarla ora nei dettagli, qualcuno diverrebbe sospettoso e incredulo, e la sua mente potrebbe essere
disorientata. Subhuti, dovresti sapere che il significato di questo sutra è al di là dei concetti e delle discussioni. Egualmente, il frutto che risulta dal
ricevere e praticare questo sutra è al di là dei concetti e delle discussioni. A quel punto, il Venerabile Subhuti disse al Buddha: “Onorato dal Mondo,
vorrei chiederti ancora una volta su che cosa dovrebbe basarsi e come dovrebbe addestrare la propria mente un figlio o una figlia di buona famiglia
che volesse generare la più alta e la più completa mente risvegliata”. Il Buddha rispose: “Subhuti, un buon figlio o figlia che volesse generare la più
alta e più completa mente risvegliata dovrebbe farlo in questo modo: ‘Dobbiamo condurre tutti gli esseri alla riva del risveglio, ma, dopo che questi
esseri hanno raggiunto la liberazione, non penseremo affatto che ci sia un solo essere che ha raggiunto la liberazione’. Perché è così? Subhuti, se un
bodhisattva è ancora catturato dall’idea di un sé, di una persona, di un essere vivente o della durata di un’esistenza, quello non è un autentico
bodhisattva. Perché? “Subhuti, in effetti non c’è un oggetto mentale esistente in modo indipendente che possa essere denominato ‘più alta e più
completa mente risvegliata’. Che ne pensi Subhuti? In tempi antichi, quando il Tathagata viveva con il Buddha Dipankara, ottenne qualcosa
chiamato ‘più alta e più completa mente risvegliata’? “No, Onorato dal Mondo. Secondo quanto ho compreso attraverso l’insegnamento del
Buddha, non c’è alcun ottenimento di un qualcosa chiamato ‘più alta e più completa mente risvegliata’”. Il Buddha disse: “Hai ragione, Subhuti. In
effetti, la cosiddetta ‘più alta e più completa mente risvegliata’ non esiste, né il Thatagata la ottiene. Se ci fosse una cosa del genere, il Buddha
Dipankara non mi avrebbe predetto: ‘In futuro, diverrai un Buddha chiamato Sakyamuni’. Questa predizione venne fatta proprio perché non c’è, in
effetti, nulla che possa essere ottenuto e che si chiami ‘più alta e più completa mente risvegliata’. Perché? Tathagata vuol dire la talità di tutte le
cose (i dharma). Se qualcuno dicesse che il Tathagata ha ottenuto la più alta e più completa mente risvegliata sarebbe in errore, giacchè non esiste
né può essere ottenuta nessuna ‘più alta e più completa mente risvegliata. Subhuti, la ‘più alta e più completa mente risvegliata’ ottenuta dal
Tathagata non può essere afferrata né d’altra parte è sfuggente. Per tale motivo il Tathagata ha detto: ‘Tutti i dharma sono il Buddhadharma’. Quelli
che vengono chiamati ‘tutti i dharma’ non sono, in effetti, tutti i dharma. Proprio per questo sono chiamati ‘tutti i dharma’”. “Subhuti, può essere
fatto un paragone con l’idea di un grande corpo umano?”. Disse Subhuti: “Ciò che il Tathagata chiama ‘grande corpo umano’ non è in effetti, un
grande corpo umano”. “Subhuti, lo stesso può dirsi per quanto riguarda i bodhisattva. Se un bodhisattva pensa di dover liberare tutti gli esseri
viventi, allora non è un bodhisattva. Perché? Subhuti, non c’è un oggetto mentale esistente in modo indipendente chiamato ‘bodhisattva’. Inoltre, il
Buddha ha detto che tutti i dharma sono privi di sé, di una persona, di un essere vivente o della durata di un’esistenza. Subhuti, se un bodhisattva
pensa: ‘Devo creare una terra del Buddha splendida e pacifica’, quella persona non è ancora un bodhisattva. Perché? Ciò che il Tathagata chiama
‘splendida e pacifica terra del Buddha’ non è in effetti una splendida e pacifica terra di Buddha. E proprio per tale motivo viene chiamata ‘splendida
e pacifica terra del Buddha’. Subhuti, un bodhisattva che comprende alla perfezione il principo del non-sé e dei non-dharma può essere chiamato
dal Tathagata un autentico bodhisattva”. “Che ne pensi, Subhuti? Il Tathagata possiede occhi umani, l’occhio divino, l’occhio dell’introspezione,
l’occhio della saggezza trascendente, l’occhio del Buddha? Sì, Onorato dal Mondo, li possiede.” “Che ne pensi, Subhuti? Il Tathagata vede la sabbia
del Gange come sabbia?. Subhuti rispose: “ Onorato dal mondo, anche il Tathagata la chiama sabbia”. “Subhuti, se ci fossero altrettanti fiumi Gange
quanti sono i granelli di sabbia del Gange, e ci fosse una terra del Buddha per ogni granello di sabbia di tutti quei fiumi Gange, le terre del Buddha
sarebbero molte?” “Sì, Onorato dal Mondo, davvero infinite”. Il Buddha disse: “Subhuti, per quanti esseri viventi possano esserci in tutte quelle
terre del Buddha, sebbene ognuno di essi abbia una diversa mentalità, il Tathagata li comprende tutti. Com’è possibile? Subhuti, quelle che il
Tathagata chiama ‘diverse mentalità’ non sono in effetti diverse mentalità. Proprio per questo sono chiamate ‘diverse mentalità’”. “Perché?
Subhuti, la mente del passato non può essere afferrata, né può essere afferrata la mente del presente o quella del futuro”.

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19
Che ne pensi, Subhuti? Se qualcuno, per un proprio atto di generosità, dovesse riempire i tremila
chilocosmi con dei tesori preziosi, quella persona produrrebbe molta felicità a causa di quel gesto
virtuoso?”. “Sì, Onorato dal mondo, davvero molta”. “Subhuti, se una felicità del genere potesse essere
concepita come un’entità separata da una qualsiasi altra cosa, il Tathagata non avrebbe detto che si
tratta di qualcosa di grande, ma proprio perché non è afferrabile, il Tathagata ha detto che l’atto virtuoso
di quella persona avrebbe creato un’enorme felicità”.

20
“Che ne pensi, Subhuti? Il Tathagata può essere percepito tramite il suo corpo perfettamente modellato?
No, Onorato dal Mondo. Ciò che il Tathagata chiama ‘corpo perfettamente modellato’ non è, in effetti,
un corpo perfettamente modellato. Proprio per questo viene chiamato ‘corpo perfettamente
modellato’”. “Che ne pensi, Subhuti? Il Tathagata può essere percepito tramite la sua fisionomia
perfettamente forgiata?”. “No, Onorato dal mondo. Non è possibile percepire il Tathagata tramite alcuna
fisionomia perfettamente forgiata. Perché? Perché ciò che il Tathagata chiama ‘fisionomia perfettamente
forgiata’ non è, in effetti, una fisionomia perfettamente forgiata. Proprio per questo viene chiamata
‘fisionomia perfettamente forgiata’ “.

21
Subhuti, non dire che il Tathagata concepisce un’idea del tipo: ‘Io darò un insegnamento’. Non pensare in
questi termini. Perché? Se qualcuno dice che il Tathagata ha qualcosa da insegnare, quella persona
calunnia il Buddha non comprendendo ciò che ho detto. Subhuti, dare un insegnamento sul Dharma in
effetti vuol dire che non vi è alcun insegnamento che venga dato. Questo è davvero un insegnamento sul
Dharma”. A quel punto Subhuti, Colui che Possiede la Vita Interiore, disse al Buddha: “Onorato dal
Mondo, ci saranno in futuro degli esseri che proveranno una completa fiducia nell’ascolto di queste
parole?”. Il Buddha disse: “Subhuti, quegli esseri viventi non sono né esseri viventi né non-esseri viventi.
Perché? Subhuti, quelli che il Tathagata chiama non-esseri viventi sono davvero esseri viventi”.

*******

Comincia a stringersi il sentiero del Sutra del Diamante… poche curve e saremo arrivato alla fine del viaggio,
una fine senza fine, un infinito nastro di Moebius, un film la cui fine si ricongiunge all’inizio.
Queste ultime parti saranno più ridotte come testo, poche domande e poche risposte, per lo più con lo
stesso schema dialettico (A non è A, e quindi è A), ma concentrate a mettere al centro il tema dei temi, non
solo di questo Sutra, ma di tutti i Sutra e tutti i teisho dal tempo senza inizio: il vuoto assoluto; e anche la
contraddizione insuperabile:
Perché un Buddha e un Bodhisattva dovrebbe aver bisogno di parlare?

Domanda del tutto naturale e giusta, considerando che se si mettessero insieme tutti i testi di buddhismo,
sul buddhismo, sullo Zen, e sulle innumerevoli forme che la pratica ha assunto nel corso dei millenni… si
riempirebbe, c’è da giurarci, buona parte della Biblioteca di Borges o di quella del Nome della Rosa!
Ma il punto cruciale da capir bene è la natura del parlare del Buddha e di ogni Maestro Zen: si può utilizzare
lo schema del Diamante:
Si parla perché non si parla, e quindi si parla.

Lo spiega bene Osho e già lo realizzammo commentando le “Istruzioni per perfezionare la mente”, il testo
dell’anno scorso:
Nessuno ha detto qualcosa e nessuno ha udito qualcosa. Se ti lasci intrappolare dalle parole,
perdi il messaggio. Se vi trovate qualche dottrina o qualche filosofia, queste devono essere frutto
della vostra immaginazione, devono essere vostri sogni. Buddha non ha detto nulla e Subhuti non
ha udito nulla. In quel non-dire e non-udire, qualcosa è accaduto – qualcosa che è oltre le parole.
Ananda ha tentato di catturarlo per voi, mediante le parole, ma quel qualcosa non era stato
comunicato a parole: era una comunione tra due vuoti.

Perché è solo nella comunione, nella comunicazione tra due vuoti, che emerge, nella suo splendore
assoluto, la “talità” (la “suchness”) di un qualsiasi ente che popola dell’universo, compreso quello che
viene, in quel momento, “evocato”.
Il Sutra del Diamante ci insiste parecchio, ma noi che abbiamo praticato il koan, indipendentemente dalla
posizione che ora assumiamo nella stanza del sanzen, lo sappiamo già bene: che sia il Mu!, la campana, il
lago, la montagna, il fiore e il fiume, il Kwats!, nell’istante in cui i due cuori vuoti si incontrano, essi “creano”
l’oggetto, per dirla con Unmon, i due cuori
si trasformano in drago e ingoiano tutto l’universo
(ndr, e poi lo rigettano fuori!) .
I due cuori vuoti, ma forse lo comprendiamo meglio pensando a due specchi che si fronteggiano, “creano”,
con muta voce sola, l’ente che in quell’istante è “l’essere che è prima del parlare”, come ha scritto il
maestro Taino nel 1999 (l’anno del cane).
Come lui stesso dice nel teisho del koan n. 58 della Raccolta Zenshin Roku (“Il mare che sembra il mare”)
In quell’istante si può essere nell’eternità.
È un istante fermo, si potrebbe dire.

Ma non solo è fermo il tempo, ma si è azzerato anche lo spazio, meglio l’intero universo si è concentrato
nell’oggetto evocato, un po’ come avviene (meglio, ci dicono che avviene) all’interno di un buco nero super
massiccio, dove una stella può essere ridotta a pochi atomi di materia infinitamente pesante, prima di
esplodere e rigenerare la materia.
Si può parlare, si può descrivere quell’istante, quella comprensione, quell’esperienza del corpo-mente?
No, non lo si può fare e lo spiega bene Taino sempre in quel teisho ma… per capirci un minimo… sarà il caso
che vi ricordi il koan (perché ancora Ghenseki, con la sua lettura settimanale dello Zenshin Roku, non ci è
arrivato)
La nonna era stata malata a lungo. Quando si ristabilì chiese ai figli di fare una gita al mare (vedi
Napoli e poi muori). Ormai era autunno e andarono in una delle spiagge più belle. La giornata era
serena, ma il vento sollevava le onde e faceva sentire forte il profumo del mare. Dal parcheggio
non c'era molto per arrivare all'acqua. Quando furono a pochi metri la nonna si tolse le scarpe e si
lasciò bagnare i piedi (la voglia di affondare nella terra). Poi disse: "Sembra proprio di stare al
mare! (la nonna ci frega a tutti scoprendo l'acqua calda)”.
Altroché sembra, è proprio il mare!
la realtà è davanti agli occhi.
ma come si può riconoscere
quello che è da quello che sembra?

So sprach Taino!
Il momento in cui dice: “Sembra il mare”, la nonna è essa stessa il mare. Gli altri non se ne
accorgono, ma lei s’è talmente immedesimata nel mare che non avrebbe potuto dire: “In questo
momento sono il mare”, ché l’avrebbero preso per un attacco senile. Invece, dicendo sembra, fa
arrestare i pensieri dei nipoti e dei figli per chiedersi: “Ma la nonna che ha visto? Come, sembra il
mare, la nonna deve essere impazzita”. Chi fa l’illuminazione, agli occhi degli altri può apparire
uscito fuori di testa. In un certo senso è impazzita, perché sta dicendo che vede il mare in un
modo che gli altri non vedono. Il mare lo vedono tutti, dipende da come lo vedono. E nella poesia
abbiamo: “Come si può riconoscere quello che è da quello che sembra?”. La nonnetta dicendo
“sembra” vede veramente il mare, mentre gli altri che dicono “Ecco il mare”, in realtà non lo
vedono. Non riescono ad essere uno con il mare […] La nonna, dicendo “sembra” è quella che
realmente s’immedesima nel mare. Gli altri, che non sono capaci di vedere quello che per loro è
vero invece di sembrare, rimangono stupiti della madre, come se avesse scoperto l’acqua calda. Il
fatto è che è più mare quello che per la nonna sembra, di quanto lo sia per i figli che pensano di
vedere il mare. Certo che lo vedono, ma sono separati: essi e il mare. Invece la nonna e il mare
sono uno. E nel momento in cui dice: “Sembra proprio il mare”, è essa stessa il mare .

Fate molta attenzione a queste parole, leggetele e rileggete nella sezione “testi” sul sito di Scaramuccia, o
direttamente nel libro del Maestro, perché hanno una profondità di visione e di intuizione che è raro
trovare, oggi come ieri: con parole moderne, con uno stile molto semplice, diretto e chiaro (ma non vi fate
ingannare troppo…!), è squadernato il senso di fondo del messaggio del Sutra del Diamante:
è il mare, sembra il mare, quindi è il mare!
E come meditazione post serale, domandatevi, per quanto riguarda noi che siamo stasera nella serra di
Pappiana, se “si è alla sesshin o sembra di essere alla sesshin”.
L’occhio che vede il fiore, vede anche se stesso? L’occhio vede l’occhio?
Potremmo rispondere di no, e per molti versi diremmo bene; ma non sarebbe sufficiente, non coglieremmo
l’altro versante dal quale rispondere alla domanda, quello nel quale
Di fronte al mare m’immedesimo nel mare,
di fronte alla montagna m’ immedesimo nella montagna.

E quando “vede” da quest’altro versante, ecco che l’occhio “si” vede in ogni oggetto che mette a fuoco,
l’occhio si muta in un periscopio che misura e spazia l’infinita sfera dell’Essere in ogni suo punto.
Tutto ciò premesso… si potrebbe già dire che è l’ora di chiudere! Vediamo comunque rapidamente qualche
snodo delle tre parti di stasera.
La 19a gira ancora intorno all’impossibilità di separare, di distinguere una qualsiasi entità (fisica, mentale,
spirituale) da tutte le altre che riempiono l’universo intero
Che ne pensi, Subhuti? Se qualcuno, per un proprio atto di generosità, dovesse riempire i tremila
chilocosmi con dei tesori preziosi, quella persona produrrebbe molta felicità a causa di quel gesto
virtuoso?”. “Sì, Onorato dal mondo, davvero molta”. “Subhuti, se una felicità del genere potesse
essere concepita come un’entità separata da una qualsiasi altra cosa, il Tathagata non avrebbe
detto che si tratta di qualcosa di grande, ma proprio perché non è afferrabile, il Tathagata ha
detto che l’atto virtuoso di quella persona avrebbe creato un’enorme felicità”.

e di come solo questa paradossale verità costituisca l’unico fondale sul quale un atto può davvero
raggiungere la “virtù”; virtù che, come penso ormai si abbia chiaro, è indissolubilmente legata, intrecciata,
alla “perdizione”, come la felicità è legata all’infelicità, il Buddha al peggiore degli esseri viventi.
Se separiamo, se distinguiamo, si spalanca l’abisso delle opinioni preconcette, delle passioni egoiche, delle
differenze strumentali, dei disperati giochi della mente; ma se diventiamo consapevoli di questo
indissolubile legame degli opposti, di questa coincidentia oppositorum, allora ci possiamo muovere nel
mondo del relativo, della molteplicità, con la massima libertà possibile in base al contesto in cui ci troviamo;
saremo cioè liberi non tanto di decidere (… sul nostro presunto libero arbitrio ci sarebbe molto da dire,
anche dal punto di vista zen) quanto di reagire, di rispondere, assumendoci le nostre responsabilità. Ha
detto una contemporanea
Il male comincia con la disattenzione – quella con cui passiamo per la porta davanti agli altri.
Il male è dove, nel brusio dell’esistenza, non si ascolta la voce dell’altro.

Evita di scegliere e di distinguere, dice un importante caso della prima fase del Sistema Koan, ed è davvero
un lavoro di fondamentale importanza per la costruzione di quel misterioso edificio, vuoto all’interno e
senza pareti esterne, che è una Creatura Zen.
Anche la 20a, in altri termini, cioè se un Buddha è un essere con caratteristiche, distinzioni, peculiarità
specifiche, ripete lo stesso concetto, che alla fine è come un mantra. Il ragionamento è sempre lo stesso: se
fosse distinguibile, se lo si potesse nominare, sarebbe perduto per sempre, in quanto fissato mortalmente
all’interno di uno schema mentale, di una teoria, di una filosofia.
“Che ne pensi, Subhuti? Il Tathagata può essere percepito tramite il suo corpo perfettamente
modellato? No, Onorato dal Mondo. Ciò che il Tathagata chiama ‘corpo perfettamente
modellato’ non è, in effetti, un corpo perfettamente modellato. Proprio per questo viene
chiamato ‘corpo perfettamente modellato’”. “Che ne pensi, Subhuti? Il Tathagata può essere
percepito tramite la sua fisionomia perfettamente forgiata?”. “No, Onorato dal mondo. Non è
possibile percepire il Tathagata tramite alcuna fisionomia perfettamente forgiata. Perché? Perché
ciò che il Tathagata chiama ‘fisionomia perfettamente forgiata’ non è, in effetti, una fisionomia
perfettamente forgiata. Proprio per questo viene chiamata ‘fisionomia perfettamente forgiata’ “.

Sulla nominazione c’è un koan molto significativo sempre all’interno della raccolta Zenshin Roku; è il caso n.
19 intitolato “Prima che ci fossero i nomi”; ve lo leggo anche se non c’è il tempo di approfondirlo ma ci
ritorneremo perché ha molti profili interessanti.
Nella cantina di una enoteca sono conservate molte bottiglie di vino, alcune delle quali
considerate di grande pregio e prezzo (come i nomi dei morti al cimitero?). una notte piove tanto,
la cantina si allaga e tutte le bottiglie escono galleggiando dai loro posti, si staccano le etichette e
è impossibile sapere la qualità del vino e il prezzo della bottiglia (ma questa è la notte dei morti
viventi). Come si fa a riconoscerle?
È come trovarsi nudo
in un paese straniero,
niente nome, soldi, casa.
E capire cos’è realmente importante.

Infine la 21a incomincia a svelare uno dei messaggi profondi del Sutra del Diamante, quello a cui faceva
riferimento anche Osho nel commento di cui dicevamo all’inizio.
Subhuti, non dire che il Tathagata concepisce un’idea del tipo: ‘Io darò un insegnamento’. Non
pensare in questi termini. Perché? Se qualcuno dice che il Tathagata ha qualcosa da insegnare,
quella persona calunnia il Buddha non comprendendo ciò che ho detto. Subhuti, dare un
insegnamento sul Dharma in effetti vuol dire che non vi è alcun insegnamento che venga dato.
Questo è davvero un insegnamento sul Dharma”. A quel punto Subhuti, Colui che Possiede la Vita
Interiore, disse al Buddha: “Onorato dal Mondo, ci saranno in futuro degli esseri che proveranno
una completa fiducia nell’ascolto di queste parole?”. Il Buddha disse: “Subhuti, quegli esseri
viventi non sono né esseri viventi né non-esseri viventi. Perché? Subhuti, quelli che il Tathagata
chiama non-esseri viventi sono davvero esseri viventi”.

Niente può essere fondamentalmente detto, tanto meno insegnato; la “(Grande) Dottrina dei principi
primi” non può essere detta, né scritta. Può essere solo accolta, sperimentata, senza medium, senza inviati,
senza mediatori, ci si arrende ad essa senza parole.
E questo perché è da sempre nel nostro cuore, in quel centro definito da Parmenide “il centro del cuore
della verità, quello che non trema”.
Eppure… parliamo e scriviamo, e non solo per soddisfare il nostro Ego, anche!... ma non solo.
Lo si fa anche per far emergere tra una parola e un’altra, scritta o pronunciata, quello spazio bianco della
carta, quello spazio silenzioso del sonoro, all’interno del quale catturare il lettore o l’ascoltatore.
Dice ancora Osho
Anch’io vi sto parlando, ma vorrei ricordarvi di tenere sempre presente che il messaggio non è
nelle mie parole: dovete andare oltre le parole per riceverlo. Usate le parole come fossero una
scala, come fossero delle pietre sulle quali camminare. Ricordate, delle pietre messe per
camminarci sopra possono diventare ostacoli, se non siete capaci di camminarci sopra. Dovete
ascoltare il silenzio, in silenzio.

Il Sutra del Diamante, parte dopo parte, sta abbassando il proprio volume.
Siamo già a voce bassa, poi sarà quasi impercettibile, infine chiuderà con un maestoso silenzio.
È inutile avvicinare l’orecchio agli amplificatori umani o strumentali! Bisogna ascoltare con il cuore,
accettando l’amara medicina che ci sta impartendo, e che è poi la stessa della Prajna Paramita: l’assoluto
silenzio, il vuoto assoluto, di cui dicevamo stasera all’inizio di questo teisho, non lo si ottiene chiudendo la
bocca e gli orecchi! Al contrario: lo si fa affiorare sollevando una catena di ossimori, di contraddizioni, l’una
annullante l’altra, l’una distruggente l’altra, in una danza che è, sì, mortale per la nostra mente personale,
ma che ci può spalancare la porta senza porta della Grande Mente, quella che ha fatto dire al maestro Ti
Tsang “L’intero mondo dell’Essere non è che una sola, singola mente”.
E chiudiamo davvero, facendo risuonare nel fondo del nostro essere le parole del maestro Huang Lung Hui
Nan, che ha poetizzato splendidamente l’intuizione di Ti Tsang:
La sottile pioggia primaverile! Ha cominciato a cadere da ieri sera, per tutta la notte fino all’alba.
Una goccia dopo l’altra, cade. Ma non sta cadendo in nessun altro posto. Ditemi, se potete! Dove
cade? Quindi, senza attendere una risposta, rispose egli stesso: “Vi cade negli occhi! Vi penetra
nel naso!”.

Mi raccomando: se potete, non ditelo!.


DAL “SUTRA DEL DIAMANTE”
Parti 22 23 24
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Dalle parti precedenti (1-21)
Una volta ho udito questo. Il Signore soggiornava a Sravasti. Di primo mattino il Signore si vestì, mise il mantello, prese la sua ciotola ed entrò nella
grande città di Sravasti per raccogliere elemosina. Quando ebbe mangiato e fu tornato dal suo giro, il Signore ripose la ciotola e il mantello, si lavò i
piedi e si sedette sul seggio preparato per lui, incrociò le gambe, tenendo la schiena eretta, attento, puntando tutta l’attenzione davanti a sé. Allora
molti monaci si avvicinarono al luogo in cui il Signore si trovava, chinarono le teste ai suoi piedi, fecero tre giri intorno a lui procedendo verso destra
e si sedettero da un lato.
In quel momento il venerabile Subhuti raggiunse quell’assemblea e si sedette. Poi si alzò dal suo posto, gettò su una spalla il mantello, piegò il
ginocchio destro a terra, si inchinò a mani giunte verso Buddha e disse al Signore: “È meraviglioso, o Signore, è incommensurabilmente
meraviglioso. O Bene-andato, quanto i Bodhisattva, i grandi esseri, siano stati aiutati dall’ausilio immenso del Tathagata! Allora, o Signore, uno che
sia entrato nel veicolo-del-Bodhisattva, come dovrebbe resistere, come dovrebbe progredire, come dovrebbe controllare i pensieri? Dopo queste
parole, il Signore disse a Subhuti: “Pertanto, Subhuti, ascolta bene e attentamente”.
“Qualcuno che abbia scelto di entrare nel veicolo di un Bodhisattva dovrebbe formulare un pensiero in questo modo: “Tanti quanti sono gli esseri
esistenti nell’universo degli esseri, e siano compresi nel termine “esseri”, io devo condurli tutti al Nirvana, in quel regno del Nirvana che non lascia
nulla dietro di sé. E tuttavia, sebbene innumerevoli esseri vengano così condotti al Nirvana, nessun essere sarà stato condotto al Nirvana”. E
perché? Se in un Bodhisattva trovasse posto il concetto di un ‘essere’ egli non potrebbe essere definito un Bodhisattva. E perché? Non deve essere
definito essere-di-Bodhi colui nel quale trovi posto il concetto di un sé o di un essere, o il concetto di un’anima vivente o di una persona”.
“Poiché un Bodhisattva che offra un dono non dovrebbe essere sostenuto da alcuna cosa, né dovrebbe avere sostegno in alcun luogo. Il grande
essere dovrebbe offrire i suoi doni in modo tale da non essere sostenuto dal concetto di un segno. E perché? Perché il cumulo dei meriti di
quell’essere-di-Bodhi, che senza alcun sostegno offre un dono, non è facile da misurare”. Il Signore continuò: “Cosa pensi, Subhuti, che il Tathagata
possa essere riconosciuto dal possesso dei suoi contrassegni?”. Sibhuti rispose: “No davvero, o Signore. E perché? Quello che il Tathagata ha
insegnato come il possesso di contrassegni, quello è in verità il non-possesso di non-contrassegni.” Il Signore disse: “Dovunque ci sia il possesso di
contrassegni, là c’è frode; dovunque ci sia il non-possesso di non-contrassegni, là non c’è frode. Di conseguenza il Tathagata dev’essere riconosciuto
dai non-contrassegni che sono contrassegni.” Subhuti chiese: “Ci saranno degli esseri – in un tempo futuro, negli ultimi momenti, nell’ultima epoca,
negli ultimi cinquecento anni, nel momento del collasso della buona dottrina – che, quando queste parole del Sutra saranno insegnate,
comprenderanno la loro verità?”. Il Signore rispose: “Non parlare così, Subhuti! Certo, anche allora ci saranno degli esseri che, quando queste
parole del Sutra saranno insegnate, comprenderanno la loro verità. Perché anche in quell’epoca, Subhuti, ci saranno dei Bodhisattva. E quei
Bodhisattva, Subhuti, non saranno tali da aver fatto onore a un singolo Buddha, né tali da aver affondato le radici dei loro meriti solo sotto un
singolo Buddha. Al contrario, Subhuti, quei Bodhisattva, quando queste parole del Sutra saranno insegnate, scopriranno anche un unico pensiero di
limpida fede, e saranno tali da aver fatto onore a molte centinaia di migliaia di Buddha, come se avessero affondato le radici dei loro meriti sotto
molte centinaia di migliaia di Buddha. Subhuti, il Tathagata li conosce attraverso la sua conoscenza illuminata; Subhuti, il Tathagata li vede
attraverso il suo occhio di Buddha; al Tathagata essi sono totalmente noti, Subhuti. E tutti loro, Subhuti, genereranno e acquisiranno un
incommensurabile e incalcolabile cumulo di meriti. Il Signore chiese: “Cosa pensi, Subhuti, che ci sia qualche Dharma che il Tathagata abbia
completamente conosciuto come “la massima, giusta e perfetta illuminazione” o che ci sia qualche Dharma che il Tathagata abbia dimostrato?”
Subhuti rispose: “No, non da come ho capito ciò che il Signore ha detto. E perché? Questo Dharma che il Tathagata avesse completamente
conosciuto o dimostrato non potrebbe essere afferrato, non se ne potrebbe parlare, esso è né un Dharma, né un non-Dharma. E perché? Perché un
assoluto esalta le Persone Sacre”. Il Signore allora disse: “Certo, Subhuti, poiché il Tathagata ha insegnato che i Dharma propri ai Buddha non sono
affatto “Dharma propri ai Buddha”. Ecco perché sono chiamati “i Dharma propri ai Buddha””.
Il Signore chiese: “Cosa pensi, Subhuti, che al Vincitore-della-corrente accada di pensare “Io ho raccolto il frutto di un Vincitore-della-corrente”?”
Subhuti rispose: “No davvero, Signore. E perché? Perché, Signore, egli non ha vinto alcun Dharma. Pertanto viene chiamato Vincitore-della corrente.
Egli non ha vinto alcun oggetto visibile, né suoni, né odori, né sapori, né oggetti tangibili, né oggetti della mente. Ecco perché viene chiamato
Vincitore-della-corrente. O Signore, se a un Vincitore-della-Corrente accadesse di pensare “io ho raccolto il frutto di un Vincitore-della-corrente”,
allora in lui sarebbe presente la padronanza di un sé, la padronanza di un essere, la padronanza di un’anima, la padronanza di una persona”. Il
Signore chiese: “Cosa pensi, Subhuti, che all’Arhat accada di pensare “io ho raggiunto lo stato di Araht?” Subhuti: “No, davvero, Signore. E perché?
Perché nessun Dharma viene chiamato Arhat. Ecco perché egli si chiama Arhat. Ecco perché gli si chiama Arhat. E perché? O Signore, io sono uno
che il Tathagata ha indicato come il primo fra coloro che dimorano nella pace. O Signore, io sono un Arhat libero dalla cupidigia. E tuttavia, o
Signore, a me non capita di pensare “io sono un Arhat e sono libero dalla cupidigia”. O Signore, se mi capitasse di pensare di aver raggiunto lo stato
di Arhat, allora il Tathagata non avrebbe dichiarato: “Subhuti, questo figlio di buona famiglia che è il primo fra coloro che dimorano nella pace, non
dimora nella pace, non dimora in alcun luogo, ecco perché viene chiamato “colui che dimora nella pace, uno che dimora nella pace” “. Il Signore
chiese: “Cosa pensi, Subhuti, che ci sia qualche Dharma che il Tathagata abbia appreso da Dipankara?” Subhuti rispose: “Non è così, o Signore, non
ce ne sono.” Il Signore disse: “Se qualche Bodhisattva dicesse “creerò armoniosi Buddhafield” direbbe il falso. E perché? “Le armonie dei
Buddhafield”, Subhuti, le ha insegnate il Tathagata come “non-armonie”. Perciò egli ha parlato di “armoniosi Buddhafield”. Buddha chiese:
“Subbhuti, se ci fossero tanti fiumi Gange quanti sono i granelli di sabbia del Gange stesso, diresti che la somma di tutti i granelli presenti nei fiumi
Gange è davvero straordinaria?”. Rispose Subhuti: “Onorato dal Mondo, sarebbero davvero infiniti. Se il numero dei fiumi Gange fosse enorme,
tanto più enorme sarebbe il numero di granelli di sabbia presente in tutti quei fiumi Gange”. “Subhuti, ora voglio chiederti questo: se un figlio o una
figlia di buona famiglia, per compiere un atto di generosità, dovesse riempire i tremila chiliocosmi con tanti gioielli preziosi quanti sono i granelli di
sabbia presenti in tutti quei fiumi Gange, quella persona creerebbe molta felicità attraverso il proprio atto virtuoso?”. Rispose Subhuti: “Davvero
una grandissima felicità, Onorato dal Mondo”. Il Buddha disse allora a Subhuti: “Se un figlio o una figlia di buona famiglia sa come riconoscere,
praticare e spiegare questo sutra agli altri, anche con una sola gatha di quattro versi, la felicità creata tramite questo gesto virtuoso è di gran lunga
più grande”. Buddha proseguì: “Inoltre, Subhuti, ogni pezzo di terra sul quale questo sutra verrà proclamato, persino con una sola gatha di quattro
versi, diventerà una terra dove dèi, uomini e semidèi si recheranno per fare offerte, proprio come se facessero offerte a uno stupa del Buddha. Se il
pezzo di terra potrà essere considerato pertanto sacro, ancor di più potrà dirsi della persona che pratica e recita questo sutra. Subhuti, dovresti
sapere che quella persona otterrà qualcosa di raro e profondo. Ovunque questo sutra venga conservato, quel luogo sacro diventa uno scrigno che
custodisce la preziosa presenza del Buddha o di uno dei grandi discepoli del Buddha”.
Dopo queste parole, Subhuti chiese al Buddha: “Come dovrebbe essere chiamato questo sutra, e come dovremmo comportarci nei confronti dei
suoi insegnamenti?”. Rispose il Buddha: “Questo sutra dovrebbe essere chiamato “Il Diamante che Recide l’Illusione”, poiché ha la capacità di
recidere tutte le illusioni e le contaminazioni mentali, sino a portarci alla sponda della liberazione”. Il Signore disse ancora: “E ancora, Subhuti,
supponi che una donna, o un uomo, abbiano rinunciato a tutti i propri averi tante volte quanti sono i granelli di sabbia in riva al Gange; supponi poi
che qualcun altro, dopo aver appreso da questo discorso sul Dharma solo una strofa di quattro righe, la spieghi agli altri. Allora quest’ultimo, in virtù
di ciò, generebbe un grande cumulo di meriti smisurati e incalcolabili”. Subito dopo, l’impatto con il Dharma fece spuntare le lacrime al Venerabile
Subhuti. Dopo essersele asciugate, egli parlò così al Buddha: “È meraviglioso, o Signore, è più che meraviglioso, o Bene-andato, come il Tathagata
abbia spiegato bene questo discorso sul Dharma. Esso ha prodotto in me la conoscenza, ma non c’è davvero alcuna percezione. E perché? Perché i
Buddha, i Signori, hanno abbandonato tutte le percezioni”. Il Signore disse: “È così, Subhuti. Meravigliosamente benedetti saranno quegli esseri che,
udendo questo Sutra, non tremeranno, non ne saranno spaventati o terrorizzati”. “Per riassumere, Subhuti, questo sutra comporta virtù e felicità
infinite, tali da non poter esser concepite o misurate. Subhuti, se una persona si accontenta degli insegnamenti minori, se resta intrappolata
nell’idea di un sé, di una persona, di un essere vivente o della durata di un’esistenza, questa persona non sarà capace di ascoltare, recitare e
spiegare questo sutra agli altri. Subhuti, ogni luogo nel quale questo sutra può essere trovato è un luogo nel quale dèi, uomini e semidèi, si
raccolgono per fare offerte. Un luogo del genere è un altare e dovrebbe essere venerato con cerimonie formali, circumambulazioni e offerte di fiori
e incenso”. “Inoltre, Subhuti, se un figlio o una figlia di buona famiglia venisse disprezzato o calunniato mentre recita o pratica questo sutra, le sue
azioni negative commesse nelle vite precedenti, incluse quelle che potrebbero comportare un destino infelice, sarebbero sradicate, e otterrebbe il
frutto della più completa mente risvegliata. Subhuti, in tempi antichi, prima che io incontrassi il Buddha Dipankara, feci offerte e divenni assistente
di tutti gli ottantaquattromila multi-milioni di buddha. Se qualcuno è capace di ricevere, recitare, studiare e praticare questo sutra nell’ultima
epoca, la felicità prodotta da quest’atto virtuoso sarà centinaia di migliaia di volte più grande di quella che io stesso creai nei tempi antichi. In
effetti, una felicità del genere non può essere concepita o paragonata a null’altro, neppure in termini matematici. Una felicità del genere è in realtà
incommensurabile”. “Subhuti, la felicità generata da un figlio di buona famiglia che riceve, recita, studia e pratica questo sutra nell’ultima epoca
sarà talmente grande che se dovessi spiegarla ora nei dettagli, qualcuno diverrebbe sospettoso e incredulo, e la sua mente potrebbe essere
disorientata. Subhuti, dovresti sapere che il significato di questo sutra è al di là dei concetti e delle discussioni. Egualmente, il frutto che risulta dal
ricevere e praticare questo sutra è al di là dei concetti e delle discussioni. A quel punto, il Venerabile Subhuti disse al Buddha: “Onorato dal Mondo,
vorrei chiederti ancora una volta su che cosa dovrebbe basarsi e come dovrebbe addestrare la propria mente un figlio o una figlia di buona famiglia
che volesse generare la più alta e la più completa mente risvegliata”. Il Buddha rispose: “Subhuti, un buon figlio o figlia che volesse generare la più
alta e più completa mente risvegliata dovrebbe farlo in questo modo: ‘Dobbiamo condurre tutti gli esseri alla riva del risveglio, ma, dopo che questi
esseri hanno raggiunto la liberazione, non penseremo affatto che ci sia un solo essere che ha raggiunto la liberazione’. Perché è così? Subhuti, se un
bodhisattva è ancora catturato dall’idea di un sé, di una persona, di un essere vivente o della durata di un’esistenza, quello non è un autentico
bodhisattva. Perché? “Subhuti, in effetti non c’è un oggetto mentale esistente in modo indipendente che possa essere denominato ‘più alta e più
completa mente risvegliata’. Che ne pensi Subhuti? In tempi antichi, quando il Tathagata viveva con il Buddha Dipankara, ottenne qualcosa
chiamato ‘più alta e più completa mente risvegliata’? “No, Onorato dal Mondo. Secondo quanto ho compreso attraverso l’insegnamento del
Buddha, non c’è alcun ottenimento di un qualcosa chiamato ‘più alta e più completa mente risvegliata’”. Il Buddha disse: “Hai ragione, Subhuti. In
effetti, la cosiddetta ‘più alta e più completa mente risvegliata’ non esiste, né il Thatagata la ottiene. Se ci fosse una cosa del genere, il Buddha
Dipankara non mi avrebbe predetto: ‘In futuro, diverrai un Buddha chiamato Sakyamuni’. Questa predizione venne fatta proprio perché non c’è, in
effetti, nulla che possa essere ottenuto e che si chiami ‘più alta e più completa mente risvegliata’. Perché? Tathagata vuol dire la talità di tutte le
cose (i dharma). Se qualcuno dicesse che il Tathagata ha ottenuto la più alta e più completa mente risvegliata sarebbe in errore, giacchè non esiste
né può essere ottenuta nessuna ‘più alta e più completa mente risvegliata. Subhuti, la ‘più alta e più completa mente risvegliata’ ottenuta dal
Tathagata non può essere afferrata né d’altra parte è sfuggente. Per tale motivo il Tathagata ha detto: ‘Tutti i dharma sono il Buddhadharma’. Quelli
che vengono chiamati ‘tutti i dharma’ non sono, in effetti, tutti i dharma. Proprio per questo sono chiamati ‘tutti i dharma’”. “Subhuti, può essere
fatto un paragone con l’idea di un grande corpo umano?”. Disse Subhuti: “Ciò che il Tathagata chiama ‘grande corpo umano’ non è in effetti, un
grande corpo umano”. “Subhuti, lo stesso può dirsi per quanto riguarda i bodhisattva. Se un bodhisattva pensa di dover liberare tutti gli esseri
viventi, allora non è un bodhisattva. Perché? Subhuti, non c’è un oggetto mentale esistente in modo indipendente chiamato ‘bodhisattva’. Inoltre, il
Buddha ha detto che tutti i dharma sono privi di sé, di una persona, di un essere vivente o della durata di un’esistenza. Subhuti, se un bodhisattva
pensa: ‘Devo creare una terra del Buddha splendida e pacifica’, quella persona non è ancora un bodhisattva. Perché? Ciò che il Tathagata chiama
‘splendida e pacifica terra del Buddha’ non è in effetti una splendida e pacifica terra di Buddha. E proprio per tale motivo viene chiamata ‘splendida
e pacifica terra del Buddha’. Subhuti, un bodhisattva che comprende alla perfezione il principo del non-sé e dei non-dharma può essere chiamato
dal Tathagata un autentico bodhisattva”. “Che ne pensi, Subhuti? Il Tathagata possiede occhi umani, l’occhio divino, l’occhio dell’introspezione,
l’occhio della saggezza trascendente, l’occhio del Buddha? Sì, Onorato dal Mondo, li possiede.” “Che ne pensi, Subhuti? Il Tathagata vede la sabbia
del Gange come sabbia?. Subhuti rispose: “ Onorato dal mondo, anche il Tathagata la chiama sabbia”. “Subhuti, se ci fossero altrettanti fiumi Gange
quanti sono i granelli di sabbia del Gange, e ci fosse una terra del Buddha per ogni granello di sabbia di tutti quei fiumi Gange, le terre del Buddha
sarebbero molte?” “Sì, Onorato dal Mondo, davvero infinite”. Il Buddha disse: “Subhuti, per quanti esseri viventi possano esserci in tutte quelle
terre del Buddha, sebbene ognuno di essi abbia una diversa mentalità, il Tathagata li comprende tutti. Com’è possibile? Subhuti, quelle che il
Tathagata chiama ‘diverse mentalità’ non sono in effetti diverse mentalità. Proprio per questo sono chiamate ‘diverse mentalità’”. “Perché?
Subhuti, la mente del passato non può essere afferrata, né può essere afferrata la mente del presente o quella del futuro”. Che ne pensi, Subhuti?
Se qualcuno, per un proprio atto di generosità, dovesse riempire i tremila chilocosmi con dei tesori preziosi, quella persona produrrebbe molta
felicità a causa di quel gesto virtuoso?”. “Sì, Onorato dal mondo, davvero molta”. “Subhuti, se una felicità del genere potesse essere concepita come
un’entità separata da una qualsiasi altra cosa, il Tathagata non avrebbe detto che si tratta di qualcosa di grande, ma proprio perché non è
afferrabile, il Tathagata ha detto che l’atto virtuoso di quella persona avrebbe creato un’enorme felicità”. “Che ne pensi, Subhuti? Il Tathagata può
essere percepito tramite il suo corpo perfettamente modellato? No, Onorato dal Mondo. Ciò che il Tathagata chiama ‘corpo perfettamente
modellato’ non è, in effetti, un corpo perfettamente modellato. Proprio per questo viene chiamato ‘corpo perfettamente modellato’”. “Che ne
pensi, Subhuti? Il Tathagata può essere percepito tramite la sua fisionomia perfettamente forgiata?”. “No, Onorato dal mondo. Non è possibile
percepire il Tathagata tramite alcuna fisionomia perfettamente forgiata. Perché? Perché ciò che il Tathagata chiama ‘fisionomia perfettamente
forgiata’ non è, in effetti, una fisionomia perfettamente forgiata. Proprio per questo viene chiamata ‘fisionomia perfettamente forgiata’ “. Subhuti,
non dire che il Tathagata concepisce un’idea del tipo: ‘Io darò un insegnamento’. Non pensare in questi termini. Perché? Se qualcuno dice che il
Tathagata ha qualcosa da insegnare, quella persona calunnia il Buddha non comprendendo ciò che ho detto. Subhuti, dare un insegnamento sul
Dharma in effetti vuol dire che non vi è alcun insegnamento che venga dato. Questo è davvero un insegnamento sul Dharma”. A quel punto
Subhuti, Colui che Possiede la Vita Interiore, disse al Buddha: “Onorato dal Mondo, ci saranno in futuro degli esseri che proveranno una completa
fiducia nell’ascolto di queste parole?”. Il Buddha disse: “Subhuti, quegli esseri viventi non sono né esseri viventi né non-esseri viventi. Perché?
Subhuti, quelli che il Tathagata chiama non-esseri viventi sono davvero esseri viventi”.
22
Subhuti chiese al Buddha: “Onorato dal Mondo, la più alta e completa mente del risveglio ottenuta dal
Buddha è forse irraggiungibile?”. Il Buddha disse: “Hai ragione, Subhuti. Riguardo alla più alta e più
completa mente risvegliata io non ho ottenuto nulla. Proprio per questo è chiamata la più alta e più
completa mente risvegliata”.
23
“Inoltre, Subhuti, quella mente è la stessa in ogni luogo. Non essendo né superiore né inferiore, è
chiamata la più alta e più completa mente risvegliata. Il frutto della più alta e più completa mente
risvegliata è realizzato attraverso la pratica di tutte le azioni positive compiute nello spirito del non-sé,
della non-persona, del non-essere vivente e della non-durata dell’esistenza. Subhuti, quelle che vengono
chiamate azioni positive non sono in effetti azioni positive. Proprio per questo vengono chiamate azioni
positive”.
24
“Subhuti, se qualcuno, per un proprio atto di generosità, dovesse riempire i tremila chiliocosmi con pile
dei sette preziosi tesori alte quanto il monte Sumeru, la felicità generata con questo atto sarebbe di gran
lunga inferiore a quella di una persona che sa accettare, praticare e spiegare agli altri il Vajracchedika
Prajnaparamita Sutra. La felicità prodotta da una persona che pratica questo sutra, anche se con una sola
gatha di quattro versi, non può essere descritta né usando degli esempi né attraverso la matematica”.

*******

Non ci sono grandi novità nelle tre parti di stasera, che ci avvicinano ormai sempre più alla fine; anche il
Sutra del Diamante usa la tecnica della reiterazione sistematica, tipico strumento di “formazione” presente
in molte religioni.

Noi stessi dello Zen – dello Zenshinji – non ne siamo esenti: anche noi ripetiamo a ogni sesshin i sutra e, più
volte, i quattro voti dell’assoluto, gli otto voti del relativo, la prajna paramita.

Il senso di ripetere formule più o meno articolate, in particolare i sutra (tra cui la prajna in lingua originale),
è stato oggetto sia di domande al maestro Taino in più occasioni, sia di autonome riflessioni da parte di
numerosi discepoli all’interno della nostra Comunità; è una questione controversa, che ha provocato, in
altre realtà Zen, tensioni molto forti che, in alcuni casi, sono sfociate in vere e proprie rotture tra Maestri;
così accadde al Rochester Zen Center di NY, fondato da P. Kapleau, quando decisero di tradurre e recitare i
sutra in inglese; il Maestro giapponese di Kapleau era contrarissimo, e ciò contribuì a un deterioramento
dei rapporti.

A Scaramuccia questi rischi non ci sono: la nostra comunità è stata definita una “monarchia democratica” e
l’ossimoro coglie bene la particolare dinamica di rapporti e di gestione del movimento; il Maestro Taino ha
più volte detto che la recitazione dei sutra ha più finalità:
 “svegliare”, prima di tutto, non in senso spirituale ma proprio fisico, visto che si cantano alle 5 di
mattina dopo essere andati a riposarsi alle 2;
 “muovere” tutto il Sangha, rendendolo un solo corpo, una sola voce, in ultima analisi, una sola
mente;
E poi c’è un altro senso, molto più profondo e misterioso: “continuare” a farli proprio perché non hanno
senso! Un paradosso che andrebbe sviluppato, e prima o poi lo faremo.

Chi ha qualche resistenza alla reiterazione sistematica vi sente l’eco di pratiche religiose che fanno parte
della tradizione delle grandi religioni istituzionalizzate, o comunque li vede come componenti di una
“cassetta degli attrezzi di formazione” ormai arrugginita, o quasi. E’ una posizione più radicale che vede il
cuore della pratica nel solo zazen, kinhin e koan; tutto il resto (sutra, voti, liturgie varie, strumenti musicali,
statue e statuette, abiti da cerimonia e non, ritualità diverse) può essere abbandonato (o quasi) senza
nessun rischio; un po’ nello spirito degli ordini mendicanti occidentali, e dei monaci dell’oriente che
vagabondavano portando con sé solo le tre ciotole (che poi è stato sintetizzato da Madre Teresa con il suo
pensiero: “Quel che non serve, pesa”).

Già i “nuovi” rami, cioè i nuovi centri che stanno crescendo sul grande albero dello Zenshinji, sviluppano
una loro specifica via su questi temi: è un segno di grande ricchezza, difficile da trovare nel mondo
buddhista italiano e non.

Giorni fa parlavo con dei rappresentanti del variegato mondo buddhista cha fa riferimento al monaco
Nichiren; è abissale la distanza che c’è tra il nostro mondo e il loro; ve ne faccio un esempio: il commento
che l’abate italiano fa di un testo della tradizione è sostanzialmente soggetto a una verifica successiva del
maestro giapponese, che ne attesta, periodicamente, cioè quando fa visita al centro italiano, la correttezza
dottrinale; il testo antico non può essere comunque liberamente tradotto e non si possono commentare
testi diversi. Ho chiesto loro: e se non vi trovate d’accordo? Se sorge una divergenza sulla teoresi, o
sull’interpretazione, come fate? Mi hanno detto: “Non può accadere! Perché la dottrina è completa e
perfetta, e risponde sempre in modo esaustivo a qualsiasi tema”. Ho risposto: “Ma prendiamo il fine vita, i
problemi dell’ambiente, la globalizzazione non solo economica ma anche culturale, la parità vera
uomo/donna, la sperimentazione animale, la libertà dell’informazione, ecc.: ma com’è possibile che un
testo comunque antico, al massimo del 19° secolo, possa rispondere e dare una linea precisa di
comportamento o di approccio su aspetti problematici che sono frutto della modernità? ”. La loro posizione
non è cambiata; il testo va già bene e gli adattamenti e le attualizzazioni necessari sono marginali.

Lo stesso vale per il ruolo e l’importanza attribuito al lignaggio, e più in generale alla tradizione giapponese.
In loro, come anche nello Zen Soto, almeno nella maestra con cui ho parlato, il lignaggio, in un certo senso,
è tutto, è la terra su cui ritengono di far crescere il proprio albero, è il faro che guida la loro nuova
navigazione. Lo stesso vale per il riferimento alla tradizione giapponese, che poi si allarga alla cultura
giapponese: è vista come una garanzia, il segno di una fedeltà che trascende ogni latitudine, ogni contesto,
ogni epoca: e quindi, tanto per fare un esempio, diventa necessario, indispensabile, prevedere un
soggiorno lungo dei novizi in Giappone, assicurare la loro formazione monastica secondo i paradigmi del Sol
Levante, vedere comunque il mondo nipponico come una sorta di modello di riferimento ideale, senza
sottoporlo mai al criticismo del pensiero occidentale che, piaccia o no, costituisce la base su cui noi siamo
cresciuti, e alle cui interrogazioni problematiche non si può e non si deve sfuggire (e qui la Scuola di Kyoto
sarebbe di aiuto a molti). E poi, mi verrebbe da dire, perché non pensare anche alla tradizione cinese, a
quella indiana, a quella taoista, in una regressione all’infinito…. Alla fine (del pranzo) mi è venuto di dirle:
“… lo Zen Soto sei tu, come lo è ogni altro maestro italiano in cui i discepoli ripongono fiducia!”; è rimasta a
lungo in silenzio, poi mi ha detto: “Le mie spalle sono ancora fragili!”. E’ stato un momento bello.

Noi dello Zenshinji – in particolare i praticanti che stanno lavorando ai nuovi koan, nelle fasi 2 e 3 della
Sistema – possiamo comprendere bene la debolezza di queste impostazioni, il rischio di gerarchizzare
l’insegnamento, di non arricchirlo di apporti di altre culture e di altre sensibilità, di non sottoporlo alla
fornace della realtà quotidiana, del qui e ora aprile 2016, dove troviamo la disoccupazione, la malattia
ambientale, la scienza medica che ti condanna a non morire, la violenza sulle donne, le apocalissi dei poveri
migranti, e così via.

Tutto va sempre bene a Scaramuccia? Le scelte del Maestro sono sempre condivise, colgono sempre il
sentimento prevalente del Sangha? Naturalmente no! ma questo ci sta, l’organismo è comunque sveglio e
maturo e capace di vivere con spirito critico, ma positivo, le variazioni di rotta.

In ogni modo… ci vorrà tempo per comprendere, sviscerare bene, articolare ancor più, e diffondere, in mille
diversi modi, la visione dello Zenshinji, ma accadrà, senza dubbio.

Per ora, vediamo che cosa hanno da dirci questi due uomini di 25 secoli fa!

Subhuti chiese al Buddha: “Onorato dal Mondo, la più alta e completa mente del risveglio ottenuta
dal Buddha è forse irraggiungibile?”. Il Buddha disse: “Hai ragione, Subhuti. Riguardo alla più alta e
più completa mente risvegliata io non ho ottenuto nulla. Proprio per questo è chiamata la più alta e
più completa mente risvegliata”.
“Inoltre, Subhuti, quella mente è la stessa in ogni luogo. Non essendo né superiore né inferiore, è
chiamata la più alta e più completa mente risvegliata. Il frutto della più alta e più completa mente
risvegliata è realizzato attraverso la pratica di tutte le azioni positive compiute nello spirito del non-
sé, della non-persona, del non-essere vivente e della non-durata dell’esistenza. Subhuti, quelle che
vengono chiamate azioni positive non sono in effetti azioni positive. Proprio per questo vengono
chiamate azioni positive”.
“Subhuti, se qualcuno, per un proprio atto di generosità, dovesse riempire i tremila chiliocosmi con
pile dei sette preziosi tesori alte quanto il monte Sumeru, la felicità generata con questo atto
sarebbe di gran lunga inferiore a quella di una persona che sa accettare, praticare e spiegare agli
altri il Vajracchedika Prajnaparamita Sutra. La felicità prodotta da una persona che pratica questo
sutra, anche se con una sola gatha di quattro versi, non può essere descritta né usando degli
esempi né attraverso la matematica”.

Continuano con il tema della raggiungibilità o irraggiungibilità della mente risvegliata, della sua ubiquità
spazio-temporale, del suo essere Uno. Del fatto che dalla ricerca non si ottiene nulla: vorrei vedere che si
ottenesse qualcosa!

Lo diranno molto meglio (ma vengono più di 1700 anni dopo, e avevano un bel po’ di bibliografia!), i grandi
mistici renani:

 da Eckhart con il suo celebre pensiero:


L’uomo che sa, niente ha, niente vuole, niente sa
 a Silesio con il distico
Chi nulla brama, né sa, nulla ama e vuole/
ancor sempre molto ha, molto sa, molto brama e vuole

Parliamo spesso del “tesoro” della realizzazione della natura di Buddha, lo si ritrova frequentemente nei
teisho dei maestri dello Zen, anche di Taino; e la nostra mente visualizza immediatamente un brillante, una
luce, o qualcosa del genere che sta davanti a noi e che possiamo, come domanda il Buddha, “raggiungere”;
e qui dobbiamo stare molto attenti perché l’errore sarebbe mortale: davanti ai nostri occhi sta uno
specchio e non c’è nessun tesoro che sussiste all’esterno: lo specchio presenta quello che gli viene posto
davanti: il tesoro siamo noi stessi così come siamo, niente è da aggiungere, raggiungere, catturare,
“ottenere” per usare le parole del Sutra.

Incrociare le gambe, allineare la spina dorsale; fare il silenzio dentro di sé e percorrere così la via
dell’abbandono, della rinuncia, del distacco.

Lo esprime meravigliosamente il Buddha stesso, parlando della natura condizionata, fondamentalmente


insussistente, della mente:

Pensate alla mente come alle stelle, a un difetto della vista, come a una lampada, allo spettacolo di
un prestigiatore, a gocce di rugiada, o a una bolla, a un sogno, al lampo di un fulmine e a una nube:
in questo modo si dovrebbe vedere da cosa è condizionata.

Non si cerca niente, non si ottiene niente: si scopre semplicemente di avere già tutto non avendo
assolutamente nulla; il processo di nientificazione del proprio io personale attua un rinnovamento integrale
e globale che riguarda non solo il ricercatore ma l’universo intero: la grande Morte (l’ottava stazione dei
Tori) sancisce la fine di ogni oggetto, di ogni rappresentazione, quindi anche di ogni religione come
rappresentazione.

Si scoprirà, come dice sempre Eckhart, con la sua potentissima lingua che:

In Dio tutto è Dio: anche un solo bruchino,


in Dio è tanto quanto sono mille Iddii
In altre parole: la nona Stazione dei Tori: in quel ramo fiorito, il fiore del nulla.

E poi c’è il tema della decima stazione, su cui si soffermano Buddha e Subhuti parlando delle azioni positive,
che poi, ma ora è fin troppo chiaro, quasi noioso! sono quelle poste in atto senza attaccamento, senza una
propria finalità, per usare le loro parole

compiute nello spirito del non-sé, della non-persona, del non-essere vivente e della non-durata
dell’esistenza.

E infatti il passo successivo è realizzare che non sono nemmeno definibili come “positive”

Subhuti, quelle che vengono chiamate azioni positive non sono in effetti
azioni positive. Proprio per questo vengono chiamate azioni positive.

La parte 24 si chiude con una stranezza evidente quando il Buddha dice che non c’è matematica, pur con i
suoi strumenti di misurazione e di concettualizzazione dell’infinito, che possa descrivere l’azione positiva
che deriverebbe dalla pratica della Prajna. Qui il Buddha si fa un po’ prendere dall’entusiasmo, come
accade più volte nel Sutra del Diamante, e cade in una contraddizione con quanto aveva detto poche righe
prima.

“Subhuti, se qualcuno, per un proprio atto di generosità, dovesse riempire i tremila chiliocosmi con
pile dei sette preziosi tesori alte quanto il monte Sumeru, la felicità generata con quest’atto
sarebbe di gran lunga inferiore a quella di una persona che sa accettare, praticare e spiegare agli
altri il Vajracchedika Prajnaparamita Sutra. La felicità prodotta da una persona che pratica questo
sutra, anche se con una sola gatha di quattro versi, non può essere descritta né usando degli
esempi né attraverso la matematica”.

L’ulteriore, ultimo passo, sfugge ad ambedue, e cioè la realizzazione che non sono nemmeno azioni! Come
dirà il maestro Tozan nel suo “Il samadhi dello specchio prezioso”

Nella suprema attività della non-mente guarda:


l’uomo di legno canta,
la fanciulla di pietra danza!
Tutto ciò è ben lontano dalla comune
coscienza, non si esprime con il pensiero .

Con supremo distacco, alla sera – che può essere anche la sera della vita – si percorre la via che dal
palcoscenico porta al camerino: si tolgono gli abiti di scena, quelli che si vedono e quelli che non si vedono,
e si scioglie il trucco, indifferenti a che cosa abbiamo prima recitato, e che ha la stessa sostanza di cui son
fatti i sogni.
DAL “SUTRA DEL DIAMANTE”
Parti 25 26 27
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Dalle parti precedenti (1-24)
Una volta ho udito questo. Il Signore soggiornava a Sravasti. Di primo mattino il Signore si vestì, mise il mantello, prese la sua ciotola ed entrò nella
grande città di Sravasti per raccogliere elemosina. Quando ebbe mangiato e fu tornato dal suo giro, il Signore ripose la ciotola e il mantello, si lavò i
piedi e si sedette sul seggio preparato per lui, incrociò le gambe, tenendo la schiena eretta, attento, puntando tutta l’attenzione davanti a sé. Allora
molti monaci si avvicinarono al luogo in cui il Signore si trovava, chinarono le teste ai suoi piedi, fecero tre giri intorno a lui procedendo verso destra
e si sedettero da un lato.
In quel momento il venerabile Subhuti raggiunse quell’assemblea e si sedette. Poi si alzò dal suo posto, gettò su una spalla il mantello, piegò il
ginocchio destro a terra, si inchinò a mani giunte verso Buddha e disse al Signore: “È meraviglioso, o Signore, è incommensurabilmente
meraviglioso. O Bene-andato, quanto i Bodhisattva, i grandi esseri, siano stati aiutati dall’ausilio immenso del Tathagata! Allora, o Signore, uno che
sia entrato nel veicolo-del-Bodhisattva, come dovrebbe resistere, come dovrebbe progredire, come dovrebbe controllare i pensieri? Dopo queste
parole, il Signore disse a Subhuti: “Pertanto, Subhuti, ascolta bene e attentamente”.
“Qualcuno che abbia scelto di entrare nel veicolo di un Bodhisattva dovrebbe formulare un pensiero in questo modo: “Tanti quanti sono gli esseri
esistenti nell’universo degli esseri, e siano compresi nel termine “esseri”, io devo condurli tutti al Nirvana, in quel regno del Nirvana che non lascia
nulla dietro di sé. E tuttavia, sebbene innumerevoli esseri vengano così condotti al Nirvana, nessun essere sarà stato condotto al Nirvana”. E
perché? Se in un Bodhisattva trovasse posto il concetto di un ‘essere’ egli non potrebbe essere definito un Bodhisattva. E perché? Non deve essere
definito essere-di-Bodhi colui nel quale trovi posto il concetto di un sé o di un essere, o il concetto di un’anima vivente o di una persona”.
“Poiché un Bodhisattva che offra un dono non dovrebbe essere sostenuto da alcuna cosa, né dovrebbe avere sostegno in alcun luogo. Il grande
essere dovrebbe offrire i suoi doni in modo tale da non essere sostenuto dal concetto di un segno. E perché? Perché il cumulo dei meriti di
quell’essere-di-Bodhi, che senza alcun sostegno offre un dono, non è facile da misurare”. Il Signore continuò: “Cosa pensi, Subhuti, che il Tathagata
possa essere riconosciuto dal possesso dei suoi contrassegni?”. Sibhuti rispose: “No davvero, o Signore. E perché? Quello che il Tathagata ha
insegnato come il possesso di contrassegni, quello è in verità il non-possesso di non-contrassegni.” Il Signore disse: “Dovunque ci sia il possesso di
contrassegni, là c’è frode; dovunque ci sia il non-possesso di non-contrassegni, là non c’è frode. Di conseguenza il Tathagata dev’essere riconosciuto
dai non-contrassegni che sono contrassegni.” Subhuti chiese: “Ci saranno degli esseri – in un tempo futuro, negli ultimi momenti, nell’ultima epoca,
negli ultimi cinquecento anni, nel momento del collasso della buona dottrina – che, quando queste parole del Sutra saranno insegnate,
comprenderanno la loro verità?”. Il Signore rispose: “Non parlare così, Subhuti! Certo, anche allora ci saranno degli esseri che, quando queste
parole del Sutra saranno insegnate, comprenderanno la loro verità. Perché anche in quell’epoca, Subhuti, ci saranno dei Bodhisattva. E quei
Bodhisattva, Subhuti, non saranno tali da aver fatto onore a un singolo Buddha, né tali da aver affondato le radici dei loro meriti solo sotto un
singolo Buddha. Al contrario, Subhuti, quei Bodhisattva, quando queste parole del Sutra saranno insegnate, scopriranno anche un unico pensiero di
limpida fede, e saranno tali da aver fatto onore a molte centinaia di migliaia di Buddha, come se avessero affondato le radici dei loro meriti sotto
molte centinaia di migliaia di Buddha. Subhuti, il Tathagata li conosce attraverso la sua conoscenza illuminata; Subhuti, il Tathagata li vede
attraverso il suo occhio di Buddha; al Tathagata essi sono totalmente noti, Subhuti. E tutti loro, Subhuti, genereranno e acquisiranno un
incommensurabile e incalcolabile cumulo di meriti. Il Signore chiese: “Cosa pensi, Subhuti, che ci sia qualche Dharma che il Tathagata abbia
completamente conosciuto come “la massima, giusta e perfetta illuminazione” o che ci sia qualche Dharma che il Tathagata abbia dimostrato?”
Subhuti rispose: “No, non da come ho capito ciò che il Signore ha detto. E perché? Questo Dharma che il Tathagata avesse completamente
conosciuto o dimostrato non potrebbe essere afferrato, non se ne potrebbe parlare, esso è né un Dharma, né un non-Dharma. E perché? Perché un
assoluto esalta le Persone Sacre”. Il Signore allora disse: “Certo, Subhuti, poiché il Tathagata ha insegnato che i Dharma propri ai Buddha non sono
affatto “Dharma propri ai Buddha”. Ecco perché sono chiamati “i Dharma propri ai Buddha””.
Il Signore chiese: “Cosa pensi, Subhuti, che al Vincitore-della-corrente accada di pensare “Io ho raccolto il frutto di un Vincitore-della-corrente”?”
Subhuti rispose: “No davvero, Signore. E perché? Perché, Signore, egli non ha vinto alcun Dharma. Pertanto viene chiamato Vincitore-della corrente.
Egli non ha vinto alcun oggetto visibile, né suoni, né odori, né sapori, né oggetti tangibili, né oggetti della mente. Ecco perché viene chiamato
Vincitore-della-corrente. O Signore, se a un Vincitore-della-Corrente accadesse di pensare “io ho raccolto il frutto di un Vincitore-della-corrente”,
allora in lui sarebbe presente la padronanza di un sé, la padronanza di un essere, la padronanza di un’anima, la padronanza di una persona”. Il
Signore chiese: “Cosa pensi, Subhuti, che all’Arhat accada di pensare “io ho raggiunto lo stato di Araht?” Subhuti: “No, davvero, Signore. E perché?
Perché nessun Dharma viene chiamato Arhat. Ecco perché egli si chiama Arhat. Ecco perché gli si chiama Arhat. E perché? O Signore, io sono uno
che il Tathagata ha indicato come il primo fra coloro che dimorano nella pace. O Signore, io sono un Arhat libero dalla cupidigia. E tuttavia, o
Signore, a me non capita di pensare “io sono un Arhat e sono libero dalla cupidigia”. O Signore, se mi capitasse di pensare di aver raggiunto lo stato
di Arhat, allora il Tathagata non avrebbe dichiarato: “Subhuti, questo figlio di buona famiglia che è il primo fra coloro che dimorano nella pace, non
dimora nella pace, non dimora in alcun luogo, ecco perché viene chiamato “colui che dimora nella pace, uno che dimora nella pace” “. Il Signore
chiese: “Cosa pensi, Subhuti, che ci sia qualche Dharma che il Tathagata abbia appreso da Dipankara?” Subhuti rispose: “Non è così, o Signore, non
ce ne sono.” Il Signore disse: “Se qualche Bodhisattva dicesse “creerò armoniosi Buddhafield” direbbe il falso. E perché? “Le armonie dei
Buddhafield”, Subhuti, le ha insegnate il Tathagata come “non-armonie”. Perciò egli ha parlato di “armoniosi Buddhafield”. Buddha chiese:
“Subbhuti, se ci fossero tanti fiumi Gange quanti sono i granelli di sabbia del Gange stesso, diresti che la somma di tutti i granelli presenti nei fiumi
Gange è davvero straordinaria?”. Rispose Subhuti: “Onorato dal Mondo, sarebbero davvero infiniti. Se il numero dei fiumi Gange fosse enorme,
tanto più enorme sarebbe il numero di granelli di sabbia presente in tutti quei fiumi Gange”. “Subhuti, ora voglio chiederti questo: se un figlio o una
figlia di buona famiglia, per compiere un atto di generosità, dovesse riempire i tremila chiliocosmi con tanti gioielli preziosi quanti sono i granelli di
sabbia presenti in tutti quei fiumi Gange, quella persona creerebbe molta felicità attraverso il proprio atto virtuoso?”. Rispose Subhuti: “Davvero
una grandissima felicità, Onorato dal Mondo”. Il Buddha disse allora a Subhuti: “Se un figlio o una figlia di buona famiglia sa come riconoscere,
praticare e spiegare questo sutra agli altri, anche con una sola gatha di quattro versi, la felicità creata tramite questo gesto virtuoso è di gran lunga
più grande”. Buddha proseguì: “Inoltre, Subhuti, ogni pezzo di terra sul quale questo sutra verrà proclamato, persino con una sola gatha di quattro
versi, diventerà una terra dove dèi, uomini e semidèi si recheranno per fare offerte, proprio come se facessero offerte a uno stupa del Buddha. Se il
pezzo di terra potrà essere considerato pertanto sacro, ancor di più potrà dirsi della persona che pratica e recita questo sutra. Subhuti, dovresti
sapere che quella persona otterrà qualcosa di raro e profondo. Ovunque questo sutra venga conservato, quel luogo sacro diventa uno scrigno che
custodisce la preziosa presenza del Buddha o di uno dei grandi discepoli del Buddha”.
Dopo queste parole, Subhuti chiese al Buddha: “Come dovrebbe essere chiamato questo sutra, e come dovremmo comportarci nei confronti dei
suoi insegnamenti?”. Rispose il Buddha: “Questo sutra dovrebbe essere chiamato “Il Diamante che Recide l’Illusione”, poiché ha la capacità di
recidere tutte le illusioni e le contaminazioni mentali, sino a portarci alla sponda della liberazione”. Il Signore disse ancora: “E ancora, Subhuti,
supponi che una donna, o un uomo, abbiano rinunciato a tutti i propri averi tante volte quanti sono i granelli di sabbia in riva al Gange; supponi poi
che qualcun altro, dopo aver appreso da questo discorso sul Dharma solo una strofa di quattro righe, la spieghi agli altri. Allora quest’ultimo, in virtù
di ciò, generebbe un grande cumulo di meriti smisurati e incalcolabili”. Subito dopo, l’impatto con il Dharma fece spuntare le lacrime al Venerabile
Subhuti. Dopo essersele asciugate, egli parlò così al Buddha: “È meraviglioso, o Signore, è più che meraviglioso, o Bene-andato, come il Tathagata
abbia spiegato bene questo discorso sul Dharma. Esso ha prodotto in me la conoscenza, ma non c’è davvero alcuna percezione. E perché? Perché i
Buddha, i Signori, hanno abbandonato tutte le percezioni”. Il Signore disse: “È così, Subhuti. Meravigliosamente benedetti saranno quegli esseri che,
udendo questo Sutra, non tremeranno, non ne saranno spaventati o terrorizzati”. “Per riassumere, Subhuti, questo sutra comporta virtù e felicità
infinite, tali da non poter esser concepite o misurate. Subhuti, se una persona si accontenta degli insegnamenti minori, se resta intrappolata
nell’idea di un sé, di una persona, di un essere vivente o della durata di un’esistenza, questa persona non sarà capace di ascoltare, recitare e
spiegare questo sutra agli altri. Subhuti, ogni luogo nel quale questo sutra può essere trovato è un luogo nel quale dèi, uomini e semidèi, si
raccolgono per fare offerte. Un luogo del genere è un altare e dovrebbe essere venerato con cerimonie formali, circumambulazioni e offerte di fiori
e incenso”. “Inoltre, Subhuti, se un figlio o una figlia di buona famiglia venisse disprezzato o calunniato mentre recita o pratica questo sutra, le sue
azioni negative commesse nelle vite precedenti, incluse quelle che potrebbero comportare un destino infelice, sarebbero sradicate, e otterrebbe il
frutto della più completa mente risvegliata. Subhuti, in tempi antichi, prima che io incontrassi il Buddha Dipankara, feci offerte e divenni assistente
di tutti gli ottantaquattromila multi-milioni di buddha. Se qualcuno è capace di ricevere, recitare, studiare e praticare questo sutra nell’ultima
epoca, la felicità prodotta da quest’atto virtuoso sarà centinaia di migliaia di volte più grande di quella che io stesso creai nei tempi antichi. In
effetti, una felicità del genere non può essere concepita o paragonata a null’altro, neppure in termini matematici. Una felicità del genere è in realtà
incommensurabile”. “Subhuti, la felicità generata da un figlio di buona famiglia che riceve, recita, studia e pratica questo sutra nell’ultima epoca
sarà talmente grande che se dovessi spiegarla ora nei dettagli, qualcuno diverrebbe sospettoso e incredulo, e la sua mente potrebbe essere
disorientata. Subhuti, dovresti sapere che il significato di questo sutra è al di là dei concetti e delle discussioni. Egualmente, il frutto che risulta dal
ricevere e praticare questo sutra è al di là dei concetti e delle discussioni. A quel punto, il Venerabile Subhuti disse al Buddha: “Onorato dal Mondo,
vorrei chiederti ancora una volta su che cosa dovrebbe basarsi e come dovrebbe addestrare la propria mente un figlio o una figlia di buona famiglia
che volesse generare la più alta e la più completa mente risvegliata”. Il Buddha rispose: “Subhuti, un buon figlio o figlia che volesse generare la più
alta e più completa mente risvegliata dovrebbe farlo in questo modo: ‘Dobbiamo condurre tutti gli esseri alla riva del risveglio, ma, dopo che questi
esseri hanno raggiunto la liberazione, non penseremo affatto che ci sia un solo essere che ha raggiunto la liberazione’. Perché è così? Subhuti, se un
bodhisattva è ancora catturato dall’idea di un sé, di una persona, di un essere vivente o della durata di un’esistenza, quello non è un autentico
bodhisattva. Perché? “Subhuti, in effetti non c’è un oggetto mentale esistente in modo indipendente che possa essere denominato ‘più alta e più
completa mente risvegliata’. Che ne pensi Subhuti? In tempi antichi, quando il Tathagata viveva con il Buddha Dipankara, ottenne qualcosa
chiamato ‘più alta e più completa mente risvegliata’? “No, Onorato dal Mondo. Secondo quanto ho compreso attraverso l’insegnamento del
Buddha, non c’è alcun ottenimento di un qualcosa chiamato ‘più alta e più completa mente risvegliata’”. Il Buddha disse: “Hai ragione, Subhuti. In
effetti, la cosiddetta ‘più alta e più completa mente risvegliata’ non esiste, né il Thatagata la ottiene. Se ci fosse una cosa del genere, il Buddha
Dipankara non mi avrebbe predetto: ‘In futuro, diverrai un Buddha chiamato Sakyamuni’. Questa predizione venne fatta proprio perché non c’è, in
effetti, nulla che possa essere ottenuto e che si chiami ‘più alta e più completa mente risvegliata’. Perché? Tathagata vuol dire la talità di tutte le
cose (i dharma). Se qualcuno dicesse che il Tathagata ha ottenuto la più alta e più completa mente risvegliata sarebbe in errore, giacchè non esiste
né può essere ottenuta nessuna ‘più alta e più completa mente risvegliata. Subhuti, la ‘più alta e più completa mente risvegliata’ ottenuta dal
Tathagata non può essere afferrata né d’altra parte è sfuggente. Per tale motivo il Tathagata ha detto: ‘Tutti i dharma sono il Buddhadharma’. Quelli
che vengono chiamati ‘tutti i dharma’ non sono, in effetti, tutti i dharma. Proprio per questo sono chiamati ‘tutti i dharma’”. “Subhuti, può essere
fatto un paragone con l’idea di un grande corpo umano?”. Disse Subhuti: “Ciò che il Tathagata chiama ‘grande corpo umano’ non è in effetti, un
grande corpo umano”. “Subhuti, lo stesso può dirsi per quanto riguarda i bodhisattva. Se un bodhisattva pensa di dover liberare tutti gli esseri
viventi, allora non è un bodhisattva. Perché? Subhuti, non c’è un oggetto mentale esistente in modo indipendente chiamato ‘bodhisattva’. Inoltre, il
Buddha ha detto che tutti i dharma sono privi di sé, di una persona, di un essere vivente o della durata di un’esistenza. Subhuti, se un bodhisattva
pensa: ‘Devo creare una terra del Buddha splendida e pacifica’, quella persona non è ancora un bodhisattva. Perché? Ciò che il Tathagata chiama
‘splendida e pacifica terra del Buddha’ non è in effetti una splendida e pacifica terra di Buddha. E proprio per tale motivo viene chiamata ‘splendida
e pacifica terra del Buddha’. Subhuti, un bodhisattva che comprende alla perfezione il principo del non-sé e dei non-dharma può essere chiamato
dal Tathagata un autentico bodhisattva”. “Che ne pensi, Subhuti? Il Tathagata possiede occhi umani, l’occhio divino, l’occhio dell’introspezione,
l’occhio della saggezza trascendente, l’occhio del Buddha? Sì, Onorato dal Mondo, li possiede.” “Che ne pensi, Subhuti? Il Tathagata vede la sabbia
del Gange come sabbia?. Subhuti rispose: “ Onorato dal mondo, anche il Tathagata la chiama sabbia”. “Subhuti, se ci fossero altrettanti fiumi Gange
quanti sono i granelli di sabbia del Gange, e ci fosse una terra del Buddha per ogni granello di sabbia di tutti quei fiumi Gange, le terre del Buddha
sarebbero molte?” “Sì, Onorato dal Mondo, davvero infinite”. Il Buddha disse: “Subhuti, per quanti esseri viventi possano esserci in tutte quelle
terre del Buddha, sebbene ognuno di essi abbia una diversa mentalità, il Tathagata li comprende tutti. Com’è possibile? Subhuti, quelle che il
Tathagata chiama ‘diverse mentalità’ non sono in effetti diverse mentalità. Proprio per questo sono chiamate ‘diverse mentalità’”. “Perché?
Subhuti, la mente del passato non può essere afferrata, né può essere afferrata la mente del presente o quella del futuro”. Che ne pensi, Subhuti?
Se qualcuno, per un proprio atto di generosità, dovesse riempire i tremila chilocosmi con dei tesori preziosi, quella persona produrrebbe molta
felicità a causa di quel gesto virtuoso?”. “Sì, Onorato dal mondo, davvero molta”. “Subhuti, se una felicità del genere potesse essere concepita come
un’entità separata da una qualsiasi altra cosa, il Tathagata non avrebbe detto che si tratta di qualcosa di grande, ma proprio perché non è
afferrabile, il Tathagata ha detto che l’atto virtuoso di quella persona avrebbe creato un’enorme felicità”. “Che ne pensi, Subhuti? Il Tathagata può
essere percepito tramite il suo corpo perfettamente modellato? No, Onorato dal Mondo. Ciò che il Tathagata chiama ‘corpo perfettamente
modellato’ non è, in effetti, un corpo perfettamente modellato. Proprio per questo viene chiamato ‘corpo perfettamente modellato’”. “Che ne
pensi, Subhuti? Il Tathagata può essere percepito tramite la sua fisionomia perfettamente forgiata?”. “No, Onorato dal mondo. Non è possibile
percepire il Tathagata tramite alcuna fisionomia perfettamente forgiata. Perché? Perché ciò che il Tathagata chiama ‘fisionomia perfettamente
forgiata’ non è, in effetti, una fisionomia perfettamente forgiata. Proprio per questo viene chiamata ‘fisionomia perfettamente forgiata’ “. Subhuti,
non dire che il Tathagata concepisce un’idea del tipo: ‘Io darò un insegnamento’. Non pensare in questi termini. Perché? Se qualcuno dice che il
Tathagata ha qualcosa da insegnare, quella persona calunnia il Buddha non comprendendo ciò che ho detto. Subhuti, dare un insegnamento sul
Dharma in effetti vuol dire che non vi è alcun insegnamento che venga dato. Questo è davvero un insegnamento sul Dharma”. A quel punto
Subhuti, Colui che Possiede la Vita Interiore, disse al Buddha: “Onorato dal Mondo, ci saranno in futuro degli esseri che proveranno una completa
fiducia nell’ascolto di queste parole?”. Il Buddha disse: “Subhuti, quegli esseri viventi non sono né esseri viventi né non-esseri viventi. Perché?
Subhuti, quelli che il Tathagata chiama non-esseri viventi sono davvero esseri viventi”.
Subhuti chiese al Buddha: “Onorato dal Mondo, la più alta e completa mente del risveglio ottenuta dal Buddha è forse irraggiungibile?”. Il Buddha
disse: “Hai ragione, Subhuti. Riguardo alla più alta e più completa mente risvegliata io non ho ottenuto nulla. Proprio per questo è chiamata la più
alta e più completa mente risvegliata”.
“Inoltre, Subhuti, quella mente è la stessa in ogni luogo. Non essendo né superiore né inferiore, è chiamata la più alta e più completa mente
risvegliata. Il frutto della più alta e più completa mente risvegliata è realizzato attraverso la pratica di tutte le azioni positive compiute nello spirito
del non-sé, della non-persona, del non-essere vivente e della non-durata dell’esistenza. Subhuti, quelle che vengono chiamate azioni positive non
sono in effetti azioni positive. Proprio per questo vengono chiamate azioni positive”.
“Subhuti, se qualcuno, per un proprio atto di generosità, dovesse riempire i tremila chiliocosmi con pile dei sette preziosi tesori alte quanto il
monte Sumeru, la felicità generata con questo atto sarebbe di gran lunga inferiore a quella di una persona che sa accettare, praticare e spiegare agli
altri il Vajracchedika Prajnaparamita Sutra. La felicità prodotta da una persona che pratica questo sutra, anche se con una sola gatha di quattro
versi, non può essere descritta né usando degli esempi né attraverso la matematica”.

25
“Subhuti, non dire che il Tathagata genera il pensiero: ‘Porterò gli esseri viventi alla sponda della
liberazione’. Non pensare in questo modo, Subhuti. Perché? In verità non vi è per il Tathagata un solo
essere che debba essere portato sull’altra riva. Se il Tathagata pensasse in quel modo, sarebbe preda
dell’idea di un sé, di una persona, di un essere vivente o della durata di un’esistenza. Subhuti, ciò che il
Tathagata chiama ‘sé’, in effetti è privo di quel sé così come viene percepito da un essere ordinario.
Subhuti, il Tathagata non considera nessuno come un essere ordinario. Proprio per questo motivo può
denominare qualcuno ‘un essere ordinario’”.

26
“Che ne pensi, Subhuti? È possibile che qualcuno mediti sul Tathagata attraverso i trentadue segni?.
Disse Subhuti: “Sì, Onorato dal Mondo. Dovremmo usare i trentadue segni per meditare sul Tathagata”.
Allora il Buddha disse: “Se tu dici che puoi usare i trentadue segni per vedere il Tathagata, allora vuoi dire
che un Cakravartin è un Tathagata?”. Subhuti rispose: “Onorato dal Mondo, ho compreso il tuo
insegnamento. Non si dovrebbero usare i trentadue segni per meditare sul Tathagata”. A quel punto il
Tathagata recitò i seguenti versi:

Chiunque mi cerchi nella forma


O mi cerchi nei suoni
È su un sentiero erroneo
E non potrà scorgere il Tathagata

27
“Subhuti, se pensi che il Tathagata realizzi la più alta e più completa mente risvegliata e non ci sia
bisogno che possieda tutti i segni caratteristici, sei in errore. Subhuti, non pensare in questo modo. Non
pensare che nel generare la più alta e la più completa mente risvegliata si debbano vedere tutti gli
oggetti mentali come non-esistenti, tagliati fuori dalla vita. Ti prego di non pensare in questo modo.
Chiunque generi la più alta e più completa mente risvegliata non afferma che tutti gli oggetti mentali
siano non-esistenti e tagliati fuori dalla vita”.

*******

Tornato in Vaticano dopo l’ultimo viaggio apostolico intorno al mondo, il Papa trovò sulla sua
scrivania una lettera d’invito. Gliel’aveva scritta Dio, che lo chiamava a un incontro strettamente
riservato. Ripresosi dallo shock, fu preso dal panico: si doveva assolutamente preparare! Convocò
un concilio segretissimo, al quale furono invitati i più grandi teologi e metafisici del tempo, di ogni
latitudine e cultura. Furono preparate delle schede tematiche che, per ogni argomento,
contenevano le possibili domande di Dio e le risposte che il Papa avrebbe potuto dare. Il Papa
mandò tutto a memoria, e partì. Dopo qualche giorno, i metafisici furono riconvocati.
Il Papa entrò nella sala, molto rabbuiato in volto; gli esperti si guardarono l’un l’altro preoccupati.
Il Papa esordì: “E’ andata malissimo, malissimo, non avevate capito nulla!”.
Il portavoce dei metafisici chiese: “Santità, in che cosa abbiamo sbagliato?”.
Il Papa, fissando la platea: “Dio è una ragazza nera di quindici anni!”.

È un raccontino teologico, quasi una barzelletta, molto divertente e, più che altro, spiazzante; lo si può
leggere a molti livelli, del tipo:
 l’uomo crea un Dio a propria immagine e somiglianza;
 ancor più, ogni gruppo umano, ogni cultura, lo personalizza nelle forme e nei contenuti (disse
quello: se i cavalli avessero un Dio… lo farebbero nitrire!);
 un Dio assolutamente altro, per le religioni istituzionalizzate è un disastro, un’apocalisse, mettendo
in discussione le strutture di potere che le sostengono e che poggiano proprio sul consenso del
“cielo” (se c’è un solo Dio... ci può essere un solo Papa… e così via).
Noi possiamo intravederci un insegnamento molto più profondo che, in trasparenza, può essere
rintracciato, ma con molta pazienza!, anche tra le righe dello stesso Sutra del Diamante, di cui stasera
affrontiamo la penultima puntata, cioè le parti 25, 26 e 27.
Nei commenti dei Maestri della tradizione come anche di quelli moderni e contemporanei, si trova
riferimento all’esperienza dell’illuminazione, alla realizzazione della natura di Buddha, al kensho e al satori.
Ciò potrebbe far credere che la verità possa essere resa oggetto di discorso, che si possa sfuggire alla morsa
dell’irriducibilità dell’oggetto al discorso stesso. Ma non è così: il discorso ha una vera e propria funzione di
limite, di confine, di barriera: non si può inglobare l’esperienza nel linguaggio, vi si può tendere, la si può
indicare, ma mai afferrare. Si rimane, sempre e comunque, nell’ambito del segno, la parola “ sta per, è al
posto di” ma non potrà mai sostituirsi integralmente a ciò cui fa riferimento.
Essendo un vissuto di totalità e di nullità, la realizzazione della propria natura non è verbalizzabile, proprio
in quanto lo strumento “linguaggio” è di per sé un atto di “scomposizione”; il linguaggio non può che
mettere “in relazione”, separare, distinguere, classificare… l’inseparabile, l’indistinguibile, l’inclassificabile.
Lo Zen è ben consapevole di questa situazione: talché usa, in modo esasperato e meraviglioso, metafore,
paradossi, affermazioni aporetiche; non vi sono mai spiegazioni esplicite o dichiarazioni sull’uso delle
diverse formulazioni; al contrario: si cerca sistematicamente di accostare elementi che, nella vita e nel
modo di pensare comune, non possono essere uniti ma, anzi, spesso, collidono; per fare un esempio di casa
nostra: vedrete, nelle fasi 2 e 3 del Sistema Koan by Engaku Taino, come, quasi sempre, il Caso sia
composto di due parti (a volte anche di più): una domanda, una risposta, un’altra domanda e la risposta
finale; le due domande sono spesso logicamente conseguenti; le due risposte quasi mai: il maestro
risponde, quasi sempre, in due modi tra loro opposti e contraddittori, e lo fa per molteplici ragioni, fra le
quali: una risposta appartiene al piano dell’assoluto, una a quello del relativo, una parla dell’oggi, una dello
ieri, una ha un senso e un’altra proprio nessun senso, e sta al discepolo comprendere ciò.
In ogni caso, si cerca di creare un senso di stupore, di spiazzamento, un po’ come il raccontino iniziale; e lo
si fa non tanto perché ci piacciono i rebus (magari anche)… ma perché si vuol produrre un cortocircuito
mentale, un vuoto di parola che, improvvisamente, squaderni davanti al praticante la “cosa”, il mondo,
l’universo, cioè lui stesso senza veli e strutture razionali d’interpretazione: usando le parole del Sutra che
stiamo per lasciare: “L’esser così delle cose, sicceità” (in sanscrito: tathata), la consapevolezza che la
comprensione libera
dall’idea di un sé, di una persona, di un essere vivente o della durata di un’esistenza.

Pensiamo al primo koan della fase 1, il “Mu!” di Joshu; la domanda è del tutto logica e comprensibile: la
risposta è paradossale; molte le barriere da passare: prima quelle della logica, della razionalità, poi quella
della timidezza, infine la più grande: la risposta è “buona” ma non è “ la risposta”, non è scattato nel
corpomente del praticante l’evento che fu di Joshu: prima il consolidamento nella totalità e poi
l’autorottura, l’autoframmentazione e, infine, la distruzione di sé e del tutto; dalle macerie/non macerie
mentali… la comprensione!... il ramo fiorito della nona stazione dei tori, ma può essere il gatto che ci passa
davanti, il cellulare che teniamo all’orecchio, il fiore che vediamo alla finestra, il libro che stiamo leggendo.
Sul fondale vuoto dell’essere… un movimento, un’azione, un ente emerge improvviso: tutto qui!

E questo è uno dei cuori dell’officina dei koan: ci si muove sempre dalla logica classica, per poi violarla e
contraddirla, e poi rimetterla al centro (le montagne sono montagne, poi no, poi sì… come dice un celebre
detto zen). Il Maestro afferma e nega, oscillando tra i due poli, ponendoli in tensione estrema, per
provocare nel praticante l’emersione di uno stato di trascendimento, che escluda ogni atto del pensare. Se
il discepolo sceglie uno dei due poli (affermazione/negazione) viene respinto, se non sceglie viene respinto,
se li trascende entrambi, se entra nello stato di vuoto, il koan si rivela immediatamente nella sua
semplicissima verità.
E ora vediamo le 3 parti di stasera.
La 25 ha un punto importante, foriero d’interpretazioni molto pericolose
Subhuti, il Tathagata non considera nessuno come un essere ordinario.
Proprio per questo motivo può denominare qualcuno ‘un essere ordinario’ .

Di per sé, per noi che pratichiamo lo Zen Rinzai nella declinazione dello Zenshinji, niente di nuovo, anzi
tutto molto ovvio. Tutti gli esseri sono Buddha, a prescindere che siano o meno di ciò consapevoli, e non vi
sono hit parade della Buddhità. Visti il mondo e se stessi così come sono, si cammina di fianco ai patriarchi
di ieri e di oggi, tutti esseri straordinariamente ordinari; eppure c’è chi ancora cade in letture di questo
genere (Thich):
Non immaginiamo neppure che possa esserci un elemento impuro nel corpo di un Buddha o di un
bodhisattva, perché non vogliamo essere irrispettosi. Gli insegnamenti della prajnaparamita ci
dicono però che anche i cinque aggregati del Buddha sono di natura organica. Il Buddha è
costituito di elementi di non Buddha. Il puro è fatto dell’impuro.

Concediamo al grande maestro vietnamita che il suo pensiero non sia stato tradotto bene oppure che non
vi sia stata la possibilità di articolarlo compiutamente, perché così com’è scritto è un’autentica sciocchezza:
ma che c’entra distinguere nel corpo elementi puri e non puri? e ancor più, saremmo irrispettosi pensando
che nel corpo di Buddha vi siano stati elementi impuri, elementi di non Buddha? Ma quando mai?
Basterebbe il celebre koan di Unmon “Il fiore dietro il gabinetto” a chiarire come stanno le cose; ve lo
ricordo:
Un monaco chiese a Unmon? Com'è il puro Darmakaja?
Unmon rispose: un fiore dietro il gabinetto!

Certo che è così: perché… il fiore – e molto altro! - dietro il gabinetto avrebbe una bellezza, una purezza,
un’eternità diversa dall’orchidea della serra? Ma siamo matti?
Stiamo attenti a non cadere in queste trappole, in cui, sia chiaro, prima o poi, tutti facciamo qualche
visitina.
La nostra libertà di esseri Zen è assoluta e infinita, declinata, sì, attraverso i 4 voti dell’assoluto e gli 8 voti
del relativo, ma comunque senza protettori, santi, buddha, bodhisattva, cristi e madonne!
Zen è emancipazione, emancipazione suprema e ultima: come disse Shakya post comprensione:
Tra il cielo e la terra, io [ndr, e tutti noi] sono l’Onorato del mondo.

La 26 e la 27 sono da leggere e commentare insieme e rappresentano una ripresa di qualità del Sutra dopo
una fase di stanca ripetitività

“Che ne pensi, Subhuti? È possibile che qualcuno mediti sul Tathagata attraverso i trentadue
segni?. Disse Subhuti: “Sì, Onorato dal Mondo. Dovremmo usare i trentadue segni per meditare
sul Tathagata”. Allora il Buddha disse: “Se tu dici che puoi usare i trentadue segni per vedere il
Tathagata, allora vuoi dire che un Cakravartin è un Tathagata?”. Subhuti rispose: “Onorato dal
Mondo, ho compreso il tuo insegnamento. Non si dovrebbero usare i trentadue segni per
meditare sul Tathagata”. A quel punto il Tathagata recitò i seguenti versi:
Chiunque mi cerchi nella forma
O mi cerchi nei suoni
È su un sentiero erroneo
E non potrà scorgere il Tathagata

“Subhuti, se pensi che il Tathagata realizzi la più alta e più completa mente risvegliata e non ci sia
bisogno che possieda tutti i segni caratteristici, sei in errore. Subhuti, non pensare in questo
modo. Non pensare che nel generare la più alta e la più completa mente risvegliata si debbano
vedere tutti gli oggetti mentali come non-esistenti, tagliati fuori dalla vita. Ti prego di non
pensare in questo modo. Chiunque generi la più alta e più completa mente risvegliata non
afferma che tutti gli oggetti mentali siano non-esistenti e tagliati fuori dalla vita”.

Il riferimento ai 32 segni fa parte della tradizione buddhista che ritiene che un Buddha sia riconoscibile
attraverso delle specifiche caratteristiche o marchi, appunto 32; non ci si fa mancare nulla: a questi se ne
possono aggiungere altri 80 minori. A leggere i 32 viene da pensare a una figura della pubblicità: lunghe
dita sottili, arti slanciati, gambe lunghe e sottili come un’antilope, pene ricoperto da una guaina (da
chiarirne il senso!, e comunque non si capisce perché non potrebbe avere una vagina), corpo che emette
raggi di luce lunghi una distanza di dieci piedi, voce meravigliosa, spalle muscolose, 40 denti (e qui la vedo
dura!) tutti ben dritti, occhi azzurri, e via così.
Qui, nel Sutra, Buddha tende una trappola a Subhuti: dopo che quest’ultimo ha detto che per meditare
(penso per concentrarsi) ci si può focalizzare attraverso i 32 segni, gli domanda se allora anche tale
Cakravartin, modello di re che s’impegna per il buddhismo facendo girare la ruota del Dharma, e che quindi
si presume abbia i 32 segni, sia un Buddha; Subhuti capisce al volo (pare quasi un sanzen!) e cambia idea:
Non si dovrebbero usare i trentadue segni per meditare sul Tathagata.

Questo tema a noi fa abbastanza sorridere: basta pensare al celeberrimo koan “Bodhidharma e le sante
verità” per comprendere quanta strada sia stata fatta dal tempo del Sutra del Diamante; ve lo ricordo:
L'imperatore chiese a Bodhidharma: “Qual è il significato delle sante supreme verità”?
Bodhidarma rispose: ”Vuote, senza significato”. L'imperatore chiese ancora: “Tu chi sei?”
Bodhidharma rispose: “Non lo so”.

Comunque, c’è da dire che le acquisizioni espresse dal koan e dai maestri Chan e Zen di ieri e di oggi non
sono peraltro un patrimonio del tutto consolidato; ho letto poco tempo fa in un libro di un maestro Zen
Soto italiano, interessato ai contatti tra Zen e Mindfulness, che, come pratica, si suggerisce di stampare una
foto del buddha (da internet); ritagliarne i margini (dove probabilmente c’è qualche orpello sacro, o l’aura o
altro) e fare – con fotoshop - una composizione con una propria foto (una specie di autosantino); l’opera
finale è da scannerizzare e mettere come fondale del desktop, così che a ogni apertura del pc o comunque
ogni volta che si ritorna al desktop… il praticante si ricorda di essere Buddha… nessun commento.
Per chiudere su questo tema dei segni: la nostra posizione è chiara:
Se incontri per strada un Buddha…uccidilo!

Un secondo e ultimo punto importante della parte 27; continuando con i 32 segni, ma cambiando
completamente tema, Buddha avverte Subhuti di stare attento a non cadere nell’errore – tipico di chi ha
fatto l’esperienza del vuoto (diciamo il MU) e non ha ancora approfondito adeguatamente l’esperienza – di
ritenere che “vuoto” sia da intendersi come “non esistente” e “tagliato fuori dalla vita”.

L’espressione chiave è “non afferma”


Chiunque generi la più alta e più completa mente risvegliata non afferma che tutti gli oggetti
mentali siano non-esistenti e tagliati fuori dalla vita.

da intendersi non nel senso che “non afferma x o non x”, tipo che gli oggetti mentali esistono o non
esistono, ma nel senso che chi ha compreso “non afferma proprio nulla!”; c’è un bel koan della frase 3 del
Sistema che gira intorno a questo tema; è il Caso n. 82 e s’intitola “Il senso delle parole”
Una discepola chiese (eh, sì, se capita l’occasione è meglio chiedere): “Rimango sempre stupita
quando a sanzen lei dice che le parole sono giuste ma non è giusta la risposta ( qualcosa se la deve
sempre inventare). È come se rispondendo su quando è nato Garibaldi mi dicessero che la data è
giusta ma la risposta è sbagliata (almeno su Garibaldi si sarà d’accordo)”. Il maestro: “Ma
rispondere a un koan non è dire la data di nascita o di morte di Garibaldi (altrimenti gli finirebbe il
lavoro). Non si può rispondere a un problema assoluto usando lo stesso tipo di pensiero che lo ha
formulato (qui però ci perdiamo un po’)”.
Dice che chi sa non parla
che sarebbe come
chi non fa non sbaglia.
È che tocca di fare e di parlare

Non si può dire alcunché della cosa, per le tante ragioni che abbiamo detto finora, ma, naturalmente, anche
se si sta in una grotta del Tibet qualcosa, prima o poi, bisogna dire (se non si ha la badante…).
Il Sutra del Diamante ci sta salutando: scossa la polvere del tempo, rinfrescato il linguaggio e la simbolica
fortemente datati, rimane un grande documento di una fase pionieristica.
La prossima sesshin vediamo come si congeda.
DAL “SUTRA DEL DIAMANTE”
Parti 28 29 30 e finali
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Dalle parti precedenti (1-27)
Una volta ho udito questo. Il Signore soggiornava a Sravasti. Di primo mattino il Signore si vestì, mise il mantello, prese la sua ciotola ed entrò nella
grande città di Sravasti per raccogliere elemosina. Quando ebbe mangiato e fu tornato dal suo giro, il Signore ripose la ciotola e il mantello, si lavò i
piedi e si sedette sul seggio preparato per lui, incrociò le gambe, tenendo la schiena eretta, attento, puntando tutta l’attenzione davanti a sé. Allora
molti monaci si avvicinarono al luogo in cui il Signore si trovava, chinarono le teste ai suoi piedi, fecero tre giri intorno a lui procedendo verso destra
e si sedettero da un lato.
In quel momento il venerabile Subhuti raggiunse quell’assemblea e si sedette. Poi si alzò dal suo posto, gettò su una spalla il mantello, piegò il
ginocchio destro a terra, si inchinò a mani giunte verso Buddha e disse al Signore: “È meraviglioso, o Signore, è incommensurabilmente
meraviglioso. O Bene-andato, quanto i Bodhisattva, i grandi esseri, siano stati aiutati dall’ausilio immenso del Tathagata! Allora, o Signore, uno che
sia entrato nel veicolo-del-Bodhisattva, come dovrebbe resistere, come dovrebbe progredire, come dovrebbe controllare i pensieri? Dopo queste
parole, il Signore disse a Subhuti: “Pertanto, Subhuti, ascolta bene e attentamente”.
“Qualcuno che abbia scelto di entrare nel veicolo di un Bodhisattva dovrebbe formulare un pensiero in questo modo: “Tanti quanti sono gli esseri
esistenti nell’universo degli esseri, e siano compresi nel termine “esseri”, io devo condurli tutti al Nirvana, in quel regno del Nirvana che non lascia
nulla dietro di sé. E tuttavia, sebbene innumerevoli esseri vengano così condotti al Nirvana, nessun essere sarà stato condotto al Nirvana”. E
perché? Se in un Bodhisattva trovasse posto il concetto di un ‘essere’ egli non potrebbe essere definito un Bodhisattva. E perché? Non deve essere
definito essere-di-Bodhi colui nel quale trovi posto il concetto di un sé o di un essere, o il concetto di un’anima vivente o di una persona”.
“Poiché un Bodhisattva che offra un dono non dovrebbe essere sostenuto da alcuna cosa, né dovrebbe avere sostegno in alcun luogo. Il grande
essere dovrebbe offrire i suoi doni in modo tale da non essere sostenuto dal concetto di un segno. E perché? Perché il cumulo dei meriti di
quell’essere-di-Bodhi, che senza alcun sostegno offre un dono, non è facile da misurare”. Il Signore continuò: “Cosa pensi, Subhuti, che il Tathagata
possa essere riconosciuto dal possesso dei suoi contrassegni?”. Sibhuti rispose: “No davvero, o Signore. E perché? Quello che il Tathagata ha
insegnato come il possesso di contrassegni, quello è in verità il non-possesso di non-contrassegni.” Il Signore disse: “Dovunque ci sia il possesso di
contrassegni, là c’è frode; dovunque ci sia il non-possesso di non-contrassegni, là non c’è frode. Di conseguenza il Tathagata dev’essere riconosciuto
dai non-contrassegni che sono contrassegni.” Subhuti chiese: “Ci saranno degli esseri – in un tempo futuro, negli ultimi momenti, nell’ultima epoca,
negli ultimi cinquecento anni, nel momento del collasso della buona dottrina – che, quando queste parole del Sutra saranno insegnate,
comprenderanno la loro verità?”. Il Signore rispose: “Non parlare così, Subhuti! Certo, anche allora ci saranno degli esseri che, quando queste
parole del Sutra saranno insegnate, comprenderanno la loro verità. Perché anche in quell’epoca, Subhuti, ci saranno dei Bodhisattva. E quei
Bodhisattva, Subhuti, non saranno tali da aver fatto onore a un singolo Buddha, né tali da aver affondato le radici dei loro meriti solo sotto un
singolo Buddha. Al contrario, Subhuti, quei Bodhisattva, quando queste parole del Sutra saranno insegnate, scopriranno anche un unico pensiero di
limpida fede, e saranno tali da aver fatto onore a molte centinaia di migliaia di Buddha, come se avessero affondato le radici dei loro meriti sotto
molte centinaia di migliaia di Buddha. Subhuti, il Tathagata li conosce attraverso la sua conoscenza illuminata; Subhuti, il Tathagata li vede
attraverso il suo occhio di Buddha; al Tathagata essi sono totalmente noti, Subhuti. E tutti loro, Subhuti, genereranno e acquisiranno un
incommensurabile e incalcolabile cumulo di meriti. Il Signore chiese: “Cosa pensi, Subhuti, che ci sia qualche Dharma che il Tathagata abbia
completamente conosciuto come “la massima, giusta e perfetta illuminazione” o che ci sia qualche Dharma che il Tathagata abbia dimostrato?”
Subhuti rispose: “No, non da come ho capito ciò che il Signore ha detto. E perché? Questo Dharma che il Tathagata avesse completamente
conosciuto o dimostrato non potrebbe essere afferrato, non se ne potrebbe parlare, esso è né un Dharma, né un non-Dharma. E perché? Perché un
assoluto esalta le Persone Sacre”. Il Signore allora disse: “Certo, Subhuti, poiché il Tathagata ha insegnato che i Dharma propri ai Buddha non sono
affatto “Dharma propri ai Buddha”. Ecco perché sono chiamati “i Dharma propri ai Buddha””.
Il Signore chiese: “Cosa pensi, Subhuti, che al Vincitore-della-corrente accada di pensare “Io ho raccolto il frutto di un Vincitore-della-corrente”?”
Subhuti rispose: “No davvero, Signore. E perché? Perché, Signore, egli non ha vinto alcun Dharma. Pertanto viene chiamato Vincitore-della corrente.
Egli non ha vinto alcun oggetto visibile, né suoni, né odori, né sapori, né oggetti tangibili, né oggetti della mente. Ecco perché viene chiamato
Vincitore-della-corrente. O Signore, se a un Vincitore-della-Corrente accadesse di pensare “io ho raccolto il frutto di un Vincitore-della-corrente”,
allora in lui sarebbe presente la padronanza di un sé, la padronanza di un essere, la padronanza di un’anima, la padronanza di una persona”. Il
Signore chiese: “Cosa pensi, Subhuti, che all’Arhat accada di pensare “io ho raggiunto lo stato di Araht?” Subhuti: “No, davvero, Signore. E perché?
Perché nessun Dharma viene chiamato Arhat. Ecco perché egli si chiama Arhat. Ecco perché gli si chiama Arhat. E perché? O Signore, io sono uno
che il Tathagata ha indicato come il primo fra coloro che dimorano nella pace. O Signore, io sono un Arhat libero dalla cupidigia. E tuttavia, o
Signore, a me non capita di pensare “io sono un Arhat e sono libero dalla cupidigia”. O Signore, se mi capitasse di pensare di aver raggiunto lo stato
di Arhat, allora il Tathagata non avrebbe dichiarato: “Subhuti, questo figlio di buona famiglia che è il primo fra coloro che dimorano nella pace, non
dimora nella pace, non dimora in alcun luogo, ecco perché viene chiamato “colui che dimora nella pace, uno che dimora nella pace” “. Il Signore
chiese: “Cosa pensi, Subhuti, che ci sia qualche Dharma che il Tathagata abbia appreso da Dipankara?” Subhuti rispose: “Non è così, o Signore, non
ce ne sono.” Il Signore disse: “Se qualche Bodhisattva dicesse “creerò armoniosi Buddhafield” direbbe il falso. E perché? “Le armonie dei
Buddhafield”, Subhuti, le ha insegnate il Tathagata come “non-armonie”. Perciò egli ha parlato di “armoniosi Buddhafield”. Buddha chiese:
“Subbhuti, se ci fossero tanti fiumi Gange quanti sono i granelli di sabbia del Gange stesso, diresti che la somma di tutti i granelli presenti nei fiumi
Gange è davvero straordinaria?”. Rispose Subhuti: “Onorato dal Mondo, sarebbero davvero infiniti. Se il numero dei fiumi Gange fosse enorme,
tanto più enorme sarebbe il numero di granelli di sabbia presente in tutti quei fiumi Gange”. “Subhuti, ora voglio chiederti questo: se un figlio o una
figlia di buona famiglia, per compiere un atto di generosità, dovesse riempire i tremila chiliocosmi con tanti gioielli preziosi quanti sono i granelli di
sabbia presenti in tutti quei fiumi Gange, quella persona creerebbe molta felicità attraverso il proprio atto virtuoso?”. Rispose Subhuti: “Davvero
una grandissima felicità, Onorato dal Mondo”. Il Buddha disse allora a Subhuti: “Se un figlio o una figlia di buona famiglia sa come riconoscere,
praticare e spiegare questo sutra agli altri, anche con una sola gatha di quattro versi, la felicità creata tramite questo gesto virtuoso è di gran lunga
più grande”. Buddha proseguì: “Inoltre, Subhuti, ogni pezzo di terra sul quale questo sutra verrà proclamato, persino con una sola gatha di quattro
versi, diventerà una terra dove dèi, uomini e semidèi si recheranno per fare offerte, proprio come se facessero offerte a uno stupa del Buddha. Se il
pezzo di terra potrà essere considerato pertanto sacro, ancor di più potrà dirsi della persona che pratica e recita questo sutra. Subhuti, dovresti
sapere che quella persona otterrà qualcosa di raro e profondo. Ovunque questo sutra venga conservato, quel luogo sacro diventa uno scrigno che
custodisce la preziosa presenza del Buddha o di uno dei grandi discepoli del Buddha”.
Dopo queste parole, Subhuti chiese al Buddha: “Come dovrebbe essere chiamato questo sutra, e come dovremmo comportarci nei confronti dei
suoi insegnamenti?”. Rispose il Buddha: “Questo sutra dovrebbe essere chiamato “Il Diamante che Recide l’Illusione”, poiché ha la capacità di
recidere tutte le illusioni e le contaminazioni mentali, sino a portarci alla sponda della liberazione”. Il Signore disse ancora: “E ancora, Subhuti,
supponi che una donna, o un uomo, abbiano rinunciato a tutti i propri averi tante volte quanti sono i granelli di sabbia in riva al Gange; supponi poi
che qualcun altro, dopo aver appreso da questo discorso sul Dharma solo una strofa di quattro righe, la spieghi agli altri. Allora quest’ultimo, in virtù
di ciò, generebbe un grande cumulo di meriti smisurati e incalcolabili”. Subito dopo, l’impatto con il Dharma fece spuntare le lacrime al Venerabile
Subhuti. Dopo essersele asciugate, egli parlò così al Buddha: “È meraviglioso, o Signore, è più che meraviglioso, o Bene-andato, come il Tathagata
abbia spiegato bene questo discorso sul Dharma. Esso ha prodotto in me la conoscenza, ma non c’è davvero alcuna percezione. E perché? Perché i
Buddha, i Signori, hanno abbandonato tutte le percezioni”. Il Signore disse: “È così, Subhuti. Meravigliosamente benedetti saranno quegli esseri che,
udendo questo Sutra, non tremeranno, non ne saranno spaventati o terrorizzati”. “Per riassumere, Subhuti, questo sutra comporta virtù e felicità
infinite, tali da non poter esser concepite o misurate. Subhuti, se una persona si accontenta degli insegnamenti minori, se resta intrappolata
nell’idea di un sé, di una persona, di un essere vivente o della durata di un’esistenza, questa persona non sarà capace di ascoltare, recitare e
spiegare questo sutra agli altri. Subhuti, ogni luogo nel quale questo sutra può essere trovato è un luogo nel quale dèi, uomini e semidèi, si
raccolgono per fare offerte. Un luogo del genere è un altare e dovrebbe essere venerato con cerimonie formali, circumambulazioni e offerte di fiori
e incenso”. “Inoltre, Subhuti, se un figlio o una figlia di buona famiglia venisse disprezzato o calunniato mentre recita o pratica questo sutra, le sue
azioni negative commesse nelle vite precedenti, incluse quelle che potrebbero comportare un destino infelice, sarebbero sradicate, e otterrebbe il
frutto della più completa mente risvegliata. Subhuti, in tempi antichi, prima che io incontrassi il Buddha Dipankara, feci offerte e divenni assistente
di tutti gli ottantaquattromila multi-milioni di buddha. Se qualcuno è capace di ricevere, recitare, studiare e praticare questo sutra nell’ultima
epoca, la felicità prodotta da quest’atto virtuoso sarà centinaia di migliaia di volte più grande di quella che io stesso creai nei tempi antichi. In
effetti, una felicità del genere non può essere concepita o paragonata a null’altro, neppure in termini matematici. Una felicità del genere è in realtà
incommensurabile”. “Subhuti, la felicità generata da un figlio di buona famiglia che riceve, recita, studia e pratica questo sutra nell’ultima epoca
sarà talmente grande che se dovessi spiegarla ora nei dettagli, qualcuno diverrebbe sospettoso e incredulo, e la sua mente potrebbe essere
disorientata. Subhuti, dovresti sapere che il significato di questo sutra è al di là dei concetti e delle discussioni. Egualmente, il frutto che risulta dal
ricevere e praticare questo sutra è al di là dei concetti e delle discussioni. A quel punto, il Venerabile Subhuti disse al Buddha: “Onorato dal Mondo,
vorrei chiederti ancora una volta su che cosa dovrebbe basarsi e come dovrebbe addestrare la propria mente un figlio o una figlia di buona famiglia
che volesse generare la più alta e la più completa mente risvegliata”. Il Buddha rispose: “Subhuti, un buon figlio o figlia che volesse generare la più
alta e più completa mente risvegliata dovrebbe farlo in questo modo: ‘Dobbiamo condurre tutti gli esseri alla riva del risveglio, ma, dopo che questi
esseri hanno raggiunto la liberazione, non penseremo affatto che ci sia un solo essere che ha raggiunto la liberazione’. Perché è così? Subhuti, se un
bodhisattva è ancora catturato dall’idea di un sé, di una persona, di un essere vivente o della durata di un’esistenza, quello non è un autentico
bodhisattva. Perché? “Subhuti, in effetti non c’è un oggetto mentale esistente in modo indipendente che possa essere denominato ‘più alta e più
completa mente risvegliata’. Che ne pensi Subhuti? In tempi antichi, quando il Tathagata viveva con il Buddha Dipankara, ottenne qualcosa
chiamato ‘più alta e più completa mente risvegliata’? “No, Onorato dal Mondo. Secondo quanto ho compreso attraverso l’insegnamento del
Buddha, non c’è alcun ottenimento di un qualcosa chiamato ‘più alta e più completa mente risvegliata’”. Il Buddha disse: “Hai ragione, Subhuti. In
effetti, la cosiddetta ‘più alta e più completa mente risvegliata’ non esiste, né il Thatagata la ottiene. Se ci fosse una cosa del genere, il Buddha
Dipankara non mi avrebbe predetto: ‘In futuro, diverrai un Buddha chiamato Sakyamuni’. Questa predizione venne fatta proprio perché non c’è, in
effetti, nulla che possa essere ottenuto e che si chiami ‘più alta e più completa mente risvegliata’. Perché? Tathagata vuol dire la talità di tutte le
cose (i dharma). Se qualcuno dicesse che il Tathagata ha ottenuto la più alta e più completa mente risvegliata sarebbe in errore, giacchè non esiste
né può essere ottenuta nessuna ‘più alta e più completa mente risvegliata. Subhuti, la ‘più alta e più completa mente risvegliata’ ottenuta dal
Tathagata non può essere afferrata né d’altra parte è sfuggente. Per tale motivo il Tathagata ha detto: ‘Tutti i dharma sono il Buddhadharma’. Quelli
che vengono chiamati ‘tutti i dharma’ non sono, in effetti, tutti i dharma. Proprio per questo sono chiamati ‘tutti i dharma’”. “Subhuti, può essere
fatto un paragone con l’idea di un grande corpo umano?”. Disse Subhuti: “Ciò che il Tathagata chiama ‘grande corpo umano’ non è in effetti, un
grande corpo umano”. “Subhuti, lo stesso può dirsi per quanto riguarda i bodhisattva. Se un bodhisattva pensa di dover liberare tutti gli esseri
viventi, allora non è un bodhisattva. Perché? Subhuti, non c’è un oggetto mentale esistente in modo indipendente chiamato ‘bodhisattva’. Inoltre, il
Buddha ha detto che tutti i dharma sono privi di sé, di una persona, di un essere vivente o della durata di un’esistenza. Subhuti, se un bodhisattva
pensa: ‘Devo creare una terra del Buddha splendida e pacifica’, quella persona non è ancora un bodhisattva. Perché? Ciò che il Tathagata chiama
‘splendida e pacifica terra del Buddha’ non è in effetti una splendida e pacifica terra di Buddha. E proprio per tale motivo viene chiamata ‘splendida
e pacifica terra del Buddha’. Subhuti, un bodhisattva che comprende alla perfezione il principo del non-sé e dei non-dharma può essere chiamato
dal Tathagata un autentico bodhisattva”. “Che ne pensi, Subhuti? Il Tathagata possiede occhi umani, l’occhio divino, l’occhio dell’introspezione,
l’occhio della saggezza trascendente, l’occhio del Buddha? Sì, Onorato dal Mondo, li possiede.” “Che ne pensi, Subhuti? Il Tathagata vede la sabbia
del Gange come sabbia?. Subhuti rispose: “ Onorato dal mondo, anche il Tathagata la chiama sabbia”. “Subhuti, se ci fossero altrettanti fiumi Gange
quanti sono i granelli di sabbia del Gange, e ci fosse una terra del Buddha per ogni granello di sabbia di tutti quei fiumi Gange, le terre del Buddha
sarebbero molte?” “Sì, Onorato dal Mondo, davvero infinite”. Il Buddha disse: “Subhuti, per quanti esseri viventi possano esserci in tutte quelle
terre del Buddha, sebbene ognuno di essi abbia una diversa mentalità, il Tathagata li comprende tutti. Com’è possibile? Subhuti, quelle che il
Tathagata chiama ‘diverse mentalità’ non sono in effetti diverse mentalità. Proprio per questo sono chiamate ‘diverse mentalità’”. “Perché?
Subhuti, la mente del passato non può essere afferrata, né può essere afferrata la mente del presente o quella del futuro”. Che ne pensi, Subhuti?
Se qualcuno, per un proprio atto di generosità, dovesse riempire i tremila chilocosmi con dei tesori preziosi, quella persona produrrebbe molta
felicità a causa di quel gesto virtuoso?”. “Sì, Onorato dal mondo, davvero molta”. “Subhuti, se una felicità del genere potesse essere concepita come
un’entità separata da una qualsiasi altra cosa, il Tathagata non avrebbe detto che si tratta di qualcosa di grande, ma proprio perché non è
afferrabile, il Tathagata ha detto che l’atto virtuoso di quella persona avrebbe creato un’enorme felicità”. “Che ne pensi, Subhuti? Il Tathagata può
essere percepito tramite il suo corpo perfettamente modellato? No, Onorato dal Mondo. Ciò che il Tathagata chiama ‘corpo perfettamente
modellato’ non è, in effetti, un corpo perfettamente modellato. Proprio per questo viene chiamato ‘corpo perfettamente modellato’”. “Che ne
pensi, Subhuti? Il Tathagata può essere percepito tramite la sua fisionomia perfettamente forgiata?”. “No, Onorato dal mondo. Non è possibile
percepire il Tathagata tramite alcuna fisionomia perfettamente forgiata. Perché? Perché ciò che il Tathagata chiama ‘fisionomia perfettamente
forgiata’ non è, in effetti, una fisionomia perfettamente forgiata. Proprio per questo viene chiamata ‘fisionomia perfettamente forgiata’ “. Subhuti,
non dire che il Tathagata concepisce un’idea del tipo: ‘Io darò un insegnamento’. Non pensare in questi termini. Perché? Se qualcuno dice che il
Tathagata ha qualcosa da insegnare, quella persona calunnia il Buddha non comprendendo ciò che ho detto. Subhuti, dare un insegnamento sul
Dharma in effetti vuol dire che non vi è alcun insegnamento che venga dato. Questo è davvero un insegnamento sul Dharma”. A quel punto
Subhuti, Colui che Possiede la Vita Interiore, disse al Buddha: “Onorato dal Mondo, ci saranno in futuro degli esseri che proveranno una completa
fiducia nell’ascolto di queste parole?”. Il Buddha disse: “Subhuti, quegli esseri viventi non sono né esseri viventi né non-esseri viventi. Perché?
Subhuti, quelli che il Tathagata chiama non-esseri viventi sono davvero esseri viventi”. Subhuti chiese al Buddha: “Onorato dal Mondo, la più alta e
completa mente del risveglio ottenuta dal Buddha è forse irraggiungibile?”. Il Buddha disse: “Hai ragione, Subhuti. Riguardo alla più alta e più
completa mente risvegliata io non ho ottenuto nulla. Proprio per questo è chiamata la più alta e più completa mente risvegliata”. “Inoltre, Subhuti,
quella mente è la stessa in ogni luogo. Non essendo né superiore né inferiore, è chiamata la più alta e più completa mente risvegliata. Il frutto della
più alta e più completa mente risvegliata è realizzato attraverso la pratica di tutte le azioni positive compiute nello spirito del non-sé, della non-
persona, del non-essere vivente e della non-durata dell’esistenza. Subhuti, quelle che vengono chiamate azioni positive non sono in effetti azioni
positive. Proprio per questo vengono chiamate azioni positive”. “Subhuti, se qualcuno, per un proprio atto di generosità, dovesse riempire i tremila
chiliocosmi con pile dei sette preziosi tesori alte quanto il monte Sumeru, la felicità generata con questo atto sarebbe di gran lunga inferiore a
quella di una persona che sa accettare, praticare e spiegare agli altri il Vajracchedika Prajnaparamita Sutra. La felicità prodotta da una persona che
pratica questo sutra, anche se con una sola gatha di quattro versi, non può essere descritta né usando degli esempi né attraverso la matematica”.
“Subhuti, non dire che il Tathagata genera il pensiero: ‘Porterò gli esseri viventi alla sponda della liberazione’. Non pensare in questo modo, Subhuti.
Perché? In verità non vi è per il Tathagata un solo essere che debba essere portato sull’altra riva. Se il Tathagata pensasse in quel modo, sarebbe
preda dell’idea di un sé, di una persona, di un essere vivente o della durata di un’esistenza. Subhuti, ciò che il Tathagata chiama ‘sé’, in effetti è
privo di quel sé così come viene percepito da un essere ordinario. Subhuti, il Tathagata non considera nessuno come un essere ordinario. Proprio
per questo motivo può denominare qualcuno ‘un essere ordinario’”. “Che ne pensi, Subhuti? È possibile che qualcuno mediti sul Tathagata
attraverso i trentadue segni?. Disse Subhuti: “Sì, Onorato dal Mondo. Dovremmo usare i trentadue segni per meditare sul Tathagata”. Allora il
Buddha disse: “Se tu dici che puoi usare i trentadue segni per vedere il Tathagata, allora vuoi dire che un Cakravartin è un Tathagata?”. Subhuti
rispose: “Onorato dal Mondo, ho compreso il tuo insegnamento. Non si dovrebbero usare i trentadue segni per meditare sul Tathagata”. A quel
punto il Tathagata recitò i seguenti versi: Chiunque mi cerchi nella forma/O mi cerchi nei suoni/È su un sentiero erroneo/E non potrà scorgere il
Tathagata. “Subhuti, se pensi che il Tathagata realizzi la più alta e più completa mente risvegliata e non ci sia bisogno che possieda tutti i segni
caratteristici, sei in errore. Subhuti, non pensare in questo modo. Non pensare che nel generare la più alta e la più completa mente risvegliata si
debbano vedere tutti gli oggetti mentali come non-esistenti, tagliati fuori dalla vita. Ti prego di non pensare in questo modo. Chiunque generi la più
alta e più completa mente risvegliata non afferma che tutti gli oggetti mentali siano non-esistenti e tagliati fuori dalla vita”.
28
“Subhuti, se qualcuno, per un proprio atto di generosità, dovesse riempire i tremila chiliocosmi con un
ammontare dei sette preziosi tesori pari al numero dei granelli di sabbia del fiume Gange, la felicità
generata con questo atto virtuoso sarebbe inferiore a quella prodotta da qualcuno che ha capito e
accettato con tutto il cuore che tutti i dharma sono della natura del non-sé, ed è in grado di vivere e
sostenere pienamente questa verità. Perché è così, Subhuti? Perché un bodhisattva non ha bisogno di
accumulare virtù o felicità”. Subhuti chiese al Buddha: “Che cosa intendi, Onorato dal Mondo, quando
dici che un bodhisattva non ha bisogno di accumulare virtù e felicità?”.
“Subhuti, un bodhisattva genera virtù e felicità, ma non è catturato dall’idea di virtù e felicità. Proprio
per questo motivo il Tathagata dice che un bodhisattva non ha bisogno di accumulare virtù e felicità”.

29
“Subhuti, se qualcuno affermasse che l’Onorato del Mondo viene, va, siede e si corica, quella persona
non avrebbe compreso quanto ho insegnato? Perché? Il significato del Tathagata è: ‘Colui che non viene
da nessun luogo e non va in nessun luogo’. Proprio per questo viene chiamato ‘Tathagata’”.

30
“Subhuti, se un figlio o una figlia di buona famiglia dovesse frantumare e ridurre in polvere i tremila
chiliocosmi, pensi che ci sarebbero molte particelle di polvere?”.
Subhuti rispose: “Onorato dal Mondo, ce ne sarebbero davvero moltissime. Perché? Se le particelle di
polvere fossero dotate di autentica auto-esistenza, il Buddha non le avrebbe chiamate particelle di
polvere. Quelle che il Buddha chiama particelle di polvere non sono, in essenza, particelle di polvere.
Onorato dal Mondo, quelli che il Buddha chiama i tremila chiliocosmi non sono in realtà chiliocosmi.
Proprio per questo motivo sono chiamati chiliocosmi. Perché? Se i chiliocosmi fossero reali, sarebbero
un composto di particelle soggette alla condizione di essere assemblate in un oggetto. Quello che il
Tathagata chiama ‘composto’ non è in essenza un composto. Proprio per questo motivo è chiamato
‘composto’”. “Subhuti, quando qualcosa viene chiamato ‘composto’ si tratta soltanto di un modo di dire
convenzionale. Non ha un reale fondamento. Solo gli esseri ordinari sono intrappolati dai termini
convenzionali”.
“Subhuti, se qualcuno affermasse che il Buddha ha parlato della visione di un sé, della visione di una
persona, della visione di un essere vivente o della visione della durata di un’esistenza, quella persona
avrebbe compreso l’essenza del mio insegnamento?”.
“No, Onorato dal Mondo . Una persona del genere non avrebbe compreso il Tathagata. Perché? Quelle
che il Tathagata chiama ‘visione del sé’, ‘visione di una persona’, ‘visione di un essere vivente’, ‘visione
della durata di un’esistenza, non sono in essenza una visione del sé, una visione di una persona, una
visione di un essere vivente o una visione della durata di un’esistenza. Proprio per questo motivo sono
chiamate ‘visione del sé’, ‘visione di una persona’, ‘visione di un essere vivente’, ‘visione della durata di
un’esistenza’.
“Subhuti, chiunque origini la più alta e più completa mente risvegliata dovrebbe sapere che ciò è vero per
tutti i dharma, dovrebbe considerare che tutti i dharma sono fatti in questo modo, dovrebbe avere
fiducia nella comprensione di tutti i dharma senza basarsi su alcun concetto ‘concezione del dharma’, il
Tathagata ha affermato che non si tratta di una concedzione dei dharma. Proprio per questo motivo
viene chiamato ‘concezione dei dharma’”.
“Subhuti, se qualcuno, per un proprio atto di generosità, dovesse offrire una quantità incommensurabile
dei sette tesori, sino a riempire un numero di mondo infinito come lo spazio, la felicità prodotta da
questo atto virtuoso non sarebbe pari alla felicità causata da un figlio o una figlia di buona famiglia che
generasse la mente risvegliata e leggesse, recitasse, accettasse, e mettesse in pratica questo sutra, e lo
spiegasse agli altri, anche con una sola gatha di quattro versi. Qual è lo spirito nel quale è stata data
questa spiegazione? Senza essere catturati dai segni, basandosi sulle cose per quelle che sono, senza
discussioni. Perché?
Tutti i fenomeni composti sono come un sogno,
un fantasma, una goccia di rugiada, la luce di un lampo.
Ecco come meditare sui fenomeni,
ecco come osservarli.
Dopo aver ascoltato il signore Buddha nella sua enunciazione di questo sutra, il Venerabile Subhuti, i
monaci e le monache, i laici e le laiche, gli déi e i semidéi, pieni di gioia e fiducia, iniziarono a mettere in
pratica gli insegnamenti che avevano ricevuto.

*******

Siamo alla fine, alle ultime 3 parti, la 28, la 29 e la 30; in alcune versioni la 30 è distribuita in 3 sezioni (30,
31 e 32); noi la commentiamo tutta insieme.
Dopo alcune fasi di relativo rallentamento del ritmo espositivo e di un’insistenza forse eccessiva alla
ripetizione di temi che evidentemente stavano molto a cuore al Buddha, la chiusa del Sutra contiene spunti
di grandissimo interesse.
Vediamone alcuni.
“Subhuti, se qualcuno, per un proprio atto di generosità, dovesse riempire i tremila chiliocosmi
con un ammontare dei sette preziosi tesori pari al numero dei granelli di sabbia del fiume Gange,
la felicità generata con questo atto virtuoso sarebbe inferiore a quella prodotta da qualcuno che
ha capito e accettato con tutto il cuore che tutti i dharma sono della natura del non-sé, ed è in
grado di vivere e sostenere pienamente questa verità. Perché è così, Subhuti? Perché un
bodhisattva non ha bisogno di accumulare virtù o felicità”. Subhuti chiese al Buddha: “Che cosa
intendi, Onorato dal Mondo, quando dici che un bodhisattva non ha bisogno di accumulare virtù e
felicità?”. “Subhuti, un bodhisattva genera virtù e felicità, ma non è catturato dall’idea di virtù e
felicità. Proprio per questo motivo il Tathagata dice che un bodhisattva non ha bisogno di
accumulare virtù e felicità”.

Qui il punto centrale è nell’espressione “bisogno di accumulare”, che sia virtù e felicità, sconti di pena per le
prossime vite o capitali finanziari pro indigenti futuri, non fa alcuna differenza. Incombe, come facilmente
immaginabile, il tema del karma e cioè la convinzione di larga parte del mondo religioso indiano
(buddhismo compreso) che le "azioni virtuose volontarie" generino una, o più, rinascite positive, mentre le
azioni "non virtuose volontarie" , che quindi generano dolore, portino a rinascite negative. Secondo queste
dottrine, al karma sono soggetti tutti gli esseri; alla legge di causa-effetto non si sfugge e le pene (perché,
per lo più, si pensa alle pene, e meno ai piaceri… e non si capisce perché!) si sconteranno, pare, durante
numerosissimi cicli del samsāra.
Nel Sutra il Buddha pare prendere le distanze da una questione comunque scivolosa, anche le sue parole
contengono qualche seme di ambiguità: non dice che il bodhisattva “non accumula un bel nulla” ma che
“non ha bisogno di accumulare virtù e felicità”; poi, in parte, si migliora, naturalmente dal punto di vista
zen! quando aggiunge “(il bodhisattva) genera virtù e felicità, ma non è catturato dall’idea di virtù e
felicità”.
Anche la lettura che ne fa Thich rimane oscillante, anche se alla fine sembra non essere neanche lui capace
di fare lo scatto mistico che è stato dei maestri Zen, da Lin Chi a Taino. Dice il maestro vietnamita:
Se ci offriamo volontari per lavare i piatti, pensando che il nostro lavoro porterà in futuro merito o
una certa felicità, non siamo dei veri bodhisattva. Non dobbiamo fare altro che vivere
gioiosamente, istante dopo istante, mentre li laviamo. Dopo averli lavati, non c’è bisogno che
raccontiamo a tutti che abbiamo lavato i loro piatti. Se ci comportiamo così, abbiamo sprecato il
nostro tempo e la nostra fatica. D’altro canto, lavare i piatti con il solo scopo di lavare i piatti,
comporta un inestimabile ammontare di virtù e felicità.

In parte Thich dice bene, ma non pare liberarsi definitivamente della radice velenosa del concetto di
karma/accumulo.
Intendiamoci: sul piano del Relativo, è evidente che la legge di causa-effetto è onnipervadente, sia a breve
termine, se non sostituisco i pneumatici…, sia a lungo termine, se lascio debiti alla mia morte… altre vite –
eccome! - saranno condizionate dai miei errori; ma questa, che è una banalità, ma che è bene sempre tener
presente per evitare di cadere in qualsivoglia delirio mistico e pensare che tutto sia relativo, non ha alcun
senso una volta che si è data una prima occhiata, e poi si è messo bene a fuoco (e magari ci vogliono 50
anni di pratica!), il mondo dell’Assoluto, laddove l’unica legge che vige è quella della prajna, che è, in ultima
analisi, una legge-non legge.
Nello Zenshin Roku si gira intorno alla questione “karma”; è il caso n. 51 “Scegliere tra l’andare in pensione
e lavorare”
Una ragazza, cresciuta senza alcuna educazione religiosa, frequentando l’università sentì la
voglia di comprendere il senso dello stare al mondo (è un virus che non si può scappare). Dopo
aver seguito dei corsi di meditazione di diverse scuole e maestri, si confidò con la nonna (il guru a
portata di mano): “Sentendo quei maestri, sembra che lo scopo di tutta la meditazione sia di
arrivare il più presto possibile alla pensione (mica male la ragazzina). Il lavoro di pulizia del karma
è come pagare i contributi inps (o il mutuo per la casa) e chi vuole ottenere una speciale calma
mentale, pare che aspetti solo di smettere di lavorare per cominciare a vivere (queste lunghe
giornate ai giardinetti). È tutto qui l’illuminazione? (c’è chi dice che siamo nati per soffrire: infatti
ci riescono in tanti)”. La nonna rispose: “No, non è tutto qui (non faccia la misteriosa)”. “E allora
cos’è esattamente?”, chiese ancora la ragazza (è tignosa). La nonna indicò una gazza che
attraversava il cielo e le disse (non reciterà la solita poesia): “Credi che la gazza si preoccupi del
karma passato o di quello futuro? (sembra la vecchietta di Tokusan)”. “Non lo so, ma credo che le
interessi solo di mangiare e volare”, rispose la nipote (vedi che se stai attenta ci cogli?). “È come
l’illuminazione” disse la nonna “siccome sai già mangiare, si tratta di imparare a volare (e ti pare
semplice)”.
Nel blu dipinto di blu
contento di stare lassù
ma bisogna anche sapere
nuotare e camminare.

La posizione Zen è ben delineata nel teisho del maestro Taino: andate a leggerlo nel libro; il punto cruciale
è, in sostanza, questo: non è in discussione l’esistenza del karma oppure no; la domanda non ha una
risposta semplicemente perché essa stessa (la domanda) non sussiste; una volta realizzata la natura
fondamentale del mondo e di se stessi, dice bene (parzialmente) Thich, non c’è che da “lavare i piatti con il
solo scopo di lavare i piatti” ma non - diciamo noi - perché ciò “comporta un inestimabile ammontare di
virtù e felicità” bensì perché quel tempo in cui l’azione si svolge, è composto di singoli istanti, ognuno dei
quali è l’eterno tempo senza inizio, è il grande Inizio del Non Principio e allora... visto così… ma che ruolo,
presenza, importanza potrà mai avere il karma ?.

Pensiamo a cosa ha scritto Meister Eckhart:


Nell’eternità non c’è né prima né poi.
Tutto quello che Dio ha creato, lo manifesta in un istante.
Un altro spunto veloce dalle parole di Thich; facciamo attenzione a non cadere in distinzioni di valore di
qualsiasi natura: lavare i piatti non è diverso da qualsiasi altra attività umana e non ci sono beni di serie A e
beni di serie B; lo aveva già ben capito San Benedetto quando, nella sua Regola, scrive, pensando al
cellerario, cioè al monaco preposto alle cose e agli affari temporali, diremmo oggi l’amministratore e il
procuratore delle sostanze del monastero
Tutta la suppellettile e i beni del monastero
li consideri come gli oggetti sacri dell’altare.
Nulla stimi trascurabile.

La 29 è molto corta ma di per sé estremamente feconda di spunti, che però non abbiamo assolutamente il
tempo di sviscerare.
“Subhuti, se qualcuno affermasse che l’Onorato del Mondo viene, va, siede e si corica, quella
persona non avrebbe compreso quanto ho insegnato? Perché? Il significato del Tathagata è:
‘Colui che non viene da nessun luogo e non va in nessun luogo’. Proprio per questo viene
chiamato ‘Tathagata’”.

Il Buddha accenna alla vera natura dello stare-non stare della persona che ha compreso ma, attenzione!
vale ovviamente per tutti i fenomeni del mondo (realizzati e non), viventi e non viventi, senzienti o meno.
Non possiamo che riutilizzare il nostro schema Relativo-Assoluto: nel primo, eccome se ci si muove… ci sta
che noi toscani si sia già fatto almeno 200.000 km per raggiungere e ritornare a casa da Scaramuccia, e i
praticanti del nord anche 500.000… ma nel secondo, nel mondo/stato dell’Uno, ma chi si è poi mai mosso?
Ricorderete il celebre koan “Pai Chang e le anitre selvatiche”:
Una volta, quando il grande maestro Ma e Pai Chang stavano camminando insieme, videro volare
delle anitre selvatiche. Il grande maestro chiese: “Cos'è?” Chang disse: ”Anitre selvatiche". Il
grande maestro disse: "'Dove sono andate?" Chang disse: “Sono volate via". Allora il grande
maestro tirò con forza il naso di Pai Chang. Chang urlò per il dolore. Il grande maestro disse:
"Quando sono mai volate via?".

Molteplicità e unicità coesistono eternamente, come anche movimento e staticità. Se l’universo ha una
natura molteplice, Chang e l’anatra sono entità auto-sussistenti e quindi l’uccello può volare via, come
crede Chang; se l’universo ha natura di Uno, anche Chang e l’anatra sono fondamentalmente uno: l’anatra
non esiste indipendentemente dalla mente di Chang, e quindi l’uccello è ancora lì con lui, o piuttosto è il
suo stesso sé; questa consapevolezza Chang la raggiunge improvvisamente con il dolore che gli provoca il
maestro stringendogli il naso.
Chiudiamo con la 3, molto lunga e bella.
Buddha, come negli spettacoli dei fuochi d’artificio, si congeda con il botto, sparando a palle incatenate
temi immensi.
Vediamo il primo:
“Subhuti, se un figlio o una figlia di buona famiglia dovesse frantumare e ridurre in polvere i
tremila chiliocosmi, pensi che ci sarebbero molte particelle di polvere?”.
Subhuti rispose: “Onorato dal Mondo, ce ne sarebbero davvero moltissime. Perché? Se le
particelle di polvere fossero dotate di autentica auto-esistenza, il Buddha non le avrebbe
chiamate particelle di polvere. Quelle che il Buddha chiama particelle di polvere non sono, in
essenza, particelle di polvere. Onorato dal Mondo, quelli che il Buddha chiama i tremila
chiliocosmi non sono in realtà chiliocosmi. Proprio per questo motivo sono chiamati chiliocosmi.
Perché? Se i chiliocosmi fossero reali, sarebbero un composto di particelle soggette alla
condizione di essere assemblate in un oggetto. Quello che il Tathagata chiama ‘composto’ non è
in essenza un composto. Proprio per questo motivo è chiamato ‘composto’”. “Subhuti, quando
qualcosa viene chiamato ‘composto’ si tratta soltanto di un modo di dire convenzionale. Non ha
un reale fondamento. Solo gli esseri ordinari sono intrappolati dai termini convenzionali”.
“Subhuti, se qualcuno affermasse che il Buddha ha parlato della visione di un sé, della visione di
una persona, della visione di un essere vivente o della visione della durata di un’esistenza, quella
persona avrebbe compreso l’essenza del mio insegnamento?”.
“No, Onorato dal Mondo . Una persona del genere non avrebbe compreso il Tathagata. Perché?
Quelle che il Tathagata chiama ‘visione del sé’, ‘visione di una persona’, ‘visione di un essere
vivente’, ‘visione della durata di un’esistenza, non sono in essenza una visione del sé, una visione
di una persona, una visione di un essere vivente o una visione della durata di un’esistenza. Proprio
per questo motivo sono chiamate ‘visione del sé’, ‘visione di una persona’, ‘visione di un essere
vivente’, ‘visione della durata di un’esistenza’.
“Subhuti, chiunque origini la più alta e più completa mente risvegliata dovrebbe sapere che ciò è
vero per tutti i dharma, dovrebbe considerare che tutti i dharma sono fatti in questo modo,
dovrebbe avere fiducia nella comprensione di tutti i dharma senza basarsi su alcun concetto
‘concezione del dharma’, il Tathagata ha affermato che non si tratta di una concezione dei
dharma. Proprio per questo motivo viene chiamato ‘concezione dei dharma’”.

Nel pensiero indiano dell’epoca era prevalente la convinzione che gli enti del mondo fossero il frutto di
un’aggregazione di atomi (quello che pensò Democrito 200 anni dopo in Grecia); tutt’oggi i nostri sensi ci
portano a pensare in qualche modo così; il tavolo su cui mangiamo, il tatami su cui sediamo, ce li
raffiguriamo mentalmente come un’aggregazione di elementi più piccoli, assemblati insieme da qualche
colla. Già con il secolo scorso, le scoperte quantistiche, mai ben divulgate! hanno smontato questa certezza
sensoriale, rappresentando una realtà sottostante di particelle in fluttuazione continua.
Buddha della fisica dei quanti non sapeva un accidente ma, per via mistica, si avvicina alle sperimentazioni
moderne e lo dice con una chiarezza stupefacente.
Come non si può dire se il gatto di Schrödinger è vivo o morto… così non si può dire niente anche di fronte a
un (forse) morto o a un (forse) mai stato vivo; ricorderete il celebre koan “Dogo e la visita di condoglianze”
Un giorno morì un uomo che viveva nelle vicinanze del Tempio di Chang Chou. Dogo, il Maestro
del tempio, si recò, insieme al suo discepolo Zengen, a fare le condoglianze alla famiglia. Durante
la visita Zengen colpì la bara e chiese: “È vivo o morto?”. Dogo rispose: “Non dico che è vivo, non
dico che è morto”. Zengen disse: “Perché non vuoi dirlo?”. Dogo ripetè: “Non lo dirò, non lo dirò”.
Sulla via del ritorno, Zengen chiese ancora: “Vi prego, Maestro, ditemi chiaramente se era vivo o
morto. Se non me lo direte io vi picchierò”. Il Maestro rispose: “Picchiami se vuoi, ma io non lo
dirò”. Zengen lo colpì. Passarono gli anni e un giorno Dogo morì; Zengen, ancora tormentato dal
dilemma, andò a visitare Sekiso, un Maestro molto conosciuto; gli raccontò come molti anni
prima avesse picchiato il suo vecchio Maestro perché non aveva risposto alla domanda sulla vita
e sulla morte. Poi ripeté la stessa domanda a Sekiso. Sekiso disse: “Non dico che è vivo, non dico
che è morto. Non lo dirò, non lo dirò”. In quel momento Zengen raggiunse l’illuminazione; lasciò
subito il Maestro e, con una vanga in spalla, andò nella sala principale del monastero mettendosi
a camminare in su e in giù. Sekiso lo vide e gli chiese: “Che cosa stai facendo?”. Zengen rispose:
“Sto cercando le reliquie del mio vecchio Maestro”. Sekiso disse: “C’è un grande fiume con
immense onde che riempiono l’intero universo. Le reliquie del tuo Maestro non saranno trovate in
nessun posto.”

Per “Dire!” bisogna trascendere le parole e quindi il linguaggio! non si sfugge, piaccia o no.
Le ultime parole di Buddha riguardano come insegnare il Sutra del Diamante agli altri: impresa chiaramente
impossibile, ma, ancor più, inutile! Il Buddha lo sapeva bene, ne siamo più che certi, ma, come ha scritto il
maestro Taino:
a volte bisogna essere polli, a volte bisogna essere volpi

La poesia con cui il Sutra del Diamante torna nella libreria… merita il prezzo del biglietto! cioè la fatica che
abbiamo fatto per districarci per 10 mesi tra parole lontane
Tutti i fenomeni composti sono come un sogno,
un fantasma, una goccia di rugiada, la luce di un lampo.
Ecco come meditare sui fenomeni,
ecco come osservarli.
Anche Thich ci lascia con un pensiero profondo
I fisici nucleari hanno detto che, entrando nel mondo subatomico, la percezione comune, quella
della nostra vita quotidiana, finisce per apparire ridicola. Nonostante ciò, i fisici nucleari vivono la
loro vita ordinaria come tutti gli altri esseri. Bevono il tè e mangiano il pane, come tutti noi, anche
se sanno bene che un pezzo di pane per la maggior parte è costituito da spazio e poi da un piccolo
numero di particelle di materia. Il Buddha si comporta allo stesso modo. Il Buddha sa che tutte le
cose sono simili a un sogno, a un fantasma, a una bolla, al bagliore di un lampo, eppure continua
a vivere normalmente la sua vita. Mangia e beve, come tutti gli altri. L’unica differenza è che il
Buddha vive la propria vita nello spirito dell’assenza di segni e del non-attaccamento.

È così, ma non credo proprio che anche il Buddha, quando la sera della sua vita si sarà avvicinata, non abbia
avuto il pensiero di Francesco Guccini:
vorrei che oggi rimanesse oggi senza domani
vorrei che domani potesse estendersi all’infinito

ma, visto che – stando anche ad alcuni passi del Sutra – aveva anche doti di preveggenza, non gli sarà
sfuggito il celebre aforisma di Woody Allen
Che bello vivere fino a 120 anni!
però… certo… anche un trasloco a 110!

Chiudiamo davvero, con un sentimento di riconoscenza ai tanti protagonisti che si sono succeduti nella
nostra lettura, da Buddha a Subhuti, a Osho, a Thich Nhat Hanh, a Engaku Taino.
Con il prossimo settembre faremo un salto in avanti di 2500 anni, tornando alla contemporaneità:
inizieremo la lunga cavalcata dei 96 casi dello Zenshin Roku.
Buona estate!

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