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L’idea di affrontare questo argomento nasce non solo da un crescente interesse sociale intorno al
tema del Coaching, ma anche da tantissime richieste che ricevo quotidianamente da parte di
psicologi e psicoterapeuti che desiderano partecipare ai Corsi di Coaching.
Subito un chiarimento: non sono uno psicologo e quindi non mi soffermerò nel presentare le
differenze partendo dalla Psicologia (per la quale nutro il massimo rispetto). Lo farò, invece
cercando di evidenziare cos’è il Coaching e quali sono le specifiche diversità.
Una breve premessa… (che purtroppo complica il quadro nel complesso rapporto tra Coaching
e Psicologia)
Il Coaching è ancora un metodo poco conosciuto in Italia. Storicamente fu introdotto nel nostro
Paese da grandi multinazionali. Non è un caso, quindi, scoprire che ancora oggi il Coaching viene
confuso e accomunato al Business Coaching, ovvero la branca specifica che si riferisce al mondo
aziendale e del lavoro.
Il termine Coach, in inglese, significa semplicemente “allenatore”; forse, per questo motivo, se ne fa
un grande uso ed abuso. Manca, a mio modesto parere, la dovuta cautela (e tutela). Esistono
famosi Coach nel mondo dello sport … nonché coach formatori, coach di PNL, coach trainer,
financial coach, coach d’immagine… e ancora: coach olistici, coach sciamani, coach spirituali,
mamme e papà coach, web-coach, coach dell’amore… un esercito di pseudo-Coach (allenatori di
qualcosa) che meriterebbe una lunga trattazione particolareggiata fuori da questo contesto.
Da tutto ciò si evince che ancora non è chiaro e ben definito in che cosa consiste il Coaching, quali
sono le tipicità del metodo, le tecniche utilizzate, il ruolo, la funzione e le responsabilità del Coach
Professionista; del resto, non possono essere chiare una miriade di piccole sfaccettature delegate,
senza dubbio, alla conoscenza di chi pratica il Coaching come studioso o ricercatore e non come
fruitore, osservatore o semplice curioso. Eppure questo genere di argomentazione non deve
meravigliare: la scarsa comprensione assilla finanche tantissimi ignari fruitori di corsi che, finendo
nelle spire di una impostazione culturale sbagliata, confondono il Coaching con pratiche strampalate
al limite del creativo (che molte volte sconfinano in pratiche bizzarre o addirittura disoneste).
Non mancano, a tal riguardo, aziende di formazione e singoli formatori che, ingolositi dal “fare
affari” nella formazione di “Coach-tuttofare” cercano di confondere le idee a ignari clienti e a coloro
che s’interessano seriamente al mondo del Coaching. Non posso sottacere, infine, tutti i danni che
hanno prodotto le Organizzazioni e le Associazioni (nazionali e pseudo-internazionali) che per anni
hanno magnificato false credenziali, finte certificazioni e ingannevoli riconoscimenti per i Coach
Professionisti. Insomma, una vera gara a tappe della bugia, degna del miglior Ironman, all’interno
di un mondo giovane che paga i suoi prevedibili “peccati di gioventù”.
La categoria dei Coach, da sempre senza albo e sistema ordinistico, ha avuto un primo risultato in
termini di riconoscimento. Attraverso le Associazioni di Categoria, che di fatto sono tenute a stabilire
nuove regole e nuovi criteri per il funzionamento del settore, è possibile ottenere attestazioni di
qualità e di qualificazione professionale riguardanti comprovate competenze di Coaching
(ovviamente mi riferisco solo ed esclusivamente alle Associazioni di Categoria inserite negli
elenchi pubblici del Ministero dello Sviluppo Economico).
Le Associazioni di Categoria, a tal proposito, hanno stabilito standard di qualità, codici di condotta e
si accingono a stabilire le “regole di gioco”.
La seconda novità è stato il varo della Norma Tecnica UNI (Ente Italiano di Normazione)
11601:2015 che definisce il “Servizio di Coaching”. Un documento specialistico che afferma
“come fare bene le cose”. In pratica una specifica documentazione che definisce, senza ulteriori
fraintendimenti, le caratteristiche del Coaching.
Il risultato, un’opera redatta da un gruppo di lavoro (al quale mi onoro di appartenere) che
attraverso un regime di democraticità e condivisione ha disegnato lo scenario del Coaching italiano
per il prossimo futuro.
Partiamo subito con i chiarimenti…
Il Coaching è un metodo fondato su una partnership relazionale di tipo processuale. E’ una
relazione di aiuto atipica perché il protagonismo viene lasciato al Cliente; esiste, pertanto, la
rinuncia volontaria da parte del Coach di ogni potere sul proprio interlocutore. I suoi effetti sono
inquadrabili in una “relazione generativa” che richiede tempi relativamente brevi. Non si fonda su
“…una chiacchierata amichevole”, sui consigli del “guru”, o sulle soluzioni/ricette miracolose. Non si
può parlare di “Processo di Coaching” se il Cliente non manifesta una domanda di Coaching chiara,
esplicita e consapevole (basata su documento obbligatorio chiamato “patto di Coaching”).
In questa sede c’è da specificare in maniera ferma che il metodo del Coaching non indaga la
dimensione del passato, non rivolge il proprio interesse sul “disagio di vivere”. Non rimuove blocchi,
non lavora sulla personalità, non analizza, non giudica e non interpreta situazioni, storie e
comportamenti. Nella relazione di Coaching manca quell’ineluttabile stato d’inferiorità tipica
dell’individuo che chiede di essere aiutato, manca, altresì l’angoscia, l’insopportabilità di vivere nel
futuro che anzi diventa desiderio, ardore progettuale e infine obiettivo da conseguire insieme al
proprio Coach carico di aspettative ed emozioni positive.
La relazione è proiettata nel futuro e si fonda su tutte quelle azioni che possono migliorare la
qualità di vita della persona attraverso l’utilizzo delle potenzialità personali (intese come tratti
caratteriali già presenti nell’individuo in attesa di essere utilizzati ed espressi con vigore). La
domanda del committente non è caratterizzata dall’accertare o risolvere problemi di salute e non
viene posta in essere da un “paziente” (termine latino che deriva da patiens
, il participio passato del
verbo deponente pati , intendendo “sofferente” o “che sopporta”) ma da un “Cliente” al quale
vengono offerti servizi regolati da un “contratto giuridico” fondato su precise obbligazioni.
L’attività professionale di Coaching non rientra tra quelle relative alla professione di psicologo ai
sensi dell’art. 1 della legge 18 febbraio 1989, n. 56. I Coach professionisti iscritti alle
Associazioni di Categoria si impegnano a non svolgere tali attività, salvo che siano dotati del
relativo titolo professionale ed iscritti all’Ordine degli psicologi.
Il Coaching, come accennato, è una competenza relazionale che rende protagonista il Cliente. Essa
non è caratterizzata da asimmetria che si riscontra in molte altre relazioni d’aiuto dove il
professionista detiene il “potere del sapere” (o “il potere della salute”). E’ caratterizzato dalla
creatività, da nuove opportunità, dai vantaggi derivanti dalla partnership stessa.
Il Coaching come metodo è fondato su uno scambio reciproco, una “costruzione comune”, un
processo condiviso, finalizzato all’azione e a comportamenti specifici (scelti dal Cliente ed evidenziati
nella relazione di Coaching). Su questi il Cliente si assume la responsabilità di scegliere, mentre il
Coach si assume la responsabilità di apportare il metodo del Coaching congiunto alla sua
esperienza, alle sue risorse, al suo sapere, alla sua cultura, al suo “essere Coach”.
Per questo motivo nel Coaching non esistono esami, diagnosi o valutazioni psicologiche. Nel
Coaching non sussistono le condizioni di partenza per praticarle. Il problema “normalità” o
“patologia” non si pone dal nascere della relazione, dalla domanda del Cliente, dai presupposti
dell’offerta. Del resto un Coach non può fare diagnosi (anche perché non ne è capace), ma può (e
deve) rifiutare tutti quei Clienti che ignari del metodo pongono focus operativi orientati al problema,
al disagio, al deficit, al passato, alla personalità, al dolore ai blocchi emotivi.
Il Cliente del Coach non offre aree problematiche (pena il decadimento del rapporto stesso), ma
solo situazioni critiche, storie di vita più o meno dolorose, problemi di vario genere (famiglia, lavoro,
relazioni, ecc.), che non costituiscono il focus operativo (e di interesse) per un Coach, ma
semplicemente un fattore d’innesco carico di energia per ripartire con slancio verso il futuro
desiderato (che è l’unico focus operativo).
Il Coaching, inoltre, si fonda sulla consapevolezza e la responsabilità. Il Coach non esprime potere e
non favorisce alcun tipo di dipendenza. Fonda il proprio operato sull’ascolto, la ricerca, l’impegno
favorendo l’assunzione di reciproche responsabilità (anche attraverso un contratto scritto che viene
definito “Patto di Coaching” che definisce compiutamente i limiti di applicazione del Coaching).
E’ proprio in quest’ottica che posso affermare che il Coaching offre veri vantaggi e nuove
opportunità utili a generare un migliore governo di se stessi verso il futuro; un percorso di Coaching
è dettato dalla voglia di migliorare la propria vita attraverso il “fare” senza analizzare, interpretare,
valutare, giudicare.
Certo, sono consapevole che molti si mostrano scettici o palesemente critici circa la stabilità
teorico/metodologica del Coaching. In realtà è proprio il “metodo” a produrre il più alto beneficio.
Esso è caratterizzato da una “mappa” certa, stabilizzata e verificata in anni di applicazione. La
comprensione del “metodo” dovrebbe rappresentare il primo motivo utile ad iscriversi ad una Scuola
di Coaching (uno psicologo o uno psicoterapeuta ne trarrebbero un innegabile chiarimento);
conoscere il metodo del Coaching significa potersi definire un Coach e finalmente capire tute le
differenze che caratterizzano altre discipline partendo dalla psicologia, la PNL, il Counseling, il
Mentoring. Con questo non intendo sostenere che il Coaching è più efficace di altre discipline; il
termine di paragone non si pone dato che tutti i metodi hanno finalità distanti e difficilmente
paragonabili.
In Italia la diffusione del Coaching parte dal desiderio di chiarire il modello teorico e testarne
l’efficacia in termini scientifici. Negli Stati Uniti (un paese che ci supera sempre nelle cose migliori)
la connessione tra Coaching e Psicologia è già una realtà.
La maggioranza delle persone che svolgono Corsi per diventare Coach non lo fanno per svolgere la
libera professione, ma per utilizzare il metodo nell’ambito della propria attività professionale e/o per
migliorare la qualità del lavoro e delle relazioni con gli altri.
Molti Coach, provengono dal mondo aziendale, altri dal mondo della scuola, altri ancora dal mondo
delle relazioni d’aiuto (psicologi, counselor, formatori, educatori, assistenti sociali); infine moltissimi
si avvicinano al Coaching mossi dal desiderio di migliorare e prendersi cura di sé.
In tal senso, quindi, non esistono “accavallamenti” tra coaching e psicologia dal momento in cui
l’operato del Coach è completamente estraneo a quello della psicologia.
Come ribadito più volte, il Coaching è un metodo eterogeneo utile a chi intende migliorare la propria
vita (personale, professionale, sportiva, relazionale) un metodo di cambiamento finalizzato al
desiderio di crescere, migliorare e svilupparsi.
Nel processo la persona impara ad utilizzare le proprie potenzialità, amplia le conoscenze, affina le
competenze, mette all’opera le capacità e apprende, in primo luogo da se stesso e dal proprio
vissuto. E’ proprio in questa forma di auto-formazione (presidiata e assistita da un Coach) che si
genera lo sviluppo personale e quel miglioramento utile ad approdare ad “un sapere fare” correlato
(fortunatamente) ad un “sapere essere”.
In conclusione voglio ribadire un concetto fondamentale: un Coach lavora con persone che non
hanno problemi ma obiettivi da raggiungere. Il processo è basato su un modello generativo
orientato al futuro desiderato. Nel Coaching la persona scopre, utilizza e allena le potenzialità
personali attraverso piani d’azione costruiti in alleanza con il proprio Coach.
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5 COMMENTI
STEFANO
Nella mia professione di psicologo l’integrazione tra coaching e psicologia è già una
realtà. Condivido la sua posizione e apprezzo la sua chiarezza espositiva.
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CARLA
Buongiorno,
mi piacerebbe capire come si dovrebbe comportare un coach se lavorando con un
cliente scopre che questo ha dei problemi. grazie
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FRANCESCO
Capire dove finisce il coaching e dove inizia la psicologia diventa un problema solo
per coloro che non hanno ben compreso le differenze. Si tratta solo di prendere in
considerazione la possibilità di rifiutare un cliente (o di interrompere il percorso).
Nella mia ventennale esperienza come coach ho avuto pochissimi casi in cui mi sono
trovato in difficoltà. In questi ho sempre scelto responsabilmente di inviare il cliente
da uno psicoterapeuta e nei casi meno complessi da uno psicologo.
La mia personale strategia è:
1) dedicare molto tempo a capire il focus del cliente prima di iniziare il processo
2) esplicitare nel “patto di coaching” gli obiettivi proiettati nel futuro
3) sensibilizzare il cliente circa la natura del rapporto e il significato di “coaching”
grazie Angelo, il tuo post è pieno di conferme
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STAFF PROMETEO COACHING
C’è da specificare che con la Legge 4/2013, il legislatore, ha notevolmente innovato
la regolamentazione dell’attività libero professionale. L’articolo 1 della Legge
14 gennaio 2013 n4 comma 2 recita: ai fini della presente legge, per “professione
non organizzata in ordini o collegi”, si intende l’attività economica, anche
organizzata, volta alla prestazione di servizi o di opere a favore di terzi, esercitata
abitualmente e prevalentemente mediante lavoro intellettuale, o comunque con il
concorso di questo. Sono escluse le attività riservate per legge a soggetti
iscritti in albi o elenchi ai sensi dell’articolo 2229 del Codice civile, delle
professioni sanitarie e delle attività e dei mestieri artigianali, commerciali e di
pubblico esercizio disciplinati da specifiche normative.
Inoltre, è utile precisare che l’attività di Coaching non rientra tra quelle
relative alla professione di psicologo ai sensi dell’art. 1 della legge 18 febbraio
1989, n. 56, e che i professionisti iscritti alle Associazioni di Categoria Nazionali
(iscritte negli Elenchi del Ministero dello Sviluppo Economico), per regolamento
interno, si impegnano a non svolgere tali attività, salvo che siano dotati del relativo
titolo professionale ed iscritti all’Ordine degli psicologi
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