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L'ultimo messia di P. W.

Zapffe
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Questo saggio è disponibile in rete soltanto in un farraginoso e antiquato inglese (tradotto a


sua volta non si sa quanto bene dal norvegese). Da qui, oltre che da una mia certa imperizia,
nasce la poca scorrevolezza di alcuni periodi. Credo però che il senso generale si comprenda
benissimo e trovo questo testo del 1933 straordinariamente attuale. Peter Wessel Zapffe,

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filosofo norvegese, scalatore, non è l'ultimo di una serie di “pensatori” che hanno avuto il
coraggio o la mancanza di capacità auto illusorie, di scartare ogni facile soluzione, in un
secolo come il XX che di facili e mortali soluzioni ne trovò tante, troppe. Non voglio parteggiare
per una certa corrente filosofica “pessimista”, in quanto credo che “pessimismo” sia un
termine abusato e fuorviante. Si tratta più che altro di realismo. Il realismo sta conoscendo
una costante ma inarrestabile rinascita dopo essere stato soffocato da secoli di idealismo e
soluzioni salvifiche marxiste, cattoliche e quant’altro. Pur non condividendo in toto la visione
nichilista di Zapffe (se c'è una cosa che non ha bisogno di motivazioni è proprio la vita,
secondo me), c'è qualcosa di stranamente consolante in queste pagine. Allegria di naugragi,
come si dice.
Cos’è la realtà fuori dall’oggetto, fuori dalla condanna del kantismo dell’inaccessibilità del
noumeno? Cosa ci spinge, cosa ci parla dentro? Da cosa scappiamo?
Cercare il reale credo sia il primo passo verso la maturità individuale, come pure di specie. E
Dio solo sa (se esiste, naturalmente) quanto bisogno abbia l’uomo di diventare finalmente
maturo. E Dio solo sa quanto siamo ancora lontani dall’esserlo. Giochiamo con le leve del
mondo e ci pasticciamo dentro e l’immenso meccanismo ci si sta rivolgendo contro. È sotto gli
occhi di tutti, ormai.

L’ultimo Messia

Peter Wessel Zapffe

I.

Una notte di un tempo remotissimo, un uomo si svegliò e vide se stesso. Vide che era
nudo nell’immensità, senza patria nel suo stesso corpo. Tutte le cose si dissolvevano nel
suo pensiero: meraviglia dopo meraviglia, orrore dopo orrore, tutto si svelava alla sua
mente.

Anche la donna si svegliò e disse che era tempo di uccidere. Ed egli prese il suo arco e la
freccia, frutto del connubio di spirito e mano e uscì sotto le stelle.

Mentre le bestie arrivavano presso la pozza d’acqua dove era solito aspettarle, egli non
sentì più il balzo della tigre nel suo sangue, ma un grande salmo di fratellanza nel dolore
tra tutti i viventi.

Quel giorno non fece ritorno con la preda e quando lo ritrovarono, la luna seguente, era
seduto, morto, presso la pozza d’acqua.
II.
Cos’era successo? Una breccia nella profonda unità della vita, un paradosso biologico, un
abominio, un’esagerazione di portata disastrosa. La vita aveva superato il suo obiettivo,
staccandosi via dal resto.

Una specie troppo pesantemente armata di uno spirito possente, era divenuta una

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minaccia per la propria salvezza. La sua arma era una spada senza elsa, una lama a
doppio taglio che scinde ogni cosa: colui che la brandisce deve afferrare la spada e
rivolgere il suo taglio contro di sé.

Nonostante i suoi nuovi occhi, l’uomo era ancora radicato nella materia, la sua anima
imbastita di essa e subordinata alle sue cieche leggi. Eppure egli poteva vedere la
materia come estranea, comparare se stesso a tutti i fenomeni e sentire i propri processi
vitali.

Egli torna alla natura come un ospite non invitato, invano stendendo le mani per
implorare una riconciliazione con la propria fattrice: la natura non risponde più. Essa ha
realizzato un miracolo con l’uomo ma non lo riconosce più. Egli ha perso diritto di
residenza nell’universo, ha mangiato il frutto dell’Albero della Conoscenza ed è stato
espulso dal Paradiso. Egli ha potere sul mondo ma lo maledice, avendolo preso in
cambio dell’armonia della propria anima, della propria innocenza, dell’intima pace nelle
braccia della vita.

Così l’uomo rimane con le sue visioni, tradito dall’universo, tra stupore e paura.
Anche le bestie conoscono la paura, nelle tempeste, nelle zanne del leone.
Ma l’uomo conosce la paura della vita stessa, perfino del suo stesso essere.
La vita è per la bestia potenza, calore e gioco e lotta e rabbia e piegare il capo sotto la
legge del più forte. Nelle bestie la paura è limitata al presente, nell’uomo diventa paura
del mondo e disperazione.
Non appena il bambino compare sul fiume della vita, il ruggito della cascata della morte
sale alto nella valle, sempre più vicino, a strappargli ogni gioia.
L’uomo appartiene alla terra, la quale respira come un grande polmone. Ogni volta che
espira, la vita sgorga da tutti i suoi pori e si slancia verso il sole. Quando inspira, invece,
un lamento di dissoluzione passa tra le moltitudini, e i corpi cadono a terra come
grandine.
Non solo il proprio destino l’uomo vede: i cimiteri si spalancano sotto il suo sguardo, le
lamentazioni dei dissolti millenni salgono verso di lui da quelle orribili forme
decomposte, i sogni delle madri tornati polvere.
La cortina del futuro si solleva per rivelare un incubo di ripetizioni infinite, l’insensata
dissipazione di materiale organico. La sofferenza di miliardi di umani fa il suo ingresso
dentro di lui attraverso la porta della compassione; da tutto ciò che vede, sorge una
risata che si burla di ogni richiesta di giustizia, di ogni principio ordinatore. Vede se
stesso uscire dal grembo della madre, tende la sua mano nell’aria ed essa ha cinque
diramazioni.
Da dove viene questo diabolico numero cinque e che cosa ha a che fare con la mia
anima?
Egli non è più ovvio per se stesso. Tocca il proprio corpo con assoluto orrore: questo sei
tu e fin qui puoi estenderti e non oltre.
Porto del cibo con me che ieri era un animale che poteva ancora correre per conto suo.
Lo mastico e diventa parte di me: allora, dove finisco io e dove inizio?

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Tutte le cose sono incatenate insieme in cause ed effetti e tutto ciò che cerca di afferrare
si dissolve prima che il pensiero lo comprenda. Presto comincia a scorgere le meccaniche
anche nel suo ambiente, nel sorriso della sua amata. Alla fine, le caratteristiche di ogni
cosa sono le sue. Niente esiste senza di lui, tutte linee convergono verso di lui, il mondo
non è altro che uno spettrale eco della sua voce. Salta in piedi urlando a squarciagola,
vorrebbe vomitare se stesso sulla terra insieme al suo impuro pasto; sente incombere la
pazzia e vorrebbe darsi la morte prima di perderne la capacità.
Ma mentre soppesa l’imminente morte, ne afferra anche la natura e le cosmiche
implicazioni. La sua immaginazione creativa costruisce nuove spaventose prospettive
dietro la cortina della morte e vede che anche lì non c’è salvezza.
Adesso può discernere i contorni dei propri termini biologico - cosmici: egli è il
prigioniero senza speranza dell’universo, destinato a prospettive ignote
Da quel momento è in uno stato di panico senza fine.
Questo stato di “panico cosmico” è centrale in ogni mente umana. In effetti una razza
appare destinata a perire nella misura in cui ogni preservamento e continuazione della
vita è giocata sull’energia spesa dall’individuo per sopportare o differire un qualche tipo
di catastrofica alta tensione.

La tragedia di una specie divenuta inadatta alla vita per il sovrasviluppo di una
caratteristica non è limitata all’umanità. Si pensa, ad esempio, che certi grandi cervi di
tempi paleontologici, si siano estinti a causa dell’acquisizione di corna sovrasviluppate.
Le mutazioni sono cieche, funzionano, si fortificano senza alcuna utilità per l’ambiente.
Negli stati depressivi la mente può essere vista come corna ramificate che in tutto il loro
fantastico splendore, piegano il loro portatore fino a terra.
III.

Perché allora l’umanità non si è da gran tempo estinta in grandi epidemie di pazzia?
Perché solo un irrisorio numero di individui perisce a causa della loro incapacità di
resistere al peso della vita: cioè la consapevolezza dà loro più di quello che possono
sopportare?
La storia culturale, come pure l’osservazione di noi stessi e degli altri consente la
seguente risposta: la maggior parte delle persone impara a salvarsi limitando il
contenuto della coscienza.
Se il cervo gigante, a più riprese, avesse spezzato i rami più esterni delle sue corna,
avrebbe potuto resistere un po’ di più, sia pure nella febbre e nel dolore costante e nel
tradimento della sua precisa peculiarità, poiché egli era stato chiamato dalla mano della
natura a essere il portatore di corna tra gli animali selvaggi. Quello che avrebbe
guadagnato in continuità avrebbe perso in significato, in grandezza di vita. In altre parole
avrebbe avuto una continuità senza significato: non una marcia verso l’affermazione, ma
una via attraverso le rovine da lui stesso create, in una corsa autodistruttiva contro il
sacro volere del sangue.
L’identità di scopo e mortalità è, per il cervo gigante come pure per l’uomo, il tragico
paradosso della vita.
In una devota Bejahung, l’ultimo Cervus Giganticus, porta il segno del suo lignaggio fino

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alla fine.
L’essere umano salva se stesso e va avanti. Realizza, per usare un’estensione di un
termine noto, una semi consapevole repressione del proprio dannoso surplus di
coscienza. Questo processo è virtualmente costante nelle nostre ore di veglia: è una
richiesta di adattabilità sociale e di tutto ciò che si può definire un salutare e normale
modo di vivere.
La psichiatria si basa sull’assunto che salute e vitalità siano la più alta espressione in
termini personali. Depressione “paura della vita”, rifiuto del nutrimento e così via, sono
invariabilmente prese come segni di uno stato patologico e curati di conseguenza.
Spesso, tuttavia, questi fenomeni sono messaggi di un più profondo, immediato senso
della vita, amaro frutto di una genialità di pensiero e sentimento alla radice di tendenze
anti biologiche. Non è l’anima a essere malata, piuttosto è la sua protezione che cade,
oppure viene rifiutata perché esperita (correttamente) come un tradimento del più alto
potenziale dell’ego.
L’insieme degli umani è, sia dentro che fuori, immerso in meccanismi repressivi, sociali e
individuali. Se ne trova traccia nelle più trite formule della vita di ogni giorno. Sebbene
assumano una vasta e molteplice varietà di forme, è possibile identificare quattro
maggiori tipi di meccanismo, ovviamente ricorrenti in ogni possibile combinazione:
isolamento, ancoraggio, distrazione e sublimazione.

Per isolamento si intende la rimozione totalmente arbitraria dalla coscienza di ogni tipo di
pensiero inquietante e distruttivo. Un perfetto e quasi brutale esempio si può trovare tra
certi tipi di medico che per autoprotezione vedono solo l’aspetto tecnico della loro
professione. Un atteggiamento che può scadere fino al teppismo, un misto di
energumeno e studente di medicina, nel quale ogni sensibilità per il lato tragico della vita
è sradicata con mezzi violenti (tipo giocare a calcio on le teste dei cadaveri e così via).
Nella vita di tutti i giorni l’isolamento si manifesta in un codice generale di reciproco
silenzio: prima di tutto verso i bambini perché non abbiano a temere la vita appena
cominciata, ma conservino le loro illusioni fino a quando potranno affrontarne la perdita.
In cambio i bambini non devono seccare gli adulti con qualunque riferimento a sesso,
cesso e morte.
Tra adulti ci sono le regole del “tatto”, un meccanismo ampiamente spiegato quando un
uomo che piange forte per strada viene fatto allontanare con l’aiuto della polizia.
Il meccanismo dell’ancoraggio serve fin dalla prima infanzia: i genitori, la casa, la strada, si
confanno automaticamente al bambino, dandogli un senso di sicurezza. Questa sfera di
esperienza è la prima, e forse la più felice, protezione contro il cosmo che mai
conosceremo nella vita, un fatto che spiega senza dubbio anche il tanto discusso “legame
infantile”: che sia anche un aspetto sessuale è irrilevante qui.
Quando il bambino scopre più tardi che questi punti fissi sono arbitrari ed effimeri come
qualunque altro, ha una crisi di confusione e ansietà, per cui prontamente va in cerca di
un altro ancoraggio: “in autunno inizierò la scuola media”.
Se la sostituzione in qualche modo fallisce, allora la crisi può prendere un corso fatale
oppure subentra ciò che io chiamo uno spasmo da ancoraggio: ci si aggrappa ai valori
morti, nascondendo il più possibile a sé e agli altri il fatto che ormai non funzionano più,

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che si è spiritualmente insolventi. Il risultato è una permanente insicurezza, un senso di
inferiorità, inquietudine. Nella misura in cui questo stato ricade in determinate categorie,
il soggetto viene sottoposto a trattamento psicoanalitico il cui scopo è completare la
transizione a nuovi ancoraggi.

L’ancoraggio può essere caratterizzato da una fissazione di alcuni punti interiori, o dalla
costruzione di mura intorno al liquido vortice della coscienza. Sebbene normalmente
questi punti siano inconsci, possono anche essere consci (tipo “perseguire uno scopo”).
Gli ancoraggi pubblicamente utili incontrano le simpatie di tutti, chi sacrifica se stesso
totalmente per il suo ancoraggio (la società, la causa) è idolatrato.
Ogni cultura è un grande, compiuto sistema di ancoraggi, costruito su fondamentali
certezze, le idee culturali di base. La persona media è fatta di certezze collettive, la
personalità si costruisce da sola, il carattere finisce di edificarsi, più o meno radicato su
certezze collettive ereditate (Dio, la Chiesa, lo Stato, la morale, il fato, la legge della vita, il
popolo, il futuro). Più un certo elemento portante è vicino alle principali certezze, più è
pericoloso toccarlo. Qui una protezione diretta è normalmente stabilita da codici penali e
minacce di persecuzione (inquisizione, censura, tutto l’approccio conservatore della vita).

La capacità portante di ciascun segmento sociale dipende dal non essere ancora stato
visto nella sua natura fittizia, o che sia riconosciuto come necessario in ogni modo: come,
ad esempio, l’educazione religiosa nelle scuole che anche gli atei sostengono, poiché
sanno di non avere altro modo per portare i bambini a inserirsi socialmente.

Quando la gente realizza la falsità e la ridondanza dei segmenti, comincia a lottare per
rimpiazzarli con dei nuovi (“Verità a durata limitata”): da qui scaturisce la lotta culturale e
spirituale che, insieme alla competizione economica, forma il dinamico contenuto della
storia mondiale.

La brama di beni materiali (potere), non è tanto dovuta ai piaceri della ricchezza, poiché
nessuno può sedersi su più di una sedia o mangiare più di quanto lo sazi. Piuttosto, il
valore della ricchezza consiste nelle maggiori opportunità di ancoraggio e distrazione
offerte al possidente.
Sia per gli ancoraggi collettivi, sia per quelli individuali, succede che quando un segmento
si spezza, c’è una crisi che è tanto più grave quanto più il segmento è vicino alle certezze
principali. Dentro i cerchi più interni, lontano dai bastioni esterni, queste crisi sono
ricorrenze giornaliere e non dolorose (i “disappunti”). Si può anche giocare con i valori di
ancoraggio (spiritosaggini, gerghi, alcool). Ma durante questi giochi può capitare
accidentalmente di toccare il reale e la scena si trasforma istantaneamente da euforica a
macabra. La minaccia dell’essere ci fissa negli occhi e in un mortale soffio percepiamo
come tutti siamo sull’orlo della follia e l’inferno occhieggia sotto di noi.
Le certezze realmente fondanti raramente sono rimpiazzate senza grandi spasmi sociali
e a rischio di una completa dissoluzione (riforme, rivoluzioni). Durante questi momenti,
gli individui sono sempre più abbandonati ai propri sistemi di ancoraggio e il numero dei
fallimenti tende a crescere. Depressioni, eccessi e suicidi sono il risultato (come gli
ufficiali tedeschi dopo la guerra, gli studenti cinesi dopo la rivoluzione).
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Un altro difetto del sistema è che una sovrastruttura logica è costruita sopra ogni
certezza, cui si ammassano infiniti modi di sentire e di pensare. Ciò porta nella nostra
vita innumerevoli contraddizioni.
Così la disperazione può entrare attraverso le spaccature. In questi casi una persona può
essere ossessionata da una gioia distruttiva, spazzando via l’intero apparato artificiale
della sua vita con una sorta di orrore estatico. L’orrore proviene dalla perdita di tutti i
valori – rifugio, l’estasi dalla sua improvvisa spietata identificazione e armonia con il più
profondo segreto della nostra natura, la biologica imperfezione, la perdurante
disposizione alla rovina.
Amiamo i nostri ancoraggi perché ci proteggono, ma allo stesso tempo li odiamo, perché
limitano il nostro senso di libertà. Quando ci sentiamo abbastanza forti, prendiamo
piacere nel seppellire un vecchio valore. Gli oggetti materiali qui assumono una rilevanza
simbolica (L’approccio radicale alla vita).
Un modo di protezione molto popolare è la distrazione. Si limita la propria attenzione
verso gli aspetti critici dell’esistenza, essendo costantemente trascinati dalle impressioni.
Questo atteggiamento è tipico anche nell’infanzia: senza distrazioni il bambino è
insofferente a se stesso. “Mamma e adesso cosa faccio?”. Una piccola ragazza inglese in
visita a una zia norvegese, entrò nella sua stanza dicendo: “Che succede adesso?” La tata
improvvisò con virtuosismo: “Guarda, un cagnolino! Guarda, stanno dipingendo il
palazzo!

Il fenomeno è così familiare da non richiedere altra dimostrazione.

La distrazione è, per esempio, la tattica di vita dell’alta società. Può essere paragonata a
un aeroplano, fatto di metallo pesante, ma incorporante un principio che consente di
sollevarsi da terra quando è applicato: deve essere sempre in movimento, poiché l’aria
sostiene solo se si va veloci. Il pilota può anche essere assonnato e pigro per abitudine,
ma la crisi diventa acuta nel momento in cui il motore perde colpi.

La tattica è spesso pienamente consapevole. La disperazione può scavare proprio sotto


traccia e irrompere zampillando in un improvviso singhiozzare. Quando tutte le
possibilità di distrazione sono state usate, la malinconia si insedia, spaziando da una lieve
indifferenza a una fatale depressione. Le donne, in genere meno soggette agli eccessi
della cognizione e quindi più sicure della loro vita che gli uomini, usano preferibilmente
la distrazione.
Gran parte del male di essere prigionieri sta nell’avere accesso negato alle maggiori
possibilità di distrazione. Man mano che i modi per affrancarsi vengono meno, il
prigioniero tenderà a trovarsi faccia a faccia con la disperazione. Solo l’istinto di
conservazione lo trattiene dall’esito finale. Egli sperimenta la sua anima isolata
dall’universo e non ha altro sentimento che la totale insopportabilità di quella
condizione.
Puri esempi di panico vitale sono presumibilmente rari, poiché i meccanismi protettivi
sono automatici, affinati e costanti. Ma la morte è ovunque intorno, la vita è scarsamente
sostenibile e a prezzo di grandi sforzi. La morte appare sempre una via di fuga, se si

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ignora la possibilità di un aldilà. Poiché il modo in cui si percepisce la morte dipende
parzialmente da sentimenti e prospettive personali, potrebbe essere una soluzione
accettabile. Se in statu mortis si potesse recitare (un poema, un gesto, “morire a testa
alta”), come ancoraggio finale o distrazione finale (la morte di Aase, nel Peer Gynt), allora
tale fato non sarebbe dei peggiori.
Quando un essere umano si toglie la vita in seguito a depressione, questa è una morte
naturale per cause spirituali. La barbarie moderna di “salvare” il suicida è basata su un
malinteso sulla natura dell’esistenza, tale da far rizzare i capelli.
La persona “civile” richiede connessioni, linee, una progressione nei cambiamenti. Niente
soddisfa alla lunga, bisogna sempre avanzare, acquisendo conoscenza, intraprendendo
una carriera. Il fenomeno è conosciuto come “anelare” o “tendenza trascendentale”.
Quando lo scopo è raggiunto il desiderio va avanti. Quindi l’oggetto del desiderio non è lo
scopo, ma il semplice ottenimento di esso: è il gradiente, non l’altezza assoluta, nella
curva rappresentante una vita. La promozione da soldato semplice a caporale può dare
un’esperienza più gratificante che quella tra colonnello a generale. Qualsiasi pretesa di
“ottimismo progressivo” è confutata da questa legge psicologica.
L’umano anelare non è soltanto da “lottare verso”, ma anche un “fuggire da”: nessuno
finora ha avuto ben chiaro che cosa si anela, ma tutti hanno sempre in mente ciò da cui
si fugge, cioè questa valle di lacrime, la nostra insopportabile condizione. Se la
consapevolezza di questa condizione è il più profondo strato dell’anima, allora è
comprensibile che l’anelito religioso sia esperito come fondamentale.
Il quarto rimedio contro il panico, la sublimazione, è questione di trasformazione
piuttosto che repressione. Attraverso doti artistiche o stilistiche il dolore di vivere può
essere a volte convertito in una esperienza di valore. Gli impulsi positivi trasformano il
male secondo i propri fini, rivelandone i suoi pittoreschi, drammatici, eroici, lirici o anche
comici aspetti.
Senza il controllo della mente, questo rimedio è improbabile. (Lo scalatore non si gode la
veduta dell’abisso mentre lotta contro le vertigini. Solo quando questo sentimento è più
o meno superato, godrà della scalata – ancoraggio). Per scrivere una tragedia bisogna
essersi per un certo verso, liberati (aver tradito) il profondo senso di tragedia e guardarlo
da un esterno ed estetico, punto di vista. Qui c’è, a proposito, un’opportunità per i più
selvaggi rondò attraverso sempre più alti livelli, fino al più imbarazzante circulus vitiosus.
Qui si può dare la caccia al proprio ego attraverso innumerevoli modi di essere,
godendosi la capacità dei vari livelli di coscienza di dissiparsi uno con l’altro.
Il presente saggio è un tipico tentativo di sublimazione. L’autore non soffre, sta
riempiendo pagine per poter essere pubblicato su un giornale.

IV.
È possibile per le nature “primitive” rinunciare a questi intralci e capriole e vivere in
armonia con se stessi nella serena benedizione di lavoro e amore?
Nella misura in cui essi possano essere considerati umani, io penso che la risposta
debba essere no. L’affermazione più precisa che si possa fare su questi cosiddetti popoli
“naturali”, è che essi sono in qualche modo più vicini al meraviglioso ideale biologico di
noi gente “innaturale”. La nostra specie ha potuto superare ogni tempesta, proprio

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attraverso quelle parti della nostra natura che derivano dalla distribuzione dell’energia
tra il corpo e l’anima e che per converso ci creano problemi. Le nostre sofferenze sono
dovute a limitazioni sensoriali, fragilità corporea, come pure al bisogno di lottare per
avere vita e amore. Poiché una sempre maggiore parte delle nostre facoltà cognitive non
sono più impiegate nella lotta quotidiana per la sopravvivenza, sopraggiunge una
crescente disoccupazione spirituale. Il valore di un avanzamento del progresso deve
essere giudicato da quanto tiene occupato lo spirito dell’uomo, nel senso di una
comunione con la natura.

Forse solo i primi utensili per tagliare possono essere considerati un esempio di
invenzione positiva. Le altre invenzioni tecniche arricchiscono solo la vita dell’inventore
stesso: rappresentano un volgare e spietato furto della comune riserva di esperienza
dell’umanità. Andrebbe punito il loro pubblico uso con le più aspre pene.

L’assenza di una attività spirituale basata sulla natura biologica, viene manifestata, per
esempio, da un pervasivo ricorso alla distrazione (spettacoli, sport, radio, “il ritmo dei
tempi”). Non sono così vantaggiosi, oggi, gli ancoraggi: tutti i sistemi collettivi di
ancoraggio ereditati dal passato non resistono alle critiche serrate e ansietà, disgusto,
confusione e disperazione filtrano attraverso le loro spaccature. Il comunismo e la
psicanalisi, cercano entrambi con mezzi nuovi di tentare la vecchia fuga, applicando
rispettivamente, la violenza e l’astuzia per creare umani biologicamente adatti,
intrappolando il loro critico surplus di cognizione. L’idea, in entrambi i casi, è
stranamente logica. Ma non può portare a una soluzione finale. Sebbene un deliberato
abbassamento a un più confortevole livello possa certamente salvare la specie nel breve
termine, essa per sua natura non sarà in grado di trovare pace in tale rassegnazione e, in
verità, non potrà mai trovare pace affatto.
Se portiamo queste considerazioni alle sue estreme conseguenze, allora non c’è dubbio
sulla conclusione. Finché l’umanità procederà nella fatale illusione di essere
biologicamente destinata al trionfo, nulla di essenziale cambierà. Man mano che la
popolazione aumenta e l’atmosfera spirituale si ispessisce, le tecniche di protezione
assumono un crescente carattere brutale.

E gli umani persisteranno in sogni di salvezza e affermazione con sempre nuovi messia.
Eppure quando tutti i salvatori saranno stati inchiodati alle loro croci e lapidati nelle
piazze, l’ultimo messia apparirà.
Sarà l’uomo che, primo tra tutti, ha osato mettere la sua anima a nudo e sottomettersi al
più estremo dei pensieri del nostro lignaggio, l’idea stessa della fine. Un uomo che ha
percepito la vita e le sue radici cosmiche e il cui dolore è il dolore della Terra intera. Con
quali e quante furiose grida le torme di tutte le nazioni invocheranno che possa morire
mille volte, quando come un panno, la sua voce avvolgerà il globo e il suo strano
messaggio risuonerà per la prima e ultima volta:
“La vita dei mondi è un fiume ruggente: ma la Terra è un pozzo di acqua stagnante.
Il segno della colpa è scritto sulle nostre fronti. Per quanto ancora lotterete contro voi
stessi?

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C’è solo una conquista e una corona, una redenzione e una soluzione:
Conosci te stesso, sii infertile e lascia che la terra sia silente dopo te.”
Peter Wessel Zapffe, 1933

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