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axismundi.blog/2020/10/06/john-dee-e-la-lingua-segreta-degli-angeli
lauratripaldi 6 ottobre
2020
di Laura Tripaldi
Nel suo racconto La Biblioteca di Babele, Jorge Luis Borges descrive un archivio
sconfinato di libri i cui bibliotecari sono costretti a vivere come prigionieri, vagando da
una stanza esagonale all’altra senza alcuna via di uscita se non un pozzo verticale che
precipita nel nulla. Gli scaffali della biblioteca sono pieni di volumi che contengono
sequenze di lettere del tutto casuali, e il cui significato, se ne hanno uno, è del tutto
oscuro ai loro sventurati lettori.
In ogni caso, la probabilità che quel libro venga trovato è così trascurabile che la sua
esistenza, come quella di qualsiasi altro volume, è statisticamente del tutto
insignificante. L’architetto di questo immenso labirinto è, forse, un demiurgo
dotato di perversità sconfinata; eppure, il caos apparente della biblioteca
sembra richiamare un ordine divino superiore, per quanto del tutto
incomprensibile alla mente degli uomini.
“L’uomo, questo imperfetto bibliotecario, può essere opera del caso o di demiurghi
malevoli”, scrive Borges, “l’universo […] non può essere che l’opera di un dio. Per
avvertire la distanza che c’è tra il divino e l’umano, basta paragonare questi rozzi, tremuli
simboli che la mia fallibile mano sgorbia sulla copertina d’un libro, con le lettere
organiche dell’interno: puntuali, delicate, nerissime, inimitabilmente simmetriche”.
Certamente, Borges fu influenzato, in questo come in molti altri racconti, da una vasta
tradizione di antiche dottrine mistiche e magiche, al cui cuore vi è l’idea che la
trasformazione delle parole attraverso procedimenti di permutazione
possa svelare una rete di occulte e potenti connessioni. Una branca della
Kabbalah ebraica nota come temurah, il cui più illustre esponente fu il mistico Abraham
Aboulafia, si basava proprio sulla pratica di combinare e permutare le lettere ebraiche
della Torah e dei nomi sacri di Dio, producendo una serie di formule capaci di
esprimere, nel loro continuo mutamento, la potenza divina e la splendida armonia del
cosmo. Questa idea è illustrata da Gershom Scholem in La Kabbalah e il suo
simbolismo, dove spiega che, secondo la dottrina di Aboulafia,
“gli elementi fondamentali, il nome JHWH, gli altri nomi di Dio e gli appellativi o
kinnuyim furono trasformati mediante permutazioni e combinazioni delle consonanti […]
finché in ultimo apparvero nella forma delle frasi ebraiche della Torah, così come le
leggiamo ora. Gli iniziati, che conoscono e hanno capito questi principi della
permutazione e combinazione, possono seguire il percorso inverso, dal testo all’indietro, e
ricostruire il tessuto originario dei nomi” con l’obiettivo di risalire “all’operare segreto
della potenza divina”.
Ma, a partire dal 1582, le ricerche di John Dee presero una piega sempre più eccentrica.
Influenzato dalle opere di altri intellettuali dell’epoca, e forse insoddisfatto dalle
risposte offerte dalla scienza del suo tempo, John Dee cominciò a occuparsi di magia e
spiritismo, con l’obiettivo di penetrare, facendo ricorso a metodi più o meno
ortodossi, i misteri ultimi del cosmo. In questa impresa, fu affiancato da un giovane
alchimista dalla reputazione discutibile di nome Edward Kelley, il quale si
presentò alla sua casa di Mortlake rivelando un incredibile talento come medium.
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John Dee in un’incisione di F. Cleyn del 1658
Secondo le testimonianze contenute nei diari di Dee, Kelley era in grado di comunicare,
con l’aiuto di un cristallo di quarzo, con entità spirituali invisibili. Gli spiriti
contattati da Kelley nel corso delle sue sedute spiritiche con Dee, che si presentavano
nella veste di angeli e arcangeli, cominciarono ben presto ad avanzare pretese sempre
più esuberanti, costringendo i due a viaggiare incessantemente attraverso l’Europa per
trasmettere il messaggio angelico ai regnanti del tempo. Gradualmente, gli angeli
cominciarono a trasmettere i frammenti di quello che appariva come un complesso,
ma indecifrabile, sistema crittografico, composto da astrusi sigilli e
interminabili griglie di lettere.
Gli angeli rivelarono a Dee e Kelley una lingua sconosciuta, chiamata da Dee lingua
enochiana, costituita da un alfabeto di ventuno caratteri, nella quale erano
composte diciannove ‘chiavi’ simili a incantesimi di evocazione dal
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contenuto misteriosamente apocalittico. La turbolenta amicizia tra Dee e Kelley
si interruppe bruscamente nel 1587, e con essa terminarono anche le comunicazioni
angeliche di John Dee. A testimonianza delle loro imprese resta una nutrita raccolta di
diari e manoscritti, la cui prima pubblicazione risale soltanto al 1659, quando una parte
dei diari di Dee, contenente una dettagliata relazione delle sue comunicazioni con gli
angeli, fu fortuitamente ritrovata da un antiquario e fu data alle stampe.
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John Dee con Edward Kelley di fronte a un’apparizione da essi evocata
Davanti a una simile eredità, è facile trascurare gli scritti di John Dee come un’altra
espressione poco rilevante di paccottiglia occulta. Anche per questa ragione, diversi
studiosi, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, si sono impegnati a riabilitare
l’opera di Dee, contestualizzandola all’interno del pensiero del suo tempo. Gli scritti
enochiani di Dee sono, a tutti gli effetti, opere magiche, nel senso che appartengono a
pieno titolo alla tradizione ermetica della sua epoca; del resto, Dee era in possesso di
una delle biblioteche più ricche d’Europa, ed era a conoscenza degli scritti
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dei più importanti esponenti dell’ermetismo, tra cui il De Occulta
Philosophia di Heinrich Cornelius Agrippa, uno dei più completi e influenti testi
di magia del rinascimento.
Molti degli scritti che ispirarono Dee contengono una curiosa commistione di
demonologia e crittologia; l’esempio più rilevante è sicuramente il
misterioso Libro di Soyga, un bizzarro grimorio costituito da 36 pagine di matrici di
lettere apparentemente incomprensibili, che furono decifrate soltanto in anni recenti,
svelando un complicato algoritmo crittografico. L’influenza di questo materiale è
riflessa nella complessità del sistema enochiano di evocazione, che, in accordo con il
neoplatonismo del tempo, utilizza un approccio geometrico-matematico per
comunicare con le schiere angeliche.
La magia di John Dee, come anche la storia della sua vita, è profondamente
malinconica. L’obiettivo dell’operazione magica di Dee era esplicitamente quello di
ricostruire una lingua perduta; si tratta della lingua che fu rivelata, secondo le
dottrine apocrife, al patriarca biblico Enoch, capace, come la parola divina della Genesi,
di operare miracoli. Negli esperimenti angelici di Edward Kelley e John Dee si
concretizzava l’idea religiosa di un paradiso perduto, che, però, non era un luogo o un
tempo dimenticato, ma che aveva la forma di un linguaggio universale originario,
una lingua adamica capace di unire i popoli della Terra in una nuova
comunione con il divino.
“Non sono interessata in questa sede alla ricerca del sensazionale che si è polarizzata
intorno alla vicenda di Dee e che ha teso a oscurarne il significato reale: la sua importanza
consiste, a mio avviso, nella presentazione, attraverso la vita e l’opera di un uomo, del
fenomeno del dissolversi del Rinascimento, nel tardo Cinquecento, fra le fosche
vociferazioni sul demonio. Ciò che accadde durante la vita di Dee al suo «neoplatonismo
rinascimentale» si verificava in tutta Europa nella fase in cui il Rinascimento affondò
nella tenebra della caccia alle streghe.”
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John Dee (seduto) con Edward Kelley
Gli stessi spiriti con cui Dee e Kelley intrattenevano le loro conversazioni appaiono
spesso freddi e calcolatori, così distanti da essere indifferenti alle preoccupazioni
umane. Le loro rivelazioni giungevano in modo frammentario, ed erano trascritte
faticosamente, spesso comunicate una lettera alla volta con l’aiuto di enormi tabelle
cifrate. Che si scelga o meno di credere che le visioni di Kelley fossero un autentico
fenomeno di spiritismo, è indubitabile che John Dee tentò, con tutte le proprie capacità
e conoscenze, di ricavare un sistema unitario dell’universo sulla base delle
informazioni che gli venivano trasmesse, ma senza mai davvero riuscirci.
Questo destino di mago maledetto è sicuramente uno dei più grandi elementi di fascino
nella vita e nell’opera di John Dee, che, però, non deve distoglierci dal rigore della sua
ricerca in un’epoca in cui la scienza contemporanea non aveva ancora visto la luce, e in
cui, davanti alla violenza delle persecuzioni religiose, molti speravano che un messaggio
mistico universale come quello ermetico-neoplatonico potesse riportare l’umanità a
un’età perduta di pace e splendore.
L’aspetto più strettamente semiotico dell’opera di Dee, ovvero la ricerca di una lingua
universale capace di oltrepassare le barriere del linguaggio simbolico, è una questione
filosofica incredibilmente contemporanea: gli esperimenti linguistici di Dee e
Kelley sono un laboratorio di trasformazione della parola umana in un
codice capace di frantumare l’ordine simbolico, attingendo direttamente
alla fonte divina del senso. Ma a rendere soprattutto moderna l’opera di Dee è
proprio il carattere tragico e doloroso della sua ricerca; quella di un uomo
rinascimentale al confine ultimo di un’epoca di certezze, che si trovò a confrontarsi
coraggiosamente con le voci indecifrabili di un nuovo eone.
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“John Dee performing an experiment before Queen Elizabeth I” (dettaglio)
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