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Alessandro Manzoni

L'esperienza romantica italiana ha, in Alessandro Manzoni, il suo migliore interprete: non solo egli
ne avvertì i complessi problemi religiosi, storici, morali, politici, ma ne accolse l’equilibrata misura
nei confronti, sia della tradizione che delle idee provenienti d'oltr'alpe. La sintesi artistica cui egli
giunse è la più coerente fra quante ne presenti la letteratura italiana del primo Ottocento: nessuna
condiscendenza alla eccessiva sentimentalità, nessun esibizionismo autobiografico, nessun
compiacimento per il drammatico contrasto tra il proprio lo e la società in cui si trovò a vivere.
Tutto il suo mondo poetico si accentra sul tema dell'uomo; tutto il suo mondo interiore è
illuminato dalla fede nell'eternità dell'anima e dalla fiducia in Dio, cui fa da necessario
complemento amore verso il proprio simile e, umile o grande che sia.
Entrambi i mondi hanno per oggetto la verità, che letterariamente è rappresentata dalla storia e
dalla realtà, intesa come esperienza vissuta; spiritualmente è costituita, oltre che dal dogma
cattolico, dalla imperscrutabile sapienza del Creatore, per cui la religione si trasforma in uno
strumento di elevazione morale e l'anima, sorretta dalla grazia divina, può trovare conforto alla
terrena ingiustizia nella speranza dì una giustizia suprema, può amorevolmente compatire, più che
condannare, l'errore altrui.
Il poeta si abbandona alla contemplazione delle vicende umane ed attraverso una sottile analisi dei
pensieri e de li affetti di quel “guazzabuglio”, come Manzoni stesso lo chiamava, che è il cuore
umano, trasfigura artisticamente i protagonisti della storia: buoni o cattivi umili o potenti, e li
allontana nel tempo, cosi a far dimenticare la quotidianità delle loro azioni e da farli apparire,
ciascuno nel proprio campo d'azione, come momenti eterni di una umanissima epica cristiana.

Manzoni ritrovò nella Fede e nell'insegnamento evangelico la definitiva sistemazione dei princìpi
attinti dall'ideologia illuminista prima della conversione (libertà, giustizia, democrazia,
umanitarismo): mentre tali princìpi poggiavano, dapprima, su un fondamento puramente
intellettualistico, dopo il 1810 furono avvivati e nobilitati da un profondo spirito religioso che lo
indusse, non a riesaminare, come toccò a molti teorici della Restaurazione, ma a convalidare alla
luce della fede, le primitive concezioni sulla personalità umana e sull'altissimo rispetto ad essa
dovuto, sulle ingiustizie sociali perpetrate dai ceti privilegiati, sulla « iniqua ragione » della spada
invocata dai potenti.
La vita

Alessandro Manzoni nacque a Milano nel 1785 dal conte Pietro e da Giulia Beccaria, figlia del
celebre giurista Cesare (autore di Dei delitti e delle pene).
All'età di sei anni fu messo in collegio presso i frati Somaschi a Merate, in Brianza; sopraggiunti i
Francesi, passò in quello di Lugano, ove ebbe come maestro, per qualche tempo, Francesco Soave,
uno dei teorici del sensismo italiano, ed ultimò i suoi studi al collegio Longoni di Milano, tenuto
dai Barnabiti e conosciuto comunemente come «collegio dei Nobili».
Alla sua formazione spirituale e culturale contribuirono gli insegnamenti dei suoi maestri, la
tradizione razionalistica della famiglia materna, la conoscenza di scrittori e patrioti confluiti nella
capitale della Repubblica Cisalpina da ogni parte d'Italia, e la lezione di integrità morale
proveniente dalla vita e dall'opera di Giuseppe Parini.
Di ispirazione giacobina (libertaria e antitirannica) fu la prima composizione Il Trionfo della
libertà, scritta all'età di quindici anni e riecheggiante struttura e moduli montiani, cui fecero seguito
altri versi giovanili, tra i quali si segnalano i quattro Sermoni, di stile oraziano e pariniano.
Nel 1805 raggiunse la madre a Parigi, che si era separata dal marito e che da tempo abitava nella
capitale francese insieme a Carlo Imbonati: quivi entrò in contatto, sia degli ultimi rappresentanti
dell'illuminismo settecentesco, atei od indifferenti alla religione, sensisti in filosofia, giacobini in
politica, sia della letteratura francese da Racine a Voltaire, con particolare riguardo ai gran i
pensatori ed oratori cattolici; sia ancora degli ambienti aperti alle nuove correnti letterarie. Di
rilievo l'amicizia contratta con Claude Fauriel, uno studioso seguace dello storicismo tedesco, dal
quale apprese quell'amore alla scrupolosa indagine della realtà storica e con il quale intrattenne poi
una lunga corrispondenza epistolare su questioni di critica letteraria e linguistica.
Tutti questi, contatti confermarono i princìpi basilari della sua coscienza e moralità: ne è riprova il
carme In morte di Carlo Imbonati in cui è già possibile scorgere l'essenza dell'ideale etico manzo-
niano «Non ti far mai servo/ non far tregua coi vili/ il santo Vero i mai non tradir».
Gli anni Parigini (1805-1810) furono anni decisivi per la sua formazione. Frequentò gli ideologi
repubblicani che si riunivano nel salotto di Sophie de Condorcet: P.J.G. Cabanis, A.L.C. Destutt de
Tracy, C. Fauriel.
Sul piano più personale, grande importanza ebbe il recupero del rapporto affettivo con la madre.
Intanto Manzoni procedette ad una revisione delle sue idee religiose: dall'agnosticismo, a una forma
di deismo volteriano, poi con un interesse sempre maggiore per i temi teisti.
Nel 1807 morì il padre.
Nel 1808 Manzoni sposò la ginevrina Enrichetta Blondel, calvinista; il matrimonio fu celebrato
secondo questo rito. Nel 1810 il matrimonio fu celebrato secondo il rito cattolico: Enrichetta abiurò,
e anche Manzoni accettò la conversione al cattolicesimo.
E' una conversione in cui ha un ruolo anche la riflessione sulle teorie gianseniste 1, e l'influenza del
sacerdote Eustachio Degola e poi del vescovo Luigi Tosi a Milano, entrambi fautori di un rigorismo
di derivazione giansenista.
Nel 1810 Manzoni tornò a Milano. La sua casa divenne luogo di riunione di poeti e letterati: Ermes
Visconti, Tommaso Grossi, Giovanni Berchet, e, con minore frequenza, Carlo Porta.
1
Dottrina morale e teologica cattolica, attiva soprattutto in Francia nel XVII, risalente al vescovo fiammingo Giansenio
d' Y Pres (Cornelis Jansen). Egli nel trattato Augustinus del 1640, attinse ad alcuni aspetti del pensiero di S. Agostino,
come la grazia, il libero arbitrio, la predestinazione per teorizzare una dottrina in stretta connessione il calvinismo, che
quindi venne combattuta dai Gesuiti e condannata in cinque proposizioni dal papa Urbano VIII. Alla base di questa
dottrina vi era il pensiero che il peccato originale avesse talmente gravato sulla natura umana, da rendere l'uomo
incapace di resistere al male attraverso le sue sole forze; solo l'aiuto della grazia divina può salvarlo. Il giansenismo si
diffuse per tutta la Francia, adottando come roccaforte il convento di Port-Royal, presso Parigi, poi attaccato e distrutto
per opera di Luigi XIV. Il giansenismo tuttavia non scomparve: lo ritroviamo proprio nell’Ottocento, accolto con favore
anche per un’avvertita esigenza di rigore morale, cui il giansenismo rispondeva pienamente.
Manzoni diventa così punto d'incontro tra il gruppo di Porta e quello de «Il Conciliatore».
Gli anni 1812-1827 sono anni molto fecondi, ma anche caratterizzati da ricorrenti crisi depressive.
Dopo un primo soggiorno fiorentino per «risciacquare i panni in Arno», nel 1827 si recò a Firenze
con la famiglia. Incontrò il gruppo dei liberali toscani che facevano capo a G.P. Vieusseux e alla sua
rivista, «L'Antologia». Conobbe anche Leopardi e Niccolini. Fu accolto come membro
corrispondente dell'Accademia della Crusca.

Dal 1833 al 1839 morirono la moglie Enrichetta, le figlie Giulia Claudia (sposata a Massimo
d'Azeglio), Cristina, Sofia e Matilde, e infine la madre.
I lutti aggravarono le sue ricorrenti crisi depressive. Nel 1840 sposò Teresa Borri Stampa.
Trascorse gli ultimi anni onorato e rispettato come il maggiore scrittore italiano vivente. Nel 1861
fu nominato senatore a vita, nel 1862 fu presidente della commissione per l'unificazione della
lingua. Morì a Milano nel 1873.

La poetica

I problemi relativi alla natura ed alla funzione della poesia furono informati in Manzoni della
stessa esigenza morale e religiosa che ne caratterizzò la vita: la sua adesione ai princìpi artistici del
Romanticismo (conversione letteraria, che precede di poco quella religiosa ), dopo il periodo
giovanile di tirocinio poetico sulle orme di Monti e Pa rini, non fu determinata da ragioni esterne,
ma dalla graduale confluenza, in quella che fu la sua evoluzione spirituale, dei due elementi
principali della dottrina romantica, elementi che diventarono i cardini della sua stessa poetica:
- la ricerca di un'arte obiettiva, ispirata al vero storico
- la continua attenzione agli aspetti etici e sociali della vita.

Scorrendo l'epistolario, in particolare la corrispondenza intrattenuta con Fauriel, ed analizzando gli


scritti di argomento estetico, si può rilevare la costante preoccupazione di Manzoni, non tanto di
mettere in evidenza, al pari degli altri, la parte negativa delle dottrine classicistiche, quanto di
determinare la parte positiva della nuova corrente letteraria.
Proprio in questo atteggiamento costruttivo ed innovatore é da ricercare l'originalità l'equilibrio e
l’importanza della sua poetica nell'ambito di quella del Romanticismo italiano, della quale è “la piú
lucida completa ed organica interpretazione e chiarificazione » (M. Puppo).

 Già nella prefazione al Carmagnola, Manzoni combatte il principio delle unità


pseudoaristoteliche (unità di luogo, tempo, azione) la sola unità d'azione è da lui accettata
come elemento unificatore dell'opera d'arte. Nella stessa prefazione chiarisce il compito del
coro nella tragedia («un cantuccio » nel quale il poeta può parlare in prima persona). Viene
così posto il problema del rapporto tra moralità e genere drammatico: è il primo passo
verso il definivo abbandono della teoria classicistica poggiante sul concetto dell'arte per
l'arte.

 Nella Lettre à M. Chauvet (1820) - un critico classicista francese che aveva formulato
numerosi appunti al Conte di Carmagnola - il problema si amplia, sino ad investire il
rapporto tra storia e poesia. L'una e l'altra, secondo Manzoni, debbono avere per
oggetto il vero. Unica differenziazione è il modo di trattarlo.
La storia (vero storico) deve precisare i fatti con assoluta obbiettività, mentre la poesia
(vero poetico) ha il compito di rivelare il «battito di umanità » che li illumina dal di
dentro; quella deve preoccuparsi, per rimanere nell'ambito della produzione manzoniana, di
presentare il succedersi degli avvenimenti durante la dominazione spagnola in Italia o la
discesa dei Franchi nella penisola; questa, può spaziare liberamente, senza però mai
discostarsi dalla verità; per mettere in luce affetti, dolori, aspirazioni dei protagonisti di tali
avvenimenti, penetrando nell'animo, sia dei vinti che dei vincitori, sia dei popoli che dei
singoli individui, sia dei servi che dei padroni. Ne consegue che per Manzoni la poesia non
può mai essere arbitraria alterazione della storia ma soltanto approfondimento
psicologico e in un certo senso, completamento di essa. Compito della poesia è la
trasposizione, in significato universale ed eterno, dei moti e della vita quotidiana degli
umili e delle folle anonime, quali e le quali possono non interessare lo storico, ma degli
avvenimenti costituiscono pur sempre, più che il movente occasionale, l'aspetto umano. In
altri termini, soltanto se il poeta, anzi che abbandonarsi alle situazioni limitate e
convenzionali originate dalle norme e dalle formule accademiche, saprà mantenersi aderente
al vero storico, cioè alla vita reale, nelle cui infinite e concrete situazioni è possibile ad ogni
uomo identificarsi, raggiungerà l'unico scopo assegnato all'opera d'arte, che è quello morale
ed educativo (da non confondersi con l'esteriore didascalismo di taluni schemi
settecenteschi, Manzoni, come altri romantici milanesi, risente del clima del Caffè i cui
esponenti attribuivano un fine didascalico alla letteratura e sostenevano la necessità di una
lingua viva. Unica differenza è che, essendo in un clima diverso, non più materialistico ma
idealistico, la finalità didascalica diventa pedagogica: non più istruire ma educare. Questo
aspetto è tipico del Romanticismo italiano, più in particolare di quello milanese).

 Il maggior tentativo di dare una sistemazione organica e critica al suo ideale letterario
Manzoni lo compì nella Lettera al marchese Cesare d'Azeglio. di tre anni posteriore a
quella inviata a Chauvet e pubblicata, con aggiunte e modifiche, soltanto nel 1871: vi si
trovava la nota formula: “la poesia, e la letteratura in genere, deve proporsi l'utile per
scopo, il vero per soggetto, l’interessante per mezzo” formula che nella redazione
definitiva fu ridotta al solo vero, in quanto esso gli appariva di per sé « interessante» ed
«utile».

L'esposizione. delle dottrine romantiche viene suddivisa in due parti:


- quella « negativa », che contempla l'esclusione della mitologia e il rifiuto delle
regole lassicistiche in quanto fondate sull'autorità dei retori, anzi che sul
ragionamento: sia l'una che le altre non richiamano «alla memoria alcun sentimento
della vita reale »;

- quella «positiva », che sinteticamente può essere riassunta nella teoria del vero
inteso come rappresentazione oggettiva della realtà: con tale rappresentazione, e con
la tendenza in essa implicita di limitare l'intervento dello scrittore, la poetica
manzoniana apre la strada al realismo.

 Nel Discorso sul romanzo storico dopo ulteriore riflessione sulla natura intrinseca del vero,
e rivedendo quanto aveva affermato nella Lettre allo Chauvet, Manzoni giunse alla
conclusione che il consenso dato dal lettore al vero storico, certo e positivo, è in opposizione
verosimile o sulla scorta della tradizionale terminologia, ragione per cui l'attività logica
derivante dalla storia non può coesistere, nella medesima opera d'arte, con l'attività inventiva
richiesta dalla creazione poetica: di qui la condanna del romanzo storico, a suo parere,
presenta una ibrida mescolanza di storia e d'invenzione, di atti reali e di avvenimenti
fantastici. Tale condanna, che implicitamente negava valore al suo stesso romanzo, e da far
risalire al pregiudizio che il verosimile è per natura, inferiore alla verità storica: questo
pregiudizi impedì a Manzoni di intravedere la via che, sulle orme di Balzac, il romanzo
avrebbe seguito in Italia ed in Francia, ed indirizzò completamente la sua attività, dopo
questo Discorso, alla storiografia.

Opere giovanili

Al periodo giovanile, caratterizzato da radicalismo giacobino e deciso anticlericalismo, risale il


poemetto in quattro canti Del trionfo della libertà (1801). Qui Manzoni celebra, nella forma della
visione di derivazione montina, la sconfitta del dispotismo e della superstizione per opera della
libertà trionfante della Repubblica Cisalpina.
In quegli anni scrisse anche una serie di sonetti, tra cui l'autoritratto Sublime specchio di veraci
detti, e altri tre: uno dedicato a Lomonaco, l'altro alla musa, il terzo ispirato dalla contessina Luigia
Visconti, sorella di Ermes, di cui era innamorato. Sono componimenti di tipo neoclassicisti, con
echi alfieriani e pariniani e con l'influenza di Monti.
Dello stesso tipo l'ode Qual su le Cinzie cime (1802-1803), l'idillio Adda (1803), e i quattro
Sermoni ("Amore e De lia", "Panegirico a Trimalcione", "A G.B. Pagani", "Contro i poetastri")
scritti nel 1803-1804.
Segni di maturazione sono negli sciolti In morte di Carlo Imbonati (1806), in cui celebra Carlo
Imbonati, l'amante della madre, che Manzoni però non aveva mai conosciuto. Lo schema è quello
consueto della visione settecentesca, perdurano gli influssi montini, ma sono presenti anche i primi
accenti di un risentito moralismo, secondo moduli che saranno tipici del Manzoni successivo. Segno
dell'esaurimento dell'esperienza neoclassicista è il poemetto Urania (1809).
Dopo tali opere abbiamo un avvicinamento consapevole al Romanticismo (conversione letteraria)

Inni Sacri

Dopo tre anni di silenzio, nel 1812 Manzoni, convertito ormai al cattolicesimo, comincia a
comporre gli Inni sacri. Ne avrebbe dovuto comporre dodici, ne portò a termine solo cinque: "La
Resurrezione" (1812), "Il nome di Maria" (1812-1813), "Il Natale" (1813), "La Passione" (1814-
1815) e, più avanti negli anni, "La Pentecoste" (1817-1822). Di un sesto inno, “Ognissanti”
rimangono solo alcune strofe, e di altri sei solo i titoli.
Manzoni rifiuta la tradizione classicista. Cercava una lingua più comunicativa, che non si curasse
degli abbellimenti formali ma in grado di esprimere i contenuti concettuali che gli stavano a cuore
(l'apologetica cattolica). E' una scelta che coincide con una più aperta adesione al romanticismo:
romanticismo come rinnovamento dei moduli espressivi e del repertorio tematico, e promozione di
una letteratura "popolare" nel senso indicato dai romantici lombardi, cioè indirizzata alle persone
colte anche se non letterate di professione.

Il concetto ispiratore è la contrapposizione della fragilità umana alla grandezza di Dio


(concetto Romantico, l’uomo è piccolo è fragile in confronto a Dio, o alla Natura o
all’immensità dell’universo, come sarà per Leopardi).

Le frequenti reminiscenze bibliche tradiscono lo stato d'animo del neofita tutto volto con umiltà e
sincerità di cuore, all’intuizione del divino;
La terra tuttavia non scompare: da essa si avverte la commozione per l'umile fede dei pastori, per
la spregiata lacrima della femminetta, per i bimbi vestiti a festa od il desco disadorno dei poveretti.

In tutti gli Inni si avverte che i princìpi di uguaglianza e fratellanza umana predicati dalla
filosofia settecentesca sono stati ricondotti alla religione, da cui essi naturalmente derivano
(come affermato da Manzoni in una lettera a Fauriel).

Ognuno degli Inni si trasforma quindi in preghiera, una preghiera che non rifiuta, accanto all'anelito
supremo a Dio ed alla infinita riconoscenza per i doni da Lui concessi all'uomo, la colorazione
poetica data da immagini vigorose e spesso felici.
Purtroppo manca ai primi quattro Inni un motivo centrale, troppo spesso il ragionamento si
sostituisce al sentimento, così che la costruzione del componimento appare come imposta
dall'esterno, e frammentario ne risulta lo svolgimento.
Soltanto nella Pentecoste (che celebra la discesa dello Spirito Santo) si può parlare veramente di
canto corale che ha per oggetto, in un linguaggio immediatamente espressivo, prima la
trasformazione del mondo intero, che, al nuovo annuncio dei cieli, raggiunge la libertà dello spirito,
poi la vittoria sull'ingiustizia e sul male, la pace che nulla può rapire: l'ampio respiro dell'Inno è da
intravedere in questo incontro dell'umano col divino, incontro che realizza un felice accordo dei
princìpi illuministici con la fede raggiunta da Manzoni dopo un profondo travaglio religioso.
Il carattere oratorio di alcune parti, carattere ricorrente nella poesia manzoniana, ma tipico anche
della poesia romantica in generale, si alterna a momenti lirici e alle rievocazioni storiche.
Essendo essi destinati al popolo, la sintassi e la lingua sono più sciolte delle forme stilistiche
espressive classiche, e la metrica, abbandonato l'endecasillabo, si serve versi brevi (settenari,
ottonari), oppure di decasillabi disposti in ottave, che conferiscono all'inno una solennità corale.

Tragedie e Odi

Contemporanee alla stesura della Pentecoste sono due tragedie: il Conte di Carmagnola, dedicata a
Fauriel e pubblicata a Milano nel 1820; l’Adelchi, dedicata ad Enrichetta Blondel e pubblicata, essa
pure a Milano nel 1822. Concepite piuttosto come due poemi drammatici » che come
operedestinate alla recitazione, esse costituiscono il primo esempio, anche se non arrise loro molta
fortuna, del teatro romantico, in Italia.
Nelle intenzioni di Manzoni, esse dovevano rappresentare, a fronte della tragedia classicistica e di
quella alfieriana, un teatro di ispirazione storica e cristiana «capace di creare - a suo dire -
quell'interesse che nasce nell'uomo al veder rappresentati gli errori, le passioni, le virtù,
l'entusiasmo e l'abbattimento a cui gli uomini sono trasportati nei casi più gravi della vita, ed a
considerare, nella rappresentazione degli altri, il mistero di se stessi».
Entrambe sono fatte precedere da ampie notizie storiche, ed entrambe ubbidiscono al concetto
manzoniano del «vero »: illuminare e rappresentare poeticamente caratteri, affetti, aspirazioni dei
personaggi storici presi in esame; desumere ed adattare i loro discorsi alle azioni ricordate dalla
storia, così da mettere in rilievo la parte morale in essa contenuta.

Nel quadro dell'evoluzione poetica e religiosa di Manzoni, le due tragedie rappresentano un


momento di «transizione » dal cristianesimo lirico e dottrinale degli Inni al cristianesimo
sereno e pacato dei Promessi sposi.

Motivo dominante di tale momento è la contemplazione della dolorosa realtà terrena,


contemplazione che riveste di una sottile venatura di pessimismo il contenuto etico delle due
tragedie: gli uomini appaiono travolti da un triste destino che impone loro di opprimere o di essere
oppressi, di « far torti », o di patirli; la vita si presenta in un ritmo incessante di sopraffazioni e di
soggezioni; ultimo approdo per i buoni, di fronte al prevalere dei perversi, è la morte. Sola fonte di
consolazione e di speranza, fra tanto male, è la fede; confortati dalla Grazia divina, gli eletti si
purificano nella sofferenza, si redimono nel dolore, riconoscono la « provvidenzialità » della loro
sventura.

Il Conte di Carmagnola fu composto tra il 1816 ed il 1819: al pari dell'altra tragedia, non rispetta le
unità di luogo e di tempo (tutto in un luogo e tutto in un solo giorno).
Presenta l'introduzione del coro quale parentesi di riflessione morale, politica, religiosa del poeta
sui fatti rappresentati.
Ne è protagonista il capitano di ventura Francesco Bussone (sec. XV) detto il Carmagnola dal paese
d’origine: messosi al soldo dei Visconti di Milano, ne ricreò, per cosi dire, la potenza, ottenendone
in cambio i titolo di conte. Avendo però le sue vittorie ed il favore dei soldati insospettito ed
ingelosito il duca, passò agli avversari, combatté per Venezia, e sbaragliò le truppe viscontee nella
battaglia di Maclodio, ma l'aver concesso, a vittoria ottenuta, la libertà dei prigionieri, secondo l'uso
del tempo, e l'aver protratto per sei anni la guerra, gli furono fatali: accusato d'intelligenza con il
nemico e di preparare una sua riconciliazione con i Visconti, fu invitato a Venezia, imprigionato,
condannato e decapitato, come comportava la sommaria procedura dei processi politici d'allora.
La tragedia è impostata sul contrasto violento tra la lealtà e la nobiltà d'animo del condottiero e la
perfida ragion di stato dei Veneziani; il contrasto, di per sé altamente poetico, non è però rivissuto
psicologicamente in modo da far apparire la catastrofe finale come logica ed ineluttabile
conclusione dell'agire umano: nel corso dell'azione, il quadro storico si amplia, perde gran parte
della sua caratterizzazione politica e si trasforma nel dramma di un uomo eroico e generoso travolto
dal male.
La figura del conte si presenta, nonostante la vittoria delle armi, come quella di un vinto dalle forze
che urgono e si scontrano. intorno a lui: incapace di scoprire la perfidia degli altri, non maledice
l'avversa sorte, si ripiega su se stesso e, mentre rievoca con il pensiero il frastuono delle armi ed il
campo di battaglia, giudica severamente, con il tardo atteggiamento dell'uomo saggio, le ambizioni,
l'ansia di potenza e di gloria, il desiderio di vendetta, tutto ciò, insomma, che alimenta le disordinate
passioni umane. Si volge allora alla morte come alla sola vera pace concessa da Dio alle creature
terrene: in questa sua ultima purificazione ed elevazione prende rilievo il perdono ai nemici;
scompaiono le « empie gioie terrene », ed ha il sopravvento, su quello drammatico, il carattere lirico
del personaggio che celebra, con la vittoria su quanto è ancora in lui di umano, la vittoria della
suprema volontà di Dio. In ciò egli appartiene completamente al romanticismo cristiano di
Manzoni.
Superiore per intuizione artistica, per drammaticità di argomento, per caratterizzazione umana ed
etica dei personaggi, è 1'Adelchi, scritta tra il 1820 ed il 1822: migliore di ogni altra del teatro
romantico italiano, questa tragedia, con la vastità epica che investe tutta una gente, prelude al
capolavoro manzoniano.
Carlo Magno ripudia la propria moglie Ermengarda, figlia di Desiderio e sorella di Adelchi, sovrani
dei Longobardi, ed intima a Desiderio di sgomberare le terre della Chiesa, da lui illegalmente
occupate: il rifiuto di questi, nonostante l'esortazione di Adelchi a restituire le terre al Pontefice ed a
concedere la libertà ai latini per formare una sola nazione e combattere per una giusta causa, scatena
la guerra. Il tradimento di alcuni duchi e la scoperta, da parte del diacono Martino, di una via che
permette all'esercito franco di giungere alle spalle dei Longobardi attestati alle Chiuse di San
Michele, fanno precipitare gli eventi: cadono le città nelle quali Desiderio ed Adelchi si sono
rifugiati con gli ultimi soldati fedeli: l'uno è fatto prigioniero, l'altro viene ferito mortalmente
durante una sortita da Verona per soccorrere i1 padre; nel frattempo Ermengarda muore in un
monastero di Brescia, dove si era ritirata, consunta dalla sua pena.
Sullo sfondo della tragedia sta la vicenda di tre popoli, i Longobardi ed i Franchi, in qualità di
oppressori, gli Italici, in qualità di oppressi: su tutti ; aleggia una visione pessimistica delle capacità
degli uomini, che si traduce in una svalutazione della grandezza politica e nella convinzione che
soltanto il singolo, quando sia cosciente della propria responsabilità personale, può sfuggire al
freddo determinismo degli eventi ed attingere i valori di una verità, e di una giustizia superiori.
Adelchi avverte l'ingiustizia della guerra che combatte, ma non sa, né può sottrarsi al dovere che gli
impone, come figlio, di difendere il padre, come fratello, di vendicare l'onta della sorella: guerriero
e cristiano ad un tempo, sente il peso della sua appartenenza ad una stirpe di oppressori; principe,
non gli è concesso di correre incontro all'infelice sua sorella; soldato, vede attorno a sé null'altro che
viltà e tradimento; uomo, assiste impotente. alla rovina materiale e spirituale del suo popolo.
Ma c'è in lui una forza etica e religiosa che lo innalza al di sopra di tutti i contendenti e di tutti gli
attori, umili e grandi, del dramma che gli è toccato in sorte di vivere: nel momento del trapasso, la
fede placa la sua anima stanca e conscia dei molti che sul campo sono caduti per mano sua; con la
chiarezza dell'ora estrema, intravede allora che «gran segreto è la vita », perdona e prega per il suo
nemico, e rivolgendosi a Dio, esclama “Vengo alla tua pace”.
Attraverso l'altezza spirituale di Adelchi morente Manzoni non poteva esprimere meglio il monito
cristiano di un superiore distacco dai beni terreni, della necessità di sottrarsi alla vergogna del male
comune con la propria nobiltà e purezza d'animo.
Umanissima creatura combattuta da un amore terreno, che risorge violento in ogni istante
d'abbandono, e da un amore divino invocato per sopire ì u terrestri ardori », Ermengarda è la vera
vittima degli odi e dei rancori che dividono due popoli, meglio di una inflessibile legge storica che
procede spedita nel suo cammino senza curarsi dei lutti e delle lacrime da essa suscitati. Travolta da
eventi più grandi di lei, invano cerca pace ed oblio: la passione che la divora crea in lei un'ansia ed
uno sgomento che la accompagnano fino alla morte e l'accomunano a tante altre infelici oppresse
dalla sua stirpe. Muore purificata dalla sofferenza, vittima senza macchia della colpa dei padri: il
Dio che essa invoca, e che le si appressa mentre le suore pregano riverenti, è il solo “termine” del
suo lungo martirio.
Si pone in evidenza proprio l’aspetto tipico di questo momento della produzione manzoniana: non
vi è giustizia sulla terra, ma solo in una vita dopo la morte. In tal senso è provvidenziale la
sventura, la sofferenza, che consente l’espiazione e quindi il raggiungimento di una felicità
ultraterrena. E “provvidenziale” è la sventura proprio in quanto concessa da Dio per la
salvezza (vedi l’influenza giansenistica in tal senso).

Altro aspetto rilevante è la scelta di periodi storici che consentano un riferimento alla
situazione italiana del momento: Manzoni non scrive nello stesso periodo di Foscolo, ma dopo
la Restaurazione, non può quindi essere esplicito nella critica alla situazione politica e civile
italiana.

Ne è esempio la condanna delle lotte civili che hanno condotto l’Italia alla servitù politica, nella
battaglia di Maclodio (Carmagnola), nel duplice monito rivolto ad italiani e stranieri: sappiano, gli
uni, che dall'alto delle Alpi il nemico gioisce delle battaglie fratricide e premedita l'invasione della
penisola; sappiano, gli altri, che tutti gli uomini sono legati da un patto d'amore.
Ancora il coro dell’atto III “Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti” (Adelchi) dove da un lato sono
rappresentati i Latini sparsi per le case, nei campi, nelle arse officine, che, alla vista della fuga
precipitosa dei Longobardi inseguiti dai Franchi, concepiscono l'improvvisa speranza di sottrarsi
alla schiavitù secolare con l'aiuto dei vincitori; dall'altro i Franchi, che hanno abbandonato le avite
dimore, hanno affrontato mille pericoli, non già per liberarli, ma per conquistarne le terre ed i beni.
Vano è sperare il riscatto da genti straniere.

Storia di un'anima è, invece, il coro che accompagna il trapasso di Ermengarda (tra le due parti in
cui si divide l'atto quarto): trasformandosi in spettatore e commentatore, il Manzoni dà forma
poetica all'ideale cristiano della serena accettazione di una « provvida sventura »: il dolore non è
fine a se stesso, ma è espiazione di colpe e pegno di un premio celeste; il tramonto della vita terrena
è preludio all'aurora di una vita eterna.

Partecipi dell'atmosfera lirico-religiosa di questi cori sono le odi civili, a loro contemporanee, se
si esclude il Proclama di Rimini, dell'aprile 1815 e suggerito dal manifesto di Gioacchino Murat,
che invitava tutti gli italiani a combattere per l'indipendenza nazionale: nonostante la sua retoricità e
frammentarietà, ne è rimasto popolare un verso, gìudicato poi formalmente infelice dallo stesso
Manzoni: «liberi non sarem se non siam uni».

Dedicata a Teodoro Körner, poeta e soldato della indipendenza germanica, morto sul campo di
Lipsia, Marzo 1821 risale all'epoca dei primi moti di Napoli e del Piemonte, quando imminente
sembrava la liberazione della Lombardia ad opera dei patrioti, accorsi da ogni parte d'Italia a
combattere nell'esercito piemontese: vi sono riaffermati solennemente il diritto di tutte le genti alla
libertà politica, e la necessità che il nostro popolo, confortato dal1'idea della provvidenza e di una
superiore giustizia che non può permettere al germanico di raccogliere dove non ha arato, ritrovi in
se stesso la forza per riacquistare l'unità nazionale. La commossa partecipazione del poeta ad
avvenimenti rivissuti con l'immaginazione e non tradottisi poi in realtà, si risolve in immagini
efficaci, ma il tono generale dell'ode è pacato e composto, come si addice ad una meditazione
storica. L'ultima strofa è così ricca di echi delle Cinque giornate di Milano che parve essere
aggiunta nel 1848, quando l'ode poté finalmente essere pubblicata.

Improvvisa, come improvvisa era stata la notizia della scomparsa d genio napoleonico, fu la
composizione del Cinque maggio: in soli tre giorni Manzoni diede forma artistica alle
immagini che si affollavano al suo spirito commosso, e ne risultò una lirica possente per
concitazione ritmo, per incalzare di eventi, per tempestosità di affetti, una lirica che scorre
continuamente dal piano delle vicende storiche (vero storico) a quello delle vicende interiori di
Napoleone (vero poetico, approfondimento psicologico.
L’iniziale epopea militare si trasforma in dramma spirituale, il despota folgora si ritrae
dinanzi all'uomo sommerso dal cumulo delle memorie, in preda disperazione per l'immobilità cui
è costretto (si confronti con il coro dell’atto IV dell’Adelchi dedicato ad Ermengarda, coro che
per altro ha anche la stessa struttura metrica dell’ode dedicata a Napoleone). Alla grandezza e
nobiltà terrena, succede una grandezza e nobiltà cristiana: collocandosi su un piano di eternità,
l’eroe comprende i limiti della vita umana, e piegandosi al “disonor del Golgota” ritrova la
dolcezza consolatrice della Fede.

I promessi sposi

Mentre ancora attendeva alla stesura dell'Adelchi, Manzoni si era ritirato in campagna, anche per
sottrarsi ad una diretta sorveglianza della polizia austriaca.
Ivi si dedicò alla lettura di una Storia di Milano di Ripamonti e di un volume di economia di Gioia:
nella prima ritrovò una «grida » nella quale erano comminate pene severissime contro chi avesse
costretto un parroco a consacrare un matrimonio, la descrizione dei tumulti scoppiati durante la
peste del 1630, i casi intervenuti alla figlia di un gran signore fatta monaca per forza, e la
conversione di un gentiluomo facinoroso del tempo, che si era andato a gettare ai piedi del cardinale
Borromeo; dalla seconda ritrasse la convinzione che fossero inutili le leggi non in armonia con i
costumi del popolo per il quale esse sono promulgate.
Si deve inoltre aggiungere, in questo stesso periodo di tempo, la lettura di alcuni romanzi di Scott,
in traduzioni francesi ed italiane, e la definitiva maturazione delle idee già espresse sul rapporto tra
storia e poesia: in una lettera a Fauriel, parlando dei romanzi storici, affermava di concepirli
«come la rappresentazione d'uno stato della società per mezzo di fatti e caratteri talmente simili al
vero che si possa crederli una storia vera tornata in luce ».
Tutto questo è da tener presente per comprendere la genesi storica del romanzo e la complessa sua
ispirazione artistico-religiosa. L'inizio della stesura risale all'aprile del 1821; fu portata a termine nel
settembre del 1823 con il titolo di Fermo e Luci adal nome dei due protagonisti. Subito dopo subì
una profonda rielaborazione: il titolo fu cambiato in Quello di Sposi promessi.
Fermo, padre Galdino, il conte del Sagrato mutarono nome e divennero, rispettivamente, Renzo,
padre Cristoforo, l'Innominato; furono ridotte le digressioni morali e storiche, una delle quali diede
poi vita alla Storia della colonna infame; furono soppressi ed attenuati alcuni episodi, come gli amori
della monaca di Monza e la fine di don Rodrigo, troppo scopertamente di carattere romanzesco; fu
riequilibrato il tono generale del racconto con l'eliminazione dei passi più dichiaratamente polemici.

Nel corso della pubblicazione, terminata nel 1827 (conosciuta e denominata come « ventisettana »),
furono apportate nuove correzioni al testo, a cominciare dal titolo, definitivamente fissato in quello
di Promessi sposi. Una seconda edizione, quella che comunemente oggi viene letta, apparve nel
periodo 1840-1842: essa sostanzialmente non si differenzia dalla prima che per la « sciacquatura in
Arno », come scherzosamente definì lo stesso Manzoni la lunga, minuta correzione del testo al fine
di raggiungere una prosa la più vicina possibile al linguaggio parlato, ma pur tuttavia atteggiata ad
elegante compostezza.

L'azione del romanzo, che si svolge negli anni 1628-30 e nella Lombardia sottoposta alla
dominazione spagnola, ha per oggetto le vicende di due umili popolani, Renzo e Lucia, impediti
nel loro matrimonio a un prepotente signorotto del luogo, don Rodrigo. Per due anni, dal momento
in cui due bravi atterriscono con oscure minacce il pavido curato don Abbondio, i promessi sposi,
costretti ad abbandonare il loro villaggio dopo un tentativo di rapimento della giovane ad opera dei
segugi del signorotto, sono travolti da una serie infinita di guai, dovuti i più alla malvagità degli
uomini ed alla nequizia dei tempi, alcuni alle pubbliche calamità che sconvolgono ogni ordine
sociale. Si ricongiungono alla fine, e le loro nozze sono benedette dallo stesso don Abbondio,
liberato da ogni residuo di paura quando viene a conoscenza della morte di don Rodrigo, «spazzato
via », come tanti altri, dalla peste.
La tenue «favola » del romanzo si inserisce in un quadro grandioso di avvenimenti storici, che ne
sono, ad un tempo, cornice ed importante complemento: la carestia, la sommossa dell' 11 novembre
1628, la calata dei lanzichenecchi, la peste del 1630, il tutto sullo sfondo sociale e politico del
secolo XVII: i personaggi, da quelli creati dalla fantasia del Manzoni a quelli tratti documenti e
dalle cronache del tempo, finiscono per assumere un vali ideale ed universale, che rende
impossibile qualsiasi distinzione fra storia poesia, fra vero e verosimile.

Di qui la grandezza di Manzoni: a differenza delle successive imitazioni e di altri romanzi storici
di autori contemporanei (forse più preoccupati dell’aspetto politico, che pure è parte dell’opera
manzoniana), nei Promessi Sposi il vero storico e quello poetico si integrano perfettamente.

Che Manzoni abbia voluto rimanere fedele al canone del vero storico lo si può dedurre dal
sottotitolo del romanzo, Storia milanese del secolo XVII scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni
(l'espediente del manoscritto ritrovato, di cui viene riportata una pagina tutta perizia tecnica nella
contraffazione delle scritture secentesche), era già stato usato in precedenza da Cuoco nel Platone
in Italia, da Scott ne Il monastero, e ancor prima da Cervantes nel Don Chisciotte della Mancia.
Detto canone è realizzato con la riproduzione accurata dei caratteri, dei costumi, e delle istituzioni
del Seicento, a cominciare quel “punto d'onore” che è all'origine di alcuni episodi fondamentali:
l'uccisione del rivale da parte di Ludovico, prima che diventasse fra Cristoforo, l'allontanamento
del frate, ad opera del conte zio; il rapimento dì Lucia da parte dell'Innominato.
Una realizzazione, tuttavia, non fine a se stessa, permette al Manzoni di riproporre in modo
esemplare, per la particolare caratteristica del secolo, le eterne contraddizioni della società nel suo
intrecciarsi del bene e del male, nella sua esteriore apparenza di legalità e nella effettiva realtà di
ingiustizia e di violenta sopraffazione, e che non esclude con la messa in luce dei risvolti negativi
della dominazione spagnola, intenzione allusiva alle condizioni d'Italia sotto la dominazione
austriaca.
Con tale riproduzione del vero storico, Manzoni ebbe modo di dare carattere di veridicità al vero
inventivo rappresentato dalle vicende dei protagonisti.
I Promessi sposi sono profondamente inseriti nella realtà storica e culturale e sono soprattutto un
«romanzo di idee», in quanto realizzano gli ideali di Manzoni, che sono gli ideali della classe più
colta e più progressista dell'Italia d'allora.

A dominare la scena non sono eroi o personaggi illustri, ma creature semplici disposte meglio di
altre ad accogliere la verità evangelica, lo spinto di fratellanza umana, l'angoscia che tormenta i
cuore dei propri simili: non è più il pessimismo che scaturisce dal trionfo incontrastato della forza e
dell'ingiustizia a caratterizzare le vicende del racconto, ma un'alternanza di bene e di male che apre
i cuori alla speranza con la certezza di una superiore provvidenza, ora attuabile anche nella
vita terrena.

Il dolore è ancora presente, ma contemplato alla luce nuova che proviene dal fiducioso abbandono
alla volontà divina; è il dolore a dare agli uomini il senso della vita la quale finisce per apparire una
prova per tutti, buoni e cattivi.
Collocando in primo piano, ed in funzione antieroica, il mondo degli umili e dei semplici
quel mondo che la storia tradizionale ignora, ma che in realtà rappresenta l'elemento duraturo
e sempre ricorrente della vita, Manzoni operò un’azione profondamente rinnovatrice nel
campo della letteratura europea moderna : all'epopea dei grandi, che per secoli era stata
vagheggiata dalle classi sociali dominanti, per la prima volta veniva con trapposta quella dei,
ceti che non hanno possibilità di iniziativa nelle vicende storiche, che trascorrono sulla scena
del mondo senza lasciare memoria di sé, ma che incarnano i valori etici più intimi e semplici,
della vita: la carità, l’amore, la famiglia.
Questa contrapposizione, nel caso specifico di Manzoni, viene fatta risalire al principio
evangelico dell'uguaglianza di tutti gli uomini dinanzi a Dio e del loro porsi al servizio del
prossimo, p r i n c i p i o al quale si informa la visione concreta della vita che egli ci presenta, e
che determina, condizionandola, la valutazione in senso positivo o negativo dei per sonaggi del
racconto.
La sottile analisi che di essi viene via via offerta è affidata, ora all'acuta penetrazione
psicologica della loro vita interiore, come nel caso di suor Geltrude e dell’Innominato.

Tutti i personaggi, dai maggiori ai minori, assolvono un loro compito, che è quello di
rappresentare realisticamente tutto, l'incessante conflitto tra il bene e il male che travaglia
ogni spirito umano.
Quando tale conflitto assume la proporzione del dramma come nel colloquio tra padre
Cristoforo e don Rodrigo, in quello fra il cardinale Borromeo e don Abbondio, oppure nel
momento della conversione dell'Innominato, si hanno le pagine artisticamente più efficaci del
romanzo.
E quella di Manzoni è un'arte che, oltre a trasfigurare lo spettacolo quo tidiano della vita,
rende il paesaggio operosamente partecipe all'azione dei personaggi (si pensi alla
descrizione che precede l'addio di Lucia al paese, o al notturno che accompagna Renzo verso
l'Adda, all'annunzio del temporale che spazza via la peste).

Alla prosa Manzoni ha dedicato le più attente cure, specialmente alla rielaborazione che
precede la seconda edizione definitiva dell’opera.
Al fine di eliminare la differenza tra l’idioma accademico da quello parlato (vedi questione della
lingua), scelse l'uso vivo del toscano, ma soprattutto ubbidì alla istintiva ricerca della parola
semplice e chiara, in perfetta aderenza alla realtà delle cose o degli eventi da narrare. Ne
scaturì una vastissima gamma di modulazioni espressive e dallo stile mobilissimo nella sua
struttura sintattica: analitico e familiare, se vengono narrati i casi di Renzo e Lucia; scherzoso e
divertito, nelle scenette di Perpetua, quando discorre dei suoi pretendenti; umoristico, nella
presentazione di don Ferrante del vicario; severo e solenne, nelle pagine dedicate al cardinale ed
all'Innominato; trepido e drammatico, nella descrizione della peste, della fame, della guerra,
tremendi flagelli biblici che periodicamente mettono alla prova fede degli uomini.
La. Prosa manzoniana agì efficacemente sulla trasformazione della prosa letteraria italiana, la quale
abbandonò gradualmente i moduli stilistici dei secoli passati e si avvicinò sempre più ad una
espressione che riflettesse, oltre alla popolarità del contenuto, la popolarità del linguaggio.

Unico limite: l’aver utilizzato il fiorentino vivo, nelle sue diverse sfumature e registri (più o meno
colti), idioma seppur all’origine dell’italiano, ormai, non più coincidente con la lingua nazionale.
In tal senso dovremo attendere Verga per l’affermazione di una lingua viva nazionale, con tutte le
sfumature regionali (al di là del fiorentino).
Scritti posteriori a I Promessi sposi

Derivato dagli studi attorno alla vicenda de "I promessi sposi" è la Storia della colonna infame, che
apparve in appendice all'edizione a dispense del romanzo del 1840-1842. La "Storia" è la
ricostruzione delle vicende della peste di Milano, con un'ottica attenta soprattutto ai risvolti morali
dell'evento.
Il soggiorno fiorentino, importante nel processo di revisione de "I promessi sposi", porta a un
approfondimento da parte di Manzoni dei problemi sulla questione della lingua. Il pensiero
linguistico manzoniano venne esposto in una serie di scritti successivi: Sulla lingua italiana (1845)
è una lettera a G. Carena, Dell'unità della lingua italiana e dei mezzi per diffonderla (1868)
relazione al ministro della pubblica istruzione del nuovo regno unitario italico, con relativa
Appendice (1869); Lettera attorno al libro 'De vulgari eloquientia' di Dante Alighieri (1868), la
Lettera intorno al vocabolario (1868), la Lettera al marchese Alfonso della Valle di Casanova
(1871, ma pubblicata nel 1874). La trattazione più organica la si trova nel breve trattato Sentir
messa (1835-1836) pubblicato nel 1923, accanto al quale si deve ricordare l'incompiuto trattato
Della lingua italiana cui Manzoni lavorò nel 1830-1859.
Manzoni constatava l'inesistenza di una vera lingua italiana, riconosceva a tutti i dialetti la dignità
di lingue. Ma dovendosi adottare in Italia per esigenze pratiche uno strumento linguistico unitario,
proponeva che si scegliesse quello che tra i dialetti aveva maggiore autorità culturale, il fiorentino.
Ma non il fiorentino degli scrittori classici, ma quello d'uso vivo, il solo in grado di rinnovarsi e di
soddisfare le esigenze attuali della società italiana. Il prestigio delle teorie linguistiche manzoniane
fu enorme in Italia. esse divennero egemoni, e l'insegnamento pubblico della lingua nell'Italia
unitaria si uniformò sostanzialmente alla proposta di Manzoni.

Interessante è lo scritto Del romanzo e in genere de' componimenti misti di storia e invenzione
(1845) in cui Manzoni condanna l'invenzione in letteratura, e quindi tutto il genere romanzesco
(dunque anche "I promessi sposi"). Con questa condanna, pone in pratica fine alla revisione delle
stesure de "I promessi sposi", e si indirizza oltre che sui problemi linguistici, su problemi di
carattere storico-politici, e soprattutto filosofico-morali.
Al primo filone di studi appartiene La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del
1859 (1860-1872, ma pubblicato nel 1889). Al secondo filone appartiene la revisione definitiva
delle osservazioni sulla morale cattolica (1855) già edite nel 1819, i dialoghi Dell'invenzione (1850)
e Del piacere (1851, edito nel 1887).
Selezione Antologica

Inni Sacri
Pentecoste

Madre de' Santi, immagine


Della città superna;
Del Sangue incorruttibile
Conservatrice eterna;
Tu che, da tanti secoli,
Soffri, combatti e preghi,
Che le tue tende spieghi
Dall'uno all'altro mar;
      Campo di quei che sperano;
Chiesa del Dio vivente;
Dov'eri mai? qual angolo
Ti raccogliea nascente,
Quando il tuo Re, dai perfidi
Tratto a morir sul colle
Imporporò le zolle
Del suo sublime altar?
      E allor che dalle tenebre
La diva spoglia uscita,
Mise il potente anelito
Della seconda vita;
E quando, in man recandosi
Il prezzo del perdono,
Da questa polve al trono
Del Genitor salì;
      Compagna del suo gemito,
Conscia de' suoi misteri,
Tu, della sua vittoria
Figlia immortal, dov'eri?
In tuo terror sol vigile.
Sol nell'obblio secura,
Stavi in riposte mura
Fino a quel sacro dì,
      Quando su te lo Spirito
Rinnovator discese,
E l'inconsunta fiaccola
Nella tua destra accese
Quando, segnal de' popoli,
Ti collocò sul monte,
E ne' tuoi labbri il fonte
Della parola aprì.
      Come la luce rapida
Piove di cosa in cosa,
E i color vari suscita
Dovunque si riposa;
Tal risonò moltiplice
La voce dello Spiro:
L'Arabo, il Parto, il Siro
In suo sermon l'udì.
      Adorator degl'idoli,
Sparso per ogni lido,
Volgi lo sguardo a Solima,
Odi quel santo grido:
Stanca del vile ossequio,
La terra a lui ritorni:
E voi che aprite i giorni
Di più felice età,
      Spose che desta il subito
Balzar del pondo ascoso;
Voi già vicine a sciogliere
Il grembo doloroso;
Alla bugiarda pronuba
Non sollevate il canto:
Cresce serbato al Santo
Quel che nel sen vi sta.
      Perché, baciando i pargoli,
La schiava ancor sospira?
E il sen che nutre i liberi
Invidiando mira?
Non sa che al regno i miseri
Seco il Signor solleva?
Che a tutti i figli d'Eva
Nel suo dolor pensò?
      Nova franchigia annunziano
I cieli, e genti nove;
Nove conquiste, e gloria
Vinta in più belle prove;
Nova, ai terrori immobile
E alle lusinghe infide.
Pace, che il mondo irride,
Ma che rapir non può.
      O Spirto! supplichevoli
A' tuoi solenni altari;
Soli per selve inospite;
Vaghi in deserti mari;
Dall'Ande algenti al Libano,
D'Erina all'irta Haiti,
Sparsi per tutti i liti,
Uni per Te di cor,
      Noi T'imploriam! Placabile
Spirto discendi ancora,
A' tuoi cultor propizio,
Propizio a chi T'ignora;
Scendi e ricrea; rianima
I cor nel dubbio estinti;
E sia divina ai vinti
Mercede il vincitor.
      Discendi Amor; negli animi
L'ire superbe attuta:
Dona i pensier che il memore
Ultimo dì non muta:
I doni tuoi benefica
Nutra la tua virtude;
Siccome il sol che schiude
Dal pigro germe il fior;
      Che lento poi sull'umili
Erbe morrà non colto,
Né sorgerà coi fulgidi
Color del lembo sciolto
Se fuso a lui nell'etere
Non tornerà quel mite
Lume, dator di vite,
E infaticato altor.
      Noi T'imploriam! Ne' languidi
Pensier dell'infelice
Scendi piacevol alito,
Aura consolatrice:
Scendi bufera ai tumidi
Pensier del violento;
Vi spira uno sgomento
Che insegni la pietà.
      Per Te sollevi il povero
Al ciel, ch'è suo, le ciglia,
Volga i lamenti in giubilo,
Pensando a cui somiglia:
Cui fu donato in copia,
Doni con volto amico,
Con quel tacer pudico,
Che accetto il don ti fa.
      Spira de' nostri bamboli
Nell'ineffabil riso,
Spargi la casta porpora
Alle donzelle in viso;
Manda alle ascose vergini
Le pure gioie ascose;
Consacra delle spose
Il verecondo amor.
      Tempra de' baldi giovani
Il confidente ingegno;
Reggi il viril proposito
Ad infallibil segno;
Adorna la canizie
Di liete voglie sante;
Brilla nel guardo errante
Di chi sperando muor.

Adelchi
CORO dell’atto III

Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti,


Dai boschi, dall'arse fucine stridenti,
Dai solchi bagnati di servo sudor,
Un volgo disperso repente si desta;
Intende l'orecchio, solleva la testa
Percosso da novo crescente romor.
Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti,
Qual raggio di sole da nuvoli folti,
Traluce de' padri la fiera virtù:
Ne' guardi, ne' volti, confuso ed incerto
Si mesce e discorda lo spregio sofferto
Col misero orgoglio d'un tempo che fu.
S'aduna voglioso, si sperde tremante,
Per torti sentieri, con passo vagante,
Fra tema e desire, s'avanza e ristà;
E adocchia e rimira scorata e confusa
De' crudi signori la turba diffusa,
Che fugge dai brandi, che sosta non ha.
Ansanti li vede, quai trepide fere,
Irsuti per tema le fulve criniere,
Le note latebre del covo cercar;
E quivi, deposta l'usata minaccia,
Le donne superbe, con pallida faccia,
I figli pensosi pensose guatar.
E sopra i fuggenti, con avido brando,
Quai cani disciolti, correndo, frugando,
Da ritta, da manca, guerrieri venir:
Li vede, e rapito d'ignoto contento,
Con l'agile speme precorre l'evento,
E sogna la fine del duro servir.
Udite! Quei forti che tengono il campo,
Che ai vostri tiranni precludon lo scampo,
Son giunti da lunge, per aspri sentier:
Sospeser le gioie dei prandi festosi,
Assursero in fretta dai blandi riposi,
Chiamati repente da squillo guerrier.
Lasciar nelle sale del tetto natio
Le donne accorate, tornanti all'addio,
A preghi e consigli che il pianto troncò:
Han carca la fronte de' pesti cimieri,
Han poste le selle sui bruni corsieri,
Volaron sul ponte che cupo sonò.
A torme, di terra passarono in terra,
Cantando giulive canzoni di guerra,
Ma i dolci castelli pensando nel cor:
Per valli petrose, per balzi dirotti,
Vegliaron nell'arme le gelide notti,
Membrando i fidati colloqui d'amor.
Gli oscuri perigli di stanze incresciose,
Per greppi senz'orma le corse affannose,
Il rigido impero, le fami durâr;
Si vider le lance calate sui petti,
A canto agli scudi, rasente agli elmetti,
Udiron le frecce fischiando volar.
E il premio sperato, promesso a quei forti,
Sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,
D'un volgo straniero por fine al dolor?
Tornate alle vostre superbe ruine,
All'opere imbelli dell'arse officine,
Ai solchi bagnati di servo sudor.
Il forte si mesce col vinto nemico,
Col novo signore rimane l'antico;
L'un popolo e l'altro sul collo vi sta.
Dividono i servi, dividon gli armenti;
Si posano insieme sui campi cruenti
D'un volgo disperso che nome non ha.

Adelchi
CORO dell’atto IV

Sparsa le trecce morbide


Sull'affannoso petto,
Lenta le palme, e rorida
Di morte il bianco aspetto,
Giace la pia, col tremolo
Sguardo cercando il ciel.

Cessa il compianto: unanime


S'innalza una preghiera:
Calata in su la gelida
Fronte, una man leggiera
Sulla pupilla cerula
Stende l'estremo vel.

Sgombra, o gentil, dall'ansia


Mente i terrestri ardori;
Leva all'Eterno un candido
Pensier d'offerta, e muori:
Fuor della vita è il termine
Del lungo tuo martir.

Tal della mesta, immobile


Era quaggiuso il fato:
Sempre un obblio di chiedere
Che le saria negato;
E al Dio de' santi ascendere
Santa del suo patir.

Ahi! nelle insonni tenebre,


Pei claustri solitari,
Tra il canto delle vergini,
Ai supplicati altari,
Sempre al pensier tornavano
Gl'irrevocati dì;

Quando ancor cara, improvida


D'un avvenir mal fido,
Ebbra spirò le vivide
Aure del Franco lido,
E tra le nuore Saliche
Invidiata uscì:

Quando da un poggio aereo,


Il biondo crin gemmata,
Vedea nel pian discorrere
La caccia affaccendata,
E sulle sciolte redini
Chino il chiomato sir;

E dietro a lui la furia


De' corridor fumanti;
E lo sbandarsi, e il rapido
Redir de' veltri ansanti;
E dai tentati triboli
L'irto cinghiale uscir;

E la battuta polvere
Riga di sangue, colto
Dal regio stral: la tenera
Alle donzelle il volto
Volgea repente, pallida
D'amabile terror.

Oh Mosa errante! oh tepidi


Lavacri d'Aquisgrano!
Ove, deposta l'orrida
Maglia, il guerrier sovrano
Scendea del campo a tergere
Il nobile sudor!
Come rugiada al cespite
Dell'erba inaridita,
Fresca negli arsi calami
Fa rifluir la vita,
Che verdi ancor risorgono
Nel temperato albor;

Tale al pensier, cui l'empia


Virtù d'amor fatica,
Discende il refrigerio
D'una parola amica,
E il cor diverte ai placidi
Gaudii d'un altro amor.

Ma come il sol che, reduce,


L'erta infocata ascende,
E con la vampa assidua
L'immobil aura incende,
Risorti appena i gracili
Steli riarde al suol;

Ratto così dal tenue


Obblio torna immortale
L'amor sopito, e l'anima
Impaurita assale,
E le sviate immagini
Richiama al noto duol.

Sgombra, o gentil, dall'ansia


Mente i terrestri ardori;
Leva all'Eterno un candido
Pensier d'offerta, e muori:
Nel suol che dee la tenera
Tua spoglia ricoprir,

Altre infelici dormono,


Che il duol consunse; orbate
Spose dal brando, e vergini
Indarno fidanzate;
Madri che i nati videro
Trafitti impallidir.

Te, dalla rea progenie


Degli oppressor discesa,
Cui fu prodezza il numero,
Cui fu ragion l'offesa,
E dritto il sangue, e gloria
Il non aver pietà,

Te collocò la provida
Sventura in fra gli oppressi:
Muori compianta e placida;
Scendi a dormir con essi:
Alle incolpate ceneri
Nessuno insulterà.

Muori; e la faccia esanime


Si ricomponga in pace;
Com'era allor che improvida
D'un avvenir fallace,
Lievi pensier virginei
Solo pingea. Così

Dalle squarciate nuvole


Si svolge il sol cadente,
E, dietro il monte, imporpora
Il trepido occidente;
Al pio colono augurio
Di più sereno dì.

Il Cinque Maggio

Ei fu. Siccome immobile,


dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore
orba di tanto spiro,
così percossa, attonita 5
la terra al nunzio sta,
muta pensando all'ultima
ora dell'uom fatale;
né sa quando una simile
orma di pie' mortale 10
la sua cruenta polvere
a calpestar verrà.
Lui folgorante in solio
vide il mio genio e tacque;
quando, con vece assidua, 15
cadde, risorse e giacque,
di mille voci al sònito
mista la sua non ha:
vergin di servo encomio
e di codardo oltraggio, 20
sorge or commosso al sùbito
sparir di tanto raggio;
e scioglie all'urna un cantico
che forse non morrà.
Dall'Alpi alle Piramidi, 25
dal Manzanarre al Reno,
di quel securo il fulmine
tenea dietro al baleno;
scoppiò da Scilla al Tanai,
dall'uno all'altro mar. 30
Fu vera gloria? Ai posteri
l'ardua sentenza: nui
chiniam la fronte al Massimo
Fattor, che volle in lui
del creator suo spirito 35
più vasta orma stampar.
La procellosa e trepida
gioia d'un gran disegno,
l'ansia d'un cor che indocile
serve, pensando al regno; 40
e il giunge, e tiene un premio
ch'era follia sperar;
tutto ei provò: la gloria
maggior dopo il periglio,
la fuga e la vittoria, 45
la reggia e il tristo esiglio;
due volte nella polvere,
due volte sull'altar.
Ei si nomò: due secoli,
l'un contro l'altro armato, 50
sommessi a lui si volsero,
come aspettando il fato;
ei fe' silenzio, ed arbitro
s'assise in mezzo a lor.
E sparve, e i dì nell'ozio 55
chiuse in sì breve sponda,
segno d'immensa invidia
e di pietà profonda,
d'inestinguibil odio
e d'indomato amor. 60
Come sul capo al naufrago
l'onda s'avvolve e pesa,
l'onda su cui del misero,
alta pur dianzi e tesa,
scorrea la vista a scernere 65
prode remote invan;
tal su quell'alma il cumulo
delle memorie scese.
Oh quante volte ai posteri
narrar se stesso imprese, 70
e sull'eterne pagine
cadde la stanca man!
Oh quante volte, al tacito
morir d'un giorno inerte,
chinati i rai fulminei, 75
le braccia al sen conserte,
stette, e dei dì che furono
l'assalse il sovvenir!
E ripensò le mobili
tende, e i percossi valli, 80
e il lampo de' manipoli,
e l'onda dei cavalli,
e il concitato imperio
e il celere ubbidir.
Ahi! forse a tanto strazio 85
cadde lo spirto anelo,
e disperò; ma valida
venne una man dal cielo,
e in più spirabil aere
pietosa il trasportò; 90
e l'avviò, pei floridi
sentier della speranza,
ai campi eterni, al premio
che i desideri avanza,
dov'è silenzio e tenebre 95
la gloria che passò.
Bella Immortal! benefica
Fede ai trionfi avvezza!
Scrivi ancor questo, allegrati;
ché più superba altezza 100
al disonor del Gòlgota
giammai non si chinò.
Tu dalle stanche ceneri
sperdi ogni ria parola:
il Dio che atterra e suscita, 105
che affanna e che consola,
sulla deserta coltrice
accanto a lui posò.

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