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LA CONVERSIONE DI MANZONI

Si parla sempre di una presunta “conversione” di Manzoni, ma il poeta milanese era ancora
cristiano cattolico, solo che da anni non era più praticante. A convertirsi è sua moglie Enrichetta,
che passa dal cristianesimo calvinista al cattolicesimo (con risultato un parziale allontanamento
dalla famiglia di origine). Nel suo percorso di conversione, è seguita da due padri cattolici,
Eustachio Degola e Luigi Tosi, di matrice giansenista (da Jansen, padre agostiniano, che aveva un
modo intransigente di vedere la religione e Dio stesso). Probabilmente Manzoni ha modo di seguire
il percorso di conversione della moglie ed è spinto a riflettere sulle verità di fede cattoliche. Non è
una conversione improvvisa, come affermato dai biografi dell’800, quanto più una meditazione
progressiva, che spinge l’autore a rivedere anche i suoi ideali e la sua poetica, precedentemente
influenzata da Monti e Foscolo. Dopo il 1810 infatti, inizia a vedere la letteratura come qualcosa
che “deve avere un fine e deve essere utile”. In particolare:
 Fine: l’utile
 Mezzo: l’interessante
 Oggetto: il vero
Da “Lettera sul romanticismo a Massimo D’Azeglio”
Non segue più il pensiero tipicamente classicista, come quello di Giordani, che vede come fine
dell’arte il bello e fine delle scienze il vero. Abbandona dunque il mito, che appare temporaneo e
aleatorio, e rivolge le sue attenzioni alle verità morali (religiose) e alle verità storiche, per cui
aveva sempre dimostrato interesse.
Per questi motivi, Manzoni inizia a interessarsi alla tragedia. Considera però vetuste le tipiche tre
unità aristoteliche (tempo, luogo, azione), estrapolate e rimaneggiate dalla Poetica di Aristotele
nel 1500, e decide di abbandonarle, perché seguirle significa allontanarsi dal vero. Sono
artificiose. Tutti pensieri che vengono esaminati nella prefazione de “Il conte della Carmagnola”.
Un’altra importante regola del pensiero manzoniano è espressa nella “Lettera a messere
Chauvet”, dove esprime la necessità di stravolgere il coro classico, troppo lungo per descrivere
un’azione, e di renderlo quanto più un “cantuccio lirico” dove esprimere le sue riflessioni sulla
tragedia.
Tra il 1810 e il 1827, Manzoni ha il suo periodo più prolifico. Per quanto concerne la poesia, egli è
intenzionato a scrivere nel 1812 gli Inni Sacri, 12 per ogni festività dell’anno. È un progetto
difficile, che non riesce quindi a portare a termine, fermandosi alla Pentecoste, quinta su dodici. Si
interessa anche di scrivere delle tragedie storiche (forse per spirito romanticista), “Il conte della
Carmagnola” e “L’Adelchi”, così come delle odi, “Marzo 1821” e “5 maggio”, dedicate a
Napoleone Bonaparte, odi che non verranno pubblicate, dato il difficile periodo italiano. Ne “Il
conte della Carmagnola” Manzoni si concentra molto sul personaggio e sulla tragedia individuale
del protagonista, mentre ne “L’Adelchi” si ha una tragedia collettiva, caratterizzata da un intento
patriottico e nazionalista, in quanto tratta dell’arrivo dei franchi e dei longobardi nella Penisola.
Ma il genere che Manzoni consacra è il romanzo, poiché compone ciò che viene definito come
“l’epopea del quarto stato”, ovvero “I promessi sposi”. Come ambientazione storica, l’autore
sceglie il periodo della dominazione spagnola a Milano, per stabilire un confronto con la
dominazione austriaca che lui vive nella città negli anni precedenti all’Unità d’Italia.
Dal 1827, Manzoni incomincia a dedicarsi alla questione linguistica italiana e di come adattare la
sua opera più celebre per unire il paese, un problema calato nella storia. L’italiano, secondo
Manzoni, vedeva una sin troppo forte influenza da parte straniera e bisognava rimediare. Manzoni
decide allora di adattare la sua opera, ma sa che non può scegliere l’italiano tipico della
letteratura, perché di registro troppo elevato e poco intellegibile per la classe media. Deve
scegliere un registro adatto al romanzo, rivolto a classi più basse, e si trasferisce così con la famiglia
a Firenze, per “sciacquare i panni nell’Arno”, per studiare l’italiano di tutti i giorni. Ha modo così
di frequentare il gabinetto del calvinista Visieux, dove alloggiavano importanti autori, come
Leopardi e Tommaseo. Esce così nel 1840 la terza edizione de “I promessi sposi”; eppure non n’è
soddisfatto, in quanto mette in dubbio l’efficacia del romanzo storico, vilificato da autori
incompetenti che non riescono a far corrispondere il vero storico a una vicenda d’invenzione.
Per quanto riguarda la sua fede, Manzoni seppe scindere il suo operato sociale e politico dalla
religione, battendosi per Roma Capitale; non era insomma un bigotto.

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