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Alessandro Manzoni ha iniziato nel 1821 a scrivere la prima bozza, mai pubblicata, intitolata
“Fermo e Lucia“, ma non era convinto del suo lavoro.
Manzoni voleva una stile meno aulico, meno difficile da comprendere a chi non era uomo di
cultura, desiderava che il suo romanzo venisse letto da un pubblico vasto e per questo
necessitava anche di una lingua comprensibile ai più.
La revisione degli stili e della lingua hanno permeato l’attività di Manzoni per diversi anni,
ne troviamo traccia anche nei carteggi con l’amico Claude Fauriel.
Fermo e Lucia (1821-1823)
Nella primavera del 1821 Alessandro Manzoni si trovava nella sua villa di Brusuglio a Milano,
dove matura l’idea del romanzo in seguito ad alcune letture sulle vicende storiche di Milano
attorno al 1630, che saranno proprio l’ambientazione temporale dei Promessi Sposi.
Queste letture trattavano con abbondanza di documenti il periodo della carestia e della peste.
Questi due libri contenevano anche notevoli spunti romanzeschi: il racconto di una
monacazione forzata, la conversione di un nobile prepotente ad opera del cardinale Borromeo,
le pene minacciate a chi con la violenza tentasse di impedire un matrimonio.
Concluso il vasto spoglio linguistico e la revisione strutturale durata tre anni, la nuova opera
vide la sua prima stampa in tre tomi presso l’editore Ferrario di Milano nel 1827.
Eccola la soluzione, ecco il modello linguistico unitario da utilizzare nella letteratura come nella
vita sociale: il fiorentino delle persone colte, la lingua viva e parlata e non la lingua morta dei
libri del Trecento e del Cinquecento, come volevano invece i puristi.
Da qui nasce una nuova revisione dei Promessi Sposi, che è prettamente linguistica,
lasciando inalterato l’impianto della struttura narrativa.
L’opera comprende:
I promessi sposi Il genere del romanzo storico Manzoni ebbe a disposizione solo modelli stranieri, come le
opere di Voltaire, Denis Diderot, Ann Radcliff, Daniel Defoe e, soprattutto, Walter Scott: quest’ultimo aveva
però narrato vicende poco rispettose della verità storica, cui invece Manzoni intende essere fedele evitando
di scadere nel romanzesco Inoltre Scott aveva scelto per lo più come ambientazione il Medioevo; la scelta di
Manzoni cadde invece sul Seicento perché, di fronte al dominio dell’irrazionalità e dell’oppressione e di
fronte a eventi devastanti come la peste, gli uomini reagirono abbandonandosi ai peggiori delitti e
manifestato le più grandi virtù; insomma era il secolo giusto per dimostrare come il contesto storico possa
condizionare, ma mai deteminare il comportamento umano.
Manzoni era alla ricerca di una lingua comprensibile da parte di tutti gli alfabetizzati; il carattere
profondamente cristiano e democratico del romanzo (in cui per la prima volta assurgono al ruolo di
protagonisti due umili operai-contadini semianalfabeti, che sventano tutte le trame dei potenti e in
funzione dei quali persino le vicende della macrostoria trovano giustificazione e validità) non poteva
trovare espressione nell’italiano letterario della tradizione, assolutamente aristocratico e antidemocratico.
La ricerca linguistica manzoniana attraverò tre fasi: 1. la lingua europeizzante del Fermo e Lucia, composita
e modellata su milanese, francese, toscano e latino; 2. la lingua toscano-milanese dell’edizione 1827,
modellata però su un toscano eccessivamente libresco; 3. la lingua parlata dai fiorentini colti dell’edizione
del 1840. La scelta finale fece dei Promessi sposi (la cui lettura venne resa obbligatoria nei licei da
Francesco De Sanctis, divenuto ministro della Pubblica Istruzione nel 1879) il primo veicolo dell’unità
linguistica nazionale.
I punti di vista
Nei Promessi sposi si incrociano diversi punti di vista (il che crea la dialogicità del romanzo e l’effetto di
polifonia): 1. quello del narratore onnisciente, alternato con quello di un narratore che chiama invece in
causa il lettore, trasformandolo in “coautore”; 2. quello dell’anonimo seicentesco; 3. quello dei diversi
personaggi.
L’ironia
L’ironia è figura retorica che consiste nell’affermare una cosa lasciando intendere l’opposto: richiede perciò
un lettore complice e attento, disposto a partecipare alla costruzione di un’“opera aperta”. L’ironia agisce a
più livelli: coinvolge i personaggi, specialmente i potenti, senza risparmiare il narratore stesso (autoironia);
si manifesta a livello narrativo e strutturale: tutti i piani dei “buoni” per aiutare Renzo e Lucia sono destinati
al fallimento; a salvarli sarà invece il “principe dal male”, l’Innominato; come a dire che il bene non è
prerogativa esclusiva dei buoni (né il male dei malvagi). Scopo dell’ironia non è quello di negare l’agire
dell’uomo, ma quello di relativizzarlo: l’agire umano è indispensabile perché Dio, con la sua provvidenza,
possa orientarlo al bene.
LA PROVVIDA SVENTURA
Nel sugo della storia R.e L. meditano sulle loro vicende, concludendo che la fiducia e la fede in Dio è utile
per una vita migliore. Prendono coscienza della positività provvidenziale del male (PROVVIDA
SVENTURA). Ci sta un rifiuto dell’idillio, che non è vero . Grazie alla consapevolezza del male, i 2
protagonisti non devono solo stare bene, ma anche far e bene.
"provvida sventura" cioè della sofferenza che caratterizza l'esistenza degli uomini. Una sofferenza
che, tuttavia, non è un male inutile ma uno strumento di cui la divina Provvidenza si serve per
mettere l'uomo alla prova e renderlo degno della felicità eterna.
ritenuta la Provvidenza divina il vero motore della storia, ne consegue una radicata sfoducia nei
confronti dell'agire umano. si tratta di un pessimismo che nel romanzo si manifesta attraverso il
sistematico fallimento di tutti i progetti che gli uomini cercano di realizzare, dal matrimonio di
sorpresa di lucia
(parla di tutti i riferimenti che manzoni fa alla vita reale che vive giorno per giorno)
(cap. I)
Manzoni nel primo capitolo ,inizia con accurata e realistica descrizione dei luoghi dove vivono
Renzo e Lucia i protagonisti della storia. La vicenda inizia così: è la sera del 7 novembre 1628 e
Don Abbondio passeggia, come è solito fare, leggendo il breviario. Ad un certo punto, ad una
biforcazione della strada, nei pressi di un tabernacolo dipinto, vede due figuri che non avrebbe mai
voluto vedere, sono due bravi che stanno aspettando proprio lui. Portano i capelli lunghi, raccolti in
una reticella dalla quale esce solo un ciuffo che ricade sulla fronte, e dai vestiti si intravedono armi
spaventose. La specie dei bravi era molto diffusa in quegli anni e il Manzoni fa un minuzioso
elenco di leggi di quell’epoca, che prevedono pene severe per i bravi, che sono al servizio dei
potenti.
Il Manzoni, con ironia, ci fa comprendere l'inefficacia delle leggi , perché comunque anche chi le
deve fare rispettare, non osa mettersi contro i potenti. Don Abbondio capisce egoisticamente che i
bravi stanno aspettando proprio lui, dopo aver guardato se per caso ci fosse qualcuno che potesse
soccorrerlo e cercato inutilmente vie di fuga li va incontro, ostentando finta tranquillità, recitando il
breviario ad alta voce quasi per farsi compagnia e darsi coraggio.
I bravi gli bloccano la strada e con minacce di morte gli intimano di non celebrare il matrimonio tra
due giovani del luogo: Renzo Tramaglino, un filatore di seta e Lucia Mondella, una lavoratrice della
filanda.
Don Abbondio è spaventatissimo, cerca di lusingare i due e di giustificarsi dicendo che a lui non
viene nulla in tasca se quei ragazzacci vogliono maritarsi. Si mostra subito complice e si dichiara
disposto all'obbedienza, soprattutto quando sente il nome di don Rodrigo, il padrone dei due bravi.
I due dopo averlo minacciato lo salutano frettolosamente con un imprecazione, certi
dell’obbedienza del curato, il quale invece vorrebbe ora trattenerli e chiedere consiglio per non
celebrare il matrimonio.
FIGURA di Don Abbondio.
Quest’ultimo, fin dalla fanciullezza, si rivela un debole e un timoroso, incapace di affrontare le
difficoltà della vita in un'epoca tanto violenta: un vaso di terra cotta fra tanti vasi di bronzo. Egli,
non per una vera vocazione religiosa, sceglie la strada sacerdotale ma perché gli da la possibilità
di appartenere ad una classe privilegiata e protetta.
Don Abbondio per poter star tranquillo e non cacciarsi nei guai, bloccato dalla paura, ha un
comportamento caratterizzato dal servilismo, dall’opportunismo che lo porta a stare sempre dalla
parte del più forte e a giustificarne i comportamenti, criticando chi non pensa ai fatti propri.
Così mentre intraprende la strade verso la curia, fra sé e sé immagina le reazioni di Renzo, buono
come un agnello se non contraddetto e ripensa a ciò che avrebbe dovuto dire ai bravi. Avrebbe
dovuto mandarli direttamente da quei due giovani, si rende però conto che questo sarebbe stato
troppo. Così segretamente insulta quel don Rodrigo, che tante volte aveva difeso quando altri
avevano inveito contro di lui. Giunge così a casa affannato e spaventato, dove lo attende
Perpetua, la sua serva. Da una parte Don Abbondio non vede l’ora di confidarsi, dall’altra la donna
non vede l’ora di sapere. Così dopo molti tentennamenti e giuramenti, finalmente il povero curato
si sfoga e si confida con lei, ma non accetta i suoi consigli. Infine, stremato, va a dormire, ma
prima di ritirarsi fa giurare alla donna di non dire a nessuno questo fatto.
(CAP XXXVIII)