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di quel movimento ne determina la forma e la modalità di congiunzione con gli altri atomi.

La
nozione ci interessa particolarmente, perché i titoli delle opere di Democrito vedono affiancarsi alla
nozione di ritmo, come forma in movimento degli atomi, quella di ritmo musicale, e questo mostra
che fa le due nozioni corre un’affinità profonda.
Vorremmo comprendere meglio cosa si intenda con questo parallelismo, virando tutto il
ragionamento sul piano di un approdo ad una filosofia della musica.
Se r(uqmoÍj indica la forma di una traiettoria in movimento, ed ha la possibilità di intervenire
sulle modalità di aggregazione degli atomi fra loro, sembra immediatamente tradursi nella nozione
di schema, figura che descrive il modo in cui due materie diverse vengono costruite, grazie
all’intreccio di due atomi diversi che hanno carattere di eternità, in un composto che è, per sua
natura, instabile e sottoposto a generazione e corruzione.

§ 3 Interpretazione platonica del problema

All’idea di ritmo come opposizione, ed ai problemi che ad esso si intrecciano, fa riferimento


Platone nel Simposio, quando fa dire ad Erissimaco (187b - d) che il ritmo deriva dal rapido e dal
lento, prima in opposizione e poi accordatisi. Su cosa si basa quest’accordo, come è possibile che
due elementi in varianza continua, come il lento ed il veloce, possano coagularsi in una relazione
ritmica?.
La definizione canonica di ritmo che rintracciamo nelle Leggi (664e – 665a), da cui le ricerche
sul ritmo prendono, più o meno indirettamente, le mosse contiene in sé aspetti tormentosi, che
vorremmo discutere: la constatazione iniziale dei filosofi in dialogo si lega all’esigenza di attribuire
un andamento ordinato, attraverso ritmo ed armonia, al movimento: il ritmo ordina, organizza il
movimento del corpo umano ed è elemento propedeutico ad ogni forma di educazione, ed al
preservarsi del potere di controllo emotivo della musica.
Scelta del ritmo e selezione delle strutture melodiche che sostengono i sistemi scalari fanno parte
dello stesso problema di partizione del continuo: per il filosofo platonico bisognerà allora
coglierne il senso, poterlo collocare in un percorso dialettico, e constatarne la portata concettuale . Il
ritmo è l’ordine del movimento: meglio, è il nome di quella misura, di quell’ordine (taÍcij), che
sostiene il movimento (kiÍnhsij).
Dovremmo osservare da vicino la frizione suscitata dall’accostamento delle due parole: taÍcij
indica una schiera, un ordine rigido, che viene sollecitato, in opposizione al mutamento: il nocciolo
semantico della parola indica così la schiera militare, la classe sociale, ma anche il posto in una
schiera, la localizzazione di un luogo o di un momento, che permette di ripartire le fasi di un
processo, un muro che si costituisca ad ogni irrompere della fluidità.
Il termine indica anche la posizione di un punto in una figura: con taÍcij cogliamo un perno
immaginario, che determina le condizioni di ordinabilità di una molteplicità, e Platone,
contrapponendolo nel Timeo, (30) all’a)taciÍa ha certamente in mente un riferimento ad un vincolo
fecondo, che dispone, imponendo una regola, frena una sollecitazione, facendo mantenere una
posizione all’interno di un andamento, rendendo feconda un’articolazione del movimento: in questo
senso, la pregnanza della scelta della posizione, del momento del suo costituirsi va pensata
contemporaneamente al tema dello scorrimento, ponendo una relazione stretta fra il formarsi della
una sequenza ed il presentarsi della molteplicità. Se tutto questo è risaputo, meno semplice è trovare
il senso della correlazione con il termine scelto per esprimere il movimento.
Platone individua la nozione all’idea appoggiandosi al termine kiÍnhsij, parola che esprime non
tanto il movimento in senso generico, ma la fonte del movimento, costituirsi del movimento
stesso: kiÍnhsij si manifesta nel passo di danza, come nel moto da un punto ad un altro, nella
mozione assembleare, o nel mondo delle emozioni, indicando una commozione, lo sdegno, un
brusco mutamento d’umore.
Vi è quindi profonda tensione nell’accostare i due termini che pone il r(uqmoÍj come prodotto di
una mediazione fra processo in atto di costituzione di un intero e criterio di localizzazione ed
organizzazione reciproca delle parti all’interno del processo stesso: il movimento del corpo, ad
esempio, deve poter essere riportato ad una forma, che si articola nel movimento secondo regole
canonizzabili, mettendo in opposizione fluire del movimento ed incanalamento nella sequenza.
Il gesto va disciplinato, ma la messa a norma non è affatto pacifica, perché modifica
irreversibilmente lo statuto del movimento, ne trasforma i portati qualitativi, impone il presentarsi
di qualcosa che resista alla fluidità continua, morbida dello scorrimento, rompendone
l’indifferenziazione interna.
Il ritmo è condizione di possibilità nella costituzione di una gerarchia, snodo che decide
l’ampiezza dei nodi, che tengono assieme il senso di una concatenazione. Ma la materia del ritmo,
come la chiamerà la filosofia aristotelica, resiste, scalpita, esce dai bordi che abbiamo disegnato con
l’iterarsi dei tagli.
Platone individua la fluidità di questa situazione, la determinazione del senso del contenimento.
Il senso del problema, dunque, non è affatto pacifico e non si esaurisce nella possibilità di vedere un
movimento disciplinato, ma di poterlo costruire secondo parametri armonici che ne mantengano
tutta la tensione.
Il nucleo pregnante della definizione coincide con l’individuazione di un criterio di misurazione
unitario, attraverso cui individuare e scandire le singole fasi nel movimento, in un’accentuazione
del carattere discreto della pulsazione.
L’idea di descrivibilità si collega immediatamente a quella di divisibilità, secondo un
procedimento che abbia, per così dire, un numero finito di passi, e possa metterci sotto gli occhi il
rapporto di partenza, il modulo, insomma, una volta per tutte. Le valenze semantiche si incontrano e
mettono in luce un’interpretazione del movimento, come oggetto di commensurabilità e rafforzano
l’idea di un ritmo che frena un flusso, che presiede e ordina il divenire, misurandone il profilo di
una forma che va costituendosi. Allo stesso modo, la natura dell’animazione ritmica va assimilata,
secondo un antico grammatico indiano, alla linea dell’orizzonte, il vero riferimento cui guarda il
falconiere che addestra il falcone: essa permette che il volo si tenda fino ad un punto, per poi
riportarlo indietro.
Il tempo non ha un vincolo, continua a scorrere placido, ma il ritmo che vi si incunea ha
andamento elastico, segregando ed imponendo imperiosamente le proprie regole alle durate
musicali. Quella concezione del tempo è, in fondo, molto vicina alla nozione greca di ritmo: il ritmo
vincola, come la catena che costringe il titano a muoversi attorno a un punto. Essa si tende, e riporta
indietro tutto il movimento, in un conflitto tra distensione e contrattura.
Il vincolo è la prima possibilità di organizzazione della forma e la forma musicale è movimento.
Per questo la nozione di equilibrio è così decisiva: l’organizzazione temporale della musica
garantisce varietà nel potersi allontanare di molti passi da un modello, da una scansione che viene
data, e che va riportata alla misura originaria, che ne organizza tutte le variazioni.
Alla definizione platonica, che si appoggia sul terreno mutevole dello scorrere e che cerca di
ritagliarne i limiti della decifrabilità, potremmo contrapporre il disarticolarsi del movimento nella
danza menadica, quel saltellare, quell’irrompere del gesto incontrollato che caratterizza la gestualità
nel corteo e nella musica dionisiaca.
Le menadi saltano flettendo una sola gamba (Baccanti, 940 – 944), incespicano, si muovono a
balzi 15 , si muovono con bruschi scarti che descrivono l’irrompere del dionisiaco, come momento di
continuità che travolge ogni discretezza, l’esplodere di una tensione che rompe ogni forma
articolatoria nel movimento, bloccandosi nello spasmo. Esiste così, nella definizione platonica il
riferimento ad un vuoto che si crea, una tensione che cerca di ritrovare i propri limiti nel
movimento, nella continuità della transizione. Fra i due estremi del platonico e del dionisiaco, si fa
avanti la nozione di corpo e di volizione.

15
Una analisi assai fine del movimento a sbalzi della baccante, e del suo rapporto con l’idea di evento, apre Marcel
Detienne, Dioniso a cielo aperto, Universale Laterza, Roma – Bari, 1986.
Il farsi avanti di una tensione che preservi il movimento dalla spasticità, è la presa d’atto che
esiste una dimensione espressiva che protegge la natura processuale del gesto rispetto alla
continuità dello spazio, e la possibilità di suddividerlo ordinatamente, nel movimento dalla rottura,
dalla cesura improvvisa e gratuita, ovvero dall’avvilimento della caduta.
I riferimenti alla cura dei coribanti da parte delle nutrici, che vengono assimilate alle nutrici che
tranquillizzano i bambini con un movimento circolare, emergerà nei passi successivi (790d – 791d).
L’idea di una segmentazione non basta quindi minimamente a dar ragione della complessità del
concetto platonico di ritmo: si tratta di una processualità che regola un flusso, ed in questo
pienamente consapevole tanto della mutevolezza del r(uqmoÍj, che della staticità schematica.
Platone non propone una semplice iterazione che misura, ma una tensione che preservi il
movimento dai suoi stessi eccessi, e che permetta si passi dal piano cinetico a quello dell’evidenza a
quel nucleo strutturale di gesti che indicano, nella danza, l’articolarsi del movimento corporeo nello
spazio e nel tempo.
La cosa si comprende meglio se contrapponiamo allo sprizzare energetico della danza menadica,
all’irrompere della continuità caotica, agitata del dionisiaco, il movimento cullante, circolare cui il
filosofo ateniese allude quando ci parla delle donne che curano i coribanti, che ricorrono ad un
movimento regolare, in cui i ritmi si assestano, rispetto ad un’unità di misura che si ripete.
Quel movimento statico, questa ciclicità rasserenante, sono due immagini di un ritmo che si
avvicina al rarefarsi di un periodare che precede un silenzio, alla morbidezza della ninna nanna che
calma gli animi stravolti: sul piano espressivo e su quello delle relazioni di durata il ritmo assume il
valore di una preparazione al silenzio, di uno smussarsi del movimento che prepari l’avvento di una
immobilità. E’ la fine dello spasmo, attraverso il ritmo e la melodia, che mutano il carattere del
movimento che scuote l’anima, calmandola. L’andamento oscilla fra lo statico, e l’infinito, non si
spezza mai: la circolarità del movimento, fa sì che esso faccia mostra di sé come un’immagine del
perenne. Su cosa poggia questa perennità, nel paradosso di un movimento che è l’immagine
qualcosa di immobile?
Sulla logica interna della sua costruzione: il movimento che culla non si ferma mai, e non lo fa
perché la sua concettualizzazione trova la propria radice in un problema espressivo: ti cullerò sino
ad addormentarti, in un movimento sempre identico, che mantiene tutta la sua tensione nel durare.
Punto di articolazione del movimento, articolazione nella transizione, protegge un passaggio che
sul piano logico, stringe il fenomeno al suo momento costitutivo, nel configurarsi di un moto
appena scandito, che porta da una continuità all’altra, ciclicità rasserenante.
Il problema della stasi è quindi assimilabile allo spegnersi della pulsazione nel rilassamento, ad
un appropinquarsi progressivo ad una staticità cui possiamo abbandonarci, perché non sappiamo
distinguere le fasi di un moto perfettamente omogeneo ed identico a sé stesso. Paradossale nozione
di limite: una transizione che si fa sempre più lenta, non raggiungendo mai l’immobilità, che
continua a dilatarsi attraverso suddivisioni successive, e non si può chiudere mai. Al movimento
strappato dello spasmo, corrisponde la continuità del circolo, al colpo, una risposta, che si fa, via
via, sempre più silente.
La dialettica ritmica messa in gioco da Platone è un gioco raffinatissimo fra vuoti e pieni, ed il
giocare con l’idea di un movimento che culla, fino alla transizione del sonno, senza mai toccarlo, è,
in fondo, l’idea sublimato di un procedere per pulsazioni tenui, colpi senza accento: che la prima
riflessione sul ritmo, pur avendo come tema il movimento del corpo, abbia preso forma attraverso
una sublimazione dell’elemento di scansione è assai interessante, perché permette alla definizione
di muoversi su un piano di enorme generalità. Al tempo stesso, va rilevato che la definizione
platonica prende forma all’interno di una disciplina del corpo come la danza, e si aplica poi, in
senso traslato, alle griglie temporali che sostengono l’organizzazione del suono.

§ 4 Lo sciogliersi della forma nella figurazione

Nella Metafisica, Aristotele spiega quella relazione ricorrendo al una analogia con la posizione
delle lettere nell’alfabeto:
“(Gli atomisti) infatti asseriscono che l’essere differisce solo per la traiettoria, per modalità di
congiunzione, per modalità di rivolgimento (r(usmw=si kai\ diaqigh=i kai\ troph=i). In particolare,
la traiettoria (r(usmo\j) è la figura (sxh=maÍ e)stin), la modalità di congiunzione 16 è l’ordine (taÍcij)
e la modalità di rivolgimento è la posizione. Infatti la A differisce dalla N per la figura, mentre AN
differisce da NA per la posizione, e invece I si differenzia da H per la posizione 17 .”.
Il passo aristotelico sembrerebbe ricondurre le relazioni fra fluidità dell’assetto e schematicità
della forma, decisamente dalla parte della schematicità, quando sostiene che r(usmo\j e lo sxh=ma
coincidono. Una simile lettura, tuttavia, proposta ossessivamente in molti manuali di storia della
filosofia, potrebbe rivelarsi troppo unilaterale, e se guardiamo con più cura la testimonianza
aristotelica, collocandola cioè nel contesto di quello che sappiamo della filosofia atomistica, il
senso di quanto leggiamo muta completamente 18 .

16
Il testo aristotelico recita così: h) de\ diaqigh\ taÍcij, h) de\ troph\ qeÍsij
17
Aristotele, Metafisica, A4. 985b 4 . Traggo la traduzione da Atomisti Antichi, Frammenti e testimonianze, a cura di
Matteo Andolfo, Rusconi, Milano, 1999, pp.98 - 99.
18
L’orizzonte interpretativo che ci accingiamo a sviluppare è stato sviluppato, in una direzione assai diversa dalla
nostra, dal Deleuze di Logica del senso, dove il problema viene aggredito a partire dalla nozione di simulacro.
Aristotele scrive dapprima che A ed N hanno figura diversa, e quindi che la forma degli atomi,
presa in sé, muta a seconda del tipo. In questo senso, lo schema è criterio di identità dell’atomo
stesso, la sua forma caratteristica.
Noi, tuttavia, non facciamo esperienza di atomi, ma di sostanze, di materia, costruita attraverso
l’aggregarsi degli atomi, e tali aggregati non sono eterni, come l’atomo. Se la nozione di sostanza,
sembrasse troppo legata ad un orizzonte aristotelico, il peso del problema non muta.
L’intrecciarsi dei caratteri della congiunzione degli atomi nello spazio, da cui si sviluppa la
materia, fa uscire dalla staticità dello schema, per avviarsi verso la nozione di ritmo. L’armonia che
tiene insieme le cose, non è eterna.
La sostanza è una strutturazione ritmica, sottoposta a corruzione, perché intreccio fra atomi, di
forma diversa: l’atomo configura una struttura che è forma in movimento, verso la propria
degenerazione.
La posizione, la taÍcij, quella relazione che sostiene le relazioni reciproche fra atomi nel loro
contessersi, è ciò che si oppone al mutamento, ma quel mutamento avanza implacabile con il
decorrere del tempo.
Ogni sostanza è perciò unità che vive in un decorso finito del tempo, in un’unità lunghissima, ma
chiusa solo da un andamento che la tiene coesa. Essa rientra dunque in pieno nell’idea di una
scansione, non di una misurazione. La schematicità è solo apparente, ed è dalla parte dell’atomo:
per quanto attiene la dimensione degli elementi essa è ancora movimento, il mondo che ci circonda
è configurazione che muta.
Aria ed acqua differiscono per la disposizione degli atomi nella loro costituzione: assumono
forme diverse nella loro aggregazione, ma tali forme sono effimere.
L’atomo, pur avendo una figura, muta in relazione alle strutture combinatorie con cui entra nella
configurarsi degli elementi tra di loro: in un mondo dominato dal movimento, sospeso fra essere e
non essere, fra pieno e vuoto, dove anche le immagini, gli odori o i suoni sono eidola, immagini
riflesse della materia, che si offrono ai sensi, il ritmo tiene insieme l’elemento nella configurazione,
instabile tessitura del reale. Il concetto di simulacro rieccheggia in sé gli adombramenti di un
divenire inquieto e corrosivo.
Potremmo osservare che il ritmo determina le forme combinatorie degli atomi negli elementi e si
basa su una differenza intrinseca, legata alle differenti forme degli atomi fra loro, e ad una modalità
della configurazione, legata al loro movimento, alla modalità del loro intreccio, all’affinità tra le
traiettorie.
Esiste così una serie di analogie fra il ritmo, che tiene uniti gli atomi nella materia e la forma
delle lettere, combinazione grafica di tratti, che si consolida, e che può mutare nel tempo.
La I e la H, spiega Aristotele, sono lo stesso carattere grafico. posto in posizione diversa: il che è
vero se guardiamo alla grafia greca delle lettere e che mostra che la lettera oscilla nello spazio, si
configura, consolidandosi in uno schema, soggetto a variazioni.
Lo stesso grafema, posto diversamente nello spazio, configura due lettere diverse: in qualche
misura, neppure la schematicità della forma garantisce l’identità e la non mutevolezza dell’parola
nel tempo: se la scrittura si basa su una combinazione di tratti, che configurano la parola, la
combinazione stessa si trasforma, nel mutare dei sistemi grafici in cui l’aspetto della lettera ci
appare in nuova configurazione.
La lettera ha consistenza apparente, è configurazione in movimento, trama che pone gli elementi
in tensione tra loro, non armatura che li incardina: nel senso della costituzione del grafema si pone
l’idea di una continua deformazione, rispetto ad un modello che è, ancora, configurazione nel
movimento: forma e deformazione scivolano sullo stesso piano, mentre continua ad emergere è una
nozione di ritmo che resiste, in qualche modo, alla visibilità apparente che si presenta nelle sue
manifestazioni di superficie. Possibilità della schematizzazione, il ritmo continua a sfuggire a darsi
attraverso una forma congelata, reticolare mentre la sua essenza si nasconde nel movimento che ne
scuote le strutturazioni. Il ritmo vive così nel darsi delle sue variazioni, all’interno di una regola, di
una misura, che traluceva dalla forma scossa della calzatura.
Da questa prima immagine, dove la nozione di regolarità esce dalla rigidità un poco rappresa
della forma architettonica, per mettere capo ad un processo dove la misura assicura le condizioni
minime dell’oscillazione attorno a punti fissi, eravamo arrivati ad evocare l’immagine platonica
dell’articolarsi nella transizione, del placarsi delle tendenze centrifughe e spasmodiche del
movimento dionisiaco, fino alla neutralizzazione della pulsazione, del colpo placido, senza accento.
Va osservato che, se la definizione platonica vuol salvare il corpo dai suoi stessi eccessi, nella
ricerca di una giusta proporzione a cui il fenomeno ritmico dovrebbe guardare, l’idea di una
articolazione pone al centro del problema una nozione di corpo senziente assai forte: vi è
sublimazione nella scelta di una misura, che permetta di controllare la forma dalla dispersione nel
divenire, non certo una negazione dell’aspetto corporeo, che si limita ad essere inserito in una sorta
di reticolo, che ne moduli le possibilità di movimento in senso prescrittivo.
Il precipitato di queste nozioni, che richiamiamo necessariamente in una sintesi violenta ed un
poco semplificatoria, possono trovare una qualche analogia nella dimensione del musicale? L’idea
di una configurazione che muta nel tempo e che rende visibile la caducità della forma, ha
certamente molti tratti analogici con la natura del suono, che è anzitutto processualità che si
dispiega nel tempo, che permette alla percezione di avvertire il prender forma di un andamento della
temporalità.
Flusso e diga, tempo e ritmo sembrano continuamente tendersi la mano: nella definizione
platonica vengono messi al bando due tipi di movimento, come ha messo bene in rilievo Curt
Sachs 19 : movimenti di tipo caotico, come quello di una valanga, totalmente privi di una periodicità
interna, e movimenti troppo uniformi, con un carattere di continuità cinetica, come accade per il
movimento di una barca a vela, o di un’automobile.
La definizione di Platone, nell’interpretazione di Sachs, coglie i due estremi all’interno dei quali
la nozione di ritmo può oscillare. Il carattere di regolarità, di segmentazione di una continuità qui
prende pregnanza, perché diventa avvertibile: la forma ritmica deve potersi dare alla percezione,
per poter essere riconosciuta, ed apprezzata. Vi è quindi l’idea di una ripetizione, che va separando
le parti di un intero, e che dev’essere riconoscibile: ma cosa rende percepibile un tessuto che trova il
proprio principio di articolazione nelle lacune che ne distanziano i tratti?
Il richiamo alla misura, infatti, va affrontato prima ci si metta a contare i tagli con cui elaboriamo
il profilo che dà un andamento al continuo temporale. Tale aspetto del problema ritmico ci si fa
innanzi prima ancora che si possa entrare nell’ambito delle esemplificazioni musicali, perché mette
in gioco problemi legati al concetto di periodicità: cosa vuol dire che un suono si ripete, ad esempio,
e che si ripete, secondo un certo andamento?
Si tratta di un problema essenziale, perché, se il ritmo è basato su una misura che determina
l’andamento delle occorrenze di una certa figura, di un certo colpo, dobbiamo poter mostrare
chiaramente quale sia il senso dell’articolazione, che cosa la sostenga.

§ 5 Suono che misura

Se il ritmo è un’opera di suddivisione, dobbiamo capire che tipo di quantità sia quella cui il ritmo
mette capo: abbiamo dei suoni, delle parole, dei movimenti. E questi gesti coprono, ed animano, lo
scorrere del tempo.
Ma cos’è, una quantità? Questo concetto, che finora abbiamo sempre accennato di sfuggita va
ora affrontato, per comprendere il modo in cui il tempo possa venir segmentato.
La questione è molto antica, naturalmente e prende forma nel trattato aristossenico sul ritmo, di
cui faremo un cenno. Se il ritmo sceglie i propri oggetti, ha affinità con alcuni fenomeni e con altri
no, e ci dev'essere la possibilità di verificare in qualche modo la capacità delle parole e o dei suoni
di sostenere la suddivisione: il metodo è, apparentemente, molto semplice. Si deve distinguere ciò
che può essere plasmato dal ritmo, in questo caso gruppi di suoni o di parole, da ciò che non può
essere suddiviso: una teoria del ritmo, secondo Aristosseno, deve anzitutto poter localizzare i propri

19
Curt Sachs, Rhytm and Tempo. A study in music history. Norton and Company, New York, 1953, p.15.
oggetti, definire quali sono i limiti della propria indagine, rispetto alle materialità che deve
analizzare. Nel riprendere l’impostazione offerta dalla sistematizzazione aristotelica, che distingue
tra forma e materia, Aristosseno propone di definire gli oggetti che divengono materia della scienza
ritmica come r(uqmiqoÍmena, strutture o sostanze che possono sostenere l'articolazione effettuata
dal ritmo(rhythmizomena).
Possiamo decidere quali essi siano solo attraverso un richiamo alla possibilità di cantare o di
scandire un suono o una parola. La distinzione fra ritmo (r(uqmoÍj) e ciò che va suddiviso è collocato
sullo stesso piano di quella fra forma (sxh=ma) e materia plasmabile dalla forma stessa
(sxhmatizoÍmenon).
La distinzione epistemologica viene riportata al sistema di classificazione della logica
aristotelica: l'uomo ed il bue sono entrambi animali, perché la definizione della loro essenza ha tratti
comuni: quest’essenza che permane la chiameremo sostrato. Ora, alcune cose, che fanno parte dello
stesso sostrato, non possono essere predicate l'una dell'altra: il che implica che il loro rapporto con il
sostrato comune vari e che vada ulteriormente specificato il senso della loro relazione: la
bianchezza può far parte di un corpo, ma il corpo non è bianchezza.
Il ritmo esiste nella cose che possono essere plasmate dalle relazioni definite attraverso rapporti
temporali, ma il ritmo non è una di quelle cose: il ritmo non è il movimento del corpo,
l'articolazione della melodia, la lettura del verso, anche se tutte e tre queste cose fanno parte dei
fenomeni governati dal ritmo. Questo discorso, a dire il vero, viene sempre liquidato come
un’ovvietà, a me invece è sempre sembrato molto misterioso: perché mai il ritmo non deve
coincidere con quello che è stato diviso? Perché non posso indicarlo, se poi ammetto in partenza
che si tratta di un rapporto fra segmenti temporali?
Se ci fermassimo su questo livello della discussione, perderemmo forse lo spessore filosofico del
discorso aristossenico, che ha, alle spalle, un problema consistente. Che tipo di quantità viene retta
da un ritmo, che materia viene gestita ritmicamente?
Se il ritmo è un’opera di suddivisione, dobbiamo capire che tipo di quantità sia quella cui il ritmo
mette capo: abbiamo dei suoni, delle parole, dei movimenti. E questi gesti coprono, ed animano, lo
scorrerre del tempo. Ma cos’è, allora, una quantità? Nella filosofia aristotelica il problema della
suddivisione della quantità ha spunti assai interessanti per una teoria sul ritmo.
Nella logica aristotelica la quantità è il genere delle determinazioni che indicano la divisibilità di
una cosa. Dobbiamo porre attenzione al fatto che, secondo Aristotele, il concetto di quantità va
riportato alla dialettica fra un intero e parte: ha senso parlare di quantità, solo se ci troviamo di
fronte ad una suddivisione in cui risultino delle parti che siano interne alle cosa stessa e che siano,
ciascuna, numericamente una e determinata.
L’espressione suona un poco astratta, ma comprenderla non è difficile: basta prendere un foglio
e dividerlo in quattro quadranti, per incontrare un’interpretazione pregnante del concetto di quantità
aristotelica.
Rispetto al foglio, i quadranti sono individuati, hanno una posizione precisa e sono
numericamente determinati, potrei costruirne un indice. Naturalmente, è possibile continuare a
suddividere i quadranti in ulteriori parti, sempre più piccole. Le parti in cui si divide una quantità
sono ancora quantità, quindi sono ulteriormente suddivisibili. Ognuna , però, è individuata, ed è
individuato il processo generativo che produce quei tagli. Abbiamo un procedimento di tipo
essenzialmente schematico, il foglio è ora una raccolta di moduli, che porta dentro di sé una precisa
regola di partizione.
Sappiamo, tuttavia, che il ritmo accade un attimo prima che questa partizione abbia luogo, nel
momento in cui il disegno viene tratteggiato: alla fine avrò di fronte a me la rappresentazione di una
partizione ritmica elementare, e potrò interrogarmi sul modo in cui quella partizione ha preso luogo.
Ora, il problema è che il ritmo accade nel tempo, e che questa rappresentazione coglie benissimo lo

schema prodotto dall’evento, ma non ancora l’evento stesso.

20
La distinzione che ci interessa è fra quantità continue e discrete: delle quantità, scrive
Aristotele, una è continua, l’altra è discreta (Tou= deÍ posou= to\ meÍn e)sti diwrismeÍnon, to\ de\
sunexeÍj). Nella quantità discreta le parti hanno una posizione, sono cioè ben scandite,
individuabili, separate fra loro, mentre in quella continua le parti di cui è costituita hanno tutte un
confine comune. Aristotele indica come esempi di quantità discrete il numero ed il discorso parlato.
I numeri, sono entità concrete, aggregati puntuali che individuano quantità, e tipologie di relazioni,
e non godono di contiguità: allo stesso modo, il discorso scandito dalla voce , è fatto di parole, cioè
da aggregati di una quantità discreta di sillabe che vengono enunciate nella scansione
Il discorso parlato è dunque il discorso sillabato, che si esprime attraverso cadenze della voce:
esso esiste solo mentre risuona. Le parti del discorso non permangono, ma, appena dette, si
perdono: manca una sostanza che garantisca continuità. Tuttavia, vi è una tensione che mantiene
l’intero.
La linea, la superficie, il corpo, il luogo sono invece quantità continue, che hanno confini
comuni: nella linea, il punto, nella superficie, la linea, nel solido geometrico, la linea come spigolo
e la superficie come sezione, nel tempo, l’istante, per il luogo, il limite del corpo contenuto. Tutto il
campo della spazialità è così caratterizzato da un reciproco coimplicarsi, da un appartenersi delle
parti, dall’impossibilità di separare qualcosa, senza perdere l’intero. Di fronte ad una quantità
continua vista come forma di compenetrazione intima delle parti, la transizione non solo il carattere
dello scivolamento nell’omogeneità, ma quello della transizione da una dimensione all’altra,
nell’individuazione del concetto di luogo.
Il discorso, al contrario, è una quantità discreta, proprio perché è misurato da una sillaba lunga
ed una sillaba breve: esse non hanno un limite comune, non convergono l’una verso l’altra. Fra di
loro c’è un vuoto vibrante, che separa qualcosa da qualcosa d’altro, in altri termini un intervallo.
Nei commenti al passo delle Categorie si osserva spesso che una sillaba lunga equivale a due brevi
e che quindi, in teoria, non vi dovrebbe essere cesura nella scansione. Questo è un buon modo per
confondere l’istanza della misurazione nell’intero, che si basa sull’individuazione di un unità
minima di riferimento, la breve appunto, con l’articolazione ritmica dell’intero stesso, che vive nel
pulsare che deve riempire un silenzio.
Dovremmo allora chiederci su quale fondamento comune si appoggiano il movimento ritmato
del corpo nello spazio, la dialettica fra le sillabe lunghe e quelle brevi, le relazioni interne giocate
dai suoni messi in rapporto ritmico, dobbiamo chiederci quale sia il sostrato, comune a queste tre
cose, quale sia l’ u(pokeiÍmenon che le sostiene. Il carattere di continuità del tempo, presupposto
ovvio, non ci basta più, mentre diventa importante il modo in cui essi si danno nel tempo, ovvero le
forme che mettono in trama i rapporti di valore delle durate messe in sequenza per dar luogo ad un
intero. Il ritmo non vive che nella sua transizione, nell’instaurarsi di una relazione retta dal numero
che divide il tempo.

20
Aristotele, Le Categorie, introduzione, traduzione e note di Marcello Zanatta, Bur, Milano, 1989. Il passo cui mi
riferisco è Cat 6, 4b 20ce sgg.
Intravvediamo ora il fondamento del discorso sulla natura temporale del suono: un suono deve
durare, deve entrare in un disegno che abbia una tensione interna in grado di sostenerne le cesure tra
un evento e l’altro. Siamo ora sul piano della transizione fra colpi, che si appoggia al carattere di
processo, che fa parte dell’ontologia dell’oggetto sonoro. Un oggetto sonoro è in primo luogo
processo temporale..
Il tempo è un continuum, ma se vogliamo renderne percettivamente avvertibile la funzione del
ritmo nell’articolazione dei suoni, dobbiamo effettuare una serie di operazioni che diano al flusso
un andamento riconoscibile, attraverso l’intensificazione offerta dell’accento, che rompe la
continuità dell’enunciazione.
Perché una sequenza di suoni risulti riconoscibile come dominata dal ritmo, è necessario
selezionare un rapporto che organizzi la transizione da un colpo ad un altro, ma tutto ciò si appoggia
sul carattere processuale della durata temporale del suono.
Isolati due suoni, dobbiamo poterne segmentare le durate, porle in un ciclo temporale retto da un
rapporto, che abbia pregnanza e che permetta una modulabilità delle sezioni temporali.
Per questo motivo, fin dall’inizio del suo trattato, che è il primo a tematizzare esplicitamente il
problema delle relazioni fra ritmo e figurazione, Aristosseno ci invita a distinguere ciò che può
essere plasmato ritmicamente, la sostanza, il tempo che scorre, dal ritmo, ovvero dall’operazione di
plasmazione. Insomma, il ritmo si esprime solo in presenza di una sostanza che possa fungere da
sostrato, di una continuità che duri, il flusso, per avviare una transizione sulle fasi che andiamo
tagliando attraverso l’accentuazione o la scansione. Il ritmo è la transizione fra fasi.
Questo è il fondamento non dichiarato su cui poggia l’operazione del suddividere ritmicamente
la materia dalla forma.
Nei commenti al testo aristossenico si insiste molto sulla suddivisione fra una sostanza ritmica e
l’operazione del suddividerla, ma l’attenzione eccessiva a questa applicazione della logica
aristotelica, al porre cioè una differenza di natura fra ciò che suddivide, ossia il numero, e la
sostanza cui si riferisce al suddivisione ritmica, che può essere il verso, il suono musicale o il passo
di danza, quindi fra la materia e la forma, ha portato i commentatori a trascurare l’accentuazione
fenomenologica della durata del suono come fondamento della sua permanenza. Non esiste un ritmo
sulla carta: i suoni devono potersi muovere in un modo riconoscibile, per sollecitare una reazione
gestuale.
Il durare del suono è il sostrato permanente che ne permette la suddivisione: il ritmo è un
segmento, un segmento che non ha una durata assoluta, svincolata dall’attività della coscienza. Il
disegno che tiene assieme i segmenti deve suscitare in noi qualche gesto, dev’essere riconosciuto
nella sua pregnanza, per poter ritagliare nel campo delle durate una forma ben riconoscibile. La
forma, tuttavia, viene isolata da una materia che è continuità che dura, flusso che continuamente si
reintegra, materia che possa essere schematizzata. Ogni forma ritmica si staglia da questo fondo
continuo a condizione di poter essere riconosciuta.
21
Negli Elementa Rhythmica di Aristosseno (354 – 300 a. C.), si esplicita che, perché vi sia
percezione del ritmo, è necessario che il fenomeno si articoli secondo rapporti che si ripetano e che
possano essere mimati da gesti. Il ritmo fa tutt'uno con la regolarità della scansione: ma la
regolarità della scansione prende corpo solo di fronte alla possibilità di individuare il movimento
caratteristico di una figura che si ripete. Solo in presenza della ripetizione, infatti, riusciamo a
coordinare un movimento, o una serie di gesti che ci permettono di decidere sull'efficacia nei
rapporti fra durate che scandiscono una frase musicale o un verso. Il ritmo ha quindi natura
gestuale: se siamo portati a battere le mani, o i piedi o a scuotere la testa, il ritmo funziona.
Questo modo di procedere si basa su presupposti che vanno portati in evidenza. Il primo è che
non basta una relazione matematica per misurare il movimento: se il tempo è caratterizzato dalla
sua continuità, dall'essere una linea retta, qualcosa che non ha parti, che ha limiti comuni, per cui si
trapassa continuamente da una fase all’altra, non possiamo accontentarci di isolarne dei frammenti,
perché otterremmo delle semplici durate. Le durate diventano percepibili ai sensi attraverso sillabe
o note musicali. Il tempo è quindi la materia del ritmo, la prima cosa da suddividere, per ottenere
una serie di rapporti (protos chronos), di valori semplici, proporzioni matematiche, che organizzano
tutta la struttura ritmica. Dobbiamo isolarne dei frammenti che abbiano pregnanza, che non siano né
troppo lunghi, né troppo brevi: in questa operazione decide la scelta nasce dalla possibilità di
cadenzare con il corpo il movimento, ovvero di trasformare il frammento ritmico in un gesto, che si
possa iterare con facilità.
Esiste quindi una differenza, che va rilevata in modo immediato, fra l'attribuzione astratta di una
misura nel flusso temporale, assimilabile all'indicazione che troviamo ad apertura di un brano
musicale o nella suddivisione offerta dalle sillabe del verso, e l'articolazione, il periodare degli
eventi, dei suoni delle parole offerte da un ritmo, che si organizzano in strutture che hanno una vita
autonoma che va riconosciuta.
Non basta, ad esempio, la semplice scansione in sillabe di un verso, il ricercare le lunghe e le
brevi, per applicarvi meccanicamente un metro. La natura di quelle suddivisioni, infatti, può
sostenere accentazioni diverse: l'articolazione ritmica non si limita quindi ad una suddivisione o ad
una organizzazione per gruppi, ma deve fornire un'architettura degli eventi temporali.

21
Aristoxenus, Elementa Rhythmica. The Fragments of Book II and the additional evidence for Aristoxenean Rhythmic
Theory. Texts edited with introduction, transalation and commentary by Lionel Parsons, Clarendon Press, Oxford,
1990. Ci occupiamo del secondo libro, l’unico che ci sia arrivato in una versione integrale.
Il terreno di esplicazione del ritmo è il battere ed il levare del piede, nella marcia o nella danza
(pouÍj). Vengono così introdotti i concetti di arsi e di tesi: ogni volta che muoviamo un passo
solleviamo un piede, e lo abbassiamo: quel movimento è diviso in due fasi: nella prima fase del
processo, il piede è sospeso in aria, nella seconda battiamo il colpo.
Il ritmo nasce come un'alternanza di colpi. Il problema è proprio qui: il ritmo nasce solo nella
transizione da una fase all'altra del processo: il ritmo deve rimanere sempre riconoscibile. Il suono
isolato, non relazionato ad un altro, non costituisce unità ritmica. Rimane solo un colpo. Dovremo
interrogarci su questo presupposto relazionale. Il risuonare del colpo non è schematizzabile, vive al
di fuori di ogni relazione.
Lo stesso vale per i fenomeni continui, o troppo discreti, come il canto delle cicale, o lo scorrere
di un ruscello, che non sono modulabili attraverso l'individuazione del segmento che esprime la
misura dell'alternanza. Quei fenomeni naturali hanno un andamento caratteristico, riconoscibile, ma
la pulsazione che li caratterizza non può essere scandita attraverso il movimento, le fasi sono
caratterizzate da fenomeni di addensamento o di rarefazione che non ne permettono una
riproducibilità che possa essere controllata: non si possono utilizzare, né misurare in modo
pregnante. Sono dunque degli indeclinabili: perché si possa plasmare ritmicamente qualcosa,
bisogna che la sostanza di cui è costituito goda di proprietà, che trovano il loro fondamento nella
ripetibilità modulare.
Da quanto abbiamo detto per Aristosseno la proporzione matematica fra durate (ossia il chronos
protos) deve rendersi percepibile attraverso il liberarsi della tensione fra arsi e tesi, attraverso il
cadere del colpo, che crea attesa per la caduta successiva. Nella metrica della poesia l’unione di una
sillaba breve e di una sillaba lunga viene denominata giambo. Non passeremo attraverso il terreno
minato della metrica, ma trasformare arsi e tesi direttamente in durate ritmiche, cercando di farvi
ascoltare le relazioni fra le durate. Di fronte alla raffinatissima concettualizzazione del problema del
ritmo, che Aristosseno sviluppa in modo serrato, rapido, vi è un modo peculiare di riprendere
l’aspetto legato al problema aritmetico, ossia alle relazione fra i valori delle durate, cui debbono
essere condotti tutti i tempi primi. Non possiamo entrare nel vivo della trattazione, ma dobbiamo
notare come ogni rapporto numerico venga riportato al problema della sua riconoscibilità, che
consiste nella battuta del piede.
Dovremmo allora chiederci su quale fondamento comune si appoggiano il movimento ritmato
del corpo nello spazio, la dialettica fra le sillabe lunghe e quelle brevi, le relazioni interne giocate
dai suoni messi in rapporto ritmico, dobbiamo chiederci quale sia il sostrato comune a queste tre
cose, quale sia l' u(pokeiÍmenon che le sostiene. La risposta aristossenica è semplice, quanto poco
rilevata: non tanto il carattere di continuità del tempo, presupposto ovvio, ma il modo in cui essi si
danno nel tempo, ovvero il loro durare nel tempo, il loro non essere eventi istantanei, che non
sorreggono una suddivisione ritmica, ma la loro possibilità di sostenere l'esser messi in sequenza
per dar luogo ad un intero. Il ritmo non vive che nella sua transizione, nell’istaurarsi di una
relazione retta dal numero.
Intravvediamo ora il fondamento del discorso sulla natura temporale del suono, che i
commentatori del trattato sembrano vedere in modo confuso: un suono deve durare, deve avere una
tensione interna che lo sostiene, che ne permette una segregazione dai fenomeni acustici che lo
circondano, e dev'essere qualcosa che possa essere riportato al piano della transizione fra colpi, che
interpreta l'oggetto sonoro come una sequenza o un processo.
Il tempo è un continuum, ma se vogliamo renderne percettivamente avvertibile la funzione del
ritmo nell'articolazione dei suoni, dobbiamo effettuare una serie di operazioni che diano al flusso un
andamento.
Lo stesso vale per il movimento che si articola nello spazio: esso è un processo (qui sta la
continuità con l'impostazione platonica del problema), che si esprime attraverso figure che
propongono una partizione della sequenza temporale e spaziale a scopo espressivo. Si tratta di una
condizione generalissima, che ancora non ci permette di modulare le relazioni fra durate in modo
unitario: abbiamo di fronte un campo che va ancora messo a fuoco, ma l'idea del carattere
processuale del suono, della sua possibilità di articolazione prospettica, resa ancora più avvertibile
dal movimento organizzato nello spazio, è affermata in modo prepotente. Perché una sequenza di
suoni risulti riconoscibile come dominata dal ritmo, è necessario selezionare un rapporto che
organizzi la transizione da un colpo ad un altro, ma tutto ciò si appoggia sul carattere processuale
della durata temporale del suono.
In secondo luogo, isolati due suoni, dobbiamo poterne segmentare le durate, ovvero porle in un
ciclo temporale retto da un rapporto, individuando delle relazioni fra durate che abbiano pregnanza
e che siano modulabili tra di loro. Per questo motivo, fin dall’inizio del suo trattato, Aristosseno ci
invita a distinguere ciò che può essere plasmato ritmicamente, la sostanza, dal ritmo, ovvero
dall’operazione di plasmazione. Insomma, il ritmo si esprime solo in presenza di una sostanza che
possa fungere da sostrato, di una continuità che duri, si mantenga nel tempo. Si tratta della
transizione fra due o più fasi.
Questo è il fondamento non dichiarato su cui poggia l’operazione del suddividere ritmicamente
la materia dalla forma. Nei commenti al testo aristossenico si insiste molto sulla suddivisione fra
una sostanza ritmica e l'operazione del suddividerla, ma l'attenzione eccessiva a questa applicazione
della logica aristotelica, al porre cioè una differenza di natura fra ciò che suddivide, ossia il numero,
e la sostanza cui si riferisce al suddivisione ritmica, che può essere il verso, il suono musicale o il
passo di danza, quindi fra la materia e la forma, ha portato i commentatori a trascurare
l'accentuazione fenomenologica della durata del suono come fondamento della sua permanenza. Ma
qui riscopriamo il carattere attrattivo del suono stesso, il suo sopravanzare: non esiste un ritmo sulla
carta: i suoni devono potersi muovere, questo è il problema fondamentale.
All'inizio della nostra discussione sul ritmo abbiamo insistito sulla nozione di durata
fenomenologica del suono, inteso come fondamento dell'apparire del suono stesso.
In Aristosseno troviamo quest'ipotesi formulata in un altro modo: il ritmo musicale rende
percepibile lo scorrere del tempo, e lo organizza a proprio, grazie al durare del suono. Il durare del
suono è il sostrato permanente che ne permette la suddivisione: il ritmo è un segmento, un segmento
che non ha una durata assoluta, svincolata dall'attività della coscienza. Quel segmento deve
suscitare in noi qualche gesto, dev'essere riconosciuto nella sua pregnanza, per poter ritagliare nel
campo delle durate una forma ben riconoscibile. La forma, tuttavia, viene isolata da una materia che
è continuità che dura, flusso che continuamente si reintegra, materia che possa essere schematizzata.
Ogni forma ritmica si staglia da questo fondo continuo a condizione di poter essere riconosciuta,
ovvero di poter esibire le regole della propria suddivisione. Il durare va disciplinato e reso fruibile,
ma si esibisce all'interno del modo d'organizzazione della durata stessa.
Il richiamo al gesto, all'intonazione della parola o al canto, il passaggio, diciamo così, dalla
potenza all'atto per decidere se un rapporto ritmico funziona o meno, mette in mostra non tanto un
richiamo psicologico, ma il ruolo fondamentale attribuito al durare del suono ed all'esibizione delle
caratteristiche strutturali di quel durare.
Il durare messo in gioco dal rapporto ritmico diventa così una tensione fra due fasi distinte: e qui
emerge l’atro aspetto nel rilevato del problema: la tensione offerta dal ritmo viene ricondotta ad
un’unità di misura, particolarmente elementare, il protos chronos, il tempo primo. Si tratta dell’unità
minima che permette quel collegamento: ma tutto, in quel collegamento, si gioca nel mantenere in
tensione, nel veder convergere i limiti delle durate da una transizione all’altra. Il ritmo visto da
Aristosseno non coincide, come generalmente si crede, con l’isolamento della figura e l’opera di
scansione fra una figura e l’altra, tanto che si tratti della sillaba di una parola, del passo di una
danza, o dell’articolazione fra le durate che connettono l’andamento di un gruppo di suoni
organizzato. Il movimento, all’interno di questo fenomeni, rischia di far perdere la sostanziale
tendenza all’unità, che emerge quando costruiamo un rapporto che metta in tensione i due oggetti.
Quando ci chiediamo quale sia il soggetto della scienza ritmica di Aristosseno, quale sia il suo
soggetto, quale sia l’ u(pokeiÍmenon (upokeimenon) di una suddivisione ritmica non dobbiamo
pensare alle relazioni fra gruppi di suoni, di gesti, presi come oggetti che si presentano e poi
spariscono, ma alla tensione che fa sì che l’uno divenga conseguenza dell’altro che la tensione
accumulata nell’uno venga a a risolversi nell’altro. La distinzione fra ritmo e ritmizzabili prende
allora consistenza diversa: un verso contiene sempre lo stesso numero di sillabe, ma la scelta del
tempo giusto si lega, in sostanza, ad una scelta di tipo espressivo. L’importante è che si mantenga
una tensione costante che non dipende certo dalla velocità, ma dalle figure che il testo mette in
gioco. Ma aldilà di questa parentesi, ovvia e contenutistica, quello che emerge con chiarezza dalla
lettura aristossenica è proprio la difficoltà a sostenere fino in fondo l’idea di un irrigidimento nello
schema.
Quando abbiamo iniziato a parlare del ritmo, abbiamo continuato a giocare la carta di una
contrapposizione fra schema e ruthmos, una contrapposizione che sembrava collocarsi all’interno di
una dialettica fra il configurarsi di una forma, il suo trattenere delle relazioni allo stato fluido, per
contrapporla ad una nozione di schema molto definita, piena di regole. Si trattava di una
accentuazione che all’interno del tema del ritmo deve ora essere fortemente ridimensionata. Nelle
forme ritmiche, e non nella misurazione, sentiamo farsi avanti un movimento di coesione fra parti
che si articola nella tensione degli elementi all’interno della transizione. Il gioco di valorizzazione
metrica del ritmo, l’animazione legata all’alternarsi degli accenti non esprime più quella varietà che
viene spesso postulata come momento accessorio nel gioco dell’espressione, ma giace proprio
all’interno del configurarsi dei materiali in visto della loro plasmazione. La forma si raggela nella
tensione dei suoi costituenti.
Facendo uso della logica aristotelica, la suddivisione aristossenica porta l’accento sulla
continuità di fenomeni acustici: i movimenti, i suoni musicali, i versi possono essere plasmati
ritmicamente in più modi. Ogni sequenza di suoni, ogni sequenza di parole, ogni sequenza di
movimenti può accettare più suddivisioni, partendo però dal fatto che tutti questi fenomeni possono
essere scanditi dal battito del piede. L’evocazione del concetto di arsi e tesi da parte di Aristosseno
viene immediatamente collegata al problema della tensione fra colpi nella durata : un singolo battito
non offre un’articolazione ritmica. All’inizio della nostra esposizione, avevamo osservato che
questa opzione teorica sembrava chiudere il problema del ritmo all’interno dello schema,
dell’iterazione della cellula: ma anche qui dobbiamo stare attenti alle espressioni che Aristosseno
sceglie, perché si sta facendo avanti un altro problema. Egli osserva che è la lunghezza del piede
che fa sì che siano necessari più segnali. L’espressione che usa Aristosseno è shmei=on, il segnale
che mette in luce la necessità di più pulsazioni nella lettura del verso, nel passo di danza, nel brano
musicale.
La suddivisione del tempo attraverso segnalatori ritmici implica però che il problema che si va
configurando nell’ambito della suddivisione non sia semplicemente quello del misurare, ma del
misurare mantenendo una tensione fra arsi e tesi. Aristosseno osserva infatti che i sensi hanno
bisogno di molti segnali per poter riconoscere una suddivisione ritmica di un’unità molto lunga e
che si disperdono se vi sono troppi segnali per una corta.
Ora, questa frase va capita a fondo perché, di per sé, il segnale non fa altro che indicare gli
estremi della pulsazione come semplice suddivisione fra tempi, e non come articolazione tensiva fra
arsi e tesi. Per questo motivo, per evitare di mantenere solo un tono di atratta suddivisione
matematica fra le durate che reggono la scnadirsi degli eventi ritmici, Aristosseno ricorre ad
un’altra nozione, quella di ryhtmopoia.
Seguendo i portati illustri di queste tradizioni culturali, siamo immediatamente portati ad
effettuare dei forti processi di schematizzazione del problema ritmico, scavalcando alcuni aspetti
della sua storia. Infatti, queste opposizioni stanno tutte dentro le caratteristiche fenomenologiche del
suono degli strumenti a percussione, ed avviare una riflessione sul ritmo, perdendo queste duplicità,
significa chiudere immediatamente la via alla comprensione del nostro problema.
Se la questione musicale del ritmo appoggia sulla natura temporale del suono e la articola in una
forma, la pulsazione ritmica inizia, come abbiamo visto dall’esempio, con dei colpi, meglio ancora
con l’irrompere del colpo, con lo spezzare la continuità del fondale: solo da qui si pone l’altro
aspetto, che evolve nello schema.
Proprio su questo terreno, il numero fornisce un indicatore, rispetto all’articolazione formale del
ritmo, dei tagli attraverso cui costruiamo progressivamente una partizione del tempo, attraverso la
scansione: il numero permette una misurazione sempre più precisa della struttura articolare di una
forma che è già stata data: per questo motivo, non possiamo affidarci al concetto di numero come
vettore esclusivo per la comprensione della forma ritmica, anche se esso porge indicazioni
specifiche in termini di densità degli eventi. Le gerarchie interne alla forma musicale, tuttavia si
poggiano su altri elementi, che hanno un piano di articolazione molto più complessa. Per questo
motivo, anche se attraverso il concetto di ritmo raccogliamo il tempo e lo freniamo all’interno delle
forme, non è su questo terreno che possiamo cogliere sino in fondo la ricchezza del rapporto musica
– numero. Esso prenderà invece piede, e a pieno titolo, nello studio dell’intervallistica musicale,
dove la dimensione quantitativa e quella qualitativa stringono un’alleanza assai interessante con la
teoria delle proporzioni. Ma prima di effettuare questa paesaggio, dobbiamo guardare a a cosa
propriamente l’intervallo vada a suddividere, in altri termini alle caratteristiche spaziali offerte dal
continuo dei suoni, che quella cultura interpreta. Il rapporto fra lira ed aulos, da questo punto di
vista, ci sembra significativo.

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