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Carlo Serra

Quando l’estetica dà il nome: sintesi immaginative e forme dell’ascolto in Steven Feld

§ 1 La notte del paleolitico e la costituzione del senso

Se sono furioso per una qualche ragione, mi può capitare di colpire la terra o un albero con il mio bastone, ecc. Così
facendo, però, non credo che la colpa sia della terra o che colpirla possa servire a qualcosa. «Sfogo la mia collera». E
tutti i riti sono di questa specie. Queste azioni si possono chiamare azioni istintive. E una spiegazione storica che per
esempio affermasse che in tempi passati io o i miei antenati abbiamo creduto che colpire la terra serva a qualcosa
sarebbe un imbroglio, perché sono ipotesi superflue che non spiegano niente. Ciò che importa è la somiglianza
dell’atto con un atto di punizione, ma più di questa somiglianza non si può constatare.1

Il significato di questa tagliente osservazione di Wittgenstein può essere sviluppato in due direzioni,
nettamente contrapposte: la biforcazione trova il proprio nucleo generativo nella differente accentuazione
che vorremmo attribuire al termine constatazione o al termine somiglianza.

La gradualità nella definizione dei concetti è essenziale: dando priorità al termine constatazione,
sembrerebbe che ogni percorso di interpretativo del mondo primitivo, o del piano dell’azione istintiva, si
debba bloccare sulla semplice registrazione del senso di una relazione affettiva, simile ad ogni latitudine,
ma incapace di sostenere la possibilità di un approfondimento in termini causalistico – esplicativa. L’uomo è
fatto così, dal suo esser fatto così prendono significato le attività simboliche, che si differenziano nettamente
rispetto ai contesti culturali di provenienza. Potrò affaticarmi quanto vorrò, ma non riuscirò mai a
comprendere più di tanto la natura simbolica di quel gesto, perché esso è saldamente iscritto in una forma di
vita certamente somigliante o inattingibile, a meno che io, naturalmente, non sia …un altro, un appartenente
ad una cultura nativa, lontana dalla mia per linguaggio, storia, articolazione concettuale.

Rimane, tuttavia, un appiglio, messo in gioco dall’idea di una somiglianza possibile fra forme diversamente
articolate, legate alla specificità di un modo di essere, in qualche misura condivisibile. In qualche misura, è
in quest’espressione che si annida un esercito di possibili equivoci, cosa vuol dire, in fondo, una gradazione
debole come l’espressione «somigliante a…»? L’espressione somiglianza sembra implicare l’idea della
selezione di un profilo, di un punto di vista specifico, aggiustato, per così dire, nel cogliere lati simili fra
situazioni differenti: è un terreno fatto di variabili, di vicinanze virtuali, incapace di cogliere un nucleo di
invarianti, che all’interno della ricerca antropologica non possono essere formulate che all’interno di una
serie di relazioni strutturali. E come sostenere che due strutture del comportamento così lontane nel tempo,

1
Ludwig Wittgenstein, Note sul “Ramo d’oro” di Frazer, ADELPHI, Milano, 1986, p.34

1
nella cultura, possano essere viste in termini di somiglianza? Dove trovare un nucleo di identità che sostenga
il prender forma di un simile giudizio?

Così, il piano epistemico messo in gioco dall’espressione constatare è bene che si fermi qui: lo studioso
coscienzioso potrà attardarsi attorno a strutture, a codici, potrà cercare di decifrare se stesso alle prese con lo
sforzo di proiezione delle proprie categorie su un mondo, quello delle culture primitive, irriducibilmente
differente dal proprio, ma non potrà mai fermarsi dilettantisticamente sulle somiglianze, le somiglianze non
sono concetti. Anzi, a dirla con chiarezza, quelle culture di concetti proprio non ne hanno, le loro
configurazioni mentali sono instabili, si modalizzano lentamente, trovando consistenza nella funzione
ripetitiva del rituale. E che dire, poi, della difficoltà di traduzione dei concetti da una cultura all’altra?
Dell’impossibilità di recuperare la dimensione originaria dell’oralità? Come prendere una posizione, che non
si attenga ad una semplice descrizione puntata sul qui ed ora, oppure sulle costituzioni linguistiche che
parlano di quelle somiglianze, e che sono perciò un terreno minato, per l’impossibilità di una traduzione.
Verrebbe quasi voglia di dire, paese che vai, tipo umano che trovi, e forse la stessa espressione tipo andrebbe
adoperata con cautela. Per non parlare dell’espressione paese.

Usciamo per un momento dalle considerazioni messe in gioco dalla prima, possibile, interpretazione della
frase wittgensteiniana e riportiamola nel contesto della discussione contrappositiva, che haper tanto separato
il percorso delle discipline antropologiche da quello della filosofia: in effetti, era difficile muoversi, già alla
fine degli anni sessanta, fra gli scogli contrapposti di un’ermeneutica che vedeva nelle ricerche
dell’antropologia l’impossibilità di evadere da una gabbia simbolica, in cui si ritrovavano ciclicamente gli
stessi presupposti metafisici ed eurocentrici legati all’articolazione formale delle gerarchie logico
linguistiche messe in gioco dalla nozione di segno e di codice (si pensi alle profonde equivocità che
emergono dalla critica della nozione di struttura elaborata da Jacques Derrida in L’écriture et la diffèrence2),
che ha di mira la nozione di codice elaborata da Lévi – Strauss, e dall’altra parte, al tema della tormentata
rimozione del rapporto fra storicità e costituzione culturale, che esplode in tanti esiti dell’antropologia
filosofica.

Rispetto a questi conflitti, che mettevano, e mettono ancora in questione il problema della definizione stessa
di artisticità, e che trovano nel sistema di rappresentazione sociale, storicizzata del soggetto, un ostacolo
insuperabile per una riacquisizione del piano estetico in quello strato dell’esperienza dove prende forma la
dimensione ossimorica di un’estetica arcaica, Gianni Carchia, in un suo memorabile saggio del 1980,
proponeva, nella pienezza di un linguaggio tutto da ristudiare, «la speranza d’una liberazione integrale dello
spirito non si può salvare altro che nell’idea di ciò che rappresenta la sua differenza assoluta:l’esistenza di
una realtà non toccata in nulla dall’umano, la possibilità di pensare un’oggettività assolutamente estranea al
senso della soggettività socializzata.» Altrimenti, proseguiva il filosofo italiano citando il Leroi – Gouhran
de Il Gesto e la parola « come potrà questo mammifero ormai desueto, con bisogni arcaici che sono stati il
motore di tutta la sua ascesa, continua re a spingere il suo masso su per il pendio, se un giorno gli resterà solo
l’immagine della sua realtà?». Scissa dalla natura, alienata nell’universo chiuso della propria
rappresentazione, la libertà immaginaria della specie troverebbe il rovescio del suo carattere umbratile,
l’immaginazione libera del mimetico originario che antecede «la lingua analogica» e poi quella della
significazione astratta (qui il riferimento va alla funzione del simbolo in Cassirer), dove si destassero al
ricordo «le fonde acque dell’oblio» che ricoprono il suo passato.

2
Il lettore legga la non sempre limpida critica alla nozione di struttura presente in «La struttura, il segno e il gioco nel
discorso delle scienze umane» in Jacques Derrida, La scrittura e la differenza, a cura di Gianni Vattimo, Einaudi,
Torino, 2002, pp. 359 – 376. Particolarmente sapide le osservazioni sulla nozione di circolarità che si inseguono da
p.360 a p.363.

2
Un’ apertura al piano dell’immaginario, un ingresso in un precategoriale, alla ricerca di un senso come, per
quanto freccia tesa verso il significato, non si sia ancora emancipato dal piano della sensibilità,ma è ancora
del tutto fuso con esso in un processo, scrive ancora Carchia, che muovendo dalle forme e dai ritmi che
specificano la vita fisiologica giunge fino alle immagini e alla stessa simbolizzazione figurativa, che,
anch’essa, nella densa notte paleolitica, non si è ancora obbiettivata e rinchiusa su di sé. In questa notte sta il
«tesoro», il «regno delle immagini», prima del suo risveglio nel «regno dei nomi», dove Carchia crea una
singolare polifonia fra un Hegel che chiede e un Leroi – Gourhan che risponde. Nella sua profondità il
carattere trascendentale dell’estetico si palesa, infine, pienamente, perché qui il senso, la differenza umana,
non è che immagine: non il prodotto di un’attività, di una centralità dell’io, quale sorgerà solo con la crisi
magica, e cioè con la strumentalizzazione e la razionalizzazione del rito, ma la passività senza intenzione di
un puro contrarsi della natura, tesa nell’ascolto dei suoi battiti, delle sue pulsazioni 3.

L’indagine sull’estetico si fa indagine sulle categorie che stanno alla base dei giochi simbolici intrecciati alle
pratiche percettive, il suo punto d’approdo quel terreno che sta fra la simbolizzazione e il momento sensibile,
dove la fluidità della nozione di senso è catturata sul piano di una costituzione simbolica, che prepara alla
ritualità: il riferimento al paleolitico non è solo cronologico, come il piano del fisiologico non si risolve
ancora esclusivamente nel piano ricco di senso di una psicologia, ma questi due momenti sono visti come
fasi concomitanti nell’attivazione essenziale del processo di senso aperto dalla ritualità.

Carchia sonda il terreno di quella che oggi chiameremmo una dialettica dell’espressione, e il peso legato al
fondersi di quei piani, che il pensiero estetico trova saldamente intrecciati fra di loro, riverbera
nell’equivocità dell’espressione estetica arcaica, dove un aggettivo che rimanda ad un passato al limite del
remoto designa un’espressione tipica della modernità. Tale equivocità non è un destino, ma un campo da
attraversare, un terreno che deve ricongiungere le concettualità di filosofia e antropologia, ancora in cerca di
un dialogo che superi il piano contrappositivo che comporta quellacerazione fra Merleau - Ponty e Derrida
da una parte, Levi – Strauss e Gehelen dall’altra, in una inutile frantumazione di cui il commento
wittgensteiniano al Ramo d’oro è prodromo significativo. Leggendo questi problemi secondo l’ottica che
andiamo evocando, la posizione del filosofo austriaco si fa sintomo significativo perché, pur invitando a
pensare, a constatare, non si esaurisce nella presa d’atto di una semplice impossibilità, ma spinge a chiedersi
quali possano essere delle possibili regole del comportamento umano, che cerchino negli anelli intermedi
posti in risonanza dal primitivo, l’uscita da una mitologia che blocca il pensiero: in questo senso, non siamo
ancora nell’estetico, ha ragione Carchia, ma si apre un prospettiva che modifica, almeno in parte, il quadro,
spingendone gli verso quella direzione che il filosofo italiano accenna con tanta perspicacia, pur non avendo
forse colto fino in fondo le possibilità giocate da una diversa interpretazione della posizione wittgensteiniana.

La notte del neolitico sarebbe così strato temporale e metafora, un’espressione che punta verso la
sedimentazione di senso di uno strato di un problema, in cui senso e percezione vanno cercando
un’integrazione: dovremmo forse leggerla come l’individuazione di un momento nello specificarsi del valore
di senso che costituisce una transizione interna al darsi dell’esperienza, momento costitutivo non tanto e non
solo della storicità, ma, in generale, del processo qualitativo che porta dal senso al significato,
dall’immagine, dal suono, dal percetto ai loro nomi, e al modo di intenderne le forme costitutive.

Stiamo ancora lambendo la dimensione del momento simbolico, come sintesi fra aspetto sensibile e
arricchimento concettuale, in un movimento di impossessamento simbolico del mondo, i cui strati più

3
Quanto vado parafrasando può leggersi nelle dense «Osservazioni sull’estetica arcaica», che precede la raccolta
Estetica e antropologia. Arte e comunicazione dei primitivi, a cura di Gianni Carchia e Roberto Salizzani, Rosenberg e
Sellier, Torino, 1980, pp. 9 – 26.

3
nascosti operano continuamente, per una soggettività che si dà certamente come storica e come naturale, ma
che continua a vivere e sentire aldilà della gabbia del codice e dell’epoca, in un dinamismo concettuale che le
reti rinsecchite dell’ermeneutica non possono cogliere. La stessa nozione segno pierceana potrebbe essere
finalmente giocata dentro ad una struttura di rimando molto più ampia, dove la stessa categoria di corporeo
apparirebbe pervasa da tendenze sintetiche particolarmente ricche, che guardano al delinearsi del processo
percettivo come a un compito teso a reinterrogare il profilo del senso dell’esperienza, rispetto al piano
dell’affettività e della motivazione. Il piano di queste relazioni, ben colte dall’idea di terzietà che gioca tanta
parte nell’articolazione logica dell’interpretazione storica da parte del filosofo americano, può ora essere
declinata in direzioni che vadano verso il piano costitutivo del concetto stesso d’esperienza, senza doverla
necessariamente dissolverla in una tassonomia dei modi di rimando, ma andando verso la nascita stessa della
nozione di idea. Ma non è questa la direzione che vorremmo seguire.

Una via che potrebbe aprirsi è certamente legata al sistema di valori messo in gioco dalla percezione, che
distingue fra suoni gravi e suoni acuti, certo, ma trova anche suoni chiari e suoni oscuri, morbidi e duri,
oppure che pone in gerarchia le fonti sonore fra di loro, come accade quando riconosco il verso di una
animale dal rumoreggiare del bosco, tematizzando continuamente il rapporto figura sfondo, oppure che cerca
e trova valori immaginativi che coordinino il paesaggio sonoro che lo circonda, come quando attribuisce agli
uccelli la voce dei morti. Il piano della percezione corre verso il simbolico, è un sistema che trova la propria
lacuna soffermandosi sul senso complessivo di quello che le si offre, e apre verso il piano del culturale. E
d’altra parte, questa torsione verso il simbolico, trova una radice nelle componenti immaginative che
intervengono continuamente nello strecciarsi dei significati emergenti dal piano dell’esperienza: parlare di
morbidezza o durezza, di chiarezza e oscurità nel suono, soffermarsi sul suo spessore corporeo, o sulla
sottigliezza fonica di un accompagnamento, significa non solo accettare lo sconfinamento immaginativo
della descrizione, ma osservare che in queste espressioni la valenza descrittiva deve, alla fine, appoggiarsi su
quella immaginativa.

E’ appena il caso di osservare che nella delimitazione del senso di questi campi la funzione metaforica è
interna al momento percettivo, costruisce una sintesi, che chiarisce il senso stesso di quanto è percepito: non
avrebbe molto senso chiedersi quanto prima o quanto dopo tutto questo sia accaduto rispetto ad una
percezione primitiva, sembra più appropriato accettare l’aprirsi di questo piano immaginativo come un modo
per far vedere meglio, per esprimere in modo appropriato, il senso interno della percezione, e il suo valore
affettivo. Perdiamo forse l’idea che esista una dimensione della percezione assolutamente pura ed atomica,
ma questo è il prezzo che paghiamo all’aprirsi di un piano fenomenologico che accetta l’idea di un emergere
stratificato delle strutture dell’esperienza Tale scelta, che fa parte, del resto, del nucleo fondante della
filosofia aristotelica, scivola immediatamente verso i modi di costituzione del piano culturale connesso a
simili sedimentazioni di senso: questo percorso è legittima, ma potremmo arrestare questa deriva luminosa
(si pensi a quanto ci hanno insegnato Hegel o a Cassirer) andando a cercare dietro al piano delle evidenze
percettive, accentuando il momento in cui ci volgiamo verso quel nucleo del significato, che ne scandisce le
articolazioni interne, isolando, volta per volta, la valenza logica soggiacente quanto viene percepito. Prima
del piano dell’intreccio fra simbolico e percettivo, che occupa tanta parte delle riflessione cassireriana,
potremmo guardare direttamente all’aprirsi della scena percettiva, al momento in cui la percezione pone
qualcosa, e comincia ad intrecciarsi dentro a dei rimandi che spingono oltre il piano dell’evidenza.

La questione che va prendendo forma è, in fondo, molto semplice: potremmo trovare nella struttura dei
decorsi percettivi una via per chiarire alcune nozioni elementari dell’affettività, prima che esse si
incamminino verso la plurivocità del nome? Ora, tale indirizzo segna forse il punto di rottura più rilevante
fra i presupposti empiristici che sostengono tutte le posizioni che abbiamo evocato, e la direzione cui
accenna Wittgenstein. Vi è certamente un carattere precario dell’esperienza, la metafora della notte o della

4
candela lockiana, che rischiara l’immediata periferia della spazio che la circonda, senza saperlo illuminare
nella sua totalità, rimane ancora una buona immagine del momento del conferimento di senso, che cerca di
saturare la rete precaria del percepito: quest’oscurità, tuttavia, e il gioco delle somiglianze che ne cerca
l’articolazione, sembra promettere molto di più.

Se già l’empirista Hume nel suo Trattato sulla natura umana (1739 – 1740) vive con stupore il fatto che, sul
piano delle lingue naturali tutti i linguaggi si assomiglino sul piano ideale dei riferimenti, gli uni con gli altri,
che riusciamo a tradurre lingue antichissime, che ci parlano di mondi lontani, nello spazio e nel tempo: il
motivo è che i nomi stanno per delle idee complesse e questo mostrerebbe che vi deve essere una regola per
la produzione di idee complesse che spinge noi uomini, aldilà delle barrire spazio temporali, a stringere4,
scrive Paolo Spinicci con gli stessi nodi le stesse idee semplici. Le idee complesse sono il prodotto di
qualche parentela fra idee semplici, di qualche relazione che ha a che fare con l’organizzazione obbiettiva
dell’esperienza. Un nome che designa una funzione come padre sta per un’idea complessa (coglie la
relazione fra due persone) , come la parola pietra sta per un’idea complessa che raccoglie colore, consistenza,
peso, impenetrabilità. Ora, che si tratti di consuetudini umane (soggettività) o di rapporti con cose (la
materia), le relazioni legate alle idee complesse dovranno ricondurci a quella somma di idee semplici che
esprimono proprietà, e che si annunciano raccolte nell’idea complessa. (La cosa = somma di qualità più
abitudini). Rispetto a questo piano, disegnato con nitidezza già nell’idea lockiana di una scrittura della
percezione che riverbera sulla storia della coscienza, saremmo portati a fare qualche passo indietro, a
chiederci perché dovremmo piegarci al gioco del nome, per segnalare, come è ovvio, un tessuto di
differenze, oltre che di punti in comune.

Saremmo tentati di incamminarci direttamente verso il piano della percezione, e delle relazioni che esso
stringe immediatamente con il tema dell’espressione, visto che il bastone che batte la terra è certamente gesto
espressivo, ma procediamo con ordine. Nell’impostazione humeana il vero problema è giungere proprio alle
idee semplici, ma forse il rapporto fra idea e percezione può declinarsi secondo modelli differenti. In fondo,
è lo stesso Husserl a spiegarcelo, nelle sue memorabili Lezioni sulla sintesi passiva5: guardando una sfera
liscia e rossa, lo sguardo ne anticipa le articolazioni, si aspetta che questi due caratteri siano il filo attraverso
cui scorreranno, senza interruzioni o lacune, tutte le rappresentazioni di quell’ oggetto, ma se,
improvvisamente, scopriamo che il lato nascosto della sfera è verde e ammaccato, la percezione stessa si
trova ad articolare giudizi diversi su quanto sta vedendo, la sfera non è solo rossa e liscia, è anche verde e
ammaccata, un carattere nega l’altro, e l’orizzonte interno della percezione trova sul piano del semplice
offrirsi del fenomeno l’idea di negazione. Sguardo qui si fa metafora dell’apertura di un campo, in cui
l’intendere mira all’immediatezza del percettivo non meno che alla semplicità logica che ne segna i decorsi.

Semplicità non significa immediatezza: qualunque processo percettivo è un processo in cui si effettuano
posizioni, in cui si predica qualcosa rispetto a qualcos’altro, e se il presentarsi inatteso di una proprietà
dell’oggetto che entra in contraddizione con quanto avevamo visto della sua costituzione iniziale, veniamo
delusi, il piano delle relazioni ha fatto venir meno una determinata attesa percettiva. Potremmo dire che il
senso dell’apprensione dell’oggetto ha, almeno in parte, mutato il proprio orizzonte interno, ha mostrato una
propria irregolarità, rispetto all’ambito generale di senso, in cui lo stavamo inquadrando. Se l’oggetto delude
un’aspettativa, e nella delusione viene soppressa l’orizzonte di una determinata attesa percettiva, di un
riempimento che si blocca grazie ad un evento che si muove in senso contrario a quello che ci aspettavamo,

4
Il lettore interessato a questo tema troverà una ricca esposizione di tale problema in Paolo Spinicci, Lezioni sul
concetto di immaginazione, CUEM, Milano, 2009.
5
Cfr. Edmund Husserl, Lezioni sulla sintesi passive, a cura di Paolo Spinicci, Guerini e Associati, Milano, 1993, pp.63
e sgg.

5
creando il senso di un mutamento, che va naturalmente ad arricchire il piano della designazione di senso
dell’oggetto, qualcosa cambia nella costruzione della descrizione che darei dell’oggetto, e di questa
trasformazione devo pur prendere atto. Ma quante azioni in questa passività: contraddicendo i lati che
andavano illuminandosi nel decorso percettivo, e presentandone altri, avremo l’aprirsi di una possibilità di
un’azione retroattiva che ci dice altre cose dello stesso oggetto, mettendo in moto un articolarsi della
percezione in cui è il piano stesso del giudizio, la sua articolazione logica, messa in movimento dalla
percezione. Questo terreno sconfinerà certamente sul piano linguistico, ma rappresenta un modello primitivo,
un piano davvero pre –liminare, rispetto all’articolazione sintattica della negazione, ed affonda su un piano
percettivo condivisibile da tutti.

Ne derivano alcune conseguenze interessanti: il piano della passività non è meramente constatativo,
saremmo anzi disposti a dire che vi è un lavoro sotterraneo, uno scavo di senso, un’articolarsi di processi e
controprocessi, che il movimento attivo agitato dall’espressione constatare, per certi aspetti, suggerisce in
modo ancora tenue. Vi è certamente un profilo epistemologico, a cui rimanda questo lavoro di attese
anticipanti e di delusioni che riplasmano il costituirsi dell’esperienza, ma piano conoscitivo e piano
motivazionale sono ancora intrecciati sul terreno di un atteggiamento di sorpresa, legati ad una deviazione
dal percorso che ci saremmo aspettati. Non guardo verso una idea semplice, ma sono costretto a muovermi
su un piano di complessità in cui le strutture percettive vivono in una complessità irriducibile, in un intreccio
d’atti, che riconosce immediatamente l’inattingibilità di un terreno di percezioni atomiche, ma forse vi è
anche qualcosa di più, che diventa significativo solo andando oltre l’ambito consueto, e un po’ risaputo, delle
evidenze fenomenologiche.

Nel momento in cui l’articolarsi del giudizio segue passivamente l’ordine interno di questi confronti, e poi
prende la parola, si volge attivamente verso differenza e negazione, lo stesso concetto di somiglianza
comincia a prendere un altro spessore, perché è la stessa idea di profilo, di proiezione di flussi di
concordanza e discordanza sulla cosa da parte dell’io, come momento ineliminabile della definizione del suo
significato o della sua articolazione strutturale, che assume il valore di un momento essenziale nella
definizione dell’essenza di un oggetto. Vi è una ricchissima dialettica delle idee che prepara l’avvento del
nome, o del suo significato.

Il momento della percezione impara così a dare dei nomi, segna, ma quell’articolazione che, troverà
un’autonomia nella sfera del linguistico, è ancora appoggiata sull’uso di reti di forme sintetiche, che si
tematizzano tutte su un nucleo di concetti elementari, capaci di trovare la propria fondazione nei nessi interni
che guidano la costituzione del concetto di esperienza: così l’uomo (non necessariamente quella funzione
metodica che è l’uomo primitivo) vive nel coappartenerrsi di queste sfere, sa saltare fra strati diversi, sa
indicarli, ma sopratutto, con buona pace di Derrida, trapassa continuamente da un piano all’altro, senza
confonderli o appiattirli nello schema di un riferimento. La stessa nozione di struttura, che il filosofo
francese criticava nel saggio citato prima, permette che al suo centro vi sia una permutazione di elementi,
senza che la sua totalità abbia un centro altrove6.

Un lento orientarsi che, come mostra proprio Carchia, nella notte continua ostinato il movimento della vita,
dal buio riemerge la ricerca di una luce che non rischiara la totalità dello spazio ambiente, ma che cerca delle

6
Chi voglia approfondire il piano di questa discussione, segua l’argomentazione che Derrida sviluppa rispetto al
rapporto essenza- struttura, che nell’opera citata occorre a p.360 – 361, e alla rigidità che sostiene la nozione di gioco
delle sostituzioni a p. 372, dove si rilegge la nozione di supplementarità in senso eminentemente linguistico. Alla
chiarezza discorsiva della scrittura non corrisponde limpidezza logica, proprio perché tutto il piano della
modalizzazione del giudizio viene incatenato alla rigida dicotomia essere- non essere, e non al piano della costituzione
del senso.

6
stelle, dei punti cardinali, degli anfratti graduabili, da dove riprendere la ricerca del senso della propria
esperienza. Siamo in un contesto estetico, e forse quel contesto estetico può dialogare con il piano delle
azioni istintive, ne illumina, in parte, gli aspetti affettivi: in fondo, percezione e affezione indicano il
modificarsi di una modalità del sentire, e si rimandano l’una all’altra.

Ecco che, seguendo Carchia, va improvvisamente aprendosi l’altra direzione di senso che sostiene la lettura
del passo di Wittgenstein, quella che vede nella nozione di somiglianza non solo un limite analitico da
esplicitare con una paziente forma di auto pulsazione, ma un terreno concettuale fecondo, che mette in gioco
il piano di una serie di relazioni che rendono il mondo primitivo improvvisamente molto, molto vicino al
nostro, proprio sul terreno di costituzione del senso dell’esperienza.

Il tema del nome cambierebbe valenza, almeno in due direzioni: vorremmo dire, ad esempio, che vi è una
parte di ritualità che è anche nostra, perché così è la vita umana. Potremmo chiederci se un fenomeno di
somiglianza, oltre a richiamare la constatazione palmare delle differenze, non metta in gioco l’esistenza di
anelli intermedi, che spingano invece verso un piano di comprensione più profondo: certo, due cose si
somigliano, questo non è certo un giudizio analitico, ma vorremmo chiederci in che senso quelle due cose si
somiglino o, il che è lo stesso, esprimano una comune appartenenza di soggetti diversi alla nozione di
mondo.

Esiste un fondo comune nella ritualizzazione, ad esempio, potrei cavare dalla tasca o dal desktop del pc
l’immagine della mia compagna, oppure osservare che

«Si potrebbe anche baciare il nome dell’amata, e allora sarebbe chiaro che il nome fa le veci della persona
7
».

Né io, né l’eventuale nativo avrebbe l’opinione che la foto sia lo stesso dell’amata, o che il feticcio sia lo
stesso del nemico: il descrivere di Wittgenstein incontra implacabilmente gli stili elaborativi di una
concretezza concettuale, dove mondo immagine e mondo nome, dove forza ed esplicitazione di senso si
illuminano e si oscurano continuamente, in un lavorio che spezza l’antitesi fra culturale e naturale, perché
interno all’essenza del processo di simbolizzazione affettiva del mondo, nella presa di possesso di uno
spazio, come luogo connotato emotivamente dalla presenza dell’immagine, e delle sue risonanze. Il nome
diventa semplicemente un indicatore del luogo di costituzione di una relazione che è molto più profonda, che
segue un’articolazione molto più delicata e ludica, in cui le posizioni di identità diventano solo il grado
estremo della somiglianza, un limite, attorno a cui si può giocare e pensare in molti modi. Se gli aspetti
causali legati alla ricezione del mondo sono condivisibili, perché tanto io che il nativo sappiamo bene che
una pietra lanciata per aria ricadrà per terra, il mondo espressivo legato alle differenze trova tutti i luoghi di
una possibile declinazione che non sia pura estraneità. Allo stesso modo, lo straparlare di un luogo
originario, lontano da ogni piano dell’esperienza, sembra un’inutile forzatura, mentre la dimensione degli
strati primitivi dell’esperienza di attribuzione di senso, nel gioco continuo della trasformazione dei propri
colori, trova un fondamento in una serie di convenzioni fondate nella logica interna delle relazioni che
intessiamo con il mondo.

Ma se le cose stessero così la notte del neolitico di cui parla Carchia si rivelerebbe uno dei fili costitutivi del
senso dell’esperienza, addirittura quella dimensione del senso che ci accompagna continuamente, è quel lato
della dimensione dell’ambiente in cui facciamo continuamente questione delle cose e del loro valore, quella
gradazione della luce i cui le cose mostrano i loro lati meno ovvi, o forse, semplicemente, in cui i nomi e le

7
L. Wittgenstein, Op. cit, p.21

7
immagini si riempiono reciprocamente: un lato arcaico che è sempre interno al piano dell’estetica, quella
dialettica del valore che accompagna il nostro continuo riprendere possesso delle cose del mondo, e dei loro
limiti. La negazione prende consistenza sul terreno delle categorie estetiche, in un senso lato, naturalmente,
ma non così lontana dall’ossimoro apparente dell’espressione estetica arcaica.

In quella notte, lo specificarsi inesauribile del profilo dei concetti, con cui il Deleuze di Che cos’è la filosofia
riapre quella dialettica strutturale che il Derrida della Grammatologia aveva forzosamente chiuso, pensando
ai movimenti periferici della struttura che ne dislocano il centro come chiave d’apertura della dimensione
estetico – affettiva con cui viviamo il mondo, lo schiudersi del tema delle emergenze di senso, che abitano il
piano delle sintesi passive di Husserl acquista pregnanza: non è un paradosso avvicinare una struttura
mobile e gerarchizzata come quella husserliana, che assume come punto di partenza l’individuazione
dell’identità, la sintesi della concordanza, che vederne gli sviluppi moralizzanti, nel costituirsi dei piani
dell’esperienza, al movimento trasversale dei piani d’immanenza deleuziani, al continuo ridisegnarsi
dell’identità del concetto come momento estetico. E fa parte del momento estetico l’accettazione dell’idea di
un piano della percezione che si muove sempre a livello complesso, dove quello che decide non è più la
singola percezione atomica, ma il nesso che tutte le stringe, quel processo che mi tiene in sospeso mentre
scopro il lato della negazione e lo riapplico a tutte le sintesi precedenti, facendomi dire che la stessa sfera ha
due profili diversi, di cui uno nega l’altro. Non vi è più contraddizione ( questo è uno dei equivoci sul
primitivo da cui l’ironia di Wittgenstein continua a metterci in guardia), ma una contemplazione estetica di
due differenti piani di costituzione di senso della stessa cosa.

Basterebbe non soffocare la struttura nel nodo scorsoio di chi riprende l’idea del movimento zenoniano, per
congelare i movimenti d’assestamento di quell’intero su piani d’identità incongrui, e, volta per volta,
storicamente determinati, come fa, in fondo, Derrida, nel malizioso saggio sulle scienze umane. In quella
prospettiva, acuta ma insensibile al piano dell’articolazione del senso, l’etnologia non sarebbe altro che
l’ultima maschera della concettualità metafisica, il campo di un improprio rovesciamento del concetto di
segno, una gerarchizzazione etnocentrica che nasconde le equivocità interne alla costruzione del discorso
dell’Occidente ( è strano come dopo la lettura di Derrida, la o maiuscola sembra farsi obbligatoria). Eppure,
di fronte a tanta nettezza, viene spontaneo chiedersi se l’orizzonte messo in gioco dal concetto di senso possa
essere sigillato in un semplice gioco dello smascheramento, se il concetto di somiglianza non possa
presentare una declinazione diversa, rispetto all’appiattirsi dentro alla nozione di rimando. Certo, le
osservazioni di Derrida hanno ancora molto da insegnarci, sul piano politico (anche qui Carchia si rivelava
osservatore sensibilissimo), nel momento in cui l’Occidente ha, in qualche modo, cancellato o distrutto
moltissime culture native, ma una caso è l’orizzonte della storicità, un altro quello della ricerca. Non è forse
il caso di soffermarsi di più rispetto al gioco della morfologia, non possiamo cercare di correre dietro al
piano di ciò che è comune, senza attardarci inutilmente in una dialettica dell’etichetta (metafisico o non
metafisico), che sembra essersi logorato, rispetto all’urgenza di questi temi, all’interno dello stesso Derrida?
E volendo abbandonare il movimento decostruzionista al suo destino, non potremmo dire con chiarezza che
il mondo della percezione, e quello dei modi delle sue simbolizzazioni, fissano sempre un nucleo di relazioni
strutturali, che reclamano di essere strecciate, prima di essere semplicemente discusse? L’isolamento del
nucleo saussuriano, che abita il mondo de Il crudo e il cotto, merito profondo dell’analisi di Derrida, ora
potrebbe non bastarci più

§ 2 La fantasia nell’ascolto

8
La notte, del resto, è un momento propizio anche per la Filosofia della musica, perché di notte i suoni
prendono tutta la ricchezza del loro colore, l’ascolto si tende, li cerca, li soppesa, ne calcola le distanze, i
possibili riferimenti, muovendosi per decodificarne le posizioni. E’ su questo terreno,fra nome e percezione,
che prende forma l’indagine di Steven Feld, prendendo le mosse dalle oscurità che circondano un contesto
percettivo mosso come l’opacità acustica di una foresta, di una selva polifonica dove non è affatto facile
orientarsi. Nel mondo Bosavi l’immanenza acustica del mondo della foresta pluviale, che lambisce e
circonda i villaggi, funziona come un indice della presenza: i segnali acustici del cambio delle stagioni, della
vita delle creature che la abitano…non sono , appunto, semplici segnali, ma presenze colte nella loro
mobilità affettiva.

Tessiture in sincronia, ma continuamente sfasate, bordoni che si intercettano, che si sovrappongono,


immagini di mondi compossibili che si intersecano, procedendo ognuno per conto proprio, in una polifonia
priva di unisono, immagini di un crepitare di tessiture sonore scandiscono l’immaginario e il quotidiano dei
Kaluli. I Kaluli, scrive Feld, interpretano le figure che cantano nella foresta come « orologi della realtà
quotidiana, interagendo con il paesaggio sonoro con un continuo movimento di sintonizzazione e de
sintonizzazione, con un continuo mutamento di messa a fuoco percettiva, come degli zoom uditivi che
variano da una prospettiva microscopica a quella grandangolare a una da teleobbiettivo, seguendo i continui
mutamenti di forma e di campo delle tessiture sonore della foresta durante i cicli giornalieri e stagionali».

Parlando di una dimensione sociale dell’ascolto viene evocata un’attività che si muove nello statuto passivo
del momento percettivo del suono, per saturarne le lacune: si cerca di calcolare l’altezza e la profondità di un
suono rispetto a questo mondo cangiante, dove altezza e profondità si confondono, dove si cerca di catturare
un suono, coma accade allo stesso Feld, puntando il microfono verso l’alto, mentre il canto di un uccello
prende forma nel profondo della foresta, più in basso e in avanti.

Ma il lavoro del microfono che cerca, streccia, indugia sopra ombre sonore che ci attraggono altro non è che
una metafora dell’apertura del campo uditivo, delle emergenze che lo abitano ( un gruppo di suoni o un
suono singolo che si isola dallo sfondo, emerge). Cosa vuol dire metafora? Quando isoliamo suoni
nell’ascolto, quando puntiamo l’attenzione su una voce che ci colpisce, non siamo forse dentro al flusso
dell’esperienza? L’analogia è solo la spinta, per avviare l’articolazione di nuovi pensieri, pensieri che
mettono a fuoco somiglianze e differenze, che ci sorprendono intenti in quello strato primitivo della struttura
dell’esperienza.

Una condensazione sonora che va decodificata, o, se si preferisce quel sovrapporsi della bande sonore, nel
loro compenetrarsi da un lato, e la capacità dell’ascoltatore di strecciarle dall’altro diventano attori di una
categoria kaluli che potremmo definire estetica, in senso lato, la categoria del che suona sollevato al di sopra
(dulugu ganalan). Ci si fa incontro un attributo che dapprima è legato alle modalità attraverso cui il suono fa
proprio lo spazio che lo circonda, lo colora in una dimensione che si muove fra l’acustico e l’affettivo, e poi
che agirà all’interno della pratica musicale:in essa si condensa la ricerca di un valore immaginativo
condensato in un problema percettivo, che quella cultura elabora secondo le proprie modalità estetiche.

Dulugu ganalan, ci insegna Feld è apre verso una prospettiva estetica trasversale, che intreccia fra loro
almeno quattro dimensioni:

1. I rapporto fra gli strati acustici all’interno di un suono strumentale e rapporto di questo suono e gli altri
suoni circostanti, intenzionalmente o non intenzionalmente co-presenti;

2. Il rapporto fra suoni vocali, dal cantato al parlato, volutamente coordinati o semplicemente co-presenti;

9
3. Il rapporto fra vocalizzazioni e suoni di accompagnamento di sonagli o strumenti di lavoro, a prescindere
dal fatto che tali attività siano svolte da un unico attore o da diversi attori;

4. Il rapporto fra gli elementi citati e i suoni ambientali circostanti compresenti (ad esempio tuono, pioggia,
uccelli , animali, insetti).

Il sistema di relazioni che governa il movimento reciproco fra figura e sfondo, le loro interazioni, viene
portato in primo piano, scindendosi in un gioco di livelli dalla dialettica pronunciatissima: è proprio il
momento dell’interazione e del contrasto, o delle fusioni fra queste due funzioni interpretative, che mettono
in movimento l'animazione di un ambiente, e la sua interazione continua con il suono in primo piano.
Potremmo parlare di una dimensione dell’ascolto dove il primo piano viene comunque declinato rispetto a
quanto lo circonda, dove vi è un appagamento sonoro nell’attenuazione della figura, nella valorizzazione
dell’emergenza dello sfondo, rispetto a quanto si è fatto avanti.

Vi è certamente una suggestione visiva, che si annida dietro alla forma di concettualizzazione che sostiene la
nostra categoria estetica: se sul piano intuitivo il dulugu ganalan si manifesta come un’emergenza di strati
sonori continui in successione, ma non lineari, o presenze e densità multiple senza soluzione di continuità o
pezzi che si sovrappongono senza interruzioni interne, l’immagine di piani sovrapposti in movimento, di una
stratificazione che avanza solidificando un piano sonoro sopra l’altro, traduce bene un contesto, e lo prepara
alla sua fusione con il momento rituale. Sovrapposizione fra copia e originale, fra forma e contenuto, fra
figura e ambiente, e, al tempo stesso, risonanza e riverbero fra le due funzioni, contrasto che non si risolve
continuamente in ua formazione gerarchica, ma che rifluidifica continuamente i due momenti: del resto,
questo aspetto legato alla stratificazione sonora ha più di una analogia con le valorizzazioni immaginative,
che si nascondo dietro al pensiero scientifico che cerca un correlato visivo del fenomeno degli armonici,
come accade in Chladni, o con le immagini dell’incolonnamento diplofonico nella tradizione mongola.

La fantasia nell’ascolto si muove scandendo due passi: evocando un mondo di immagini, che completano il
senso di un’esperienza dall’interno dell’esperienza stessa, e dando luogo a forme di simbolizzazione. Il nome
della categoria estetica tocca proprio i movimenti di sedimentazione di tali dispositivi, mentre la stessa
simbolizzazione del paesaggio si rivela movimento interno a questa categoria: ce lo dice il fatto che la foresta
è il luogo mistico da dove cantano gli ane mama, i riflessi delle persone andate, che i Kaluli ascoltano
risuonare nel canto degli uccelli. Si canta con la foresta e si piange, essa è un luogo da ascoltare, e
un’immagine della memoria, la stratificazione dei suoni apre al piacere e alla nostalgia, ed i loro movimenti,
il loro essere sollevati al di sopra ci stringono alle persone perdute e ci fanno ridere, in un contesto simbolico
che ora dobbiamo iniziare a analizzare con più calma.

Per avvicinare alcuni dei giochi che esso nasconde, vorrei prendere le mosse dalla registrazione dell’uccello
Seyak, che mette in movimento l’inquietante gioco linguistico dell’identità. Per quanto questo canto sia stato
registrato attraverso un microfono tradizionale, è il contesto acustico che la circonda a renderla ancora più
interessante, perché il canto si fonde, interagisce con l’ambiente, in una polifonia sonora che va sempre più
stratificandosi: il canto si riverbera sui canti degli altri uccelli, vi è un continuo rimescolamento di fonti, un
tessuto di risposte, una sorta di monadologia sonora, che indica l’emergere di un intreccio che sostiene una
visione unitaria della natura.

La presenza di queste situazioni, avrà una ricaduta sullo stesso Feld, che rimanda ai modelli percettivi di
Gibson:nel caso dell’etnomusicologo, l’idea di una rappresentazione integrata del suono nell’ambiente, in cui
alla specificità della fonte si vada preferendo l’intreccio con l’ambiente, mettendo capo ad un sistema di

10
microfoni multi direzionali, che enfatizza altezza e profondità del suono, rispetto alla sua individuazione
puntuale. Non si tratta di cercare una maggior fedeltà, ma di sottolineare uno stile d’ascolto8.

Non cerco solo una fonte sonora, o una tonica del paesaggio sonoro, cerco la qualità di un suono, che metta
in movimento le forme della mia affettività. E così potrà accadere che, cercando il canto di un uccello
simbolico, proprio nel momento in cui registro la fonte simbolica, ascolti la voce di qualcosa di diverso,
come accade quando Feld registrando il canto del Seyak facendolo ascoltare al personaggio che lo riceverà
in dono (Seyaka), si sentirà rispondere che il canto registrato, pur individuando quell’animale simbolico, dice
qualcosa di diverso, perché è la voce di un amico, scomparso da poco, che vuole ancora dialogare con lui.

Una risposta che sembra sorprendente, ma che si spiega quasi da sola: non siamo in presenza di un suono
segnale, vi è un’interazione sociale ed estetica più profonda, perché il riconoscimento dell’identità sonora,
dei contenuti semantici di una fonte si muove su un piano estetico – affettivo. E’ il gioco dell’ascoltare come,
del dire che una fonte sonora non solo viene riconosciuta come tale ( Ascolta, è X), ma che questo
riconoscimento può cambiare di segno a seconda di quanto la fonte stessa dice ( Suona come X). La
gradazione affettiva decide del destino concettuale dell’ascolto: in una dimensione stratificata, vi deve essere
una guida motivazionale che mi porta ad isolare un suono rispetto ad un altro, visto che pure considerazioni
di dinamica e di intensità non si rivelano sufficienti. In qualche modo potremmo pensare ad un gioco messo
in moto dal contemperarsi di riconoscimento ed intenzionalità emotiva, ad un morphing, come lo chiama con
acume Silvia Vizzardelli, tra l’idea di un ascolto ridotto, che si perde nella contemplazione del suono,
scindendo parzialmente il legame con la referenzialità pura della fonte, che va dall’oggetto alla nome e la
dimensione tassonomica, vista come una somiglianza che rimanda ad un tipo acustico, ad un modello, le cui
risonanze possono ora essere lette secondo il proprio stato d’animo9. E’ una trasformazione fluida, graduale,
come scrive appunto l’autrice, che si appoggia al piano tassonomico dei nomi degli uccelli, e della lettura
immaginativa del potere del loro canto, per andare a toccare l’individualità dell’ascoltatore, le sue esigenze
estetichr, il movimento delle sue emozioni. E se per i Kaluli il movimento della musica ha qualcosa del
flusso d’acqua, perché sigilla dei significati in una forma melodica e li rende attivi nella coscienza di chi
ascolta, creando un gioco fra l’articolazione della forma che contiene il significato e la pervasività del corso
delle acque, siamo molto vicini al costituirsi di un valore estetico, che traduce il senso di una forma
d’ascolto. Al tempo stesso, il gioco fra centro e periferia della struttura, viene continuamente riattivato,
arrestandosi prima della tassonomia linguistica, per fondersi in un discorso sull’ascolto partecipato, in cui
godimento estetico, strutturazione dell’esperienza, e conferimento di senso costruiscono una sorta di circolo,
in cui so ben individuare centro e periferia, proprio perché le due funzioni trovano il proprio motivo d’essere
nella motivazione di chi ascolta: la bella nozione aristotelica di fantasia, come capacità di far emergere una
prima articolazione di un sistema concettuale dal velo delle immagini che ne accompagnano, anche solo per
un tratto l’elaborazione, mostra ora tutta la sua plasticità. Pensiamo alla relazione d’identità del canto
dell’uccello, mentre intendiamo il valore estetico della voce del morto, o le differenti declinazioni del
rapporto figura sfondo.

§ 3 Conclusione: le categorie estetiche come traduzioni dell’esperienza

8
Cfr il bel saggio di Lorenzo Ferrarini, «Registrare con il corpo:dalla riflessione fenomenologica alle metodologie
audio visuali di Jean Rouch e Steven Feld», Molimo Quaderni di Antropologia ed Etnomusicologia, 4, CUEM, Milano,
2009, pp. 125 – 155.
9
Cfr. Silvia Vizzardelli, Verso una nuova estetica. Categorie in movimento, Bruno Mondadori, Milano, 2010, p.4.

11
I dintorni di un modo di agire 10

Giochiamo e siamo giocati dall’identità dei suoni, ne pieghiamo il senso alla sollecitazione affettiva che essi
sanno evocare: alla classificazione simbolica del canto degli uccelli si sovrappone la potenzialità espressiva
della voce della foresta, del suo statuto estetico – espressivo. Su un piano affettivo si dovrà penetrare quella
durezza, l’opacità di quel canto, per capire cosa esso ci dica: nascono nuovi giochi di conferimento di senso,
e nessuna fonte verrà semplicemente riconosciuta, ma sarà subito riplasmata sull’interazione estetico –
emotiva di chi ascolta. Ora forse ha senso dire che constatiamo qualcosa. Constatiamo che il vivo dialoga
con il morto, che le voci degli uccelli emergono continuamente da quel continuum sonoro che è la foresta, e
si fanno riverberi, riflessi di immagini di una assenza che si riaffaccia verso il mondo del vivo, ma forse il
gioco delle somiglianze muove il piano epistemologico giocato dal quel verbo in un’altra direzione. La
percezione si fonde all’affezione, in un orizzonte che non sarebbe dispiaciuto all’empirismo
classicoNell’affezione siamo colpiti sul piano emotivo, un tessuto di credenze influisce su di noi, è davvero il
caso di dirlo, giocando con l’idea dell’afficere, muta il nostro modo di intendere. Ancora una volta
constatiamo una differenza, che forse non comprendiamo appieno, ma dire che la categoria di somiglianza
lega due culture cerimoniali così lontane non sembra un mostruoso paradosso, ma una via della
comprensione, dove certamente una credenza viene riportata sul piano del concetto, per quanto mobile esso
possa essere. E del resto, se lo stesso Wittgenstein scriveva che ogni spiegazione è un’ipotesi, non esitava a
dire senza mezzi termini che l’uomo primitivo11 non agisce in base ad opinioni. La nozione di primitivo e il
suo intreccio con il concetto, del resto, andrebbe intesa, ancora, nel senso di quest’osservazione:

«Come ci sono “teorie sessuali infantili”, così ci sono, in generale, teorie infantili. Questo però non vuol
dire che tutto ciò che fa un bambino abbia come ragione e origine una teoria infantile.»12.

Siamo dunque in presenza di una dimensione esemplare, di una serie di temi rilevanti che, come il gioco,
alludono ad una dimensione del ludico, in cui il momento concettuale si fonde in una pratica. Un simile
intreccio di riferimenti mostra la plasticità della concezione estetica legata al che suona sollevato al di sopra:
il canto dell’uccello è la voce di un ambiente, che si è fatto mondo. Al tempo stesso, quella categoria ci fa
attardare attorno ad un concetto che siamo portati a mettere sempre in secondo piano, all’idea che vi sia uno
strato silente di attività sonore che avvolge sempre quanto viene in primo piano, che gioca con lui: un’idea
che mette fra parentesi l’idea di unisono , a favore di una polifonia naturale, che racconta il gioco della vita,
per riprendere una bella immagine con cui Giovanni Piana avviava la sua Filosofia della musica. Non siamo
all’infanzia di una teoria, ma, semmai, di fronte ad una concettualizzazione che ci mette di fronte uno strato
primitivo dell’esperienza.

Quanto emerge forse è più complesso di una metafora, o di un campionario di puri problemi linguistici, che
ci parlano di un’irrimediabile diversità culturale. Forse il problema del senso va ancora sviluppato per un
poco, per vedere appunto cosa succede quando l’estetica incontra il problema del nome.

La tassonomia kaluli infatti denomina gli uccelli sulla base del loro suono, non del loro aspetto: sanno
imitarli, ma non sanno descriverli in una progressione ascendente in cui in cui suono ed espressione si
stringono fra loro in modo sempre più stretto.La foresta come luogo da ascoltare si fa immagine della
memoria, certo, ma luogo di sfondi riattivabili sulla base della propria motivazione affettiva. La paura

10
L. Wittgenstein, Op. cit, p.45
11
L. Wittgenstein, Op. cit, p.33.
12
Ivi, pp. 49 – 50.

12
dell’unisono, il concentrarsi analitico sugli aspetti microtesturali del suono, sulla tendenza alla
sovrapposizione sonora anche nel momento sociale del lavoro, su cui Feld scrive pagine di estrema finezza
concettuale, nascono all’interno di questa forma d’ascolto, che, in fondo, è proprio agli antipodi del concetto
di paesaggio sonoro, di toniche nell’ascolto, che l’autore riesce a piegare verso una profonda
gerarchizzazione concettuale.

Il riferimento all’estetico è teso adoperare una messa a fuoco e una disarticolazione del momento
propriamente percettivo, per concentrarsi sul piano qualitativo dei giochi linguistici nell’ascolto, alla ricerca
di un timbro, di un colore, che si stacchi dalla sfondo, ma che sappia anche dialogarci, creando una pienezza
della dimensione estetica che conosciamo bene, e che nella nostra tradizione chiamiamo apertura al senso di
una polifonia inteso come fondersi e constarsi di figurazioni sonore o musicali. Si tratta di nozioni che
potrebbero trovare un’applicazione analitica all’interno di un’estetica delle atmosfere o per riattivare l’idea di
testuralità cara a Wallace Berry, autore troppo dimenticato nell’attuale, asfittico e distratto dibattito sulla
filosofia della musica, incapace di andare a confrontarsi con le forme concettuali interne alle pratiche giocate
nel farsi stesso della musica.

Ma davvero tutto questo è così lontano dalla nostra concettualità, dal piano di senso messo in gioco dal
concetto di esperienza? In fondo all’interno delle forme d’ascolto esistono moltissimi gradienti descrittivi
che guardano più all’attacco del suono, o alle forme della sua testuralità rispetto ai tessuto sonoro da cui
emerge, che non ad una interpretazione netta del rapporto figura – sfondo. Tali dinamiche trovano risonanza
in una dimensione dell’affettività, come accade per tanti segni espressivi che costellano la scrittura musicale,
come accade per l’espressione “dolce”, che indica un timbro, una forma della foneticità di una parte
strumentale, una qualità sensibile che mette in evidenza una gerarchia possibile fra voci, non legata
semplicemente alla forza di intensità e dinamica. La categoria kaluli del che suona sollevato al di sopra
coglie il piano estetico del movimento di queste differenze analitiche, e ce lo propone con la caratteristica
trasversalità che ancora ci affascina nell’idea di cogliere il movimento di costituzione del senso di un
oggetto, e forse osserveremmo con un pizzico di sollievo che il lettore di Kant in questa articolazione del
concetto avverte l’atmosfera problematica messa in gioco dal bel concetto di idea estetica.

Sembra strano, ma alle volte i filosofi lavorano, e, contro ogni evidenza, hanno un loro modestissimo
specifico. Ha ragione Paolo Virno quando osserva ironicamente nel suo bellissimo E così via, all’infinito
che i filosofi sono antropologi a pieno titolo quando si occupano del fondamento indimostrabile o della
doppia negazione, non quando discettano con bonomia di sesso e famiglia, di istinto e costumi13, cioè quando
cercano di bloccare una gerarchia ascendente di livelli logici, elaborando tecniche di interruzione. Lo stesso
vale per il giochi linguistici dell’ascolto, e forse non è un caso che il punto di partenza di queste avventure di
pensiero sia giocato dai rapporto estetici fra senso e percezione Mi piacerebbe commentare ancora questo
ricorso al metaforico con un’immagine husserliana, tratta ancora dalle Lezioni sulla sintesi passiva, in cui si
guarda al modo in cui le affezioni ci trasformano, chiamandoci incessantemente verso di sè:

«Per esempio ci colpiscono singole figure colorate che emergono e contemporaneamente vi sono rumori
come il tramestio delle carrozze, le note di una canzone, così come odori che emergono ecc. Tutto ciò si dà
simultaneamente, e tra queste cose è la canzone che si afferma in quanto noi, nell’ascolto, siamo rivolti ad
essa soltanto. Il resto, tuttavia, ci stimola. Se però sopravviene un potente boato, come quello di
un’esplosione, allora esso non elimina solo la particolarità affettiva del campo acustico, ma anche quelle di

13
Paolo Virno, E così via, all’infinito. Logica e antropologia, Bollati Boringhieri, Torino, 2010, p. 90

13
tutti gli altri campi. Ciò che altrimenti ci parlava, per quanto poco lo stessimo a sentire, non può giungere
sino a noi.»14.

Commentando il bellissimo passo in un suo Corso del 1993, dedicato appunto alle Sintesi passive a ancora
inedito, Giovanni Piana osservava che dobbiamo attribuire alle emergenze delle forze affettive latenti, legate
all’intensità del contrasto, cose che ci parlano, ma che non stiamo a sentire, mentre andiamo a cogliere la
canzone, e questo mostra che ciò che caratterizza l’emergenza non sia il contrasto più intenso di tutti:
quell’emergenza debole prende la massima forza affettiva, come accade quando il microfono direzionale, o il
movimento del braccio, stacca ed isola la voce dell’uccello dallo sfondo.

Vi è un continuo avvertire inavvertito, e poi qualcosa si stacca dallo sfondo e viene in evidenza, ma questo
venir in evidenza non è un semplice fatto percettivo, dietro a quell’emergere vi è una serie di strutture
motivazionali, che vanno a cercare un elemento piuttosto che un altro, nella polifonia delle forme che si
appellano ai vari strati di una medesima sogettività. E poi , naturalmente, vi sono eventi che rimandano a
piani oggettivi, come quello dell’esplosione che copre tutto, dove il contrasto fra ciò che copre e quanto
viene coperto si fa particolarmente intenso. Così il carattere di mondo che circonda l’articolarsi della
percezione lascia, ad ogni latitudine, ampio spazio ad un’affettività, che trova rispecchiamento nei momenti
di ridestamento dell’io.

Tra questi piani affettivi, si faranno avanti i colori dei suoni, le loro testuralità, il colore del loro timbro, gli
aspetti fonici delle loro voci, relazioni, che come accadeva per la dolcezza della melodia, ci parlano
dell’infinità del mondo, non ricorsiva, e del movimento continuo di riorganizzazione di un io che viene
sollecitato, ridestato, in molti modi. Siamo, appunto, nei dintorni di un modo di agire, e persino il piano
dell’oggettività dell’emergenza, l’immagine del potente boato può essere un segnale di pericolo, o
l’occasione di una rilettura poetica di un fenomeno atmosferico:

«La lama di un fievole lampo ha guizzato cupamente nella stanza larga. E il suono imminente, sospeso in
un’ampia sorsata, ha rimbombato profondo, emigrando. Il rumore della pioggia ha pianto in modo acuto
come le prefiche nell’intervallo delle orazioni. E i piccoli suoni si sono disgregati qui dentro, inquieti15.».

Il lampo taglia un’atmosfera e preannuncia il cambiamento: il suono è, nella splendida formulazione di


Pessoa, imminente al fenomeno, incombe già minaccioso, e nel suo muoversi ha preannunciato la profondità
dello spazio, vi si è mosso dentro, fino a perdervisi, mentre si fa avanti la voce della pioggia. I suoni si
disgregano in un io, che si è già fatto totalità polifonica, intreccio di funzioni affettive e percettive, polifonia
di figure in continuo dialogo con l’esterno ma ora non ci interessa assorbire questo passo all’interno di una
descrizione fenomenologica, quanto mostrare l’articolazione poetica di un senso, che gioca con l’oggettività
delle forme del contrasto.

Strati del mondo e strati dell’io si intrecciano continuamente nella notte dell’esperienza, che è
evidentemente uno strato continuo che ci accompagna, e risuona in noi come la foresta kaluli. Ma la notte,
appunto, si rischiara, e un movimento motivazionale non è solo un’opinione, o una immaginazione poetica:
di fronte al temporale, corro a ripararmi sotto una tettoia, o apro l’ombrello: oppure , di fronte all’intrecciarsi
dei suoni, sollecitato da un interesse musicale, decido di dare una specifica angolatura al microfono. Il
continuo viavai tra piano immaginativo e struttura percettiva, questo gioco fra atteggiamenti, è la forma della
somiglianza che possiamo indagare per avvicinarci alla concettualità kaluli, come mostrano bene le ricerche

14
Edmund Husserl, Op. cit., p. 206.

14
di Feld, e anche se fosse, derridianamente, un movimento continuo che non giunge mai ad una identità non
ce ne rammaricheremmo più di tanto: il piano della constatazione, infatti, non ha nessun aggancio
epistemologico con tali giochi, o meglio, se ce l’ha, è troppo debole o troppo forte. La dimensione estetica, le
sue idee e i suoi concetti, ci permetteranno di dialogare ugualmente, senza dover assumere un’identità che è
solo una finzione metodica. Quella polifonia, infatti, ci ha da sempre abitato: e se tutto questo non spiega
nulla, come osserva Wittgenstein, tuttavia mostra quell’articolazione di senso, che si insegue dietro ad ogni
colpo di bastone, ad ogni gesto attentivo, ad ogni nostro trasalire dietro ai suoni esili che accompagnano il
formarsi della nostra chiaroscurale esperienza del mondo.

15
Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares, Milano, Feltrinelli, p.104.

15

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