Sei sulla pagina 1di 7

Kirkegaard

Figlio di un agiato commerciante, estremamente devoto, Kierkegaard vive un’infanzia segnata da turbamenti e sensi di colpa, che
sente come «spina nella carne» (cfr. 2 Cor.).
Iscrittosi a teologia (1831), patisce una serie di lutti (madre e 5 fratelli), che il padre attribuisce a una «maledizione divina».
Laureatosi, si fidanza con Regine Olsen (1840), ma poi abbandona tutto, rompendo il rapporto e lasciando il Seminario dopo il
dottorato (1841); a Berlino assiste deluso alle lezioni di Schelling.
Rientrato, trascorre una vita solitaria, pubblicando varie opere sotto pseudonimo e polemizzando con la Chiesa luterana.
Oltre al Diario, scrive Aut-aut e Timore e tremore (1843), Briciole di filosofia (1844) ed Esercizio del cristianesimo (1850)

Grande rivale del pensiero hegeliano, come Schopenhauer contesta l’universalismo e l’ottimismo hegeliano.
Figlio di un commerciante benestante estremamente devoto. Il padre era stato un pastore da bambino e grazie al lavoro era riuscito
a diventare un mercante della lana. Ottiene una discreta ricchezza. Si sposa e la moglie muore senza dare figli, perciò si risposa
con la domestica la quale gli da 7 figli, che avevano tutti gravi problemi di salute, e ne sopravvivono 2 (un fratello di maggiore e
lui che era il settimo).
Probabilmente ha anche lui questi disturbi: muore per i postumi di una caduta mentre passeggiava per Copenhagen, forse soffrono
di paralisi progressiva.
La situazione drammatica che vive il padre, lo porta a sentire una religiosità profonda che lo influenza in modo determinante.
Trascorre un’infanzia infelice con sensi di colpa, si sente vittima di una sorte di maledizione divina (condizione che il padre
trasmette al figlio a causa dei lutti così gravi). Questi sensi di colpa sono vissuti come “una spina nella carne” (serve a ricordare la
nostra spiritualità).
La casa era frequentata da uomini di chiesa e lui decide di iscriversi a Teologia (il fratello diventa Vescovo luterano). I suoi studi
sono segnati dalla profonda crisi esistenziale, tanto che vengono protratti e alla fine la laurea la ottiene nel 1840. Nel ‘38 muore il
padre, questo porta Kirkegaard a voler terminare gli studi in onore del padre, il quale aveva posto in lui la sua fiducia e per trovare
una situazione sentimentale.
Si fidanza con Regina (7 figlia di una famiglia borghese, padre funzionario dello Stato danese). Il loro rapporto sarà segnato da un
trauma insanabile, rottura che avviene l’anno successivo. Lascia la fidanzata e lascia il seminario pastorale dove si sta avvicinando
alla professione di parroco. Taglia i ponti con la realtà che si era costruito e decide di dedicarsi alla filosofia. Riguardo alla sua
rottura c’è molto da dire: è drammatica, lui la ama ed è ricambiato, ma i motivi che lo spingono a rompere hanno varie ipotesi ma
nessuna definitiva. I due avevano 9 anni di differenza (18-27). C’è un rapporto molto intenso, tanto che lei dopo essere stata
abbandonata tenta il suicidio, che non riesce. Poi lei si sposerà con il suo precettore privato. Si vedranno ancora, ma il marito non
vuole che si vedano più: si vedranno in chiesa e l’ultima volta che riusciranno a parlarsi sarà prima della partenza di lei per le
Antille Olandesi, dove si stava recando con il marito. Il loro rapporto è particolarmente complesso, Kirkegaard farà di tutto per
farsi odiare da lei (finge problemi di alcolismo, finge di avere una fidanzata a Berlino, comportamenti per avere il suo disprezzo) e
lei si dispera. Kirkegaard lascia la piccola eredità a Regina, che lo scopre quando torna dai paesi esotici, e nel suo diario scrive che
tutte le sue opere sono dedicate a lei.
Nel 1841 decide di lasciare la strada della normalità che aveva intrapreso per trovare un lavoro e sposarsi, e decide di dedicarsi
alla filosofia. Si reca a Berlino per assistere alle lezioni di Schelling, il quale prende la cattedra di Hegel e che desta l’interesse dei
giovani pensatori. Però un iniziale entusiasmo sfuma rapidamente: Kirkegaard ,dopo una forma di interesse e di venerazione
trasmessa dalla fama dell’autore, se ne distacca completamente. È stata poi pubblicata poco tempo fa una breve opera con i suoi
appunti di Schelling che sono assolutamente negativi. Questo contatto con la filosofia idealista lo porta a sviluppare una sua
visione della realtà che viene approfondita una volta tornato a Copenhagen, dove trascorrerà tutta la sua vita e utilizzerà un nome
falso per pubblicare le sue opere (anche se in realtà si sapeva che era lui).
Gli ultimi anni della sua vita sono dedicati ad una polemica con la chiesa luterana danese: sosteneva che si fosse allontanata dal
messaggio evangelico perdendo di vista la sua natura spirituale; entra in contatto con il vescovo di Copenhagen. Nel 1855 c’è un
vescovo nuovo che elogia l’operato di quello vecchio. Kirkegaard sostiene che questa forma di autoincensamento sia ipocrita e lo
denuncia pubblicamente. Lo fa in onore di una fede non corrotta.
Kirkegaard scrive diverse opere ( la più importante è AUT AUT).

Singolo ed esistenza
La filosofia dello Spirito hegeliana pretende di spiegare tutto partendo dal movimento logico del concetto, ma si tratta solo di
un’illusione di universalità e di onnicomprensione della realtà (cfr. «Io, stupido hegeliano!»).
Esiste solo l’individuo (v. «Quel singolo» sulla tomba), che vive in una radicale contingenza; la dialettica del concetto è incapace
di comprendere unicità e irripetibilità del singolo.
Sul piano del divenire concreto si esce dall’astrattezza del puro pensiero e si scopre l’esistenza come «essere posto da altro» (ex
alio sistere, lett. «stare da altro»), che nega ogni autosufficienza concettuale.
La domanda più importante è: «che cosa significa esistere?», e la risposta si trova nel soggetto individuale che prende decisioni in
situazioni reali (v. esistenzialismo ante litteram).

Il tema fondamentale nella filosofia di Kirkegaard è quello dell’individuo=collide con l’impostazione Hegeliana. Secondo
Kirkegaard, Hegel non riesce a spiegare nulla perché ciò che esiste è l’individuo: esistono singoli soggetti che prendono delle
scelte in situazioni concrete. Nel suo diario esclama “io stupido hegeliano”: una volta ci credeva anche lui, poi si accorge della sua
incongruenza rispetto all’esistenza concreta del soggetto. La categoria del singolo è talmente importante che lui avrebbe voluto
che fosse inciso come epitaffio quel simbolo: aver attraversato la vita con la consapevolezza del singolo.
L’individuo vive in una radicale contingenza (contrario di necessità, dipendenza dalle circostanze/dal contesto, non è esprimibile a
priori e si apre alla possibilità): non è soggetto alla dialettica che Hegel presentava per descrivere la manifestazione dello Spirito
(un processo necessario, qui non c’è necessità).
Ogni individuo è un essere che esiste di per se ed è irripetibile e unico. Non può essere incasellato, ma ha una sua natura speciale e
slegata da rapporti necessari; ha anche a che fare con la libertà dell’essere umano.
La presentazione di Hegel è da rigettare perché priva di una realtà concreta. L’esigenza rimanda ad un dipendere da qualcos’altro
(etimologia esistere: stare, nel senso di essere posti da qualcos’altro), perciò necessariamente nega ogni tipo di autosufficienza
riferita al singolo ma anche ad una categoria di singoli. Non è qualcosa che permette di comprendere l’uomo nella loro
complessità.
La domanda più importante e di partenza è: che cos’è l’esistenza? Non può essere ricercata su un piano concettuale come ha posto
Hegel, non si può passare da una riflessione contenuta nella dimensione del pensiero, ma bisogna fare riferimento ad una vita
concreta e ad un soggetto reale, un contesto preciso.
È stato Dio a porci in questa vita è ad aver dato esistenza a ciascuno di noi. La risposta viene elaborata dall’uomo ma non si trova
nell’uomo né nel suo pensiero, ma si trova in Dio.

L’insegnamento socratico (Sul concetto di ironia in costante riferimento a Socrate, 1841)


I filosofi sistematici, come Hegel, costruiscono castelli in aria che non possono abitare, mentre «i pensieri di un uomo devono
essere l’abitazione in cui egli vive».
Sul concetto di ironia in costante riferimento a Socrate (1841) esalta la figura del filosofo ateniese, per il quale
- la filosofia è un impegno personale e non una mera costruzione concettuale; la domanda sul senso dell’esistenza si radica
nella vita del soggetto e parte dal «sapere di non sapere» (v. ironia socratica e problematicità della vita)
- la verità è oggetto di una ricerca continua e non un dato acquisito, chiuso e già definito; non esiste una verità-in-sé, ma
ogni verità è sempre una verità-per-qualcuno che nasce dall’esperienza unica e irripetibile di ogni uomo (v. maieutica
socratica e forma narrati- va con racconti individuali nelle opere kierkegaardiane)

Visione anti hegeliana: i filosofi sistematici come Hegel costruiscono castelli in aria; diversamente altri pensatori come Socrate
spingono a mettere in pratica gli stessi principi che enunciano. Hegel è un pensatore che costruisce meravigliosi castelli in aria in
cui ogni cosa è al posto giusto, però è poi costretto a vivere in un fienile: il pensiero degli idealisti si rivela come un vuoto
riflettere. I pensieri di un uomo devono essere l’abitazione in cui vive= aderenza tra filosofia e vita.
Socrate è un modello di filosofo che si oppone a Hegel e, in generale, ai filosofi idealisti. Si dedica a questo autore nel 1841 ed è
la sua tesi.
Socrate è un riferimento costante perché:
- Ironia: chi ha un atteggiamento ironico finge che qualcosa sia diverso da come è. L’ironia socratica ha a che fare con
l’impegno personale: l’ironia di Socrate è fingersi il più ignorante, facendo emergere che la domanda di senso
sull’esistenza si radica in noi stessi e ci impegna personalmente.
La filo di Hegel si presenta come una descrizione a ogni comprensione della realtà; ha la posizione, in parte arrogante, di
poter definire tutto ciò che esiste e collocarlo in una casella precisa nello sviluppo dello Spirito. La filosofia non può risolvere
la contraddizione: dopo che Socrate finge di non sapere la risposta, pungola l’interlocutore chiedendo il significato delle
parole che usa e l’interlocutore cade in un aporia (contraddizione, NON PASSAGGIO, davanti a noi ce un ostacolo che non
possiamo superare cioè la contraddizione) da ciò nasce la filosofia.
Se noi potessimo risolvere tutto con la lettura di un testo filosofico non vivremmo davvero da esseri umani: la vita è
contraddizione e lacerazione, per questo è angoscia e disperazione.
- La verità è oggetto di ricerca continua: la maieutica è un aspetto ripreso da Kirkegaard. Se il mio pensiero non è uno
spunto per una conversazione non ha alcun senso. La verità non è qualcosa di acquisito e di chiuso o universale o
oggettiva, ma è qualcosa di personale. Non significa che non esiste una verità assoluta, ma essa è universale cioè
raggiungibile da tutti. La verità riguarda un a rapporto personale tra Dio e l’uomo, quindi è individuale. LA VERITÀ È
SEMPRE VERITÀ PER QUALCUNO. Ciascuno di noi è diverso da un altro ed è speciale (non si ripete nella storia),
ognuno ha un d’apposito singolo con Dio.
Anche qui la visione di Hegel diventa antitetica: qui l’individuo e la particolarità vale di più dall’insieme di individui.

La scelta
(Il concetto dell’angoscia, 1844)
 Il carattere soggettivo dell’esistenza si manifesta nel momento della scelta, in cui decidiamo cosa vogliamo fare e quindi chi
vogliamo essere
 La scelta
 è inevitabile: in ogni istante della nostra vita scegliamo
cosa fare o non fare (anche non scegliere è una scelta)
 appartiene alla dimensione della possibilità: le infinite opzioni avvolgono l’uomo
nella indeterminatezza e nel nulla, non nella sicura necessità di uno sviluppo dialettico
 è un aut-aut: ogni scelta esclude per sempre tutte le altre, per cui ciascuno è peren-
nemente soggetto al rischio dell’errore e della perdita di sé stesso
 è libera: ogni decisione è accompagnata dall’angoscia, che il modo più autentico in cui si manifesta la totale autonomia
personale
Gli eteronomi sono nomi diversi utlizzati dall’autorevole nei suoi opere. Perché quando viene presentato un certo modo di vivere
o una certa posizione è presentata in prima persona, in forma narrativa, in forma diretta (ci si rivolge direttamente al lettore). Il
tutto è trasfigurato da una determinata soggettività. Evidenzia il valore del singolo. Il modo di scrivere di Kirkegaard è ancora una
volta antitetico rispetto a H che vuole essere il più oggettivo possibile: K ha una scrittura più diretta è più intima, vuole un
rapporto con il lettore.
La questione della scelta è centrale in K: scelta di lasciare il seminario luterano presso il quale stava per diventare pastore. La
scelta è il concetto chiave della filosofia di K che si collega a quella del singolo che già abbiamo visto. Ciascuno di noi è diverso
perché ognuno fa scelte personale che è
Derivano dalla propria natura unica e irripetibile. Il fatto che ognuno di noi sia un singolo si manifesta nella scelta: momento in
cui decidiamo cosa fare e chi essere (decidere se rubare o no comporta anche il decidere se essere ladri o meno). La scelta presenta
diversi caratteri:
-inevitabile: in ogni istante della nostra vita siamo chiamati a decidere cosa fare, anche non scegliere significa scegliere di non
scegliere (anche non agire significa esprimere una scelta), la neutralità non esiste
-possibilità: le possibilità, quando noi scegliamo abbiamo davanti a noi un ventaglio di opzioni rispetto le quali esprimere una
preferenza. Sono teoricamente infinite, possono essere più o meno determinate o limitate dalle circostanze. Questo stato di cosa in
cui siamo chiamati a scegliere riguarda sempre il nulla: abbiamo davanti a noi l’ignoto è il perdere noi stessi. Il nulla è ciò che ci
sta di fronte, non vediamo il futuro è la nostra scelta è il,a in quanto non è ancora, il nulla ha anche a che fare con la possibilità di
perdere se stessi (in ogni istante della propria esistenza quando decide cosa fare si direziona più d un a parte che d un’altra, nel
momento in cui ci troviamo a dover compiere una scelta è come se tutte le possibili esistenza che ci troviamo d davanti cadessero
tranne una, se la scelta è sbagliata perderemo noi stessi). Davanti ad un ventaglio di possibilità ne possiamo scegliere solo una: il
nulla nel senso che solo una cosa si realizzerà/ il nulla nel senso che siamo davanti all’ignoto.
Ogni scelta è un aut-aut (in latino esprime un’alternativa tra due opzioni inconciliabili, opposto di Vel...vel…): se noi scegliamo
un certo tipo di opzione tutte le altre cadono necessariamente, ogni scelta esclude per sempre tutte le altre (non si può realizzare
tutto). Non significa che non si possa tornare indietro ma non è la stessa cosa di una scelta precedente. Un aspetto importante che
ancora ci dimostra la distanza da H.
Hegel ha una filosofia di necessità, è molto difficile come si unisce libertà e necessità. K è considerato il filosofo della libertà,
ogni decisione è accompagnata da un sentimento di angoscia che caratterizza la nostra libertà. L’angoscia c’è perché sappiamo
che dipende da noi ciò che verrà fatto, ciò che vogliamo fare ed essere.

L’angoscia
L’angoscia riguarda il rapporto dell’io con il mondo ed è
 la «realtà della libertà come possibilità per la possibilità», ossia
il modo in cui si palesa la libertà come possibilità
 il sentimento del possibile, in quanto connaturata a ogni scelta
riguardante il futuro e il nulla (ciò che non è ma può essere)
 inevitabile per tutti gli uomini, sin dai tempi di Adamo, che per primo ha vissuto «l’angosciante possibilità di potere», e anche
Cristo l’ha provata (v. «Quel che fai, fallo presto!», Giov, 13)
 la «vertigine della libertà», l’ansia paralizzante di fronte alle infinite possibilità della vita, che comprendono il perdere sé stesso
e l’annullarsi; in ciò differisce dalla semplice paura (cfr. uomo su una rupe, cadere e gettarsi)

Viene analizzata in uno scritto e che ritorna in tutti gli altri. Riguarda il rapporto dell’io con il mondo, riguarda il nostro esistere
nel modo più intimo. Ciò che determina in modo decisivo il nostro stato d’animo è il rapporto che abbiamo con il nostro stato
d’animo.
“Frase”: l’angoscia è la realtà della libertà=modo in cui si manifesta la realtà. Davvero dipende da noi ciò che si realizzerà, da
come prendiamo una scelta cambia il corso degli eventi e cambiamo noi stessi. Possibilità perché il modo in cui si manifesta la
libertà è proprio attraverso la scelta. L’angoscia e il modo in cui si manifesta la realtà come la possibilità di scelta.
L’angoscia è il sentimento del possibile cioè riguarda la possibilità e in particolare ogni nostra scelta riguarda rispetto al futuro e
al nulla, non sisceglie rispetto al passato: ciò che saremo ci è ignoto, d Aqua l’angoscia.
L’angoscia è la tonalità di fondo dell’esistenza umana. Ogni cosa che facciamo è soggetta d una nostra decisione, così l’angoscia è
presente dal momento in cui Adamo decide di cogliere la mela dall’albero perde la propria innocenza e manifesta il destino degli
uomini che saranno liberi di fare il male o di fare il bene, e questa scelta in quanto legata al peccato originale sarà sempre
sofferente. Anche rispetto a. Cristo, Gesù intinge il boccone nel piatto in cui mangia Giuda , Gesù dice quel che fai fallo presto:
anche Gesù nel sapere quello che lo attendeva provava angoscia come tutti gli uomini, rivolgendosi a Giuda gli dice che sapeva
ciò che lo attendeva e quindi di farlo in fretta. (Nonostante conosca il futuro ne sente l’angoscia). Cristo in quanto Dio sa ciò che
lo attende è una usanti uomo sapendo ciò che lo attende soffre.
Esiste qualcosa che può alleviare l’angoscia? La risposta potrebbe essere no. L’uomo con Dio ha un rapporto che sopprime la
disperazione ma aumenta l’angoscia, perché è un rapporto irrazionale. La fede può lenire l’angoscia ma da un altro punto di vista
la accentua in quanto irrazionale.
Secondo k esistono 3 forme di vita diverse (se non lo dipende chiedi)
L’angoscia è la vertigine della libertà: momento in cui sperimentiamo la paura della perdita di se, non è una semplice paura in
quanto normalmente è determinata la paura, ma abbiamo un riferimento indeterminato proprio perché impossibile. Immaginatevi
di trovarvi su un precipizio: la paura è il sentimento che nasce dal timore di poter cadere, l’angoscia invece è il sapere che tra tutte
le cose che possono succede che la possibilità che io mi butti di sotto (lui non di e di far questo, anzi la sua filosofia incita all’auto
conservazione)->ogni volta che noi scegliamo ne va della nostra esistenza, in ogni istat te cerchiamo di perdere noi stessi.
Esiste la possibilità di dare consigli ma la scelta rimane personale, non alleviano l’angoscia ma forse la aumentano, non rla
risolvono minimamente.
L’errore può essere espresso in diversi termini: deriva dalla nostra imperfezione (per esempio una dimenticanza), ma riguarda
soprattutto il peccato. Ha a che fare con la morale e con la religione, il peccato deriva dalla natura umana -> condiviso sia da
Adamo che da Gesù ed è inevitabile in quanto legato al peccato originale.
Il senso della filosofia di K non è quello di mettere l’esistenza degli individui in categorie, anzi ha un’apertura verso al possibilità
che è indice della stessa angoscia che accompagnai l’esistenza. L’uomo non perde mai se stesso nemmeno quando compie le
azioni peggiori: la possibilità della salvezza di Dio è qualcosa che non possiamo concepire e quindi la possibilità resta sempre
aperta, ma in ogni momento può essere negata.
Non tutti sono consapevoli delle scelte che fanno, c’è chi non riconosce la propria dimensione spirituale, quindi non è in grado di
riconoscere la possibilità di autodeterminarsi e di scegliere ciò che vuole.
La costante dell’essere umano è di tendere al peccato. Il peccato e l’errore derivano dalla nostra imperfezione legata al peccato
originale.
Viveva in Danimarca, il suo pensiero aveva risonanza in altri ma non era conosciuto negli altri paesi: viene riscoperto tra le 2
guerre mondiali con una maggiore attenzione all’esistenza dell’individuo che risulta importante in quel momento.
L’angoscia deriva dalla libertà umana.

La disperazione (La malattia mortale, 1849)


 Insieme all’angoscia, l’uomo prova la disperazione,
che riguarda il rapporto dell’io con sé stesso ed è «una malattia nello spirito, nell’io»
 L’uomo può essere disperato per tre motivi, ossia perché
1. non è consapevole di avere un io: non sa di essere spirito, quindi non si accorge della
propria disperazione, ma continua a soffrire come tutti
2. non vuole essere sé stesso, ossia cerca di essere diverso da quello che è, ma viene
frustrato dall’impossibilità di determinare da sé la propria natura (cfr. existere)
3. vuole essere sé stesso, ossia cerca di realizzarsi in modo autonomo, ma fallisce ugual-
mente, in quanto la sua esistenza è posta da qualcosa che è altro da lui (cfr. existere)
 Nella disperazione si rivelano la debolezza e la limitatezza dell’io; la disperazione come «malattia mortale» consiste nel
«provare, vivendo, il morire»: l’io sperimenta la perdita di sé stesso e si apre alla fede, trovando in Dio «la potenza che l’ha posto»
dandogli la vita

Non c’è nulla di definitivo e conquistato totalmente dall’essere umano, per la sua limitatezza e e per il peccato originale che ha
segnato tutta la sua esistenza. Se ci si affida a Dio non ci si perde mai perché è l’estrema bontà e perfezione, tutto ciò che crea per
noi è finalizzato al bene. Se ci abbandona alla fede questo non può essere mai negativo. La religione è completamente qualcosa di
completamente irrazionale, richiede un salto della fede.
É un sentimento d’istinto. Scritto la malattia mortale che fa riferimento ad un riferimento ad un sentimento collegato all’angoscia
ma distinti da esso. Rapporto dell’io con se stesso ( e non io-mondo). Nell’angoscia non troviamo un fondamento certo nel,a
nostra esistenza, nella disperazione si ha a che fare con un’attività riflessiva: ci interroghiamo su noi stessi= completamente una
malattie nello spirito (io che entra in contraddizione con se stesso). Secondo K ci sono 3 possibili motivi per essere disperati (3
forme)
- inconsapevolezza: ci sono uomini che pur vivendo dentro di se un sentimento di profondo dolore, non ne capiscono l’origine,
sono coloro che non si accorgono di essere anche spirito, coloro che non prestano attenzione alla propria interiorità, incapaci di
cogliere la disperazione ma la vivono, si dedicano solo alla materialità.
- non vuole essere se stesso: l’uomo è disperato perché cerca di essere qualcuno di diverso rispetto a se, quindi non si vive in
adesione con il propio io, si cerca di essere qualcos’altro. Non è possibile essere qualcuno di diverso, non possiamo
autodeterminarci. Ci illudiamo di essere persone diverse, migliori, che seguono una sua scelta di vita, ma falliamo in virtù del
dipendere da altro.
- vuole essere se stesso: non è possibile scegliere in modo autonomo di intraprendere un cammino di vita che ci porti a esprimere
le nostre qualità caratteriali, anche in questo caso falliamo perché la nostra esistenza dipende da qualcos’altro e non è derminata
da noi. Anche se cerchiamo di realizzarci cercando di seguire il nostro demone (socrate), falliamo. Il concetto di disperazione si
lega con il concetto di imperfezione dell’essere umano e limitazione dell’individuo: la disperazione nasce da un sentimento che ha
a che fare con l’essere umano (MALATTIA MORTALE= DELL’ESSERE UMANO). Tutti coloro che esistono provano la
disperazione tant’è che la disperazione consiste nel provare vivendo la sensazione di morire, ci si sente morire dentro:non
riusciamo ad uscire da questo labirinto.
Visti i tre punti precedenti, la soluzione è quella di abbandonarsi a Dio, fare il salto della fede, infatti Dio è quell’altro che ha
posto noi stessi nel mondo. La nostra esistenza sulla terra discende da Dio. È Dio che ha posto ciascuno di noi ed è solo in lui che
possiamo trovare la via che dobbiamo scegliere.

I tre stadi esistenziali (Aut-aut e Timore e tremore, 1843)


L’angoscia è la tonalità esistenziale primaria dell’io, che ciascuno può affrontare in modi diversi.
Esistono tre stadi esistenziali tra cui l’uomo può scegliere: estetico, etico e religioso.
Si tratta di forme di vita possibili, alternative concrete ma non legate a una determinata epoca, fasi esistenziali inconciliabili e
reciprocamente escludentesi (v. «Amico mio! Quello che ti ho già detto tante volte, te lo ripeto, anzi te lo grido: o questo o quello,
aut-aut!»).
Nessuno stadio ingloba l’altro e non c’è alcun processo necessario e graduale (cfr. dialettica hegeliana); ogni passaggio richiede
uno stacco netto, un «salto», un momento di assoluta discontinuità.
Tre forme possibili di vita. Sono presentati nelle opere più famose di questo autore: pubblicati con un eteronimo, composti dando
voce a personaggi diversi che incarnano le diverse possibili scelte che l’uomo può compiere.
Non si tratta di categorie impermeabili, quindi è possibile passare da una forma ad un’altra. Sono poste in una gerarchia (estetica
in basso e religiosa in alto) legata al valore, non ad una possibile transizione necessaria da un livello ad un altro. Si tratta di forme
di vita possibili ma assolutamente inconciliabili. Noi possiamo scegliere una vita ma non possiamo viverne due insieme. (Es: nella
vita estetica puoi credere in Dio e avere la tua sensibilità religiosa, che però non ti porta a fare il salto della fede che richiede la
vita religiosa).
Aut-aut (o-o) ha un senso di alternativa inconciliabile, ed è il titolo dell’opera(diversamente da vel-vel in cui possono essere scelti
entrambi).
Gerarchia assiologica= valore
Per Hegel ogni momento dello Spirito è espressione di una necessità, c’è una processualità che porta un passaggio da un livello ad
un altro; per Kirkegaard è pienamente libero il salto da un livello all’altro e non c’è nessuna intima necessità in questo salto
(nessuna tesi, antitesi e sintesi).

La vita estetica
La vita estetica (da aísthesis, «sensazione») si basa sulla ricerca di piaceri personali sempre nuovi, che evitano la routine
quotidiana.
L’esteta vive nell’attimo e per l’attimo, inseguendo nel mondo fuori da sé il massimo godimento (donne, denaro, potere, ecc.
Il suo piacere è però superficiale, poiché è tutt’altro che appagante, e passivo, poiché dipende interamente da ciò che viene dalla
realtà esterna.
L’esteta vive in una sorta di indifferenza; sceglie di non scegliere, poiché non si assume mai alcuna responsabilità; la sua vita è
una «mascherata», dietro cui si cela la sua nullità.
Lungi dall’essere felice, l’esteta è perennemente insoddisfatto; incapace di dare un fonda- mento alla sua identità e un senso alla
sua vita, cade nella noia e nella disperazione; ciò lo rende consapevole del fatto che non può entrare in contatto con il proprio io,
se non facendo un «salto» verso una nuova dimensione in cui esprimere una scelta autentica.

La vita estetica è legata alla sensazione. Chi vive queste esistenza cerca il piacere personale e il godimento immediato. Per fuggire
alla disperazione che si prova, l’uomo estetico ricerca dei piaceri sempre nuovi che evitino la routine quotidiana. L’esteta vive
nell’attimo e per l’attimo: insegue piaceri sempre nuovi, che si trovano nel mondo per cui la sua gioia solo apparente è legata al
mondo fuori da sé. Se la fonte del piacere dipende da ciò che si trova nel mondo allora la soddisfazione è estremamente volubile
(ciò che viene dal mondo può soddisfarci oppure no).
Rispetto al piacere noi siamo totalmente passivi, perché subiamo interamente le conseguenze di ciò che accade nel mondo intorno
a lui. Non è padrone del proprio piacere ma lo ricava dalle condizioni che lo rendono possibile. L’esteta vive in realtà in una
specie di teatro in cui si maschera in continuazione, dietro alla maschera si cela la nullità, il non essere davvero qualcuno.

Mascherata: rappresentazione teatrale che l’esteta fa della propria vita, l’esteta non può apparire sempre come la stessa persona
per sperimentare forme diverse di soddisfazione. La rappresentazione più esplicativa è quella del donnaiolo sempre in cerca di
nuovi piaceri sessuali. C’è un aspetto teatrale perché per provare sensazioni sempre nuove bisogna cambiare il modo a cui ci si
presenta il mondo (cambia un po’ la prospettiva sulla realtà). Colui che conduce una vita estetica è incapace di dare fondamento
alla propria esistenza, perde contatto con la propria vita, nella sua spasmodica ricerca del godimento passa da uno stato di noia a
uno stato di angoscia (disperazione). Questa disperazione è considerata da Kirkegaard anche positivamente: quando ci si rende
conto di questa si è pronti a fare il salto verso un altro tipo di vita. La disperazione arriva nel momento in cui non si può entrare in
contatto con il proprio io.
Simboli che incarnano questo tipo di esistenza: don Giovanni di Mozart e Johannes (soggetto che trasfigura il filosofo e la sua
esperienza di vita).

Don Giovanni e Johannes


Due diversi tipi di seduttore incarnano la vita estetica: quello sensuale e quello intellettuale.
Il primo è personificato dal Don Giovanni mozartiano, che agisce per puro istinto, godendo del piacere fisico e del possesso delle
donne con un trasporto erotico- musicale, ricercando senza tregua l’identico nel diverso.
Il secondo è incarnato da Johannes, proiezione dello stesso autore, che nel Diario del seduttore (in Aut-aut) «traspone» la sua
storia d’amore con Regine (qui Cordelia); Johannes attua un gioco psicologico che non mira al reale possesso dell’amata, ma solo
a coltivare il pensiero del possesso, consapevole che il suo piacere dura finché c’è il desiderio; si mostra scostante e imprevedibile,
e lascia la donna non appena l’ha conquistata.

Si tratta di tipi di seduttori che esprimono aspetti diversi della vita estetica: il primo appartiene a una tradizione letteraria e
musicale che fa riferimento a un personaggio immaginario in cerca di una soddisfazione puramente sessuale, il secondo è la
trasfigurazione dello stesso autore.
Don Giovanni è un personaggio di Mozart, nel brano il servitore di don Giovanni, trovatosi da solo con Elvira, una delle conquiste
del Don Giovanni, non sapendo come intrattenerla, si trova a dire la lista di donne che Don Giovanni ha sedotto ingannandole. Lui
è un seduttore che cerca il possesso materiale delle donne, in questo senso lo stesso riferimento musicale permette al filosofo di
elaborare alcune riflessioni su una ricerca di un piacere illimitato, nella nostra esistenza il numero di partner è limitato e don
Giovanni rappresenta nel suo tentativo di conquistare il maggior numero di donne l’aspirazione all’infinito dello spirito romantico.
Johannes è una proiezione dell’autore: questa parte è trattata in una sezione dell’aut-aut, parla in prima persona di quello che il
personaggio incarna, e ripresenta, forse modificandola in parte, la sua storia d’amore con Regine (chiamata Cordelia nel racconto).
Johannes a differenza del Don Giovanni non mira al raggiungimento del piacere fisico, anzi, essendo consapevole che realizzato
questo piacere ci sarà il bisogno di un altro piacere, cerca di posticipare il raggiungimento del cuore dell’amata; da qui una serie di
comportamenti scostanti e imprevedibili che caratterizzano la storia dei personaggi.
Si tratta di una trasposizione della storia d’amore tra Kirkegaard e Regine: il filosofo scrive moltissime pagine in cui riflette sul
suo rapporto sentimentale senza mai rivelare direttamente il motivo dell’abbandono. Questo testo presenta un filosofo un po’
troppo cattivo, vengono accentuati gli aspetti più arcigni e miseri di questa personalità, che sfrutta l’innocenza della fanciulla solo
per soddisfacimento psicologico: non sappiamo se questa sia esattamente la condotta dell’autore nei confronti della ragazza.
Qui abbiamo una possibile risposta al motivo della separazione: il rapporto di Regine era frutto di un atteggiamento d’amore non
del tutto autentico, legato a un tipo di gioco intellettuale per cui Kirkegaard si divertiva a provocare e punzecchiare l’amata per
avere il proprio sentimento d’amore ricambiato.
Raccontato dall’autore: un giorno mentre sono insieme lui propone un giro in carrozza, vede che l’amata si illumina di gioia e a
quel punto dice all’uomo, il quale doveva condurli in carrozza, di rientrare in cortile perché il giro in carrozza non si sarebbe
svolto.
Un’altra possibilità ha a che fare con la religiosità dell’autore: lui aveva sicuramente una grandissima sensibilità e coglieva la
contraddizione tra la propria angoscia e l’innocenza della fanciulla (Regine all’epoca aveva 18 anni, una donna che si apriva alla
vita). Altre ragioni potrebbero essere quelle di salute: si pensa soffrisse di una malattia grave e forse c’era una certa familiarità di
questa malattia, probabilmente di paralisi progressiva.

La vita etica
Nello stadio etico l'uomo compie una scelta assumendosi le proprie responsabilità davanti all’intera società.
L’uomo etico ha una famiglia, un lavoro e ama la patria (cfr. eticità hegeliana); aderisce così all’universalità del dovere espresso
nelle leggi.
I doveri sono scelti con consapevolezza e compiuti con dedizione e sacrificio; le azioni non dipendono da eventi esterni, ma sono
autodeterminate, ossia sono espressione della libertà individuale (cfr. esteta).
La scelta etica non è però pienamente autentica, perché spesso si basa sul conformismo e sull’abitudine (v. «tutti lo fanno»);
l’individuo segue delle regole esteriori, ma dentro di sé sa di peccare per la sua inadeguatezza morale rispetto alla perfezione di
Dio; scoprendo la sua natura finita, incapace di assoluta eticità (v. peccato originale), l’uomo prova un forte senso di colpa, che lo
getta nella disperazione, e si pente aprendosi a un altro «salto».

La vita etica è un’altra forma di esistenza, in cui l’uomo accetta di assumere le proprie responsabilità di fronte al resto della
società. Il filosofo non sceglie questa perché non sceglie di sposarsi e lascia anche il suo percorso lavorativo nell’ambiente
pastorale. Nella vita etica l’uomo si sposa, ha una famiglia, una patria e un lavoro (cfr. Hegel: famiglia società civile e stato).
L’uomo ha una vita integrata nella società, una vita borghese. L’uomo aderisce all’università del dovere espresso nelle leggi. A
differenza dell’esteta, sente di determinare le proprie scelte e la propria esistenza. Si tratta di un’illusione, solo nella vita religiosa
si ha l’autenticità ricercata dall’uomo nella propria vita. Nella vita etica non si indossano maschere, sceglie di manifestare una
presa in carico delle proprie responsabilità; non vive nell’attimo per l’attimo, ma cerca di realizzare un progetto, cioè che nella
vita etica si seguono leggi condivise dagli altri ma nel seguire queste norme collettive si manifesta sempre il rischio di lasciarsi
coinvolgere in scelte non pienamente sentite, ci si lascia andare al conformismo, all’abitudine (ci si sposa perché tutti lo fanno…),
segue delle leggi esteriori che non trova dentro di sé.
In questo stato l’uomo è sempre soggetto alla tentazione, tipo la tentazione di tradire e cercare un altro amore, ma oltre a questa
c’è in generale la possibilità dell’errore. L’errore che più conta è quello morale, ma nel corso della sua esistenza l’uomo che cerca
di avvicinarsi all’universalità del dovere compie delle scelte sbagliate. Si trova la limitatezza dell’uomo soprattutto se si pensa che
il nostro comportamento è incommensurabile rispetto a quello divino, le nostre scelte rispetto a un’entità divina dimostrano tutta
la loro debolezza e incongruenza. L’uomo riflette su se stesso e sulla sua natura irrimediabilmente peccaminosa, e può trovare
soluzione solo nell’abbandono a Dio. L’uomo sente un senso di colpa che lo catapulta nella disperazione, in cui l’uomo cerca di
essere se stesso, un progetto di vita autentico, ma fallisce a causa della sua natura peccaminosa.

Il giudice Wilhelm
L'emblema dello stadio etico è il «marito», ovvero l'uomo che ha scelto una sola donna e accettato i doveri del matrimonio.
Il consigliere di Stato Wilhelm, descritto nella seconda parte di Aut-aut, incarna la figura del marito fedele e del professionista
onesto laborioso, in cui si scorge il prototipo dell’uomo borghese.
Mentre il seduttore vive sempre nell'istante e perde sé stesso nel mondo, il marito compie una scelta etica e la persegue con
continuità; poiché l’innamoramento è destinato a spegnersi, il matrimonio deve essere sorretto dalla volontà di mantenere
l’impegno preso, scegliendo quotidianamente l’altro, rinnovando sistematicamente la promessa d’amore.

Il simbolo della vita etica è il giudice (riferimento alle leggi) Wilhelm. Lui è sposato, rappresenta l’ideale del marito con una
famiglia e svolge la sua professione in modo laborioso e con grande dedizione. Mentre il don Giovanni si perde nel mondo, il
marito sceglie una vita etica e la segue con continuità, è un soggetto che sceglie consapevolmente di condurre un’esistenza
ordinata e si impegna nel realizzarla, questo vale sia in ambito lavorativo (in modo evidente: il giudice è un consigliere di stato,
una carica importante per cui serve la patria troviamo il momenti di Hegel di famiglia società è stato). Si rende conto che sia
difficile mantenere una relazione d’amore per molti anni, e l’attrazione iniziale rischia di scemare, ma continua nel suo compito
per amore della famiglia. Kierkegaard è un pessimista, perciò anche in questi rapporti coglie la probabilità di un repentino calo del
desiderio, ma anche in questo caso il matrimonio deve continuare. Il giudice è simbolo della vita impegnata. Si tratta di continuare
un rapporto anche se l’amore non è così intenso come all’inizio per preservare il bene della famiglia.

La vita religiosa
Tramite l’esperienza religiosa il singolo scopre il suo vero essere attraverso la fede, riconoscendosi completamente dipendente da
Dio.
Ogni uomo si trova «in un rapporto assoluto con l’Asso- luto»: davanti a Dio, ognuno è solo e sciolto da ogni legame con le cose
terrene e con le leggi degli uomini.
La vita religiosa è caratterizzata dal paradosso e dallo «scandalo»: i contenuti di fede non sono giustificabili né razionalmente né
moralmente; anzi, le contraddizioni sono l’essenza stessa del cristianesimo (v. trascendenza di Dio, incarnazione, morte e
resurrezione di Cristo; cfr. Ricouer e «cristianesimo della Croce»).
La fede permette di superare la disperazione (ma acuisce l’angoscia): malgrado le sue debolezze, l’uomo confida che Dio possa
cancellare i suoi peccati e redimerlo.

La fede richiede un salto che è giustificato dal fatto che si passi dalla ragione umana (limitata e imperfetta) a Dio, cioè colui
perfetto, buono e senza macchia che non commette errori. Chi segue dio nega la legge degli uomini, nega la propria madre e il
proprio padre e segue una via diversa che tende all’assoluta.

Abramo
La figura che incarna la vita religiosa è Abramo, il patriarca pronto a sacrificare l’amato figlio per ordine di Dio.
In Timore e tremore si riprende il racconto biblico (Gen, 22) in cui Abramo, ricevuto in dono da Dio Isacco in tarda età, pochi
anni dopo viene chiamato da Dio stesso a offrirlo in sacrificio; nonostante l’insensatezza del comando, Abramo si prepara a
immolare il figlio, venendo fermato all’ultimo istante da un angelo.
Il suo atto di fede è un abbandono totale a Dio, che va oltre la morale per realizzare un fine superiore (v. «sospensione teleologica
dell’etica»); la scelta viene compiuta in solitudine, in un rapporto diretto ed esclusivo con Dio, vissuto con angoscia (per l’esito
ignoto).
Il «cavaliere della fede» Abramo viene contrapposto ad altre figure, tra cui Agamennone (v. Ifigenia); a differenza dell’eroe greco,
Abramo fa un salto nel vuoto, compiendo una scelta incomprensibile che desta orrore negli uomini, ponendosi da solo di fronte a
Dio.

Potrebbero piacerti anche